Iran, Pro-government Protest Rally In Tehran

L’arsenale militare iraniano: potenza apparente, limiti strutturali, minaccia asimmetrica

di Claudio Bertolotti, dall’intervista a Lorenzo Santucci, per Huffington Post Italia.

Il commento di C. Bertolotti per START InSight e Huffington Post.

Nonostante una narrazione che tende a enfatizzarne la forza, l’arsenale militare iraniano è segnato da forti limiti strutturali, in particolare nel dominio della guerra convenzionale. Il comparto aeronautico, ad esempio, si basa ancora in gran parte su tecnologie risalenti agli anni ’70, risalenti al periodo pre-rivoluzionario e acquisite durante il regno dello Scià. Ne fanno parte aerei da combattimento come gli F-4 Phantom, gli F-5 e alcuni F-14 Tomcat, mantenuti operativi con difficoltà grazie a reverse engineering, cannibalizzazione di pezzi di ricambio e una rete industriale interna che ha cercato di supplire alla mancanza di accesso ai mercati globali per via dell’embargo.

La potenza missilistica: la vera carta strategica

Il vero elemento di deterrenza e di proiezione di forza per Teheran risiede nella componente missilistica. Secondo stime attendibili, l’Iran dispone di oltre 3.000 missili balistici, il che ne fa una delle più imponenti potenze missilistiche del Medio Oriente. Questi vettori includono una gamma diversificata di missili a corto e medio raggio (come i Fateh-110, Zolfaghar, Shahab-3 e Sejjil), capaci di colpire bersagli a distanze comprese tra i 300 e i 2.000 km.

Dal punto di vista tecnico, questi missili sono spesso alimentati nella fase iniziale tramite razzi a propellente solido o liquido, ma non sono dotati di sistemi di guida o propulsione terminale, il che significa che, una volta raggiunto l’apogeo della traiettoria, ricadono “a caduta libera” sull’obiettivo. Questa caratteristica riduce la precisione rispetto ai più sofisticati sistemi occidentali o russi, ma resta comunque efficace se usata su obiettivi di area o in una logica di saturazione.

Tecnologia obsoleta, ma strategia moderna

A dispetto dell’obsolescenza tecnologica in molte componenti convenzionali (carri armati, aerei, difesa antiaerea), l’Iran ha saputo adattarsi a una logica di guerra asimmetrica e ibrida. Il know-how sviluppato sul terreno (soprattutto in Siria, Iraq, Libano e Yemen) e il ricorso a proxy armati ben addestrati e forniti, ha trasformato il potenziale militare iraniano in una minaccia diluita, flessibile e difficilmente neutralizzabile con la sola superiorità aerea.

In particolare, i programmi missilistici sono accompagnati dallo sviluppo di droni d’attacco e di sorveglianza (come i Mohajer e i Shahed), utilizzati sia direttamente sia forniti a forze alleate (Hezbollah, Hamas, milizie sciite irachene, Houthi). Questi strumenti hanno dimostrato una crescente efficacia, sia in termini tattici che simbolici.

Conclusione: una minaccia non convenzionale

L’Iran non può competere direttamente con le potenze regionali o globali sul piano convenzionale, ma ha saputo sviluppare un arsenale che, sebbene basato in larga parte su tecnologia obsoleta, rappresenta una minaccia significativa in chiave asimmetrica e strategica. I suoi missili balistici, in particolare, costituiscono un elemento chiave nella dottrina della deterrenza offensiva, in grado di colpire obiettivi critici in tutta la regione. La crescente interconnessione tra capacità missilistiche, droni e rete di proxy regionali moltiplica il potenziale distruttivo dell’Iran, compensando in parte le lacune della sua forza convenzionale.


Attacco (preventivo) all’Iran: il commento di C. Bertolotti a SKY TG24.

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervento di C. Bertolotti a SKY TG 24 (puntata del 14 giugno 2025)

Il contesto strategico: tra minaccia esistenziale e deterrenza nucleare

Il quadro delle tensioni tra Iran e Israele è definito, da anni, da un equilibrio instabile in cui la minaccia percepita e quella effettiva si sovrappongono. Il primo elemento essenziale riguarda la strategia iraniana: Teheran ha come obiettivo dichiarato la distruzione dello Stato di Israele. Per perseguirlo, ha costruito nel tempo un doppio pilastro offensivo. Da un lato, il potenziamento di un arsenale missilistico che mira alla saturazione delle difese israeliane, e che — secondo diverse fonti — potrebbe in prospettiva integrare anche capacità nucleari. Dall’altro lato, l’Iran ha consolidato una rete regionale di alleati e milizie, il cosiddetto “Asse della Resistenza”, che include attori come Hezbollah in Libano, Hamas e la Jihad Islamica Palestinese a Gaza, oltre ai proxy operativi in Siria, Iraq e Yemen. Questo dispositivo consente a Teheran di minacciare Israele da più direzioni in modo simultaneo, accrescendo il rischio strategico percepito da Gerusalemme.

Israele e la dottrina dell’attacco preventivo

Di fronte a questa minaccia multiforme e crescente, Israele si muove secondo una dottrina strategica che interpreta la propria sopravvivenza come una condizione esistenziale da tutelare con ogni mezzo disponibile. Ne deriva un principio operativo chiaro: la difesa preventiva, o “preemptive strike”. Israele ritiene infatti di non potersi permettere un conflitto totale innescato da un attacco combinato dell’asse sciita guidato da Teheran. In tale ottica, l’azione militare israeliana non è solo una reazione, ma un gesto strategicamente anticipatorio, finalizzato a neutralizzare — o almeno degradare — le capacità offensive del nemico prima che queste siano effettivamente impiegate.

Il ruolo degli Stati Uniti e la pressione regionale sull’Iran

Il terzo elemento che struttura questo equilibrio è rappresentato dalla posizione americana. Gli Stati Uniti sostengono in modo pressoché incondizionato Israele, ritenendolo non solo un alleato storico, ma anche uno strumento per contenere l’influenza regionale dell’Iran. Washington, inoltre, mira a rafforzare il blocco sunnita, in particolare l’Arabia Saudita, come contrappeso strategico all’espansionismo iraniano. Questo approccio ha avuto ripercussioni anche sul dossier nucleare, in particolare sul futuro del JCPOA, il patto di non proliferazione con l’Iran. Se fino a pochi giorni prima degli eventi del 13–14 giugno i negoziati erano tecnicamente ancora aperti, dopo l’attacco israeliano e la reazione iraniana, la situazione è precipitata, con la sospensione ufficiale dei colloqui da parte di Teheran.

In tale contesto, hanno assunto particolare rilevanza gli allarmi lanciati dal Direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Rafael Grossi. Grossi ha infatti denunciato il continuo arricchimento dell’uranio da parte iraniana a livelli del tutto incompatibili con un uso civile dell’energia nucleare. L’arricchimento a concentrazioni elevate di U-235 — più complesse da ottenere e più onerose in termini tecnici e logistici — non trova giustificazione nel contesto energetico dichiarato da Teheran, rafforzando i sospetti sulla volontà di sviluppare una capacità nucleare a fini militari.

Non si tratterebbe, dunque, di una mera strategia di deterrenza, ma piuttosto di uno strumento di minaccia diretta, coerente con la retorica iraniana di distruzione di Israele. In questo scenario, il ruolo degli alleati di prossimità dell’Iran — da Hezbollah a Hamas, fino ai ribelli Houthi in Yemen — si configura come parte integrante di una strategia offensiva regionale multilivello. È proprio per questo che Israele ha colpito duramente non solo le infrastrutture iraniane, ma anche i terminali operativi di questa rete di proxy armati, interpretandoli come appendici militari funzionali alla strategia nucleare e missilistica di Teheran.

Dall’attacco del 13 giugno alla nuova normalità della guerra sotto soglia

L’operazione israeliana del 13 giugno 2025, denominata “Rising Lion”, ha segnato un salto di qualità nella dottrina dell’attacco preventivo. Circa 200 velivoli, tra caccia e droni, hanno colpito più di cento obiettivi in Iran, tra cui impianti nucleari (Natanz, Fordow, Arak), centri di comando dei Pasdaran e residenze di scienziati legati al programma atomico. Il bilancio è stato pesante: decine di vittime civili e la morte di figure chiave come il comandante della Guardia Rivoluzionaria Hossein Salami. In risposta, Teheran ha lanciato l’operazione “True Promise III”, con oltre 150 missili e un centinaio di droni diretti verso Israele. Le difese israeliane e americane (Iron Dome e THAAD) sono riuscite a intercettare la maggior parte delle minacce, ma alcuni ordigni hanno colpito Tel Aviv e Gerusalemme, causando danni e vittime.

La dinamica che si è delineata rappresenta una tipica forma di conflitto “sotto soglia”: entrambe le parti mantengono la capacità di colpire e rispondere, senza però oltrepassare la linea di una guerra aperta e su vasta scala. Questo equilibrio instabile, alimentato dalla saturazione dei sistemi difensivi, dalla guerra informativa e dal fallimento della diplomazia nucleare, rischia di cristallizzarsi come una nuova forma di normalità strategica nella regione.


Le rivolte a Los Angeles e il nuovo fronte della guerra irregolare

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti

La guerra irregolare (Irregular Warfare, IW) è comunemente intesa come un conflitto in cui la posta in gioco non è necessariamente il controllo del territorio o la superiorità militare convenzionale, bensì la legittimità, l’influenza e il controllo delle popolazioni. Tradizionalmente associata a insurrezioni, tattiche di guerriglia e attori non statali, la guerra irregolare si è evoluta in forme sempre più complesse e ibride, specialmente all’interno delle società democratiche. Se osservata attraverso questa lente contemporanea, le tensioni che si stanno sviluppando a Los Angeles tra gli “Angelinos”, le autorità locali e il governo federale possono essere interpretate come una forma domestica di guerra irregolare.

Al centro del conflitto vi è una lotta fondamentale per la legittimità e la sovranità. Los Angeles, come altre “giurisdizioni santuario”, ha attivamente sfidato l’applicazione delle leggi federali sull’immigrazione, ha rifiutato di cooperare con alcune direttive del Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) e si è opposta a iniziative di controllo del crimine percepite come ingiuste o discriminatorie. Queste azioni non riflettono semplicemente divergenze politiche, ma una lotta ideologica più profonda su chi ha il diritto di governare e in che modo. Affermando norme di governance locali in contrasto con i mandati federali, Los Angeles mette in discussione la supremazia del governo federale sul proprio territorio—un comportamento strategico che richiama quello degli attori irregolari intenzionati a delegittimare l’autorità centrale.

Fondamentale è l’impiego di metodi asimmetrici. Invece di una resistenza armata, le autorità di Los Angeles utilizzano strumenti di guerra legale (“lawfare”), resistenza burocratica e comunicazione pubblica. Causa strategiche, inadempienze municipali, discrezionalità nell’azione penale e ordinanze a protezione dei residenti “undocumented” rappresentano strumenti di resistenza analoghi a quelli con cui le forze irregolari utilizzano il terreno, il tempo e modalità non convenzionali per eludere forze superiori. Questa insorgenza burocratica non mira a rovesciare lo Stato, ma a ridefinire i confini dell’autorità federale dall’interno.

Tuttavia, il conflitto non è rimasto confinato al piano legale o retorico. Negli ultimi giorni ha assunto una dimensione cinetica, con scontri fisici tra agenti federali, manifestanti, organizzazioni comunitarie e persino le forze dell’ordine municipali durante retate e operazioni di polizia. Questi confronti—che talvolta degenerano in rivolte, arresti di massa o dispersioni violente—richiamano le realtà tattiche della guerra irregolare, in cui il controllo dello spazio urbano diventa un indicatore di legittimità. Il dispiegamento di unità federali militarizzate nei quartieri cittadini, spesso senza il consenso o la collaborazione delle autorità locali, intensifica la percezione di “occupazione”, provocando resistenza spontanea o organizzata da parte dei civili. Questa escalation nel confronto fisico offusca il confine tra applicazione della legge e coercizione politica—una dinamica tipica dei conflitti ibridi in cui lo Stato stesso appare frammentato e contestato.

Ugualmente centrale è la guerra narrativa. Le autorità federali dipingono Los Angeles come una città “senza legge”, ostaggio del crimine e del disordine, mentre le autorità locali si presentano come difensori della dignità umana, dei diritti civili e della giustizia morale. Queste narrazioni opposte non sono un elemento accessorio, ma rappresentano il cuore del conflitto, poiché entrambe le parti cercano di conquistare il sostegno dell’opinione pubblica. Nella guerra irregolare, la vittoria si misura spesso non sul campo di battaglia, ma nella capacità di conquistare le menti e i cuori della popolazione. Sotto questo profilo, il caso di Los Angeles rientra pienamente nelle dimensioni psicologiche e informative della guerra irregolare.

Inoltre, questo confronto coinvolge una rete complessa di attori non tradizionali. Organizzazioni della società civile, reti di attivisti, gruppi di assistenza legale e persino comunità religiose hanno assunto funzioni quasi politiche e protettive, occupando ruoli normalmente riservati alle istituzioni statali. I loro sforzi coordinati per ostacolare l’applicazione delle norme federali e offrire forme alternative di governance e giustizia sono tratti distintivi del conflitto irregolare, dove la legittimità è contesa non solo con la forza, ma anche attraverso istituzioni concorrenti.

In conclusione, pur in assenza di eserciti convenzionali o milizie, Los Angeles rappresenta un campo di battaglia contemporaneo della guerra irregolare—uno in cui la legge, l’identità, la narrativa e, in certi casi, la forza fisica, sono le armi principali. Con l’evolversi della natura del conflitto nelle democrazie liberali, diventa sempre più evidente che la guerra irregolare non è più confinata a insurrezioni lontane o Stati falliti. Essa si sta svolgendo nei paesaggi politici contesi di città come Los Angeles, dove la posta in gioco non è solo una politica pubblica, ma la definizione stessa di sovranità, legittimità e giustizia nel XXI secolo.


BYE BYE ELON.L’addio di Musk tra riforme e controversie

di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).

Da oggi Elon Musk torna in Texas per occuparsi finalmente a tempo pieno delle sue società. Le dimissioni da DOGE (Dipartimento per l’Efficienza Governativa) rispettando il limite legale di 130 giorni previsto per i “dipendenti governati speciali”. Il mandato, iniziato il 20 gennaio 2025, subito dopo l’insediamento dell’amministrazione Trump si è concluso ieri e da oggi Musk torna in Texas ad occuparsi delle sue società.

Persona controversa soprattutto per intrattenere una vita privata particolare, nonostante i suoi successi in ambito tecnologico, è ora al centro di numerose critiche che affondano soprattutto nei numeri. Infatti, inizialmente, Musk aveva promesso durante la campagna elettorale di essere in grado di diminuire i costi del governo federale statunitense di ben 3.000 miliardi di dollari, poi è sceso a 2 e infine oggi si chiude la sua esperienza con 170 mila miliardi, che qualunque sia il parere è certamente un traguardo. La delusione ovviamente c’è, viste le altisonanti promesse e l’assenza nel compimento di queste. Tuttavia, l’idea di alleggerire la burocrazia, di smascherare le frodi, e cancellare programmi assolutamente inutili è un argomento che qualsiasi cittadino nel mondo apprezza, visto che sono le nostre tasse a supportare queste spese.

In 130 giorni il comitato ha collaborato con diverse branche dell’esecutivo entrando come consulente con l’obbiettivo di eseguire quanto descritto. Alcuni ministeri come quello degli Affari Esteri, ha visto la cancellazione di programmi che sponsorizzavano frivolezze e ideologie in paesi all’estero assolutamente inutili. Per citarne alcuni:

  • $2 milioni per corsi di ceramica in Marocco.
  • $1 milione per sostenere i sindacati in Sudan.
  • $6 milioni per aumentare il turismo in Egitto.
  • $2,5 milioni per veicoli elettrici in Vietnam.
  • $15 milioni per preservativi distribuiti ai Talebani
  • $446,700 per promuovere l’ateismo in Nepal
  • $20 milioni per “Sesame Street” in Iraq.

Dopo USAID, Doge si è concentrato sul dipartimento della Social Security (la previdenza sociale) che ha generato proteste in tutto il paese tanto da causare un’ingiunzione da parte di un giudice federale che ha temporaneamente bloccato Doge dall’accesso ai sistemi della Social Security perché contenenti dati sensibili di milioni di americani, e definendo questo lavoro una “caccia alle streghe”. L’ordinanza di marzo scorso includeva la richiesta di cancellare qualsiasi dato identificabile dove, sempre secondo il giudice Ellen Hollander non c’erano prove sufficienti di frode o spreco. Seppure i casi effettivi di frode nel sistema pensionistico americano fossero significativamente inferiori rispetto a quanto inizialmente riportato, la meccanizzazione e il suo ammodernamento sono stati sicuramente benefici.

Quali frodi?

Frode telefoniche: DOGE sostiene che il 40% delle richieste telefoniche all’Amministrazione della Social Security (SSA) era fraudolento. Tuttavia, i dati interni della SSA hanno rivelato che meno dell’1% delle oltre 110.000 richieste telefoniche esaminate è stata contrassegnata come potenzialmente fraudolenta.

 Beneficiari deceduti: Elon Musk ha evidenziato la presenza di 20 milioni di persone decedute registrate come vive nel database della SSA. Sebbene il dato fosse corretto, inseguito è stato possibile verificare che tali registri non ricevevano benefici, e le anomalie erano causate da sistemi di codifica obsoleti, piuttosto che da frodi attive.

Beneficiari con età avanzata: DOGE ha anche trovato che erano registrati beneficiari con 150 anni o più d’età. Tuttavia, questa situazione è stata attribuita a un malinteso relativo al sistema COBOL della SSA, che, quando manca una data di nascita, imposta una data di riferimento predefinita, generando età improbabili.

Impatti delle azioni di DOGE

Nonostante l’obiettivo di ridurre frodi e inefficienze, le riforme promosse da DOGE hanno avuto conseguenze non previste:

Ritardi operativi: L’introduzione di controlli antifrode ha rallentato del 25% l’elaborazione delle richieste di benefici, provocando ritardi significativi per i beneficiari.

Riduzione del personale: Con una riduzione del 12% del personale della SSA e la chiusura di diversi uffici, i dipendenti rimasti hanno dovuto affrontare un carico di lavoro maggiore, con un impatto negativo sulla qualità del servizio offerto.

Nell’esercizio di trovare altre problematiche quello che è balzato quasi subito all’inizio dei lavori, è stata la scoperta sull’inefficienza del sistema di pensionamento per i dipendenti federali. Avendo molti dipendenti federali, deciso di accettare l’offerta di Musk di andare in prepensionamento hanno creato un ingolfamento nel sistema che ha messo in luce che normalmente ci vogliono sei mesi di passacarte dal giorno della domanda. Grazie a Doge si è scoperto il perché.

Scoperta dell’archivio sotterraneo e inefficienze nel sistema di pensionamento

Musk ha evidenziato l’esistenza di un archivio sotterraneo in una vecchia miniera di calcare a Boyers, Pennsylvania, noto come Iron Mountain, dove venivano conservati i documenti cartacei relativi alle pensioni dei dipendenti federali. Questo sistema antiquato comportava ritardi significativi nel trattamento delle richieste, con un numero limitato di pensionamenti processati mensilmente. Musk ha definito questa situazione come un “salto nel passato” definendolo preistorico tanto fosse inadeguato e inefficiente.

Transizione al sistema digitale

In risposta a questa situazione, DOGE ha avviato un’iniziativa per digitalizzare completamente il processo di richiesta delle pensioni. A partire dal 2 giugno 2025, l’Office of Personnel Management (OPM) ha iniziato a elaborare tutte le nuove richieste di pensionamento in formato digitale, con l’intenzione di cessare l’accettazione di documenti cartacei dal 15 luglio 2025. Questa mossa mirava a velocizzare i tempi di elaborazione e a ridurre i costi. Business Insider

Impatti sul personale e sulle operazioni

Le riforme implementate da DOGE, tra cui la riduzione del personale e la chiusura di uffici regionali, hanno avuto impatti significativi sul funzionamento dell’Administration della Social Security (SSA). Le modifiche alle politiche hanno comportato un aumento dei tempi di attesa per l’elaborazione delle richieste di pensionamento e disabilità, con oltre 600.000 richieste in sospeso e più di un milione di casi post-entitlement ritardati. I critici sostengono che queste misure hanno causato più inefficienze, ritardi, e maggiori frustrazioni per il pubblico.

L’apparente addio è avvenuto venerdì, nello studio ovale dove Donald Trump ha ospitato una conferenza stampa con Elon Musk per informare ufficialmente la fine del mandato del miliardario come “consulente governativo speciale” alla guida del cosiddetto “Dipartimento per l’Efficienza Governativa”.

La partenza di Musk arriva dopo settimane di crescente pressione riguardo alla sua gestione del dipartimento, durante la quale ha ridotto migliaia di posti di lavoro, risorse e spese pubbliche.

Ecco i principali spunti dell’evento:

1. “Elon non sta andando via per sempre”, afferma Trump

Musk “non sta andando via definitivamente” e molti membri del suo team resteranno nell’amministrazione, ha dichiarato Trump ai giornalisti, nella giornata degli addii ufficiali.

“Elon, – ha detto Trump – verrà e andrà; questa è una sua creatura, e penso che farà molte cose”.

Successivamente, Musk ha dichiarato: “Le mie dimissioni non sono la fine di DOGE, ma un inizio”, aggiungendo che continuerà a visitare la Casa Bianca come “amico e consigliere” del presidente. “Spero poter continuare a dare consigli al presidente ogni volta che lo desideri”, ha detto Musk.

2. Entrambi minimizzano le voci su un conflitto

Trump ha elogiato Musk come “uno dei più grandi leader aziendali e innovatori che il mondo abbia mai prodotto” e ha tributato un sentito omaggio agli sforzi “rivoluzionari e consequenziali” del miliardario per ridurre la forza lavoro federale e il peso del governo.

Gli elogi sicuramente lusinghieri arrivano pochi giorni dopo che Musk ha pubblicamente criticato il piano fiscale di Trump, affermando che la legge di bilancio “mina il lavoro che il team di DOGE sta facendo”. I commenti di Musk sembrano non aver creato alcun senso di frizione tra lui e il presidente, a dimostrarlo infatti è stata la consegna da parte di Trump a Musk di una grande chiave dorata con l’emblema della Casa Bianca, un oggetto simbolico riservato per le “persone davvero speciali” come ringraziamento per il lavoro svolto per il Paese.

3. Musk evita una domanda sull’uso di droghe

Musk ha evitato una domanda sul suo presunto consumo di droghe, liquidando l’argomento e accusando il New York Times di diffondere “bugie” sul Russiagate. Secondo il Times, Musk avrebbe fatto uso regolare di ketamina, ecstasy e funghi psichedelici durante la sua ascesa politica, con il consumo di ketamina a livelli preoccupanti.

Il bilancio del lavoro di Elon Musk alla guida del Department of Government Efficiency (DOGE) risulta complesso e controverso, con elementi positivi e negativi.

Punti Positivi:

  • Innovazioni e Ottimizzazioni: Musk ha portato a una ristrutturazione significativa dei processi governativi, cercando di ridurre gli sprechi e ottimizzare i costi. Ha affrontato la questione dell’inefficienza del governo e cercato di modernizzare la burocrazia, pur affrontando numerose difficoltà.
  • Impatto sull’innovazione tecnologica: Musk ha promosso l’uso della tecnologia, inclusi gli sforzi per digitalizzare i sistemi, migliorando la trasparenza e la gestione dei dati pubblici.

Punti Negativi:

  • Sprechi e Impatti sui Servizi: Le sue riforme, sebbene mirassero alla riduzione della spesa, hanno portato a tagli di personale significativi che hanno causato rallentamenti e qualità nei servizi, con ritardi e inefficienze.
  • Problemi di Privacy e Sicurezza: Le accuse di violazioni della privacy e le preoccupazioni riguardo alla gestione dei dati sensibili sono state un altro punto controverso.
  • Critiche alle sue Promesse: Le sue ambizioni di tagliare sprechi per una cifra favolosa non si è avverato.

Conclusione:

Il lavoro di Musk come capo di DOGE ha avuto un impatto misto. Sebbene abbia introdotto alcune innovazioni positive, la sua gestione è stata segnata da controversie legate a inefficienze operative, violazioni della privacy e difficoltà nella realizzazione delle sue promesse. Se da un lato ha cercato di migliorare l’efficienza, dall’altro ha generato incertezze e malcontento, con conseguenze negative per i beneficiari dei servizi pubblici e sicuramente nonostante la sbandierata trasparenza nei contenuti che è ammirevole, rimangono impresse le immagini negative di lui sul palco con una sega a motore. Un po’ troppo?


I pericoli di una guerra tra Israele e Giordania

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Una guerra tra Israele e Giordania rimane uno scenario improbabile ma potenzialmente catastrofico. Dal trattato di pace del 1994, i due Paesi hanno mantenuto una cooperazione diplomatica e di sicurezza, rendendo un conflitto armato poco realistico. Tuttavia, il Medio Oriente è una regione dove le tensioni possono degenerare rapidamente, e in caso di guerra, le conseguenze sarebbero profonde, andando ben oltre il campo di battaglia e ridisegnando gli equilibri regionali e globali.

Dal punto di vista militare, Israele detiene un vantaggio schiacciante. La sua forza aerea all’avanguardia, i sofisticati sistemi di difesa missilistica e le capacità di guerra cibernetica lo rendono una delle potenze militari più avanzate al mondo. L’esercito giordano, pur essendo professionale e ben addestrato, non ha la potenza offensiva e il livello tecnologico necessari per sostenere una guerra prolungata contro Israele. Sebbene il territorio montuoso della Giordania possa offrire qualche vantaggio difensivo, le sue principali città e infrastrutture sarebbero altamente vulnerabili agli attacchi aerei israeliani. D’altra parte, le città israeliane come Tel Aviv e Gerusalemme sarebbero nel raggio d’azione dei missili giordani, ma la difesa missilistica israeliana, come l’Iron Dome, riuscirebbe probabilmente a neutralizzare gran parte della minaccia.

Se una guerra dovesse scoppiare sotto un’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, lo scenario geopolitico cambierebbe radicalmente. Trump ha dimostrato in passato un sostegno incondizionato a Israele, spostando l’ambasciata americana a Gerusalemme e riconoscendo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. In caso di conflitto, Washington si schiererebbe quasi certamente con Israele, fornendo supporto militare, bloccando iniziative diplomatiche per moderarne le azioni e facendo pressione sulla Giordania affinché de-escalasse rapidamente. Questa posizione potrebbe incoraggiare la leadership israeliana a proseguire le operazioni belliche senza cercare una soluzione negoziata immediata, prolungando così il conflitto. Allo stesso tempo, tale politica alienerebbe ulteriormente gli alleati arabi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mettendoli in una posizione difficile: da un lato il sostegno diplomatico alla Giordania, dall’altro la necessità di preservare le proprie relazioni con Israele.

Le conseguenze economiche di un tale conflitto sarebbero devastanti. La Giordania, già dipendente dagli aiuti esteri e dalla cooperazione economica con Israele, subirebbe danni enormi, con la distruzione delle infrastrutture e il collasso del commercio. Israele, pur avendo un’economia più solida, vedrebbe comunque una forte instabilità nei mercati, un crollo del turismo e possibili interruzioni nei settori tecnologico e della difesa. Se il conflitto si espandesse, le ripercussioni si farebbero sentire anche sul mercato globale del petrolio, causando un’impennata dei prezzi e nuove turbolenze economiche. Oltre agli effetti militari ed economici, uno degli aspetti più preoccupanti di un conflitto tra Israele e Giordania sarebbe la recrudescenza del terrorismo internazionale.

La storia ha dimostrato come la guerra e l’instabilità in Medio Oriente rappresentino un terreno fertile per i gruppi jihadisti, e una guerra tra questi due Paesi potrebbe aprire la strada a nuove offensive terroristiche. L’ISIS-K, già in espansione, potrebbe approfittare del caos per rafforzarsi e lanciare attacchi sia in Israele che in Giordania, utilizzando il conflitto come strumento di propaganda e reclutamento.

Inoltre, il rischio di attentati in Europa, negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali aumenterebbe, alimentato dalla radicalizzazione generata dal conflitto. L’eventualità di una nuova ondata di terrorismo globale costringerebbe i governi a rivedere le loro strategie di sicurezza e a destinare ingenti risorse alla lotta contro il jihadismo. Gli esiti possibili di un tale conflitto sono diversi. Uno scenario relativamente contenuto potrebbe portare a un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti o da potenze regionali come l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Tuttavia, se la guerra si prolungasse e altri attori esterni, come l’Iran, Hezbollah e le fazioni palestinesi, vi prendessero parte, il rischio di una più ampia escalation regionale diventerebbe concreto. La Giordania stessa potrebbe affrontare un periodo di grave instabilità politica, con il regime hashemita indebolito dal conflitto e minacciato da proteste interne o persino da un colpo di stato. Nel peggiore dei casi, la guerra potrebbe segnare l’inizio di una nuova era di caos nel Medio Oriente, rafforzando le organizzazioni estremiste e ridefinendo le alleanze regionali. Alla fine, una guerra tra Israele e Giordania sarebbe disastrosa per entrambi i Paesi e per l’intera regione.

I costi strategici, economici e di sicurezza supererebbero di gran lunga qualsiasi possibile vantaggio, rendendo un conflitto su vasta scala altamente improbabile. Tuttavia, la storia ha dimostrato che errori di calcolo politici, provocazioni esterne o cambiamenti nelle alleanze possono portare nazioni apparentemente stabili verso la guerra. Anche se un conflitto aperto tra Israele e Giordania resta poco plausibile, il rischio di tensioni al confine, scontri indiretti e crisi diplomatiche non deve essere sottovalutato. L’unica vera soluzione rimane il dialogo e l’impegno diplomatico, perché l’alternativa—a un conflitto dalle conseguenze imprevedibili e devastanti—sarebbe una tragedia per l’intero Medio Oriente.


L’espansione nucleare cinese e il dilemma strategico dell’India.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Il recente rapporto dell’United States Peace Institute, “Assessing India’s Perceptions of China’s Nuclear Expansion”, getta nuova luce sulle crescenti preoccupazioni di Nuova Delhi riguardo all’ampliamento dell’arsenale nucleare cinese. Mentre Pechino rafforza il proprio deterrente strategico, l’India si trova ad affrontare un dilemma cruciale: come rispondere senza innescare una pericolosa corsa agli armamenti?

Secondo il rapporto, gli esperti indiani ritengono che l’espansione cinese sia guidata non solo da necessità di sicurezza, ma anche dal desiderio di consolidare il proprio status di superpotenza. La costruzione di nuovi silos missilistici e il rafforzamento delle capacità di secondo attacco rientrano in una strategia più ampia volta a contrastare gli Stati Uniti, con ripercussioni dirette anche sull’Asia meridionale. Questa evoluzione del panorama nucleare spinge l’India a riesaminare la propria dottrina di “No First Use” (NFU), che finora ha garantito stabilità ma potrebbe risultare obsoleta di fronte a una Cina più assertiva. Inoltre, l’approfondirsi del partenariato sino-pakistano in materia di difesa nucleare aggiunge un ulteriore livello di complessità, alimentando il timore di un doppio fronte strategico. La stretta cooperazione tra Pechino e Islamabad rappresenta una sfida significativa per Nuova Delhi, poiché potrebbe consentire al Pakistan di rafforzare il proprio arsenale con il supporto tecnologico cinese.

Questo scenario complica ulteriormente la posizione dell’India, che deve gestire contemporaneamente due rivali nucleari con una crescente coordinazione strategica. A livello diplomatico, Nuova Delhi deve affrontare una sfida difficile: mantenere un dialogo costruttivo con Pechino senza apparire debole agli occhi dei propri alleati e della comunità internazionale. L’India ha già intensificato i propri rapporti con il Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), un’alleanza informale con Stati Uniti, Giappone e Australia, per contrastare l’influenza cinese nella regione Indo-Pacifica. Tuttavia, questa strategia potrebbe aumentare le tensioni con Pechino, portando a una maggiore instabilità geopolitica. Un altro aspetto da considerare è il contesto più ampio dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), un gruppo che, pur rappresentando una piattaforma di cooperazione economica e politica tra potenze emergenti, è segnato da tensioni latenti. In particolare, la crescente asimmetria di potere tra India e Cina mina la coesione interna del gruppo, con Pechino che cerca di affermarsi come leader, spesso in contrasto con gli interessi strategici di Nuova Delhi.

Un altro fattore da considerare è il ruolo della deterrenza convenzionale. Sebbene l’India disponga di un arsenale nucleare credibile, la capacità di rispondere efficacemente a eventuali provocazioni cinesi dipende anche dalla modernizzazione delle forze armate convenzionali. L’incremento del budget per la difesa e l’acquisto di nuove tecnologie militari sono passi essenziali per garantire la sicurezza del paese senza ricorrere esclusivamente alla minaccia nucleare. Inoltre, l’India deve valutare la possibilità di rafforzare la propria presenza navale nell’Oceano Indiano, un’area strategicamente cruciale dove la Cina sta ampliando la sua influenza attraverso la Belt and Road Initiative e le basi militari nei paesi vicini. Allo stesso tempo, l’India deve affrontare il problema della proliferazione nucleare nella regione.

La cooperazione tra Cina e Pakistan in ambito nucleare desta notevoli preoccupazioni, soprattutto per il rischio che la tecnologia avanzata venga trasferita a gruppi non statali o utilizzata per scopi offensivi. Un rafforzamento della sicurezza alle frontiere e delle capacità di intelligence sarà fondamentale per prevenire potenziali minacce asimmetriche. Inoltre, Nuova Delhi deve lavorare a stretto contatto con i propri alleati per sviluppare strategie di contenimento e ridurre il rischio di instabilità regionale. Per evitare un’escalation, l’India deve bilanciare deterrenza e diplomazia. Rafforzare le proprie capacità missilistiche e di difesa senza compromettere il dialogo con Pechino sarà essenziale per garantire la sicurezza regionale.

Il mondo assiste a una trasformazione degli equilibri strategici, e la risposta di Nuova Delhi definirà il futuro della stabilità in Asia. Nel lungo periodo, la sfida più grande sarà quella di trovare un equilibrio tra la sicurezza nazionale e la cooperazione internazionale, evitando di cadere in una spirale di competizione nucleare senza fine. In definitiva, la strategia dell’India nei confronti dell’espansione nucleare cinese dovrà essere multidimensionale, combinando deterrenza, diplomazia e modernizzazione delle capacità difensive. Solo attraverso un approccio strategico complessivo sarà possibile affrontare questa sfida con successo, mantenendo la pace e la stabilità nella regione. La capacità di Nuova Delhi di gestire la crescente pressione strategica della Cina e del Pakistan definirà non solo il futuro della sicurezza indiana, ma anche l’equilibrio generale dell’Asia nel XXI secolo.


L’Italia in prima linea nel Sahel: sfide e opportunità dopo il ritiro francese.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Dopo il ritiro dell’ultima presenza francese, l’Italia rimane l’unico paese europeo con una presenza rilevante nel Sahel. Una situazione che apre a diverse opportunità, ma che pone anche diverse sfide che Roma dovrà affrontare con una strategia il più possibile integrata. L’Italia ha infatti una presenza militare significativa nell’Africa subsahariana, con diverse missioni volte a garantire sicurezza, contrastare il terrorismo e sostenere la stabilità della regione. Queste missioni vedono Roma impegnata in Niger, Ciad, Gibuti, Somalia e nel Golfo di Guinea, sia attraverso operazioni bilaterali sia nel contesto di missioni UE, NATO e ONU. L’Italia ha una presenza militare in Niger nell’ambito della missione “MISIN” (Missione Bilaterale di Supporto nella Repubblica del Niger), avviata nel 2018 con l’obiettivo di supportare le autorità locali nella lotta al terrorismo, al traffico di esseri umani e al crimine organizzato. L’operazione si inquadra in un più ampio impegno dell’Italia nel Sahel, volto a garantire stabilità e sicurezza nella regione, contrastando le minacce che possono avere ripercussioni anche sull’Europa, come il flusso migratorio irregolare.

La missione italiana in Niger

La missione italiana in Niger prevede principalmente attività di addestramento e formazione delle forze di sicurezza locali, con lo scopo di migliorare le loro capacità operative. I militari italiani, appartenenti a diverse unità delle Forze Armate, forniscono corsi su tecniche di combattimento, operazioni speciali, sorveglianza e gestione delle frontiere. Inoltre, il supporto logistico e sanitario è una componente essenziale dell’operazione. Il contingente italiano in Niger è composto da alcune centinaia di unità, con la possibilità di impiegare fino a 470 militari, 130 veicoli e mezzi aerei per esigenze logistiche e di ricognizione. L’Italia ha stabilito la sua base operativa a Niamey, la capitale del Niger, collaborando con le autorità locali e con altri partner internazionali, tra cui Stati Uniti e in passato la Francia. L’operazione si inserisce anche in un contesto più ampio di cooperazione tra Italia e Niger, che comprende iniziative di sviluppo, aiuti umanitari e investimenti per migliorare le condizioni economiche e sociali del paese africano. Tuttavia, la situazione politica in Niger è instabile, con il recente colpo di Stato del 2023 che ha portato alla revisione delle relazioni tra il governo nigerino e gli stati occidentali, incluso l’Italia.

Nonostante le incertezze geopolitiche, la missione italiana in Niger rappresenta un tassello importante nella strategia di difesa e sicurezza dell’Italia nel Sahel, contribuendo alla stabilizzazione di un’area cruciale per gli equilibri geopolitici ed economici della regione e dell’Europa. Oltre al Niger, l’Italia mantiene anche una presenza militare limitata nel vicino Ciad, focalizzandosi principalmente su attività di collegamento, addestramento e supporto alle missioni internazionali presenti nella regione del Sahel. Questo impegno si inserisce in un contesto più ampio di cooperazione multilaterale finalizzata al contrasto del terrorismo, alla stabilizzazione dell’area e al rafforzamento delle capacità delle forze di sicurezza locali. L’attività italiana si sviluppa in sinergia con le operazioni condotte da organizzazioni internazionali come l’Unione Europea, le Nazioni Unite e il G5 Sahel, fornendo supporto strategico e operativo attraverso la condivisione di intelligence, l’addestramento delle forze armate locali e il coordinamento con altri contingenti militari presenti nell’area. Infine, l’Italia partecipa a iniziative volte a migliorare la sicurezza delle frontiere del paese, prevenire il traffico di armi e contrastare la radicalizzazione, elementi chiave per la stabilità del Ciad e dell’intero Sahel.

L’approccio italiano

L’approccio italiano si distingue per una forte attenzione alla cooperazione civile-militare, promuovendo non solo la sicurezza, ma anche lo sviluppo e la resilienza delle comunità locali. L’Italia dispone poi di una base militare a Gibuti, la Base Militare Italiana di Supporto (BMIS), operativa dal 2013. Situata in una posizione strategica nel Corno d’Africa, la BMIS funge da hub logistico e operativo, sviluppando capacità di intelligence, per le forze armate italiane impegnate in missioni nella regione dell’Africa orientale e nell’Oceano Indiano. Questa base rappresenta un’infrastruttura chiave per il supporto delle operazioni di contrasto alla pirateria marittima, contribuendo alla sicurezza delle rotte commerciali e al pattugliamento delle acque internazionali. Inoltre, fornisce supporto logistico e operativo a diverse missioni italiane ed europee nella regione, tra cui la partecipazione italiana alle operazioni EUNAVFOR Atalanta (contro la pirateria nel Golfo di Aden) e EUTM Somalia, dedicata all’addestramento delle forze armate somale.

La presenza della BMIS consente inoltre il rapido dispiegamento di unità italiane in caso di emergenze o crisi nell’area, rafforzando il ruolo dell’Italia nella sicurezza e stabilizzazione del Corno d’Africa. La base ospita personale militare e infrastrutture di supporto avanzate, permettendo la manutenzione dei mezzi, il rifornimento e l’assistenza alle forze italiane e alle missioni alleate. Oltre agli aspetti militari, la BMIS rappresenta anche un punto di cooperazione con le autorità locali gibutiane, contribuendo a rafforzare le relazioni diplomatiche tra Italia e Gibuti e a sostenere iniziative di sicurezza regionale, stabilità e sviluppo. Naturalmente, l’Italia mantiene una presenza significativa in Somalia, contribuendo attivamente alla sicurezza e alla stabilizzazione del paese attraverso due principali missioni internazionali. Si tradda di EUTM Somalia (European Union Training Mission in Somalia): una missione dell’Unione Europea attiva dal 2010, finalizzata all’addestramento e alla formazione dell’Esercito Nazionale Somalo (SNA) per rafforzarne le capacità operative e consentire al governo somalo di affrontare minacce alla sicurezza interna, in particolare quelle rappresentate dal gruppo terroristico Al-Shabaab.

Gli istruttori militari italiani: strumento politico

L’Italia svolge un ruolo di primo piano in questa missione, fornendo istruttori militari, consulenti e supporto strategico. Il personale italiano è impegnato nella formazione di ufficiali somali su aspetti tattici, strategici e logistici, nonché nella promozione dei principi del diritto internazionale umanitario. L’obiettivo è costruire un esercito somalo professionale ed efficiente, capace di garantire la sicurezza del paese in autonomia. Oltre alla formazione militare, la missione si concentra sullo sviluppo della leadership militare somala e sul rafforzamento delle istituzioni della difesa, contribuendo alla creazione di una catena di comando e controllo più efficace. La seconda operazione, denominata Operazione Atalanta, è una missione navale dell’Unione Europea (EUNAVFOR Atalanta) avviata nel 2008, con l’obiettivo di contrastare la pirateria nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, proteggere le navi mercantili e garantire la sicurezza delle rotte marittime strategiche. L’Italia partecipa attivamente all’operazione con unità navali, elicotteri e personale militare, svolgendo pattugliamenti e scorte a navi commerciali e umanitarie, in particolare quelle del Programma Alimentare Mondiale (WFP) dirette in Somalia.

I compiti della marina Militare

La Marina Militare Italiana ha avuto un ruolo di rilievo nella missione, contribuendo alla deterrenza della pirateria e al mantenimento della sicurezza nelle acque internazionali. L’Operazione Atalanta ha avuto un impatto significativo, riducendo drasticamente gli attacchi dei pirati e rafforzando la cooperazione tra le forze navali internazionali. L’Italia, oltre al contributo operativo, ha avuto spesso comandi di alto livello all’interno della missione, confermando il suo impegno nella sicurezza marittima globale. Oltre alla partecipazione a queste missioni, l’Italia mantiene forti legami storici e diplomatici con la Somalia, un paese che è stato colonia italiana fino alla metà del XX secolo. L’impegno italiano va oltre l’aspetto militare e include cooperazione allo sviluppo, supporto umanitario e iniziative per la stabilizzazione politica.

Attraverso le missioni EUTM Somalia e Operazione Atalanta, l’Italia contribuisce in modo significativo alla sicurezza e alla stabilità del Corno d’Africa, consolidando il proprio ruolo come attore chiave nelle operazioni internazionali della regione. Infine, con l’Operazione Gabinia, l’Italia si è impegnata a rafforzare la sicurezza marittima nel Golfo di Guinea, un’area cruciale per il traffico internazionale di petrolio e merci, ma anche una delle zone più colpite dalla pirateria marittima. L’invio di unità navali italiane mira a contrastare gli atti di pirateria, proteggere le navi commerciali (in particolare quelle battenti bandiera italiana) e garantire la sicurezza delle infrastrutture marittime essenziali per gli interessi economici globali. Tutte queste operazioni si inseriscono in un contesto più ampio di impegno italiano nella regione, che include cooperazione economica, militare e diplomatica con diversi paesi dell’Africa occidentale.

L’Italia sta cercando di sviluppare partnership strategiche che comprendano iniziative di sviluppo, aiuti umanitari e investimenti per migliorare le condizioni economiche e sociali dei paesi coinvolti, contribuendo così alla loro stabilità e alla riduzione delle cause profonde di instabilità e migrazione forzata. Tra le principali aree di intervento figurano la formazione delle forze di sicurezza locali, il controllo delle frontiere, il contrasto ai traffici illeciti (droga, armi, esseri umani) e la lotta al terrorismo jihadista, che rappresenta una minaccia crescente nella regione del Sahel. In particolare, il rafforzamento delle capacità di sicurezza e intelligence locali è cruciale per contrastare gruppi estremisti come Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), Boko Haram e lo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), che sfruttano le fragilità istituzionali e le tensioni etniche per espandere la loro influenza.

Mosca e Pechino: una sfida?

Un ulteriore obiettivo che l’Italia dovrà perseguire con maggiore decisione in futuro riguarda la contenzione della crescente penetrazione geopolitica di Russia e Cina nella regione. Mosca ha rafforzato la propria presenza militare e politica attraverso l’azione dei gruppi paramilitari, come il Wagner Group, offrendo supporto ai regimi autoritari e alle giunte militari in cambio di risorse naturali e basi strategiche.

Pechino, invece, continua a espandere la sua influenza economica tramite ingenti investimenti infrastrutturali e finanziari, spesso attraverso il meccanismo del debito che vincola i governi locali agli interessi cinesi. Di fronte a questi sviluppi, l’Italia, in coordinamento con gli Stati Uniti e i gli altri partner NATO, dovrà rafforzare la propria presenza politico-militare, intensificare la cooperazione con i governi locali e promuovere modelli di sviluppo alternativi, basati sulla sostenibilità e sull’autodeterminazione economica dei paesi africani.

L’impegno italiano in Africa occidentale si configura quindi sempre più come un delicato equilibrio tra sicurezza, diplomazia, cooperazione allo sviluppo e protezione degli interessi strategici nazionali ed europei.


L’Etiopia, l’interesse dell’Italia tra competitor e alleati: il “piano Mattei”.

di Claudio Bertolotti.

Grazie al sostegno italiano, verrà aperto in Etiopia un nuovo incubatore di imprese tecnologicamente innovative, nell’ambito di una cooperazione per il rafforzamento dei servizi digitali nel Paese del Corno d’Africa. È questo uno dei principali risultati della missione in Etiopia del Ministro italiano dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini. È “un grande piacere essere ad Addis Abeba al fianco del Ministro delle Finanze etiope, Ahmed Shide”, ha scritto il Ministro sui social network, sottolineando che il progetto mira a formare e sostenere giovani talenti etiopi con idee imprenditoriali innovative(AGI).

L’Etiopia non è solo il cuore pulsante dell’Africa orientale, ma anche un crocevia di interessi geopolitici ed economici di primaria importanza per l’Italia. Con una popolazione in rapida crescita e un’economia tra le più dinamiche del continente, il paese rappresenta un potenziale strategico ancora in gran parte inesplorato.

Sebbene la sua storia sia segnata da conflitti e tensioni interne, l’Etiopia si proietta verso il futuro con ambizioni di sviluppo e modernizzazione. La sua posizione geografica, che la rende un nodo essenziale per le rotte commerciali del Corno d’Africa, e il suo ruolo di leadership nel continente africano, con Addis Abeba sede dell’Unione Africana, la collocano al centro di dinamiche cruciali per la stabilità e la sicurezza regionale.

Per l’Italia, l’Etiopia rappresenta un’opportunità unica. Dalle collaborazioni nel settore energetico e infrastrutturale alla sicurezza e alla lotta al terrorismo, passando per il rilancio degli scambi commerciali, il legame tra i due paesi può rafforzarsi ulteriormente grazie alle iniziative del Piano Mattei, volto a rilanciare il ruolo italiano in Africa attraverso una cooperazione concreta e mirata.

Ma quali sono le sfide da affrontare? E quali le reali opportunità che l’Italia può cogliere in questo contesto? Un’analisi approfondita di questa relazione
(disponibile nell’allegato documento in formato Pdf) permetterà di comprendere come e perché l’Etiopia sia un partner chiave per il futuro della politica estera ed economica italiana.

Lo abbiamo anticipato, l’Etiopia si conferma come un attore chiave nel contesto geopolitico dell’Africa orientale. Con una popolazione che supera i 120 milioni di abitanti e un’economia in crescita sostenuta dagli investimenti infrastrutturali e dal settore agricolo, il paese rappresenta una realtà con cui l’Italia intende rafforzare i rapporti. La sua posizione strategica, tra il Corno d’Africa e le principali rotte commerciali internazionali, la rende un perno per la stabilità dell’intera regione. Tuttavia, le sfide interne, tra cui tensioni etniche e instabilità politica, rappresentano fattori critici da gestire con una strategia di lungo termine. In questo contesto, il “Piano Mattei” emerge come un’opportunità per consolidare la presenza italiana nel paese attraverso una cooperazione che spazia dalla sicurezza allo sviluppo economico.

L’importanza dell’Etiopia nel contesto geopolitico

L’Etiopia confina con Eritrea, Sudan, Sud Sudan, Kenya, Somalia e Gibuti, trovandosi al centro di una regione attraversata da profonde tensioni geopolitiche. La mancanza di uno sbocco marittimo dal 1993 ha reso essenziale l’accesso ai porti di Gibuti per il commercio internazionale, rafforzando la necessità di investimenti infrastrutturali. Inoltre, la presenza della sede dell’Unione Africana ad Addis Abeba sottolinea il ruolo politico centrale del paese nel continente.

Struttura politica e sfide interne

L’Etiopia è organizzata come una Repubblica Federale Parlamentare, con un assetto politico che, nonostante le riforme, continua a essere segnato da divisioni etniche e conflitti interni. Dal 2018, il governo del Primo Ministro Abiy Ahmed ha tentato di modernizzare il paese, ma ha dovuto fronteggiare una grave crisi nel Tigray (2020-2022) e continue tensioni nelle regioni di Oromia e Amhara. L’instabilità politica si riflette anche nella sicurezza interna, con la presenza di milizie locali che spesso sfidano l’autorità centrale.

Economia e opportunità di sviluppo

Nonostante le difficoltà, l’Etiopia mantiene un tasso di crescita economica significativo, sostenuto dai settori chiave:

– Agricoltura (40% del PIL): principale fonte di reddito del paese, con l’export di caffè e sesamo tra i più rilevanti.

– Industria (25%): in forte espansione, grazie agli investimenti nelle infrastrutture e nella manifattura.

– Energia e trasporti: con la modernizzazione della rete ferroviaria Addis Abeba-Gibuti e il potenziamento della produzione idroelettrica, sebbene la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) abbia generato tensioni con Egitto e Sudan.

Il Piano Mattei e le opportunità di collaborazione con l’Italia

L’Italia ha una lunga storia di rapporti con l’Etiopia, caratterizzata da momenti di difficoltà ma anche da significative collaborazioni. Oggi, il “Piano Mattei” si configura come un’iniziativa strategica per rafforzare i legami tra i due paesi attraverso azioni mirate nei seguenti ambiti:

1. Sviluppo delle infrastrutture: progetti per il miglioramento delle reti di trasporto, con particolare attenzione ai collegamenti ferroviari e stradali per potenziare il commercio regionale.

2. Settore della difesa e sicurezza: programmi di formazione per le forze armate etiopi, cooperazione nella lotta al terrorismo e supporto tecnico per la gestione della sicurezza interna.

3. Collaborazione energetica: investimenti nel settore delle energie rinnovabili, in particolare per lo sviluppo di progetti idroelettrici e solari.

4. Innovazione agricola e sicurezza alimentare: trasferimento di tecnologie italiane per la modernizzazione dell’agricoltura etiope, migliorando la produttività e la sostenibilità del settore.

5. Relazioni bilaterali e sviluppo economico: promozione di investimenti italiani in Etiopia per incentivare la crescita industriale e manifatturiera, con il supporto di aziende e istituzioni finanziarie.

Competitor e potenziali partner nell’area

L’Italia non è l’unico attore internazionale a guardare con interesse all’Etiopia. Tra i principali competitor si annoverano la Cina, fortemente presente nel settore infrastrutturale con investimenti nella ferrovia Addis Abeba-Gibuti e nella costruzione di grandi opere; la Turchia, che ha consolidato la propria presenza attraverso investimenti manifatturieri e la vendita di armamenti, tra cui droni militari; la Russia, che cerca di rafforzare i rapporti nel settore della difesa e dell’energia; e gli Stati Uniti, tradizionalmente coinvolti in programmi di sviluppo e sicurezza nella regione.

Tuttavia, l’Italia può contare su potenziali alleati strategici. La Francia, con cui condivide l’interesse per la stabilità del Corno d’Africa e il rafforzamento delle infrastrutture regionali, potrebbe essere un partner complementare. Anche l’Unione Europea, nell’ambito delle proprie politiche di sviluppo e investimenti in Africa, rappresenta un interlocutore di rilievo per un’azione congiunta in Etiopia. A livello regionale, il Kenya e Gibuti si configurano come partner commerciali cruciali per sviluppare corridoi logistici e sinergie economiche.

Prospettive future e implicazioni strategiche

L’Etiopia si trova a un crocevia: da un lato, il suo potenziale economico e la sua posizione strategica la rendono un partner cruciale per l’Italia e per l’Europa; dall’altro, le tensioni interne e le sfide regionali rappresentano un rischio per la stabilità. Il successo del “Piano Mattei” dipenderà dalla capacità di garantire investimenti efficaci e sostenibili, mantenendo un dialogo diplomatico costante e supportando il rafforzamento della sicurezza interna. Per l’Italia, consolidare i rapporti con l’Etiopia significa non solo ampliare le opportunità economiche, ma anche contribuire alla stabilità del Corno d’Africa, con implicazioni positive per l’intero Mediterraneo.


Gaza: attacco all’ospedale Kamal Adwan. Israele e il precedente di al-Shifa: nuovo standard umanitario.

di Claudio Bertolotti.

Articolo tratto dal libro di C. Bertolotti, Gaza underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. ed. START InSight (2024).

Le Forze di difesa israeliane (IDF) nel raid all’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, utilizzato da Hamas come posto di Comando per l’organizzazione terrorista, ha eliminato 19 miliziani, tra i quali alcuni responsabili dell’attacco a Israele del 7 ottobre 2023.
Le IDF, in coordinamento con lo Shin Bet (Agenzia per la sicurezza israeliana), ha inoltre arrestato oltre 240 terroristi nell’operazione mirata a contrastare l’ultimo tentativo di Hamas di ricostituirsi nel nord di Gaza; un tentativo da parte del comando dei miliziani palestinesi che ha intenzionalmente sfruttato la struttura dell’ospedale Kamal Adwan a Jabaliya, utilizzando la nota strategia degli scudi umani, in questo casi cittadini ricoverati all’interno dell’ospedale. Un episodio che, da un lato conferma la volontà criminale di Hamas e, dall’altro, evidenzia come le forze armate israeliane stiano facendo il possibile per ridurre l’impatto della guerra sulla popolazione civile palestinese. Contrariamente a quanto il mainstream mediatico tenda a descrivere la condotta di una guerra che, seppur molto violenta, è storicamente l’evento con il più basso numero di vittime collaterali tra i non combattenti.

Operazione nell’ospedale al-Shifa: un nuovo standard umanitario?

La guerra Israele-Hamas ha dato modo alle forze israeliane di concettualizzare e implementare uno standard innovativo di guerra urbana che non trova precedenti nella storia militare. Nel marzo 2024, le Idf condussero un’operazione mirata nell’ospedale al-Shifa nella Striscia di Gaza – utilizzato come base logistica e operativa da Hamas – adottando precauzioni eccezionali per la protezione di civili nella fase di avvicinamento, accesso e gestione della struttura. Un approccio che vide l’impiego, unitamente a militari, di unità di medici e paramedici israeliani deputati all’assistenza dei pazienti civili palestinesi ricoverati nell’infrastruttura sanitaria, e squadre logistiche di supporto per il rifornimento di cibo, acqua e forniture mediche per gli stessi.[1]

Dunque, un approccio volto a limitare i danni causati dalla presenza di Hamas all’interno dell’infrastruttura sostenendo, al contempo, il massimo sforzo per andare incontro alle necessità dei pazienti ricoverati e per minimizzare le vittime civili. Primo esempio nella storia della guerra urbana, questo metodo rappresenta l’adozione di uno standard innovativo quanto oneroso, sia in termini di risorse impiegate sia per l’accettazione di un maggiore rischio intrinseco per il personale militare impegnato all’interno dell’infrastruttura. Dal punto di vista dottrinale, come su quello storico, è il primo caso di un esercito che abbia preso tali misure per occuparsi della popolazione civile avversaria, tenuto conto della concomitanza delle operazioni militari offensive all’interno dello stesso edificio. Secondo l’opinione dell’analista John Spencer, pubblicata nel suo articolo Israel has created a new standard for urban warfare. Why will no one admit it?, Israele avrebbe adottato «più precauzioni per prevenire danni ai civili di qualsiasi altro esercito nella storia, andando ben oltre ciò che richiede il diritto internazionale e più di quanto fatto dagli Stati Uniti nelle loro più recenti guerre in Iraq e Afghanistan».[2]

Un precedente, quello di al-Shifa, che si pone come caso studio per la gestione dello spazio urbano e la sicurezza dei civili in aree operative che, a fronte di un evidente svantaggio tattico, consente alle forze militari impegnate in operazioni dal potenziale forte impatto mediatico di prevenire accuse di violazioni dello jus in bello e delle convenzioni internazionali. Questo precedente apre doverosamente a una riflessione su tali applicazioni tattiche e sui limiti auto-imposti a tutela della popolazione civile, non solamente per ragioni prettamente umanitarie ma anche, e forse prevalentemente, in un’ottica difensiva sul piano della cognitive warfare e della propaganda avversaria che, da un lato e come abbiamo visto, utilizza infrastrutture civili per scopi militari e, dall’altro, strumentalizza a proprio favore le eventuali vittime civili in conseguenza dello scontro militare all’interno di quei siti (il law-fare).

La teoria occidentale predominante nella gestione delle operazioni militari, così come abbiamo descritto in apertura di questo capitolo, si basa sul concetto di “guerra di manovra”, tesa a cercare di frantumare moralmente e fisicamente un nemico con forza e velocità sorprendenti e schiaccianti, colpendo i centri di gravità, politici e militari, affinché il nemico sia distrutto o si arrenda rapidamente. Questo è stato il caso nelle invasioni di Panama nel 1989, dell’Afghanistan nel 2001, dell’Iraq nel 2003 e del tentativo della Russia di prendere in tempi rapidi l’Ucraina nel 2022. In tutti questi casi, non è stato dato nessun preavviso o tempo sufficiente ai civili per evacuare le città, con ciò provocando la morte di un significativo numero di non combattenti. Israele ha abbandonato questo consolidato “approccio da manuale”, e lo ha fatto nell’ottica primaria di prevenire danni ai civili. Le Idf hanno annunciato con anticipo quasi ogni azione affinché i non combattenti potessero trasferirsi, così rinunciando quasi sempre all’elemento sorpresa. Ciò ha permesso a Hamas di riposizionare in aree sicure i propri vertici militari e i leader politici (e con essi anche gli ostaggi israeliani) attraverso il tessuto urbano, nascondendoli tra i civili durante le evacuazioni o sfruttando i tunnel sotterranei.[3] I combattenti di Hamas, a differenza delle Idf, non indossano uniformi, e questo è un vantaggio tattico che ha consentito loro di colpire nascosti tra i civili e, con i civili, lasciare il campo di battaglia. La conseguenza è che Hamas è riuscito nella sua duplice strategia, da un lato, di generare sofferenza alla popolazione palestinese e, dall’altro, di creare una narrazione distruttiva attraverso le immagini, funzionale a ottenere una pressione internazionale su Israele affinché interrompesse le sue operazioni.


[1] Spenser J., Israel Has Created a New Standard for Urban Warfare. Why Will No One Admit It?, Opinion, Newsweek, 25 marzo 2024, in https://www.newsweek.com/israel-has-created-new-standard-urban-warfare-why-will-no-one-admit-it-opinion-1883286.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

Articolo tratto dal libro di C. Bertolotti, Gaza underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. ed. START InSight (2024).


Tensioni settarie in Siria e scontro USA-Turchia.

a cura di Claudio Bertolotti.

Il conflitto in Siria ha esacerbato le tensioni tra Stati Uniti e Turchia, entrambi membri della NATO con interessi strategici divergenti. La recente proposta di sanzioni da parte dei senatori statunitensi Chris Van Hollen e Lindsey Graham, in risposta a una possibile operazione turca contro le Forze Democratiche Siriane (SDF) nel nord della Siria, evidenzia l’approfondirsi di questo divario.

Quale la proposta di Sanzioni Statunitensi?

I senatori Van Hollen e Graham hanno presentato il “Countering Türkiye’s Aggression Act 2024”, mirato a impedire operazioni turche contro le SDF, considerate dagli Stati Uniti partner chiave nella lotta contro l’ISIS. La proposta include l’istituzione di una zona demilitarizzata lungo il confine siriano per facilitare un cessate il fuoco. Van Hollen ha sottolineato che gli attacchi delle forze sostenute dalla Turchia contro i partner curdi siriani compromettono la sicurezza regionale e ha avvertito che, in assenza di un accordo, potrebbero essere imposte sanzioni simili a quelle del 2019 legate all’acquisto turco dei sistemi russi S-400.

E quale la posizione della Turchia?

Preoccupazioni di Sicurezza da parte di Ankara: la Turchia considera le Unità di Protezione Popolare (YPG), componente principale delle SDF, come un’estensione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), classificato come organizzazione terroristica. Ankara teme che il sostegno statunitense alle milizie curde possa portare alla formazione di uno stato curdo indipendente lungo i suoi confini, scenario inaccettabile per la sicurezza nazionale turca. In risposta alle sue preoccupazioni, la Turchia ha intensificato la presenza militare nel nord della Siria, mirando a prevenire l’espansione dell’influenza curda e a stabilire una zona cuscinetto lungo il confine.

Proposta delle SDF: una zona demilitarizzata: il comandante delle SDF, Mazloum Abdi, ha suggerito l’istituzione di una zona demilitarizzata controllata dagli Stati Uniti a Kobani, area di preparazione per un’operazione da parte dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA) sostenuto dalla Turchia. Abdi ha indicato che, in caso di cessate il fuoco, i combattenti non siriani potrebbero essere rimossi dal paese.

Implicazioni Geopolitiche

  • Relazioni USA-Turchia: Il sostegno continuo degli Stati Uniti alle milizie curde, nonostante le obiezioni turche, ha creato una frattura significativa tra i due alleati della NATO, complicando ulteriormente le dinamiche regionali.
  • Stabilità Regionale: La possibilità di sanzioni statunitensi contro la Turchia e le operazioni militari turche nel nord della Siria sollevano preoccupazioni riguardo alla stabilità della regione e al futuro delle relazioni tra gli attori coinvolti.

In sintesi, le divergenze tra Stati Uniti e Turchia riguardo al sostegno alle milizie curde in Siria hanno intensificato le tensioni, con potenziali implicazioni per la sicurezza regionale e le relazioni bilaterali.

La Crescita delle tensioni settarie in Siria.
La Siria si trova a un bivio che rischia di portare a un conflitto etno-settario su larga scala. La situazione è aggravata dagli omicidi e rapimenti perpetrati da individui affiliati a Hayat Tahrir al Sham (HTS) contro membri della comunità alawita e altri accusati di legami con il regime di Assad. Queste azioni, condotte al di fuori di processi giudiziari formali, rischiano di intensificare le tensioni tra la maggioranza sunnita e la minoranza alawita.

Strategie di Mediazione e Riconciliazione
Il governo transitorio guidato da Ahmed al Shara ha tentato di placare le paure degli alawiti, ma le misure concrete per proteggere le minoranze restano limitate. Un programma di amnistia per gli ex membri del regime è stato istituito, ma la sua trasparenza è messa in discussione, alimentando ulteriori sospetti di vendette settarie.

L’Influenza Iraniana e il Rischio di Escalation
L’Iran continua a esercitare una forte influenza retorica, incitando alla ribellione giovanile in Siria e provocando divisioni settarie simili a quelle osservate in Iraq. Queste dichiarazioni hanno incontrato la ferma opposizione del ministro degli Esteri siriano, Asaad Hassan al Shaibani, il quale ha avvertito Teheran del rischio di destabilizzazione.

Nomina Controversia e Scontri Interni
La nomina di Anas Hasan Khattab, ex membro di al-Qaeda, come capo dell’intelligence siriana da parte del governo provvisorio HTS riflette la tendenza a favorire alleati leali e rischia di compromettere ulteriormente la stabilità interna. Contestualmente, scontri tra forze pro-Assad e milizie HTS hanno causato vittime, alimentando il ciclo di violenza.

Conflitto tra Turchia e SDF
Nel nord della Siria, la Turchia sostiene la formazione di un esercito siriano unificato che esclude le Forze Democratiche Siriane (SDF). Gli scontri tra l’esercito nazionale siriano (SNA) e l’SDF continuano, con Ankara che cerca di consolidare la propria influenza a Manbij e oltre.

Prospettive
La complessità della situazione siriana, con l’intreccio di tensioni settarie, rivalità geopolitiche e interessi stranieri, suggerisce che senza un intervento diplomatico efficace, il paese rischia di scivolare ulteriormente nel conflitto.