IL GIGANTE DI CARTA – Considerazioni a margine del summit di Anchorage

di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)
Lo spiegamento di Stealth B-2 appoggiati sull’asfalto della base militare di Anchorage Elmendorf-Richardson è l’unico senso di potenza a cui abbiamo assistito per il peace summit tra Russia e USA.
Se stavamo aspettando di vedere un miglioramento “tecnico” nelle capacità americane di negoziare con i russi, beh, anche questa volta ne usciamo delusi.
Trump, apparso stanco, serio e taciturno, è risultato quasi irriconoscibile. La conferenza stampa seguita al vertice, priva di domande e risposte, ha segnato un inedito silenzio che stride con la consuetudine diplomatica. Del resto, Putin non si sarebbe mai lasciato incalzare o mettere in difficoltà come accaduto in passato a Zelensky o a Cyril Ramaphosa.
Per noi europei, l’altro scivolone è arrivato ancora prima dell’atterraggio in Alaska: la telefonata di Trump al presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko. L’occasione era il ringraziamento per la liberazione di 16 prigionieri politici e la promessa di ulteriori 1.500 scarcerazioni. Una mossa che, sul piano diplomatico, non può dirsi “smart”, poiché proprio la Bielorussia è stata tra i principali alleati di Putin in questa guerra. Come premessa al summit, ha assunto il sapore di un ritorno a Canossa. Ma a beneficio di chi? Forse non solo di Putin, bensì di tutte le politiche espansionistiche americane in Europa orientale, da Clinton fino a Biden.
Il racconto quasi tolstojano di Putin, di come due vicini di casa si debbano trattare, appare surreale ma tradisce una preparazione e un approccio mentale sofisticato.
L’America di Trump raccoglie due sconfitte, quella militare in primis. Nonostante abbia costretto i Paesi membri della NATO ad aumentare le spese in armamenti, sappiamo tutti che nessun governo europeo avrebbe la forza politica di mandare soldati in Ucraina. Alcuni ministri e leader hanno lasciato intendere disponibilità teoriche — dal Regno Unito fino a Parigi — ma l’opinione pubblica europea resta contraria, e qualsiasi tentativo in quella direzione scatenerebbe una vera e propria rivolta politica interna.
La seconda sconfitta è quella economica. La scelta di mettere in ginocchio Mosca economicamente non ha avuto le conseguenze sperate. Infatti, già dal 2022, Stati Uniti, Unione Europea e partner G7 hanno imposto un pacchetto senza precedenti di sanzioni: il congelamento di oltre 300 miliardi di dollari di riserve della Banca Centrale russa, l’esclusione delle principali banche dal sistema SWIFT, l’embargo sul petrolio e il gas (USA nel 2022, UE dal 2022–2023 con il blocco al greggio via mare e ai derivati), e il tetto al prezzo del petrolio russo fissato dal G7 a 60 dollari al barile.
A queste misure si è aggiunto nel 2025 il “Sanctioning Russia Act”, con cui Washington ha alzato il livello della guerra economica introducendo sanzioni secondarie fino al 500% di tariffe sui Paesi che continuano ad acquistare energia russa.
Eppure, nonostante la durezza delle misure, la Russia non è crollata economicamente. Dopo un iniziale contraccolpo, Mosca ha mostrato una resilienza inattesa: ha riconvertito le esportazioni energetiche verso l’Asia, sfruttando una “flotta ombra” di petroliere per aggirare i controlli, ha attivato canali alternativi per i pagamenti internazionali e ha trovato nella Cina il principale partner strategico. Pechino ha infatti aumentato le importazioni di gas e petrolio a prezzi scontati, ha sostenuto Mosca con forniture tecnologiche critiche e ha contribuito a creare circuiti finanziari paralleli che hanno limitato l’effetto delle sanzioni occidentali.
Oggi, dal punto di vista economico, la Russia non è isolata ma ancorata all’asse con Pechino, che le garantisce sbocchi energetici e accesso a beni strategici. Una dipendenza che ha permesso al Cremlino di reggere il colpo delle ritorsioni occidentali, ma che al tempo stesso rischia di legare in modo irreversibile il futuro russo agli interessi cinesi.
Poi circolano altre voci che ritengono che Trump stia cercando disperatamente risultati tangibili su questo fronte, anche per distogliere l’attenzione dalla vicenda Epstein, che sta prendendo dimensioni quasi ingestibili. È stato infatti appena pubblicato il libro di Andrew Lownie: “Entitled: the rise and fall of the house of York” che contiene informazioni scottanti e magistralmente riportate. Dal volume emergono tre dinamiche centrali che chiariscono il ruolo incrociato di Epstein, Trump e il principe Andrew:
Primo: Jeffrey Epstein e Donald Trump, desiderosi di consolidare affari e legittimazione sociale nei circoli che contano, individuano nel Duca di York Andrew, lo strumento ideale per accedere ad ambienti di prestigio.
Secondo: Ghislaine Maxwell, già frequentatrice della casa reale (come figlia del magnate nell’editoria britannica oltre che parlamentare Robert Maxwell,) e compagna di Epstein, crea l’anello di congiunzione ed è fondamentale nella sua funzione di mediatrice e “facilitatrice” nel creare il ponte tra il mondo di Epstein e Trump e quello della famiglia reale britannica attraverso Andrew che ha enormi appetiti sia sessuali che di denaro.
Terzo: il sodalizio formato intreccia interessi economici e mondani con la soddisfazione di tutti i partecipanti – Epstein e Trump da un lato ed Andrew dall’altro, il quale per altro viene ulteriormente danneggiato dai resoconti documentati e dalle testimonianze che narrano, oltre agli incontri con Virginia Giuffré, dei plurimi viaggi esotici contraddistinti da eccessi di natura sessuale.
Invece secondo il biografo Michael Wolff, Trump, avrebbe sollecitato a ripetizione i suoi collaboratori per trovare (creare?) «qualcosa d’importante» – (“a big thing”) che distragga e devii i riflettori dal suo legame con Jeffrey Epstein. Questa mossa disperata potrebbe includere concessioni all’Ucraina in cambio di una copertura mediatica positiva sul tavolo negoziale con Putin. Wolff afferma che Trump considera la sua base –MAGA- da cui alcuni membri si sono allontanati proprio per lo scandalo Epstein — come la vera minaccia, e sarebbe pronto a compiere gesti drastici pur di riconquistarne il consenso.

Fonti conservative britanniche e statunitensi non informate direttamente da Wolff evocano l’uso del summit con Putin come una “distraction”, un modo per catturare l’attenzione dei media e ricostruire la sua immagine pubblica. Una pubblicazione considera il summit quasi una “reality TV spectacle” chiamato in extremis per oscurare la narrativa Epstein.
Nel frattempo, Reuters sottolinea quanto siano diventate inefficaci le solite tecniche di distrazione di Trump: allontanare il tema Epstein con commenti contro-reporters o accusando il nemico politico di turno si sta rivelando più complicato che in passato. Il clamore intorno alle richieste di trasparenza sulla vicenda è ormai alimentato anche all’interno della sua coalizione.
Conclusione
Il vertice di Anchorage si è chiuso con un’impressione che molti osservatori definiscono un vero anticlimax. The Times parla apertamente di un summit che, nonostante la coreografia dei B-2 schierati sull’asfalto di Elmendorf-Richardson, non ha prodotto risultati concreti: nessun cessate il fuoco, nessuna rotta, nessun accordo di principio. Solo dichiarazioni generiche e una conferenza stampa senza domande, che hanno lasciato più dubbi che risposte. In questo vuoto di sostanza, l’unica immagine rimasta impressa è quella della potenza militare esibita come simbolo, più che come reale strumento politico.
Il Financial Times sottolinea come, al di là del palcoscenico mediatico, sia in corso un gioco sotterraneo di pressioni e manipolazioni. Stati Uniti, Europa e Ucraina stanno tutti cercando di orientare Trump, consapevoli che il presidente appare più vulnerabile di fronte alla necessità di ottenere un risultato immediato da spendere sul piano interno. La diplomazia occidentale si muove dunque in modo tattico, ma l’impressione è che Mosca abbia già guadagnato margine. Putin, infatti, ha capitalizzato la scena imponendo la sua narrativa di “vicino di casa” e ritraendosi come il leader paziente e strategico, mentre Trump è apparso affaticato, persino difensivo, impegnato più a gestire le ombre del caso Epstein che a consolidare la posizione americana.
AP News osserva che Putin esce dal summit con uno status rafforzato. Il leader del Cremlino ha ottenuto di presentarsi nuovamente come attore imprescindibile della scena globale, senza concedere nulla di sostanziale in cambio. Anzi, è stato Trump ad allentare la pressione, rinunciando a ventilare nuove sanzioni e abbandonando quel tono minaccioso che aveva caratterizzato gli anni precedenti. In altre parole, il vertice ha consentito a Putin di migliorare la sua immagine internazionale senza costi immediati, e anzi con l’avversario americano che ha finito per riprendere e rilanciare argomenti vicini alla retorica del Cremlino.
Il giudizio più netto arriva dal Washington Post, che definisce Anchorage non un disastro, ma una vera e propria sconfitta diplomatica per gli Stati Uniti. L’editoriale mette in luce l’incongruenza di un presidente che, nel tentativo di inseguire un risultato simbolico, finisce per elogiare Putin – un leader incriminato dalla Corte Penale Internazionale – senza ottenere nulla in cambio per l’Ucraina. Nessuna riduzione delle ostilità, nessuna apertura reale: solo la sensazione che l’America abbia perso un’occasione, mostrando debolezza più che determinazione.
In questo scenario, il vertice di Anchorage diventa quasi un paradosso: voleva essere il momento in cui l’America riaffermava la sua leadership globale, ma ha finito per mostrare la distanza tra ambizione e realtà. Putin si è presentato con una strategia narrativa coerente, capace di sfruttare l’occasione per riaffermare la resilienza russa e il nuovo asse con la Cina. Trump, al contrario, è apparso indebolito, logorato dagli scandali interni e dalla pressione di dover offrire all’opinione pubblica “una grande cosa” da esibire.
Il risultato finale è un quadro di fragilità americana. Le sconfitte militari e l’inefficacia delle sanzioni hanno ridotto lo spazio di manovra di Washington, mentre l’Europa resta riluttante a un impegno diretto e la Russia si lega sempre più a Pechino. L’immagine che rimane, come hanno osservato diversi commentatori, è quella di un presidente che gioca la partita della propria sopravvivenza politica più che quella degli equilibri geopolitici globali.
Gli organismi creati dopo la Seconda guerra mondiale — dalle Nazioni Unite alla NATO, fino all’OSCE — possono sembrare in questo contesto, progressivamente svuotati del loro ruolo e della loro capacità di incidere. Strutture nate per garantire stabilità, pace e cooperazione si trovano oggi paralizzate da veti, divisioni interne e strategie di potenza che ne hanno eroso l’autorevolezza.
È evidente che non bastano più riforme di facciata: occorre ricominciare, ridisegnando un’architettura di governance globale che risponda davvero alle sfide del nostro tempo e che restituisca credibilità agli strumenti della diplomazia e della sicurezza internazionale.






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