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Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele-Hamas – il nuovo libro di C. Bertolotti

Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale

Il nuovo libro di C. Bertolotti è disponibile su Amazon

Nel cuore della terra, sotto il confine tra Israele e Gaza, si è sviluppata una guerra invisibile, tanto silenziosa quanto pericolosa. Questa è la storia della guerra sotterranea combattuta da Israele contro Hamas. La lotta contro l’uso strategico dei tunnel da parte del movimento islamista rappresenta un capitolo oscuro e complesso del conflitto israelo-palestinese, un fronte di battaglia che si è esteso ben al di là della vista e della percezione pubblica.

La dimensione sotterra­nea della nuova guerra

Mentre il mondo guarda le immagini di distruzione e ascolta i racconti di chi è colpito dalla violenza in superficie, pochi comprendono la portata e la complessità della guerra svolta nel ventre della terra: la dimensione sotterra­nea della nuova guerra. Ma i tunnel di Gaza non sono semplici passaggi sotterranei; sono arterie di un vasto organismo vivente, pulsante di armi, di strategie e di intenti terroristici. Sono la manifestazione fisica di un conflitto che ha abbracciato una nuova dimensione, quella sotterranea, dove il buio e il silenzio nascondono operazioni di infiltrazione, attacchi a sorpresa e tattiche di guerriglia.

Strategie e conseguenze della guerra invisibile

GAZA UNDERGROUND: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, il nuovo libro di Claudio Bertolotti, esplora questa guerra nascosta, partendo dalle origini dell’utilizzo dei tunnel nella storia del conflitto israelo-palestinese, analizzando come Hamas li abbia trasformati in uno strumento chiave della propria strategia militare. Attraverso la ricerca d’archivio, documenti ufficiali, nonché testimonianze dirette, cercheremo di capire come Israele abbia risposto a questa minaccia, sviluppando tecnologie e tattiche per rilevare, distruggere o neutralizzare queste via di attacco nascoste.

La guerra sotterranea tra Israele e Hamas a Gaza è una lotta continua di ingegno, risorse e determinazione. È una dimostrazione di come il campo di battaglia si sia evoluto, richiedendo a entrambe le parti di adattarsi a nuove realtà. L’obbiettivo posto a premessa del nuovo libro di Claudio Bertolotti consiste nell’analizzare e comprendere le sfide, le strategie e le conseguenze di questa guerra invisibile, offrendo al lettore una comprensione più profonda di uno degli aspetti più inquietanti e meno conosciuti del conflitto israelo-palestinese, aprendo la prospettiva sui futuri scenari di guerra che, per ragioni demografiche, sociali, economiche e tecnologiche, vedranno le città e le loro dimensioni sotterranee assumere un ruolo sempre più determinante.

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Il petrolio ombra di Mosca: il segreto della buona economia russa.

di Andrea Molle

Abstract (Italian)

Questo articolo esamina l’origine della robusta condizione finanziaria della Russia alle soglie del terzo anno del conflitto in Ucraina, rilevando come il sostanziale afflusso di denaro dalle esportazioni di petrolio, in particolare all’India, abbia rafforzato le casse dello Stato russo. L’Autore, discute inoltre sul ruolo della Flotta Ombra del Cremlino, una forza marittima clandestina che elude le normative internazionali, facilitando il commercio di petrolio e oro insanguinato e contribuendo a mantenere il flusso di entrate verso la Russia. Infine, viene analizzata la dipendenza dell’India dal petrolio russo come strategia per mantenere stabili i prezzi globali del petrolio, nonostante le critiche internazionali.

Keywords: Petrolio, flotta ombra, economia russa

L’economia russa è robusta

La Russia, nel terzo anno del conflitto in Ucraina, si trova in una posizione finanziaria robusta, con le casse dello Stato rifornite da un notevole afflusso di denaro. Nel 2023, le entrate federali della Russia hanno raggiunto un record di 320 miliardi di dollari e si prevede che continueranno ad aumentare. Secondo alcuni analisti, circa un terzo di queste entrate è stato destinato alla guerra in Ucraina l’anno precedente, mentre una percentuale ancora maggiore finanzierà il conflitto nel 2024. I notevoli fondi a disposizione del Cremlino posizionano Mosca in una posizione più favorevole per sostenere una guerra prolungata rispetto a Kiev, che lotta per mantenere il vitale flusso di denaro occidentale.

Oltre all’oro insanguinato proveniente dall’Africa, questo incremento di entrate è stato alimentato dalle vendite eccezionali di petrolio grezzo all’India. Transazioni che hanno generato introiti stimati intorno ai 37 miliardi di dollari a cui si aggiungono circa 1 miliardo di dollari provienienti dal petrolio raffinato in India e poi esportato negli Stati Uniti. Tale flusso di entrate è il risultato diretto dell’aumento degli acquisti di petrolio russo da parte di Delhi, che secondo un’analisi del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA), riportata di recente dalla CNN, ora superano di 13 volte i livelli prebellici.

L’analisi delle rotte di trasporto del greggio

L’analisi delle rotte di trasporto del greggio suggerisce inoltre un coinvolgimento della cosiddetta Flotta Ombra del Cremlino. Con questo termine ci si riferisce a una forza marittima clandestina russa, composta da navi che operano al di fuori delle norme marittime internazionali. L’indagine sulla Flotta Ombra è iniziata nei primi anni 2010, quando le principali agenzie di intelligence occidentali e diversi analisti marittimi hanno notato comportamenti sospetti in navi russe o battenti bandiere di paradisi fiscali. Queste navi sono spesso osservate ad operare in aree strategicamente significative, come vicino a cavi di comunicazione sottomarini e installazioni militari, spesso spegnendo i loro sistemi di identificazione automatica per sfuggire al monitoraggio. Le implicazioni della Flotta Ombra russa sono molteplici e tutte potenzialmente pericolose. In primo luogo, c’è preoccupazione per il suo ruolo nel sostenere le operazioni militari russe e nel violare le norme internazionali e le leggi marittime. La presenza di questa flotta mina la sicurezza e la stabilità marittime globali, complicando gli sforzi affinchè la Russia sia tenuta a rispondere delle sue azioni illegali in mare. Una delle attività tipiche della Flotta Ombra nel settore petrolifero è lo scambio di greggio tra due navi con l’obiettivo di mascherarne l’origine e la destinazione finale, confondendo le autorità riguardo alla provenienza e all’acquirente finale. Decine di tali trasferimenti avvengono ad esempio ogni settimana nel Golfo Laconico in Grecia, un punto di passaggio strategico verso il Canale di Suez e i mercati asiatici. Alla fine del 2022, con il supporto di diversi paesi, gli Stati Uniti hanno imposto un limite di prezzo, impegnandosi a non acquistare petrolio russo oltre i 60 dollari al barile.

La flotta ombra

Questi paesi hanno anche vietato alle proprie compagnie di navigazione e di assicurazione, attori chiave nel trasporto marittimo globale, di facilitare il commercio di petrolio russo oltre tale prezzo. Tuttavia, questo limite di prezzo ha paradossalmente alimentato la creazione della Flotta Ombra. Con catene di approvvigionamento più lunghe, è infatti più difficile individuare i trasferimenti da nave a nave e determinare il costo effettivo di un barile di petrolio russo e diventa facile aggirare le sanzioni. La Flotta Ombra ha pertanto consentito alla Russia di creare una rete di navigazione fantasma parallela a quella legale, in grado di eludere il monitoriaggio e aggirare le sanzioni occidentali, con centinaia di petroliere la cui proprietà non è chiara e che seguono rotte così complicate da risultare impossibili da seguire. Secondo le analisi effettuate grazie all’intelligenza artificiale della società di analisi marittima Windward, questa flotta è cresciuta fino a includere nel 2023 circa 1.800 navi.

In questo quadro, gli acquisti di petrolio da parte dell’India hanno avuto l’effetto di alleviare la pressione delle sanzioni sulla Russia. L’India difende le sue politiche di approvvigionamento energetico da Mosca come un modo per mantenere i prezzi globali del petrolio più stabili, evitando di competere con le nazioni occidentali per il petrolio del Medio Oriente. Il governo di Delhi ha dichiarato che qualora l’India dovesse smettere di comprare greggio da Mosca e più petrolio dal Medio Oriente, il prezzo del petrolio salirebbe a 150 dollari avviando una spirale di aumento dei costi che il mondo non può permettersi. Ma una parte di questo petrolio grezzo viene raffinato nelle raffinerie lungo la costa occidentale dell’India e successivamente esportato negli Stati Uniti e in altri paesi che hanno imposto sanzioni sul petrolio russo. Questi prodotti raffinati, non essendo soggetti a sanzioni, costituiscono ciò che gli analisti chiamano la “scappatoia delle raffinerie”. Sempre secondo l’analisi del CREA, gli Stati Uniti sono stati il principale acquirente di prodotti raffinati dall’India derivati dal petrolio grezzo russo nel 2023, per un valore di 1,3 miliardi di dollari. E il valore di queste esportazioni di prodotti petroliferi aumenta notevolmente quando si considerano anche gli alleati degli Stati Uniti che applicano sanzioni contro la Russia. Il CREA ha stimato che questi paesi abbiano importato prodotti petroliferi dal petrolio grezzo russo per un valore di 9,1 miliardi di dollari nel 2023, registrando un aumento del 44% rispetto all’anno precedente.

Mosca ha beneficiato di questo processo sia attraverso la tassazione diretta delle esportazioni che attraverso i profitti ottenuti da Rosneft, la società petrolifera di stato russa, nell’ambito della raffinazione e dalla rivendita ai paesi occidentali.

Entrate e spese russe: un record

Secondo un’analisi condotta dal think tank RAND sui conti del Ministero delle Finanze russo, nel 2023 le entrate e le spese federali della Russia hanno raggiunto entrambe livelli record. Sebbene per adesso Mosca non sia ancora arrivata al pareggio di bilancio, a causa del pesante costo della guerra e delle perdite di entrate dovute in generale alle sanzioni il deficit di bilancio federale è in tendenza decrescente. Le imposte interne sulla produzione e sull’importazione sono entrambe significative ed efficienti, il che implica che la popolazione russa è pesantemente tassata per finanziare il conflitto. Tuttavia, gli analisti avvertono che in questo quadro economico anche la più piccola violazione delle sanzioni contro la Russia può generare ingenti profitti, date le enormi somme coinvolte nel commercio petrolifero e dell’oro, e questo potrebbe portare il regime a diminuire la pressione fiscale generando un maggior supporto per le operazioni militari correnti e future. Per questo è di primaria importanza affrontare efficacemente questa minaccia con una maggiore vigilanza, cooperazione e impegno diplomatico internazionale che includa nuove misure contro le navi della Flotta Ombra e le aziende sospettate di agevolare il trasporto illegale del petrolio e dell’oro russo.


Azione israeliana in Libano e rischio di escalation regionale: il punto del Direttore.

Dall’intervista di Stefano Leszczynski a Claudio Bertolotti, per Radio Vaticana, trasmissione Il Mondo alla Radio del 3 gennaio 2024 (VAI AL PODCAST)

L’azione israeliana in Libano e il rischio di escalation.

Gli attentati a Beirut e in Iran infiammano la crisi medio orientale. La guerra di Israele tra battaglie nella Striscia di Gaza e omicidi mirati.

Federica Saini Fasanotti – storica militare e studiosa dell’ISPI

Eric Salerno – giornalista esperto di questioni medio orientali e relazioni internazionali

Claudio Bertolotti – direttore di Start Insight e ricercatore ISPI

Il 2 gennaio 2024, un attacco nel sud di Beirut, Libano, in cui è avvenuta l’uccisione del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, è stato attribuito a Israele e ha preso di mira una roccaforte del gruppo sciita e filo-iraniano Hezbollah. L’attacco ha causato anche vittime collaterali, suscitando la condanna di Hezbollah e la promessa che l'”assassinio” di al Arouri a Beirut non resterà impunito. Le forze armate israeliane hanno diffuso video dell’attacco, sottolineando il loro coinvolgimento nell’incidente. L’evento ha sollevato preoccupazioni riguardo a una possibile escalation tra Libano e Israele.

Dottor Bertolotti, c’è il rischio che le operazioni mirate israeliane come quella in Libano inneschino davvero un conflitto regionale?

Dal punto di vista razionale – secondo Bertolotti – nessuno degli attori coinvolti vuole un allargamento del conflitto a livello regionale. Non lo vuole Israele e non lo vuole l’Iran che, invece, punta a una serie di micro-conflitti e coinvolgimento dei piccoli attori regionali, dagli Houthi nello Yemen ad Hezbollah in Libano per distrarre lo sforzo militare di Israele, indebolendolo. Ma al di la della volontà razionale ci sono le scelte emotive, che spesso condizionano le dinamiche delle relazioni internazionali che possono portare ad effetti incontrollabili. E il rischio di un’escalation orizzontale a livello regionale, in questo senso, è un rischio possibile.

Dott. Bertolotti, la prudenza del governo libanese, che ha chiesto a Hezbollah di non reagire a Israele in maniera autonoma, che cosa suggerisce?

Il governo di Beirut è il primo a voler scongiurare un allargamento del conflitto, perchè ciò significherebbe il collasso dello stato libanese e l’avvio di una nuova guerra civile che sarebbe micidiale per la sopravvivenza dello stesso stato libanese. Questa la ragione per cui il governo libanese svolge un ruolo di intermediario con Hezbollah che noN è, come non è mai stato, sotto controllo governativo, ponendosi come milizia, esercito autonomo legato ai gruppi di potere sciiti a loro volta legati con l’Iran, che di Hezbollah ne sta facendo un uso opportunistico in funzione anti-israeliana, senza però farsi direttamente coinvolgere.

Direttore, la posizione di Ankara (membro della NATO) in questa crisi pone alcuni interrogativi sul proprio ruolo e affidabilità?

La Turchia persegue un proprio e ben definito progetto di proiezione di influenza in tutto l’arco mediterraneo allargato, dal Corno d’Africa ai paesi del Maghreb. La vicinanza ad Hamas, che si lega alla pericolosa organizzazione dei Fratelli Musulmani, è coerente con questa visione di potenza che prevede il consolidamento dei rapporti con i governi e le organizzazioni locali in un’ottica di ricostituzione di un perimetro geopolitico artificiosamente coerente con la storia e con l’ego sproporzionato del presidente Erdogan. Ma non illudiamoci che una qualsiasi alternativa a Erdogan possa avere una visione differente, questa è l’ambizione della Turchia contemporanea.


Guerra Israele-Hamas: quale scenario dopo la tregua? RaiNews24

di Claudio Bertolotti


Dall’intervento del direttore Claudio Bertolotti a In un’ora, RaiNews 24, puntata del 27 novembre 2023.

La tregua e le sue dinamiche

Guardando alla striscia di Gaza e al territorio israeliano, al momento non sembrano esserci stati episodi significativi in grado di influire sulla tenuta della tregua tra le parti, comprese eventuali iniziative da parte del libanese Hezbollah. Ad oggi sembra che entrambe le parti siano interessate ad estendere il cessate il fuoco per altri 4 giorni. Per Israele è un’opzione vantaggiosa dal punto di vista politico e di ricerca di consenso, anche perché ciò offrirebbe maggiori garanzie per eventuali altri prigionieri rapiti che potrebbero essere rilasciati dai terroristi di Hamas. Per contro, lo svantaggio per Israele sarebbe tattico e operativo, perché lascia le truppe schierate sul terreno in una posizione di relativa vulnerabilità e darebbe ad Hamas il tempo per riorganizzare la propria capacità di comando e controllo e logistica, fortemente compromessa dall’uccisione di ben cinque comandanti di medio-alto livello negli ultimi giorni[1].

Per Hamas, si rileva un apparente risultato politico nell’aver ottenuto una tregua con Israele, ma non dobbiamo dimenticare che questa non è una concessione da parte di Hamas, bensì il risultato di un’operazione controffensiva israeliana che ha messo sotto pressione la leardership palestinese, sia quella politica che quella militare. Va però rilevato che lo stesso Hamas ha tratto grande vantaggio sul piano militare poiché, oltre alla riorganizzazione in atto, una consistente parte degli aiuti umanitari, in particolare il carburante, verrebbe dirottata prioritariamente a sostegno dei combattenti e non della popolazione civile.

Quale lo scenario futuro?

Sul prolungamento del cessate il fuoco sembra che ci sia una posizione condivisa nel proseguirlo poichè, di solito, o sono estesi da un accordo fatto mentre sono in vigore o sono infranti prima della scadenza. E al momento non sembrano esserci violazioni significative in corso.

Difficile anche fare previsioni circa l’andamento della guerra, per quanto appaia imprescindibile il risultato di una vittoria israeliana e questo non per una ragione limitata all’andamento della guerra, bensì per l’esistenza stessa dello Stato di Israele che, se non fosse in grado di imporre con la forza la propria superiorità su Hamas, creerebbe un pericoloso precedente a cui seguirebbero altre azioni offensive a danno dei cittadini israeliani all’interno di Israele e non solo da parte palestinese. È dunque una questione di sopravvivenza per Israele, che non farà sconto alcuno, nonostante il prolungamento del cessate il fuoco.

Per contro, Hamas guarda al futuro immediato con la speranza di un allargamento del conflitto che sembra però uno scenario che si allontana sempre di più, con un Iran sempre più convinto a non spingere verso un’escalation che sarebbe devastante per Teheran. Iran, che non vuole essere coinvolto direttamente in una guerra regionale ma che persiste nel sostenere ed alimentare azioni di disturbo da parte dei suoi attori di prossimità, dal libanese Hezbollah alle milizie nello Yemen e in Iraq.

E allora ad Hamas, esclusa l’ipotesi di un’escalation orizzontale che coinvolga tutti gli attori regionali, resta l’opzione dell’allargamento interno, con il coinvolgimento delle milizie palestinesi della Cisgiordania che otterrebbero il risultato di impegnare le truppe israeliane su un secondo eventuale fronte.


[1] I comandanti uccisi sarebbero: il comandante della Brigata della Striscia di Gaza settentrionale Ahmed Ghandour, a capo delle attività di Hamas nel nord della Striscia di Gaza. Gli attacchi aerei israeliani avrebbero anche ucciso Farsan Khalifa, il capo del Comitato Tulkarm di Hamas responsabile di aver reclutato e formato le cellule di combattenti nel campo profughi di Nur al Shams, vicino a Tulkarm, in Cisgiordania.


L’informazione “dettata” da Hamas: la guerra cognitiva dei terroristi. Dal commento di C. Bertolotti a Start (SKY TG24).

I commenti di Claudio Bertolotti, Direttore di START inSight e Natalie Tocci, Direttore IAI a START, trasmissione di SKY TG24 (puntata del 19 ottobre 2023)

(Bertolotti) “Guardando al caso dell’ospedale nella striscia di Gaza colpito da un razzo palestinese, emerge quanto sia pericoloso dar credito a informazioni non verificate in grado di incidere in maniera significativa, sia sull’opinione pubblica, sia sui processi decisionali, politici e militari.

In questo specifico caso, così come in molti altri, la percezione ha prevalso sulla realtà: e questo è l’effetto della guerra cognitiva, volta a indirizzare il nostro pensiero. Una guerra che Hamas sta conducendo in maniera estremamente abile e che ha portato a definire i tempi e le modalità delle relazioni internazionali, annullando o posticipando gli incontri tra le parti. La responsabilità di Israele è stata esclusa, ammesso che ci sia mai stata. E questa, da un lato è la sconfitta del giornalismo che non è stato in grado di verificare, prestandosi alla propaganda di un gruppo jihadista, e, dall’altro è stata la grande vittoria della disinformazione di Hamas, che è così riuscita a spingere le masse arabe nelle piazze e, al contempo, ha smosso la mole di utili inconsapevoli che in Occidente sono caduti nel tranello, o meglio nell’operazione.”


Israele: una guerra diversa. Il punto della situazione e l’analisi

di Claudio Bertolotti

dall’intervento di Claudio Bertolotti a SKY TG24 Mondo (Puntata del 13 ottobre 2023)

Intervento video di Claudio Bertolotti a SKY TG24 Mondo, ospite di Roberto Tallei

Il punto della guerra contro Hamas a Gaza (13 ottobre)

A quasi una settimana dagli attacchi di Hamas contro le città e le comunità israeliane, continuano gli attacchi dell’IDF contro siti terroristici a Gaza, mirati alle capacità militari e amministrative di Hamas. L’aviazione israeliana ha colpito alti dirigenti, centri di comando e controllo, siti di lancio di razzi, istituzioni finanziarie e governative chiave di Hamas che contribuiscono alle sue operazioni militari. In totale, oltre 1.000 terroristi sono stati uccisi (Fonte IDF).

L’IDF continua a fare affidamento sull’intelligence per eseguire questi attacchi. Una serie di obiettivi colpiti includeva una rete di siti di lancio di UAV all’interno e sopra le case di Gaza. Il sito preso di mira la scorsa notte includeva le case di un agente della forza Nukhba, un sito operativo di Hamas in cui sembra si trovasse il fratello di Yahya Sinwar e una postazione dell’intelligence di Hamas utilizzata per tracciare i movimenti delle forze (fonte IDF).

Venerdì, in vista di una continuazione degli attacchi operativi dell’IDF, l’IDF ha chiesto ai civili di Gaza di spostarsi a sud di Wadi Gaza attraverso una varietà di canali, compresi i media tradizionali e i media digitali, tutti in arabo. L’obiettivo è quello di fornire allarmi efficaci e anticipati in modo che i civili possano proteggersi evacuando, cercando riparo o intraprendendo altre azioni appropriate (fonte IDF).

Il valico di Erez rimane non utilizzabile a seguito degli attacchi di Hamas, mentre il valico di Kerem continua ad essere sotto attacco. 9 delle 10 linee elettriche da Israele a Gaza sono state distrutte dal lancio di razzi di Hamas. Israele ha dichiarato che non riparerà queste infrastrutture né continuerà la sua fornitura di elettricità e carburante a Gaza, che Hamas sfrutta per uso militare e impedisce che raggiunga la popolazione civile (fonte IDF).

Difesa del sud di Israele

Le forze dell’IDF nel sud di Israele continuano a respingere i tentativi di attacchi di infiltrazione, così come gli attacchi isolati da parte di cellule terroristiche rimaste nel sud di Israele. Ciò includeva la neutralizzazione di un terrorista vicino al Kibbutz Kissufim giovedì sera, una delle città che erano state attaccate durante il massacro di sabato. In totale, almeno cinque terroristi sono stati neutralizzati dalle forze dell’IDF nelle ultime 24 ore.

Altri settori militari

L’esercito è in uno stato di elevata capacità e preparato a qualsiasi minaccia. Nell’ambito della valutazione della situazione in corso, l’IDF ha dichiarato l’area di Metula, la parte più settentrionale di Israele, come zona militare interdetta. Le forze dell’IDF sono dispiegate e monitorano attivamente l’area.

Nel corso delle operazioni notturne in Giudea e Samaria, sono stati arrestati 47 soggetti, 34 dei quali appartenevano ad Hamas. Ad Azun è stato trovato anche un laboratorio di esplosivi di Hamas. In totale, 130 agenti di Hamas sono stati arrestati nella regione di Giudea, Samaria e Beka’a da sabato.

Il fronte interno

Il lancio di razzi da Gaza è continuato, comprese raffiche di razzi verso il sud e il centro di Israele, con una salva sparata verso il nord di Israele venerdì pomeriggio. Sbarramenti particolarmente pesanti furono sparati verso Ashkelon (132.000 abitanti) e Sderot (27.000 abitanti). A partire da ieri, oltre 6.000 razzi sono stati lanciati contro Israele.

Analisi generale

Perché questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti dall’esercito israeliano?

Questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti perché a differenza delle precedenti rischia di sfociare in una guerra regionale in grado di coinvolgere l’Iran, la Siria, il Libano e gli Stati Uniti, e di allargarsi ulteriormente con strascichi di lungo periodo difficili da prevedere.

L’allargamento regionale del conflitto, da un punto di vista razionale in realtà non è auspicato da nessuno, in primo luogo da Hezbollah e dal Libano a causa del rischio di implosione economica e sociale dello stato libanese, con il rischio di una nuova guerra civile. Ma neanche l’Iran vuole dare il via a un’escalation che allarghi il conflitto. Ma da un punto di vista emotivo c’è sempre il rischio che le parti siano spinte o si lascino trascinare verso una crescente partecipazione alla guerra contro Israele e questo rappresenterebbe un punto di non ritorno che determinerebbe la ridefinizione violenta degli equilibri dell’intero vicino e medioriente.

Differenze tra Hamas, Hezbollah, Jihad dal punto di vista della possibile offensiva e della reazione all’offensiva israeliana

Nella sostanza, e sposando l’approccio israeliano dobbiamo considerare le due organizzazioni non come “insorti” o “guerriglieri”, ma come “eserciti organizzati, ben addestrati, ben equipaggiati per le loro missioni”. Questo da un punto di vista sostanziale che li colloca all’interno della medesima categoria di nemici sul campo di battaglia.

E sempre sul piano sostanziale sono due minacce dirette alla sicurezza dello Stato di Israele, e per questo inserite negli obiettivi primari della strategia di difesa israeliana.

Da un punto di vista storico e ideologico, le differenze ci sono, e non solamente dal punto di vista religioso, sciiti gli appartenenti a Hezbollah, sunniti gli appartenenti ad Hamas. Non sono ideologicamente vicini, tant’è che nella guerra in Siria hanno combattuto su fronti contrapposti, ma entrambi ambiscono a distruggere Israele.

Hezbollah movimento jihadista islamico sciita che nasce come movimento di resistenza anti-israeliano. Il suo obiettivo è la difesa del Libano contro la “probabile aggressione israeliana” e la creazione di uno Stato islamico libanese, però in contrapposizione alla visione dello Stato islamico, già ISIS.

Hamas nasce anch’esso come movimento islamista, ma sunnita e fortemente legato alla Fratellanza musulmana, con chiare connotazioni radicali. L’obiettivo primario è la liberazione dei territori palestinesi e la distruzione dello Stato di Israele, non riconosce le Nazioni Unite e rifiuta di accettare qualunque conferenza di pace e qualunque forma di compromesso con Israele, rifiutando di fatto l’ipotesi dei due stati per due popoli.

Quanto sono “fondamentali” per Hamas ostaggi e residenti? Hamas si è detta contraria a corridoio umanitario

Hamas, accecato dalla propria visione e immerso nella propria battaglia ideologica, ha sottovalutato gli effetti di questa operazione a danno di Israele e pagherà con la propria esistenza l’eccesso di violenza. In questo momento la presenza degli ostaggi viene sfruttato da Hamas per indurre Israele a un minore livello di violenza contro Gaza. Ma questo non avverrà. E allora Hamas ricorre alla carta estrema di trasformare l’intera popolazione di Gaza in un immenso scudo umano da sfruttare a proprio favore o da trasformare in martiri utili alla propaganda jihadista che verrà sfruttata ed ereditata dai movimenti jihadisti che raccoglieranno il testimone di Hamas dopo la sua scomparsa.

È vero che Israele ha abbandonato lo spionaggio “sul campo” per affidarsi tutto alla tecnologia? È per questo che un attacco pianificato per due anni sia stato completamente ignorato?

La dottrina strategica di Israele del 2015 e il più recente concetto operativo delle forze armate israeliane prevede, come pilastro e elemento di successo, il funzionamento dello strumento intelligence. Sia in termini di raccolta informazioni ad alto livello tecnologico sia attraverso la raccolta informazioni diretta dagli uomini sul campo. Nessuna delle due è venuta meno nel corso degli anni, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato, in parte per aver sopravvalutato l’effettiva propria capacità informativa, in parte per l’alto livello di depistaggio attuato da Hamas e, forse in parte, per la competizione interna tra Shin Bet e Mossad, le due agenzie di intelligence israeliane.

Come potrà svilupparsi l’operazione di terra? Chirurgica o più su vasta scala? Quanto può durare? Con quali fasi?

La somma delle due opzioni: una prima attività di bombardamento mirato e chirurgico a cui seguirà un’invasione massiccia mista: mezzi corazzati e fanteria leggera per il combattimento nel centro urbano di Gaza, che rappresenta la più pericolosa delle fasi della guerra e che potrebbe portare a un elevato numero di vittime da entrambe le parti. Rimando alla lettura dell’analisi dettagliata pubblicata con ISPI (Spazio e tempo dell’offensiva israeliana a Gaza).

Alle operazioni militari si affiancano operazioni psicologiche per influenzare opinione pubblica e attivazione canali diplomatici. Quanto sarà fondamentale il sostegno della popolazione di Gaza ad Hamas?

Hamas e Israele sfruttano entrambe le operazioni psicologiche. Israele per indurre il terrore nei confronti di Hamas; basta la frase di Netanyahu “ogni uomo di Hamas è un uomo morto” per far capire il peso e la gravità della situazione. Al tempo stesso Hamas spaccia per mera propaganda la possibilità che Israele attacchi violentemente Gaza, e questo per tenere la popolazione nell’area degli obiettivi militari, arrivando anche a minacciare le stesse famiglie palestinesi in cerca di salvezza.

Il sostegno della popolazione per Hamas è certamente importante ma, a questo punto credo non risolutivo. Se Hamas è dovuta ricorrere alla minaccia per tenere la popolazione di Gaza all’interno della città significa che la fiducia nell’organizzazione politica e terrorista è venuta meno.

Rispetto alla geografia di Gaza, dove potrebbe avvenire lo schieramento?

Guardando alle forze in campo e alla geografia del territorio, limitandoci alla componente terrestre possiamo ipotizzare un primo schieramento di carri armati israeliani a sud di Gaza City dove c’è una linea di cresta che domina il centro urbano; area che potrebbe essere strategica per il controllo del terreno e per il supporto di fuoco. Al tempo stesso, una seconda aliquota potrebbe posizionarsi all’estremo nord di Gaza, vicino al valico di Erez, dove si trovano aree rurali e ampi terreni utili allo schieramento di unità di supporto al combattimento.  Un terzo punto di accesso potrebbe essere l’estremo sud, vicino a Rafah. 

Un’altra area di possibile schieramento a supporto delle unità di fanteria si trova a est di Khan Yunis, a sud della città di Gaza, dove i mezzi corazzati possono muoversi più facilmente e prendere posizioni di fuoco.

Una nota sull’uso fosforo bianco

L’uso di munizionamento al fosforo bianco è legittimo quando usato contro obiettivi militari isolati, per illuminare il campo di battaglia di notte o per creare cortine di fumo utili a nascondere il movimento delle truppe sul terreno. È invece vietato il suo utilizzo in ogni caso in cui vi sia il rischio di colpire obiettivi civili. E in questo senso va la decisione israeliana di imporre alla popolazione di Gaza di abbandonare il centro urbano; ed è lo stesso motivo per cui Hamas starebbe obbligando con la minaccia e la violenza la popolazione di Gaza a rimanere nelle proprie case, come scudi umani in funzione di deterrenza.


Israele: la risposta e lo scenario di guerra

di Claudio Bertolotti

Il 7 ottobre, Hamas attraverso la sua ala militante, la Brigata Al Qassem, ha lanciato un attacco a sorpresa, terrestre e aereo, contro Israele. Un fatto che si è imposto come la più significativa escalation di violenza tra le due parti degli ultimi decenni. Centinaia di combattenti di Hamas hanno attraversato la Striscia di Gaza in territorio israeliano e hanno attaccato i posti di confine, investendo con la loro violenza obiettivi militari e aree residenziali (fonte ISW).

In tale contesto di violenza, Hamas e la Brigata Al Qassem hanno invitato le milizie palestinesi e i membri dell’Asse della Resistenza a unirsi alla lotta contro Israele.

Un appello, rivolto e raccolto dal gruppo libanese Hezbollah che, unitamente alle milizie palestinesi, hanno condotto attacchi contro le posizioni israeliane rispettivamente dal Libano meridionale e dalla Cisgiordania (fonte ISW)

Quali le ragioni all’origine di questa azione coordinata e strutturata su ampia scala?

Due i principali fattori determinanti il conflitto in corso: interni ed esterni alla questione palestinese.

Il principale fattore interno è rappresentato dalla competizione tra l’ala politica e militare di Hamas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), dove il primo attore intende esautorare il secondo per divenire unico punto di riferimento della popolazione palestinese e nei rapporti internazionali.

Parallelamente al fattore interno si impone quello esterno, conseguente al processo di normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi (Arabia Saudita in primis) e Israele. Un effetto destabilizzante per le ambizioni regionali dell’Iran.

Guardando ad entrambe le dimensioni, interne ed esterne, è ovvio che fosse nell’interesse di Hamas e dell’Iran minare tale accordo. Dunque una convergenza di interessi, sebbene su basi molto diverse.

L’aver inflitto un così grave danno ad Israele, oltre ad aver evidenziato la vulnerabilità di Gerusalemme, ha dimostrato forza e volontà di Hamas (e dell’Iran) e la debolezza della classe politica dell’ANP, disposta a concedere molto (troppo) agli israeliani.

Un recente articolo di Samia Nakhoul e Jonathan Saul per Reuters getta luce su alcuni aspetti interessanti, che dovranno presto essere approfonditi per comprendere le dinamiche che hanno determinato lo scenario a cui stiamo assistendo. In primis, Hamas avrebbe costruito un finto insediamento israeliano a Gaza per addestrarsi in preparazione dell’attacco; in secondo luogo, la preparazione sarebbe durata due anni, durante i quali Hamas ha dato l’impressione di non voler entrare in conflitto aperto ma di essere piuttosto focalizzato su economia/assicurare i diritti dei lavoratori della Striscia di Gaza; infine, terzo elemento, molti leaders di Hamas sarebbero stati all’oscuro dell’operazione.

In ogni caso, il risultato ottenuto è stato quello di minare nel breve periodo l’accordo tra le parti, ricollocando la questione palestinese al centro delle dinamiche mediorientali e di tutto il mondo arabo, dopo la sostanziale marginalizzazione di fatto avvenuta negli ultimi anni.

Quali gli sviluppi possibili del conflitto in corso?

Cosa accadrà (e cosa sta già accadendo)? Gli israeliani cercheranno di decapitare la leadership di Hamas. E se questo non bastasse (e non basterà) per indurre Hamas a cessare il lancio di razzi e ad avviare negoziati per liberare gli ostaggi, allora potremmo assistere a un’invasione israeliana su vasta scala di Gaza. Con ciò proponendo uno scenario simile a quello del 2005, quando Israele lasciò Gaza dopo averla occupata, con grande sforzo e oneri straordinari (intervista a Martin Indyk, per Foreign affairs del 7 ottobre 2023).

In questo caso, sul piano operativo si pone il problema della gestione di un conflitto in un’area ad alta densità di popolazione, dove la manovrabilità delle truppe di terra e il rischio di provocare un elevato numero di vittime potrebbe provocare una reazione di massa non solo da parte degli arabi a Gaza, ma anche dei profughi palestinesi nel vicino Libano e il molto probabile coinvolgimento di Hezbollah, anche questo sostenuto dall’Iran, e contemporanee rivolte violente in Cisgiordania e nella capitale Gerusalemme. Dunque un conflitto su più fronti, veramente difficile da sostenere, nonostante il massiccio e indiscusso supporto degli Stati Uniti.

E proprio per evitare il pantano di una guerriglia urbana è molto probabile che la prima fase della risposta di Gerusalemme possa svilupparsi attraverso l’impiego massiccio dell’aviazione e di droni per attacchi mirati, con l’obiettivo di indurre Hamas a desistere dall’offensiva intrapresa. Un’opzione operativa che potrebbe avere qualche speranza di successo solo se i paesi arabi più influenti su Hamas (Arabia Saudita, Qatar, Egitto) riuscissero attraverso un’azione diplomatica ad incidere sul gruppo palestinese. È una possibilità, ma la probabilità che ciò avvenga è molto limitata.

Al contrario, almeno nelle intenzioni di Hamas, è l’escalation di violenza il risultato fortemente voluto e ricercato dal gruppo. E questo perché è l’unica opzione per far rivoltare le opinioni pubbliche dei paesi arabi nei confronti delle rispettive leadership di governo (in particolare Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, insieme a quelli che hanno aderito all’“accordo di Abramo” avviato dall’allora presidente statunitense Donald J. Trump), perché l’obiettivo strategico di Hamas è quello di cancellare Israele dalla faccia della terra.

Insomma, l’unica carta vincente di Hamas (a dispetto delle esigenze e delle priorità dei palestinesi di Gaza), è l’intensificazione e l’allargamento del conflitto che coinvolga quanti più attori possibili, così da ottenere la sconfitta e la distruzione di Israele, l’unica democrazia liberale in tutto il Medioriente.


Competizione NATO e Cina-Russia nel Mar del Giappone

di Andrea Molle

La reazione sino-russa alla diplomazia NATO nell’indo-pacifico, che include anche i recenti sforzi italiani, non si fa attendere. Dopo la conferma delle indiscrezioni di una futura apertura di un liaison office dell’Alleanza in Giappone, ipotesi peraltro volutamente omessa dalle dichiarazioni ufficiali dell’incontro di Vilnius, i due paesi annunciano un’esercitazione navale comune nel Mar del Giappone.

Il Mar del Giappone è un fondamentale teatro strategico sia per la Cina che per la Russia. In particolare gli stretti di Soya, di Tsushima e Tsugaru hanno importanti implicazioni per la sicurezza nazionale di Beijin e Mosca. Sabato, il Ministro della Difesa cinese ha dichiarato che forze navali e aeree russe prenderanno parte alle esercitazioni militari “Northern/Interaction”, organizzate dal comando del teatro settentrionale dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). Va precisato che le relazioni militari tra i due paesi non sono una novità; basti ricordare, ad esempio, che a partire dal 2018, la Cina ha partecipato regolarmente alle principali esercitazioni annuali russe tra cui “Vostok 2018”, “Tsentr-2019” e “Kavkaz-2020”. Nell’agosto 2021, la Russia ha anche preso parte all’esercitazione “Western/Interaction”, condotta nella regione autonoma dello Ningxia Hui, nella Cina nord-occidentale, la prima in cui la Cina ha invitato a partecipare forze armate straniere. Successivamente, nel 2022, Beijin ha inviato componenti delle sue forze terrestri, navali e aeree in Russia per partecipare alle esercitazioni “Vostok 2022” le cui attività si sono svolte in ben 13 siti addestrativi russi e in diverse aree di interesse del Mar del Giappone.

Tuttavia, quest’ultima campagna addestrativa comune, che si aggiunge all’attività di pattugliamento congiunto del Mar del Giappone e del Mar Cinese Orientale da parte delle due Forze Armate iniziata lo scorso giugno, sembra rappresentare un salto di qualità verso un vero e proprio partenariato strategico. Il Ministero della Difesa ha infatti sottolineato come questa esercitazione congiunta abbia sì uno scopo prettamente operativo, cioè di acquisire le capacità necessarie al mantenimento della sicurezza delle rotte marittime strategiche, ma ha anche aggiunto che, tramite lo sviluppo di più strette relazioni militari, Cina e Russia intendono affermarsi politicamente come i reali garanti della pace e della stabilità nella regione.

Diversi esperti militari prevedono anche che queste attività addestrative andranno ad aumentare in futuro, anche grazie alla probabile rotazione tra tutti e cinque i comandi del PLA che potranno interessare diversi teatri strategici e scenari di conflitto tra i quali naturalmente spicca l’isola di Taiwan.

Ancora non si conosce l’entità nè la configurazione del contingente navale russo, ma la componente navale cinese sembra includere i cacciatorpedinieri missilistici Qiqihar e Guiyang, le fregate missilistiche Zaozhuang e Rizhao e la nave da rifornimento Taihu, salpate dal porto di Qingdao, sito nella provincia dello Shandong nella Cina orientale.

Fotografia di Michael Afonso


Controffensiva ucraina: conviene a Kiev? Il fattore tempo è a favore di Mosca. Il commento di C. Bertolotti a RadioInBlu

Il commento del direttore Claudio Bertolotti a Radio inBlu2000 (LINK all’intervista), ospite di Chiara Piacenti (puntata del 10 maggio 2023).

Il commento del direttore Claudio Bertolotti a Radio inBlu2000, ospite di Chiara Piacenti (puntata del 10 maggio 2023).

Controffensiva ucraina: cosa possiamo aspettarci? Quale il miglior risultato ottenibile per Kiev?

Intesa come controffensiva in grado di ricacciare indietro i russi imponendo l’abbandono del fronte, quella ucraina rimane un miraggio perché il potenziale militare ucraino è adeguato per una guerra difensiva, tuttalpiù per azioni offensive limitate, contrattacchi, ma difficilmente potrebbe sostenere un’azione in profondità su tutto il fronte. E questo perché una controffensiva risolutiva richiede un numero di carri armati, pezzi di artiglieria e potere aereo che, in questo momento l’Ucraina non ha.

In secondo luogo dobbiamo chiederci se all’Ucraina convenga avviare un’azione offensiva che sarebbe molto onerosa in termini di risorse materiali e umane: ricordiamo che chi attacca deve mettere in campo almeno il triplo delle risorse schierate da chi invece si difende. Quel che è certo è che se una controffensiva ucraina dovesse essere condotta questa avverrà prima realizzando un piano d’inganno, ossia un attacco simulato per distrarre le difese russe, e contemporaneamente concentrando un attacco massiccio in un preciso punto del fronte, su più direttrici d’attacco, senza disperdere le forze già molto limitate. Ma è difficile riuscire a immaginare che una tale situazione possa poi essere gestita dalle forze ucraine che ancora non hanno una capacità militare tale da riuscire a contenere la scontata azione controffensiva russa.

Il fattore tempo gioca a favore di Russia o Ucraina?

Il fattore tempo gioca a favore di chi ha il maggior numero di pedine da mettere in campo e un sistema produttivo in grado di sostenerlo. L’Ucraina ha la possibilità di sostenere lo sforzo militare grazie quasi esclusivamente al sostegno statunitense, a cui si unisce quello inferiore ma non marginale dei paesi dell’Unione europea. Ma è un sostegno a termine, che difficilmente potrà essere garantito sul lungo periodo vista la crescente diffidenza di un Congresso statunitense che chiede conto dei soldi dei contribuenti spesi in una guerra che dura ormai da troppo tempo.

Al contrario, la Russia ha uomini e materiali, associati a un sistema produttivo e militare sostanzialmente intaccato. È indubbio che sia Mosca a mantenere una posizione di primazia sul campo, se non altro in termini di quantità di risorse sacrificabili

Cosa rappresenta Bakhmut?

È un simbolo per entrambi i contendenti ed è, al contempo, strategicamente importante sia tenerla sia occuparla perché è un obiettivo che diverrà il perno di manovra di possibili azioni offensive russe. Per questo motivo Kiev si ostina a mantenere la posizione. Ora lo stallo è totale, ma si apre la prospettiva di un’offensiva russa o contrattacchi ucraini. Bakhmut rientra tra gli emblemi russi, perché una vittoria darebbe un’ulteriore spinta alla sua narrazione, oltre ad avere effetti significativi sul piano militare. I russi avrebbero una grande capacità di manovra e la conquista gli consentirebbe di consolidare la linea del fronte, offrendogli un vantaggio tattico e operativo nell’area. Sul fronte opposto, la tenuta di Bakmut garantisce all’Ucraina l’accesso di vie di comunicazione e logistiche, stradali e ferroviarie necessarie a sostenere lo sforzo militare al fronte. Perdere la città, aspetto che Kiev ha di fatto già accettato, ha imposto una riorganizzazione del retrofronte in relazione a un abbandono delle posizioni strenuamente tenute in questi mesi.

Un 9 maggio sotto tono in Russia, droni sul Cremlino, attentati, effetto Prigozhin… Una Russia meno solida?

Direi una Russia sospesa e rassegnata a condurre una guerra di logoramento nel lungo periodo e con una leadership presidenziale ben salda al potere, forte della capacità di propaganda con cui riesce a consolidare il sostegno, o comunque la mancata opposizione dell’opinione pubblica interna, alle decisioni governative.

La leadership sa che il costo di questa guerra è immensamente più grande rispetto alla peggiore delle previsioni che il governo russo valutò prima di dare il via alla cosiddetta “operazione militare speciale”. Ciò nonostante non ha alternative: la guerra continuerà ancora fino a quando non verrà dichiarata una qualche forma di vittoria. Non importa se vera o no, quel che possiamo valutare è che la forma e il metodo con cui questa vittoria verrà annunciata sarà in grado di far accettare l’esito all’opinione pubblica interna. In questo quadro si conferma come pienamente efficace l’azione di propaganda e controllo dell’informazione in Russia.

Quale il ruolo della Cina?

La Cina potrebbe imporsi come interlocutore primario dal punto di vista pragmatico perché ha la capacità di influenzare le decisioni russe anche in termini di supporto indiretto alla guerra stessa. In questo caso sarà necessario capire quanto gli Stati Uniti saranno disposti a concedere alla Cina e sebbene la Russia sia in questo momento in cima alle preoccupazioni delle Cancellerie occidentali, l’attore primario è la Cina. E il confronto non è tra Russia e Stati Uniti o tra Russia e Nato, ma tra Stati Uniti e Cina. Credo si debba guardare alla guerra in Ucraina in prospettiva cercando di trovare alcune dinamiche comuni in quello che potrebbe essere il dossier Taiwan nel prossimo futuro.


Vent’anni fa la guerra in Iraq. L’anniversario scomodo di una guerra dalle conseguenze irreversibili per l’ordine internazionale

di Claudio Bertolotti

dall’intervista di Alessia Virdis per ADNKRONOS

20 anni dall’invasione dell’Iraq: è un anniversario scomodo per l’Occidente e, se sì, perché?

La guerra in Iraq è una delle guerre più controverse e disastrose degli ultimi decenni; una guerra in cui gli effetti negativi hanno superato di gran lunga qualsiasi possibile risultato positivo.

Parte dell’opinione pubblica di allora ha oggi allontanato le emozioni e i sentimenti provati e vissuti vent’anni fa in occasione della guerra in Iraq che seguì, di poco, quella maggiormente coinvolgente in Afghanistan. Un’altra parte dell’attuale opinione pubblica, per ragioni generazionali, non ha vissuto quei momenti e colloca l’evento in un momento storico privato della sua componente emotiva. Detto questo, credo che la risposta sia: “sì, l’anniversario dell’invasione dell’Iraq del 20 marzo 2003 è scomodo per l’Occidente, e lo è per diverse ragioni”.

La prima di queste ragioni è la consapevolezza di una ricercata manipolazione dell’opinione pubblica volta a convincerla della necessità e della bontà dell’intervento militare: ricordiamo tutti l’imbarazzo del segretario di Stato Colin Powel davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite mostrare una provetta contenente borotalco, asserendo si trattasse di antrace per giustificare l’emergenza di un intervento militare Guerra basata su informazioni sbagliate. L’invio delle truppe statunitensi in Iraq si basava principalmente su informazioni errate o addirittura inventate sulle armi di distruzione di massa (WMD) possedute dal regime di Saddam Hussein. Quando si scoprì che queste informazioni erano false, molti accusarono l’amministrazione Bush di aver manipolato l’opinione pubblica per giustificare la guerra.

Un’altra ragione sono i costi della guerra. L’invasione dell’Iraq ha comportato un costo enorme in termini di vite umane e risorse finanziarie. Secondo alcune stime, la guerra ha causato la morte di oltre 100.000 civili iracheni e più di 4.400 militari americani, oltre a un costo stimato di 1,7 trilioni di dollari.

Una terza ragione è l’avvio di un periodo (ancora in corso) di instabilità regionale. L’invasione dell’Iraq ha destabilizzato l’intera regione del Medio Oriente, creando un vuoto di potere che ha permesso la nascita di gruppi estremisti come lo Stato islamico (ISIS) Creando al contempo tensioni tra i paesi dell’Occidente e quelli musulmani, alimentando il sentimento anti-occidentale in molte parti del mondo.

Una quarta ragione, infine, è data dai dubbi sulla legittimità dell’azione militare. La guerra in Iraq ha diviso l’opinione pubblica sia negli Stati Uniti che in Europa. L’assenza di un mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU e la mancanza di una minaccia imminente alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti hanno portato molti a chiedere il perché dell’avvio della guerra.

E ancora oggi, per fortuna, la guerra in Iraq continua a suscitare dibattiti sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo e sulla giustificazione delle azioni militari unilaterali.

Le conseguenze della guerra in Iraq continuano ad avere ripercussioni sul Medioriente?

La guerra in Iraq, iniziata vent’anni fa, è un punto di rottura sul piano delle relazioni internazionali e una svolta su quello degli equilibri geopolitici a livello regionale e globale. Un fatto storico che ha determinato l’impossibilità di ritorno all’ordine internazionale precedente, come quello della Guerra Fredda o del primo periodo post-Guerra Fredda.

Parliamo di cambiamenti irreversibili tanto da determinare ancora oggi i ritmi della politica regionale e le scelte in campo internazionale in cui giocano ora tre attori determinanti: Stati Uniti, Russia e Cina che determinano e sono condizionati dalla conflittualità competitiva tra  Arabia Saudita e Iran e dalle dinamiche di allineamento degli altri attori minori che , a cui altri attori sono obbligati ad adattarsi; e nelle sue istituzioni regionali, che mostrano tutti marcati cambiamenti e nuovi orientamenti. Al contempo non dobbiamo dimenticare il ruolo di influenza, non marginale, che la guerra in Iraq ha avuto sui fenomeni rivoluzionari e insurrezionali delle cosiddette Primavere arabe che si sarebbero sviluppati dopo pochi anni.

L’invasione dell’Iraq ha rappresentato un punto di rottura nell’ordine internazionale e ha portato a rapidi cambiamenti negli equilibri di potere regionali, che hanno costretto alla diversificazione delle alleanze e dei quadri istituzionali. Ciò è stato dimostrato dagli eventi più recenti, come la dipendenza dalla Cina e dalla Russia per le forniture di vaccini durante la pandemia di COVID-19 e l’emergere di nuove relazioni internazionali, come quella tra Iran e Russia e quella tra gli stati arabi e Israele riflessa negli accordi di Abramo del 2020. La guerra in Ucraina ha dimostrato come gli stati arabi filo-occidentali si siano astenuti dal criticare l’invasione russa, mentre altri stati si sono avvicinati a Mosca.

Qual è oggi la situazione dell’Iraq, sia a livello politico che di sicurezza?

L’Iraq è un paese in difficoltà, ma ci sono anche segnali di progresso. La situazione politica e di sicurezza rimane instabile, ma ci sono sforzi in corso per migliorare la situazione.

L’instabilità politica e di sicurezza evidenzia il permanere di numerosi problemi da affrontare e risolvere. Sul piano politico, il paese ha affrontato numerose crisi, compresa la recente crisi costituzionale del 2019-2020, caratterizzata da proteste popolari e dimissioni di funzionari governativi. Inoltre, la situazione è complicata dalla divisione tra le fazioni politiche e le tensioni etniche e religiose.

Dal punto di vista della sicurezza, l’Iraq si trova ancora sotto la minaccia del terrorismo e delle milizie armate. Sebbene lo Stato Islamico sia stato sconfitto in gran parte del paese, ancora perpetrano attacchi terroristici. Inoltre, le milizie armate filo-iraniane ancora presenti, rappresentano una minaccia per la stabilità del paese.

L’Iraq ha anche affrontato una serie di sfide economiche e sociali, inclusa la carenza di servizi essenziali, la disoccupazione e la corruzione. Tuttavia, il paese ha anche fatto progressi in alcuni settori, come l’energia, e sta cercando di attirare investimenti stranieri per stimolare la crescita economica.

In tale contesto non dobbiamo sottovalutare l’assertività di tre importanti attori: Russia, Cina e Iran, che cercando di aumentare la loro influenza in Iraq attraverso diverse azioni.

In primo luogo, la Russia sta cercando di espandere la sua presenza economica in Iraq, soprattutto nel settore energetico. Mosca ha stretto accordi con il governo iracheno per l’estrazione di petrolio e gas, e ha fornito assistenza militare sotto forma di armi e consiglieri militari.

Anche la Cina sta cercando di espandere la propria influenza economica e commerciale, offrendo investimenti e assistenza tecnica in diversi settori. Pechino ha inoltre stretto accordi energetici con l’Iraq, e ha recentemente firmato un accordo per costruire una linea ferroviaria ad alta velocità tra Baghdad e Basra.

L’Iran, invece, ha mantenuto una forte presenza politica, economica e militare, e ha sostenuto attivamente il governo iracheno nella lotta contro l’ISIS poi evoluto nel fenomeno “Stato islamico” dal 2014. Teheran ha inoltre stretto accordi commerciali e di sicurezza con il governo iracheno, e ha supportato diverse milizie sciite in Iraq.

In generale, i tre paesi cercano di aumentare la loro influenza nel paese attraverso investimenti, aiuti economici e militari, e accordi commerciali. Tuttavia, la presenza e l’influenza degli Stati Uniti in Iraq rimane forte, e gli sforzi di Russia, Cina e Iran potrebbero essere ostacolati da una crescente opposizione irachena alle ingerenze straniere.

Timeline della guerra in Iraq (CNN)

CNN (original article) — Here’s a look at the Iraq War which was known as Operation Iraqi Freedom until September 2010, when it was renamed Operation New Dawn. In December 2011, the last US troops in Iraq crossed the border into Kuwait, marking the end of the almost-nine year war.

October 16, 2002 – US President George W. Bush signs a congressional resolution authorizing him to go to war if Iraqi President Saddam Hussein refuses to give up weapons of mass destruction in compliance with United Nations Security Council resolutions.

November 8, 2002 – The UN Security Council adopts Resolution 1441, giving Iraq a final chance to comply with its “disarmament obligations” and outlining strict new weapons inspections with the goal of completing the disarmament process. The resolution threatens “serious consequences” as a result of Iraq’s “continued violations of its obligations.”

February 5, 2003 – US Secretary of State Colin Powell makes the case to the UN that Hussein poses an imminent threat.

February 14, 2003 – UN Chief Weapons Inspector Hans Blix reports to the UN Security Council that his team has found no weapons of mass destruction in Iraq.

March 17, 2003 – Bush issues an ultimatum to Hussein and his family – leave Iraq within 48 hours or face military action.

March 19, 2003 – Bush announces US and coalition forces have begun military action against Iraq.

March 20, 2003 – Hussein speaks on Iraqi TV, calling the coalition’s attacks “shameful crimes against Iraq and humanity.”

April 9, 2003 – Coalition forces take Baghdad. A large statue of Hussein is toppled in Firdos Square. The White House declares “the regime is gone.”

April 13, 2003 – Seven US prisoners of war are rescued by US troops.

May 1, 2003 – Speaking on the USS Abraham Lincoln, Bush declares “major combat operations” over, although some fighting continues.

May 22, 2003 – The UN Security Council approves a resolution acknowledging the US and Great Britain’s right to occupy Iraq.

July 22, 2003 – Hussein’s sons, Uday and Qusay, are killed by US forces.

December 13, 2003 – Hussein is captured in Tikrit.

June 28, 2004 – The handover of sovereignty to the interim Iraqi government takes place two days before the June 30 deadline previously announced by the US-led coalition.

June 30, 2004 – The coalition turns over legal control of Hussein and 11 other former top Iraqi officials to the interim Iraqi government. The United States retains physical custody of the men.

July 1, 2004 – Hussein makes his first appearance in court. He is charged with a variety of crimes, including the invasion of Kuwait and the gassing of the Kurds.

September 6, 2004 – The number of US troops killed in Iraq reaches 1,000.

November 2004 – US and Iraqi forces battle insurgents in Falluja. About 2,000 insurgents are killed. On November 14, Falluja is declared to be liberated.

October 25, 2005 – The number of US troops killed in Iraq reaches 2,000.

November 19, 2005 – At least 24 Iraqi civilians, including women and children, are killed in Haditha. Eight US Marines faced charges in the deaths, but only one was convicted of a crime, that of negligent dereliction of duty.

November 5, 2006 – The Iraqi High Tribunal reaches a verdict in the 1982 Dujail massacre case. Hussein is found guilty and sentenced to death by hanging, pending appeal.

December 30, 2006 – Hussein is hanged.

December 30, 2006 – The number of US troops killed in Iraq reaches 3,000.

January 10, 2007 – A troop surge begins, eventually increasing US troop levels to more than 150,000.

September 3, 2007 – Basra is turned over to local authorities after British troops withdraw from their last military base in Iraq to an airport outside the city.

March 22, 2008 – The number of US troops killed in Iraq reaches 4,000.

July 16, 2008 – The surge officially ends, and troop levels are reduced.

December 4, 2008 – The Iraqi Presidential Council approves a security agreement that paves the way for the United States to withdraw completely from Iraq by 2011.

January 1, 2009 – The US military hands over control of Baghdad’s Green Zone to Iraqi authorities.

February 27, 2009 – US President Barack Obama announces a date for the end of US combat operations in Iraq: August 31, 2010.

June 30, 2009 – US troops pull back from Iraqi cities and towns and Iraqi troops take over responsibility for security operations.

August 19, 2010 – The last US combat brigade leaves Iraq. A total of 52,000 US troops remain in the country.

September 1, 2010 – Operation Iraqi Freedom is renamed Operation New Dawn to reflect the reduced role US troops will play in securing the country.

May 22, 2011 – The last British military forces in Iraq, 81 Royal Navy sailors patrolling in the Persian Gulf, withdraw from the country. A total of 179 British troops died during the country’s eight-year mission in Iraq.

October 17, 2011 – A senior US military official tells CNN that the United States and Iraq have been unable to come to an agreement regarding legal immunity for US troops who would remain in Iraq after the end of the year, effectively ending discussion of maintaining an American force presence after the end of 2011.

October 21, 2011 – Obama announces that virtually all US troops will come home from Iraq by the end of the year. According to a US official, about 150 of the 39,000 troops currently in Iraq will remain to assist in arms sales. The rest will be out of Iraq by December 31.

December 15, 2011 – American troops lower the flag of command that flies over Baghdad, officially ending the US military mission in Iraq.

December 18, 2011 – The last US troops in Iraq cross the border into Kuwait.