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Vent’anni fa la guerra in Iraq. L’anniversario scomodo di una guerra dalle conseguenze irreversibili per l’ordine internazionale

di Claudio Bertolotti

dall’intervista di Alessia Virdis per ADNKRONOS

20 anni dall’invasione dell’Iraq: è un anniversario scomodo per l’Occidente e, se sì, perché?

La guerra in Iraq è una delle guerre più controverse e disastrose degli ultimi decenni; una guerra in cui gli effetti negativi hanno superato di gran lunga qualsiasi possibile risultato positivo.

Parte dell’opinione pubblica di allora ha oggi allontanato le emozioni e i sentimenti provati e vissuti vent’anni fa in occasione della guerra in Iraq che seguì, di poco, quella maggiormente coinvolgente in Afghanistan. Un’altra parte dell’attuale opinione pubblica, per ragioni generazionali, non ha vissuto quei momenti e colloca l’evento in un momento storico privato della sua componente emotiva. Detto questo, credo che la risposta sia: “sì, l’anniversario dell’invasione dell’Iraq del 20 marzo 2003 è scomodo per l’Occidente, e lo è per diverse ragioni”.

La prima di queste ragioni è la consapevolezza di una ricercata manipolazione dell’opinione pubblica volta a convincerla della necessità e della bontà dell’intervento militare: ricordiamo tutti l’imbarazzo del segretario di Stato Colin Powel davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite mostrare una provetta contenente borotalco, asserendo si trattasse di antrace per giustificare l’emergenza di un intervento militare Guerra basata su informazioni sbagliate. L’invio delle truppe statunitensi in Iraq si basava principalmente su informazioni errate o addirittura inventate sulle armi di distruzione di massa (WMD) possedute dal regime di Saddam Hussein. Quando si scoprì che queste informazioni erano false, molti accusarono l’amministrazione Bush di aver manipolato l’opinione pubblica per giustificare la guerra.

Un’altra ragione sono i costi della guerra. L’invasione dell’Iraq ha comportato un costo enorme in termini di vite umane e risorse finanziarie. Secondo alcune stime, la guerra ha causato la morte di oltre 100.000 civili iracheni e più di 4.400 militari americani, oltre a un costo stimato di 1,7 trilioni di dollari.

Una terza ragione è l’avvio di un periodo (ancora in corso) di instabilità regionale. L’invasione dell’Iraq ha destabilizzato l’intera regione del Medio Oriente, creando un vuoto di potere che ha permesso la nascita di gruppi estremisti come lo Stato islamico (ISIS) Creando al contempo tensioni tra i paesi dell’Occidente e quelli musulmani, alimentando il sentimento anti-occidentale in molte parti del mondo.

Una quarta ragione, infine, è data dai dubbi sulla legittimità dell’azione militare. La guerra in Iraq ha diviso l’opinione pubblica sia negli Stati Uniti che in Europa. L’assenza di un mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU e la mancanza di una minaccia imminente alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti hanno portato molti a chiedere il perché dell’avvio della guerra.

E ancora oggi, per fortuna, la guerra in Iraq continua a suscitare dibattiti sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo e sulla giustificazione delle azioni militari unilaterali.

Le conseguenze della guerra in Iraq continuano ad avere ripercussioni sul Medioriente?

La guerra in Iraq, iniziata vent’anni fa, è un punto di rottura sul piano delle relazioni internazionali e una svolta su quello degli equilibri geopolitici a livello regionale e globale. Un fatto storico che ha determinato l’impossibilità di ritorno all’ordine internazionale precedente, come quello della Guerra Fredda o del primo periodo post-Guerra Fredda.

Parliamo di cambiamenti irreversibili tanto da determinare ancora oggi i ritmi della politica regionale e le scelte in campo internazionale in cui giocano ora tre attori determinanti: Stati Uniti, Russia e Cina che determinano e sono condizionati dalla conflittualità competitiva tra  Arabia Saudita e Iran e dalle dinamiche di allineamento degli altri attori minori che , a cui altri attori sono obbligati ad adattarsi; e nelle sue istituzioni regionali, che mostrano tutti marcati cambiamenti e nuovi orientamenti. Al contempo non dobbiamo dimenticare il ruolo di influenza, non marginale, che la guerra in Iraq ha avuto sui fenomeni rivoluzionari e insurrezionali delle cosiddette Primavere arabe che si sarebbero sviluppati dopo pochi anni.

L’invasione dell’Iraq ha rappresentato un punto di rottura nell’ordine internazionale e ha portato a rapidi cambiamenti negli equilibri di potere regionali, che hanno costretto alla diversificazione delle alleanze e dei quadri istituzionali. Ciò è stato dimostrato dagli eventi più recenti, come la dipendenza dalla Cina e dalla Russia per le forniture di vaccini durante la pandemia di COVID-19 e l’emergere di nuove relazioni internazionali, come quella tra Iran e Russia e quella tra gli stati arabi e Israele riflessa negli accordi di Abramo del 2020. La guerra in Ucraina ha dimostrato come gli stati arabi filo-occidentali si siano astenuti dal criticare l’invasione russa, mentre altri stati si sono avvicinati a Mosca.

Qual è oggi la situazione dell’Iraq, sia a livello politico che di sicurezza?

L’Iraq è un paese in difficoltà, ma ci sono anche segnali di progresso. La situazione politica e di sicurezza rimane instabile, ma ci sono sforzi in corso per migliorare la situazione.

L’instabilità politica e di sicurezza evidenzia il permanere di numerosi problemi da affrontare e risolvere. Sul piano politico, il paese ha affrontato numerose crisi, compresa la recente crisi costituzionale del 2019-2020, caratterizzata da proteste popolari e dimissioni di funzionari governativi. Inoltre, la situazione è complicata dalla divisione tra le fazioni politiche e le tensioni etniche e religiose.

Dal punto di vista della sicurezza, l’Iraq si trova ancora sotto la minaccia del terrorismo e delle milizie armate. Sebbene lo Stato Islamico sia stato sconfitto in gran parte del paese, ancora perpetrano attacchi terroristici. Inoltre, le milizie armate filo-iraniane ancora presenti, rappresentano una minaccia per la stabilità del paese.

L’Iraq ha anche affrontato una serie di sfide economiche e sociali, inclusa la carenza di servizi essenziali, la disoccupazione e la corruzione. Tuttavia, il paese ha anche fatto progressi in alcuni settori, come l’energia, e sta cercando di attirare investimenti stranieri per stimolare la crescita economica.

In tale contesto non dobbiamo sottovalutare l’assertività di tre importanti attori: Russia, Cina e Iran, che cercando di aumentare la loro influenza in Iraq attraverso diverse azioni.

In primo luogo, la Russia sta cercando di espandere la sua presenza economica in Iraq, soprattutto nel settore energetico. Mosca ha stretto accordi con il governo iracheno per l’estrazione di petrolio e gas, e ha fornito assistenza militare sotto forma di armi e consiglieri militari.

Anche la Cina sta cercando di espandere la propria influenza economica e commerciale, offrendo investimenti e assistenza tecnica in diversi settori. Pechino ha inoltre stretto accordi energetici con l’Iraq, e ha recentemente firmato un accordo per costruire una linea ferroviaria ad alta velocità tra Baghdad e Basra.

L’Iran, invece, ha mantenuto una forte presenza politica, economica e militare, e ha sostenuto attivamente il governo iracheno nella lotta contro l’ISIS poi evoluto nel fenomeno “Stato islamico” dal 2014. Teheran ha inoltre stretto accordi commerciali e di sicurezza con il governo iracheno, e ha supportato diverse milizie sciite in Iraq.

In generale, i tre paesi cercano di aumentare la loro influenza nel paese attraverso investimenti, aiuti economici e militari, e accordi commerciali. Tuttavia, la presenza e l’influenza degli Stati Uniti in Iraq rimane forte, e gli sforzi di Russia, Cina e Iran potrebbero essere ostacolati da una crescente opposizione irachena alle ingerenze straniere.

Timeline della guerra in Iraq (CNN)

CNN (original article) — Here’s a look at the Iraq War which was known as Operation Iraqi Freedom until September 2010, when it was renamed Operation New Dawn. In December 2011, the last US troops in Iraq crossed the border into Kuwait, marking the end of the almost-nine year war.

October 16, 2002 – US President George W. Bush signs a congressional resolution authorizing him to go to war if Iraqi President Saddam Hussein refuses to give up weapons of mass destruction in compliance with United Nations Security Council resolutions.

November 8, 2002 – The UN Security Council adopts Resolution 1441, giving Iraq a final chance to comply with its “disarmament obligations” and outlining strict new weapons inspections with the goal of completing the disarmament process. The resolution threatens “serious consequences” as a result of Iraq’s “continued violations of its obligations.”

February 5, 2003 – US Secretary of State Colin Powell makes the case to the UN that Hussein poses an imminent threat.

February 14, 2003 – UN Chief Weapons Inspector Hans Blix reports to the UN Security Council that his team has found no weapons of mass destruction in Iraq.

March 17, 2003 – Bush issues an ultimatum to Hussein and his family – leave Iraq within 48 hours or face military action.

March 19, 2003 – Bush announces US and coalition forces have begun military action against Iraq.

March 20, 2003 – Hussein speaks on Iraqi TV, calling the coalition’s attacks “shameful crimes against Iraq and humanity.”

April 9, 2003 – Coalition forces take Baghdad. A large statue of Hussein is toppled in Firdos Square. The White House declares “the regime is gone.”

April 13, 2003 – Seven US prisoners of war are rescued by US troops.

May 1, 2003 – Speaking on the USS Abraham Lincoln, Bush declares “major combat operations” over, although some fighting continues.

May 22, 2003 – The UN Security Council approves a resolution acknowledging the US and Great Britain’s right to occupy Iraq.

July 22, 2003 – Hussein’s sons, Uday and Qusay, are killed by US forces.

December 13, 2003 – Hussein is captured in Tikrit.

June 28, 2004 – The handover of sovereignty to the interim Iraqi government takes place two days before the June 30 deadline previously announced by the US-led coalition.

June 30, 2004 – The coalition turns over legal control of Hussein and 11 other former top Iraqi officials to the interim Iraqi government. The United States retains physical custody of the men.

July 1, 2004 – Hussein makes his first appearance in court. He is charged with a variety of crimes, including the invasion of Kuwait and the gassing of the Kurds.

September 6, 2004 – The number of US troops killed in Iraq reaches 1,000.

November 2004 – US and Iraqi forces battle insurgents in Falluja. About 2,000 insurgents are killed. On November 14, Falluja is declared to be liberated.

October 25, 2005 – The number of US troops killed in Iraq reaches 2,000.

November 19, 2005 – At least 24 Iraqi civilians, including women and children, are killed in Haditha. Eight US Marines faced charges in the deaths, but only one was convicted of a crime, that of negligent dereliction of duty.

November 5, 2006 – The Iraqi High Tribunal reaches a verdict in the 1982 Dujail massacre case. Hussein is found guilty and sentenced to death by hanging, pending appeal.

December 30, 2006 – Hussein is hanged.

December 30, 2006 – The number of US troops killed in Iraq reaches 3,000.

January 10, 2007 – A troop surge begins, eventually increasing US troop levels to more than 150,000.

September 3, 2007 – Basra is turned over to local authorities after British troops withdraw from their last military base in Iraq to an airport outside the city.

March 22, 2008 – The number of US troops killed in Iraq reaches 4,000.

July 16, 2008 – The surge officially ends, and troop levels are reduced.

December 4, 2008 – The Iraqi Presidential Council approves a security agreement that paves the way for the United States to withdraw completely from Iraq by 2011.

January 1, 2009 – The US military hands over control of Baghdad’s Green Zone to Iraqi authorities.

February 27, 2009 – US President Barack Obama announces a date for the end of US combat operations in Iraq: August 31, 2010.

June 30, 2009 – US troops pull back from Iraqi cities and towns and Iraqi troops take over responsibility for security operations.

August 19, 2010 – The last US combat brigade leaves Iraq. A total of 52,000 US troops remain in the country.

September 1, 2010 – Operation Iraqi Freedom is renamed Operation New Dawn to reflect the reduced role US troops will play in securing the country.

May 22, 2011 – The last British military forces in Iraq, 81 Royal Navy sailors patrolling in the Persian Gulf, withdraw from the country. A total of 179 British troops died during the country’s eight-year mission in Iraq.

October 17, 2011 – A senior US military official tells CNN that the United States and Iraq have been unable to come to an agreement regarding legal immunity for US troops who would remain in Iraq after the end of the year, effectively ending discussion of maintaining an American force presence after the end of 2011.

October 21, 2011 – Obama announces that virtually all US troops will come home from Iraq by the end of the year. According to a US official, about 150 of the 39,000 troops currently in Iraq will remain to assist in arms sales. The rest will be out of Iraq by December 31.

December 15, 2011 – American troops lower the flag of command that flies over Baghdad, officially ending the US military mission in Iraq.

December 18, 2011 – The last US troops in Iraq cross the border into Kuwait.


Dallo stallo ai due possibili schemi di manovra offensiva russa.

Analisi del primo anno di guerra e la prospettiva della Storia militare

di Fabio Riggi, Analista indipendente.

Abstract (Italian)

Dopo un ciclo operativo sostanzialmente favorevole ai russi, che si era concretizzato nel periodo maggio-luglio 2022 (battaglia del Donbas), con la conquista da parte delle forze di Mosca della città portuale di Mariupol (con la quale la Russia si è assicurata il controllo di tutta la costa settentrionale del Mar d’Azov) Severodonetsk e Lysichansk, l’offensiva di Mosca ha raggiunto il suo punto culmine. Le operazioni terrestri in Ucraina, e più in generale l’intero andamento del conflitto, avrebbero ormai assunto il carattere di una lotta basata sull’attrito, molto più che sulla manovra. Una vera “Materialschlacht”, ossia una “battaglia di materiali”, come questa veniva definita dalla classica terminologia militare tedesca, dove la forza del numero e dell’acciaio hanno un ruolo preminente.

Key Takeaways:

  • La capacità offensiva russa ha raggiunto il culmine (maggio-luglio);
  • Il momentum ucraino: la svolta grazie al sistema HIMARS (agosto-novembre);
  • L’esaurimento ucraino e la ripresa russa alla fine del 2022;
  • L’attesa dell’offensiva russa: la manovra dei 300.000 prima della “Rasputitsa”;
  • La guerra di manovra della Nato: dalla “difesa attiva” alla dottrina Air-Land Battle;
  • Gli insegnamenti della Storia militare per comprendere la “manovra” russa;
  • La prima lezione appresa: campo di battaglia trasparente e importanza del livello tattico;
  • Due futuri possibili schemi di manovra russa;
  • La prevalenza dell’attrito sulla manovra.

Keywords: manovra, momentum, air-land battle,Russia, Ukraine

La capacità offensiva russa ha raggiunto il culmine (maggio-luglio)

La guerra in Ucraina è entrata nel suo primo anno, e oltre ad alcune annotazioni relative all’andamento attuale delle operazioni è oggi possibile formulare considerazioni e ipotesi di carattere generale, frutto delle informazioni e del materiale attualmente disponibili. Ciò con la pur sempre doverosa avvertenza che praticamente nulla può ancora essere ritenuto consolidato e definitivo, nella considerazione che l’oggetto di studio è un conflitto ancora in pieno svolgimento e dall’esito incerto.

Dopo un ciclo operativo sostanzialmente favorevole ai russi, che si era concretizzato nel periodo maggio-luglio 2022 (battaglia del Donbas), con la conquista da parte delle forze di Mosca della città portuale di Mariupol (con la quale la Russia si è assicurata il controllo di tutta la costa settentrionale del Mar d’Azov) Severodonetsk e Lysichansk, l’offensiva di Mosca ha raggiunto il suo punto culmine. A proposito di quest’ultima definizione, giova ricordare come essa sia dottrinalmente definita come il momento di un’operazione in cui le capacità operative di chi la conduce non consentono più l’assolvimento della missione, o nel caso specifico di un’offensiva, quando quella dell’attaccante tende a equivalersi con quella del difensore, andando a rallentare, fino ad arrestarla, la sua progressione. A causa di ciò, le forze russe non sono riuscite nemmeno a intaccare la successiva linea fortificata ucraina della regione del Donbas, quella corrispondente all’allineamento Sloviansk-Kramatorsk.

Il momentum ucraino: la svolta grazie al sistema HIMARS (agosto-novembre)

In seguito, nel prosieguo delle settimane estive, si è assistito a un sostanziale stallo delle operazioni, situazione caratterizzata però da una crescente intensità delle azioni di fuoco di interdizione in profondità condotte dall’artiglieria ucraina. Queste si sono svolte in particolare grazie alle forniture di uno specifico sistema: il lanciarazzi multiplo statunitense HIMARS (High Mobility Artillery Rocket System), che con le sue munizioni guidate (razzi M-30/M-31 con gittata di 70 Km) ha rappresentato un “fattore” nel colpire tutta una serie di obiettivi nella “zona arretrata” delle forze russe. Anche grazie all’efficacia di queste attività, dalla fine di agosto si è materializzata una massiccia controffensiva ucraina, sviluppatasi dapprima contro la testa di ponte di Kherson, nel settore meridionale, poi, a partire dal 6 settembre, in quello orientale, a sud di Kharkiv. L’attacco su Kherson, condotto con ingenti forze e su tre direttrici, ha subito incontrato una forte resistenza e nonostante alcuni progressi iniziali è stato in seguito sostanzialmente contenuto da un dispositivo difensivo predisposto in precedenza e articolato in profondità su tre linee difensive. Le operazioni ucraine nel quadrante est, al contrario, hanno avuto subito un travolgente successo, che nel volgere di poche settimane ha costretto le forze russe ad abbandonare non solo le importanti posizioni di Kupiansk, Izium e Lyman, ma anche a ripiegare dall’intero oblast di Kharkiv.

Nel prosieguo delle settimane autunnali l’iniziativa è rimasta saldamente nelle mani delle forze di Kiev, che ad est, dopo aver attraversato il fiume Oskil, hanno continuato a spingere verso la linea Svatove-Kremmina. A sud gli ucraini hanno mantenuto una costante pressione sulla testa di ponte di Kherson, spingendo alla fine i russi ad abbandonarla – ripiegamento condotto peraltro in buon ordine e riducendo al minimo le perdite – completandone l’evacuazione entro l’11 novembre per attestarsi sulla riva sinistra del Dnepr, dove hanno proseguito i lavori di rafforzamento delle posizioni difensive. In seguito però l’intensità e il ritmo delle operazioni offensive ucraine sono venuti meno, e in poco tempo il loro “momentum” è scemato fino a spegnersi del tutto; quest’ultimo concetto, in particolare, è un preciso parametro operativo definito oggi dottrinalmente come la combinazione tra la velocità di progressione di un’offensiva e il mantenimento dell’iniziativa. A tale riguardo, comunque, altri autori classici nello studio dell’arte militare contemporanea avevano in precedenza coniato diverse definizioni del concetto di momentum, come ha fatto il brigadiere Richard E. Simpkin, un ufficiale dell’esercito britannico, nel suo libro pubblicato negli anni ’80 dello scorso secolo, “Race to the Swift”, il quale lo ha descritto come il prodotto di velocità, massa di forze impegnate e risultante celerità con la quale viene assolta una missione assegnata. Si tratta di una teoria che, ripresa e ampliata da un altro ufficiale, lo statunitense Robert Leonhard nel suo “The art of Maneuver”, applica alle operazioni militari terrestri (specie quelle offensive) termini e definizioni mutuati da quella branca della fisica che è la meccanica, associando in qualche modo lo studio dei movimenti e delle azioni degli eserciti a quello dei corpi materiali. In questo modo, dopo questi studi ci si è azzardati a parlare della teorizzazione di una sorta di “phisics of war”. Accade così, ad esempio, che una formazione lanciata all’attacco vede quello che è tradizionalmente chiamato “impeto” assimilato al concetto fisico di inerzia.

L’esaurimento ucraino e la ripresa russa alla fine del 2022

All’inizio di dicembre gli sforzi ucraini volti a scardinare la linea Svatove-Kremmina, a est del fiume Oskil, dove la difesa russa si era alla fine irrigidita dopo una serie di ripiegamenti, non hanno avuto esito e i tentativi di riconquistare queste due stesse località sono gradualmente stati fermati. Nello stesso mese, quasi con la stessa gradualità, l’iniziativa in quasi tutti i settori è nuovamente passata dalla parte russa, dapprima con una serie di contrattacchi volti ad arrestare definitivamente l’azione avversaria, poi con operazioni sempre più autonome e ad ampio respiro. Come noto, l’epicentro della lotta si è concentrato nel settore di Bakhmut, insediamento situato 30 Km a sud-est di Kramatorsk. A proposito di quest’ultima località, dove una violenta e sanguinosa battaglia è in corso da quasi due mesi, inizialmente diversi commentatori si sono affrettati a definirla “priva di significato” e di valore “puramente simbolico”. In realtà, con un’analisi più approfondita dal punto di vista tattico, si può rilevare come si tratti di un centro urbano di non trascurabili dimensioni, e come tale rappresenta un ostacolo per l’attaccante e specularmente un’opportunità per il difensore, caratteristiche che lo rendono intrinsecamente importante. Inoltre, Bakhmut si trova in posizione baricentrica rispetto a un sistema di strade che si diramano verso tutte le direzioni, la principale delle quali è l’autostrada M-03, che puntando a nord-ovest, passando per Sloviansk, collega la regione del Donbas con il resto dell’Ucraina e la capitale Kiev. La conquista di Bakhmut consentirebbe dunque ai russi di assumere il controllo di un importante snodo di comunicazioni, e di quello che rappresenta il bastione e l’ancoraggio meridionale della linea difensiva fortificata Sloviansk-Kramatorsk. Pertanto, con Bakhmut le forze russe potrebbero disporre di una valida base di partenza per approcciare questa linea difensiva da sud-est. Alla luce di ciò, si può comprendere dunque bene il perché, a loro volta, le unità ucraine stiano conducendo una tenacissima battaglia difensiva per scongiurare questa eventualità. In effetti, anche la caparbia difesa di Severodonetsk, la scorsa estate, pur essendosi conclusa alla fine con la ritirata dalla città, potrebbe aver inflitto agli attaccanti un attrito tale da rendere impossibile la prosecuzione di ulteriori operazioni verso ovest.

L’attesa dell’offensiva russa: la manovra dei 300.000 prima della “Rasputitsa”

Al di là di quella che è la sommaria descrizione degli ultimi sviluppi operativi del conflitto, dopo mesi di guerra alcuni importanti risvolti di carattere generale stanno emergendo e, soprattutto, stanno facendo scaturire interrogativi che sono al momento oggetto di discussione sulle fonti più autorevoli e qualificate nel campo degli studi strategico-militari. I mass media si sono concentrati nelle ultime settimane sulla “grande offensiva” russa, che starebbe per abbattersi sulle forze ucraine con i nuovi rinforzi giunti sul fronte grazie alla mobilitazione iniziata lo scorso settembre. Di certo, se l’apparato militare di Mosca riuscirà a trasformare in effettivo potenziale di combattimento i 300.000 uomini mobilitati (secondo alcune fonti sarebbero in realtà quasi 500.000), questo potrebbe avere un impatto decisivo a suo favore. A tale riguardo, probabilmente, è stato proprio l’arrivo delle prime aliquote di personale richiamato con questo provvedimento a consentire ai comandi russi di stabilizzare la difficile situazione venutasi a creare in autunno e poi riguadagnare l’iniziativa in tutti i settori del fronte. In caso contrario, sarà molto difficile, se non impossibile, per la Russia poter sperare di raggiungere i propri obiettivi nel conflitto, anche nel medio-lungo termine.

Secondo vari commentatori, non senza qualche ragione, questa grande offensiva di Mosca sarebbe già virtualmente iniziata, quantomeno nelle sue fasi preliminari, pur tenendo conto del fatto che tra non molto, almeno teoricamente, il sopraggiungere della stagione primaverile e della conseguente “Rasputitsa” farà riapparire il fango provocato dal disgelo, il quale tornerà nuovamente a ostacolare le operazioni, in particolare quelle delle forze mobili. Vi sono anche diverse ipotesi riguardo alle possibili direttrici d’attacco principali, il concetto di operazione, e gli obiettivi finali.

Tuttavia, non è detto che questi sforzi offensivi possano sfociare in una fase “manovrata” vera e propria. In verità, proprio questo è un aspetto che merita un particolare ragionamento e, in qualche modo, un certo sforzo di contestualizzazione. Occorre infatti notare che, soprattutto in occidente, ci si è abituati, in particolare dalla seconda guerra mondiale in poi, a vedere operazioni terrestri nelle quali la manovra – definita come il movimento di forze e concentramento del fuoco finalizzate ad acquisire una posizione di relativo vantaggio sull’avversario ai fini del conseguimento dell’obiettivo – ha molto spesso, se non quasi sempre, avuto un ruolo rilevante e decisivo. Dalla “primavera di vittorie” del 1940, con la quale la “blitzkrieg” condotta dalla Wehrmacht schiacciò la Francia e il corpo di spedizione britannico che aveva preso parte alla sua difesa, alle “corse” della Terza Armata americana del generale Patton in Europa Occidentale nel 1944, fino alle grandi offensive dell’Armata Rossa nelle fasi finali del conflitto, il secondo conflitto mondiale ha sancito come sia da attribuire la massima importanza alla guerra di manovra quale modalità decisiva per la vittoria. Anche nel secondo dopoguerra l’attenzione di militari e studiosi si è concentrata sugli altri significativi eventi bellici nei quali questa modalità di impiego delle forze terrestri si è rivelata determinante. Ciò è avvenuto in particolare riguardo le guerre che si sono svolte in Medio Oriente tra Israele e gli stati arabi (nel 1967 e nel 1973), dove proprio le fulminee operazioni offensive israeliane, condotte secondo i tipici dettami dell’approccio manovriero, furono decisive per l’esito finale di questi conflitti.

La guerra di manovra della Nato: dalla “difesa attiva” alla dottrina Air-Land Battle

In realtà, con particolare riferimento agli esempi citati, è sicuramente più corretto definire questa tipologia di operazioni come “aero-terrestri”, poiché è stato proprio il binomio forze corazzate-aviazione tattica la formula vincente, tanto nella Blitzkrieg tedesca delle fasi iniziali della seconda guerra mondiale, quanto nelle offensive condotte dalle forze armate di Israele nei vari conflitti che le videro contrapposte a quelle arabe. In particolare, all’indomani della guerra del Kippur del 1973, le “lezioni apprese” in campo dottrinale furono attentamente studiate in occidente, sulla base dell’esigenza della NATO di trovare una formula tattica per fronteggiare quelle che sarebbero state le forze del Patto di Varsavia, preponderanti dal punto di vista numerico, sul fronte centrale europeo. In questo caso, il problema si presentava pressoché identico a quello che gli israeliani dovettero risolvere durante il conflitto del 1973, in particolare sul fronte del Golan. A onor del vero, la dottrina tattica che scaturì da quella analisi, sancita dal Field Manual 100-5 del 1976 dell’esercito statunitense, prevedeva lo sviluppo di un sistematico e reiterato volume di fuoco da posizioni di combattimento preparate, con l’esecuzione di contrattacchi al solo fine di neutralizzare le eventuali penetrazioni avversarie nel dispositivo difensivo. Questo concetto operativo fu recepito dalla NATO con la cosiddetta “difesa attiva”, che effettivamente non poteva dirsi esattamente orientata sui canoni della guerra di manovra, quanto piuttosto sull’idea di imporre all’avversario (attaccante) un tasso di attrito tale da esaurirne il potenziale di combattimento e spezzarne così il “momentum”. Ma quasi subito la “difesa attiva” si attirò le critiche di chi la considerava troppo “statica” e sostanzialmente passiva, pertanto non idonea a ottenere una vittoria decisiva che gli immutabili principi dell’arte della guerra, frutto di millenni di esperienza bellica, hanno indicato come ottenibile solo con la salda acquisizione e il mantenimento dell’iniziativa e la conseguente condotta di operazioni offensive.

Non passò dunque molto tempo prima dell’affermarsi di un ulteriore e importante evoluzione dottrinale, quella che sancì l’affermazione della cosiddetta “Air-Land Battle”. Questa, con la sua enfasi posta sull’impiego di mezzi di erogazione del fuoco a lunga gittata – impieganti munizionamento guidato di precisione – e delle forze aerotattiche per colpire le retrovie e le unità in secondo scaglione dell’esercito sovietico (considerate il Centro di Gravità delle formazioni Sovietiche in attacco), poneva le premesse per indicare poi come imprescindibile la vigorosa ripresa dell’iniziativa e l’esecuzione di controffensive ad ampio raggio e in profondità con l’impiego delle forze mobili, sempre ampiamente supportate dal fuoco aereo. In buona sostanza, si trattò di un ritorno a pieno titolo della concezione occidentale delle operazioni terrestri sotto la forma della guerra di manovra. Questa è stata definita con precisione nel quadro del noto concetto di “approccio indiretto”, già teorizzato da illustri pensatori militari della prima metà del XX secolo, come il celebre ufficiale britannico B.H. Liddel Hart (passato alla storia come “il capitano che insegnò la guerra ai generali”), ma che a ben guardare affondava le sue lontanissime origini anche nell’opera di colui che fu probabilmente il primo vero teorico dell’arte bellica di cui abbiamo memoria: il cinese Sun Zu. L’approccio indiretto prescrive l’ottenimento della vittoria non (o meglio non principalmente) attraverso la distruzione fisica delle forze dell’avversario, bensì attraverso la sopraffazione della sua volontà e della sua tenuta morale per mezzo di astute e attente manovre volte a neutralizzarne, fino ad azzerarlo del tutto, la capacità e/o volontà di operare. Andando a recepire questi precetti senza tempo, oggi il corpus dottrinale occidentale e NATO definisce il potenziale di combattimento (“combat power”) di una forza militare come composto da tre componenti fondamentali: fisica, cognitiva e morale. Il cosiddetto approccio manovriero, che rappresenta uno dei cardini fondamentali della nostra concezione delle operazioni militari terrestri, preconizza la compromissione delle componenti cognitiva e morale (ossia quelle “immateriali” per definizione, rappresentate dai processi decisionali, dalle informazioni disponibili, dalla consapevolezza della situazione e dalla volontà di combattere) del potenziale di combattimento nemico attraverso operazioni offensive rapide e risolutive, e subito dopo, in modo “indiretto”, anche di quella fisica, che cadrebbe così come un frutto maturo nella mani  del vincitore.

Attualmente, nell’Alleanza Atlantica e in ambito nazionale, si è dunque giunti a ritenere la “manoeuver warfare“, e i suoi corollari quali il comando decentralizzato e il processo di apprendimento e adattamento, come la via migliore e la più efficace da perseguire: e questo per numerosi buoni motivi. Come dimostrato dalle esperienze belliche del passato, con la sua applicazione si può ragionevolmente sperare di vincere in modo rapido, e quindi “economico” in termini di materiali e, soprattutto, di vite umane. Non è un caso, infatti, se lo stesso Liddel Hart, memore ed egli stesso vittima del carnaio del primo conflitto mondiale (era rimasto ferito e debilitato permanentemente a seguito di un attacco condotto con l’uso di gas tossici), aveva elaborato le sue idee anche e soprattutto allo scopo di evitare il tragico ripetersi di una sanguinosa guerra di posizione come quella che aveva vissuto personalmente sul fronte occidentale nel 1914-18.

Gli insegnamenti della Storia militare per comprendere la “manovra” russa

Tuttavia, nella lunga e articolata storia dell’arte militare non è stato sempre così. Per lungo tempo vi è stata una differente scuola di pensiero strategico, riguardante invece la “guerra di usura” e il cosiddetto “approccio diretto”. Molti hanno visto nello stesso Clausewitz l’antesignano e uno dei massimi esponenti di questa posizione, esemplificata dal Vernichtungprinzip, contenuto nella fondamentale opera del celebre prussiano, il Vom Kriege, e in tale ottica questo termine è stato tradotto in “principio di annientamento”. A tal proposito, lo stesso Liddel Hart aveva mosso una critica al pensiero di Clausewitz definendolo come il “Mahdi della massa”.

La dicotomia (ma anche le relazioni) tra i concetti di “guerra di attrito” e “guerra di manovra”, e quelli rispettivamente correlati di “approccio diretto” e “approccio indiretto”, sono stati presi in esame e descritti compiutamente negli anni ‘80 dello scorso secolo proprio da Simpkin in “Race to the Swift”. In esso l’autore menziona anche un’interpretazione alternativa del Vernichtungprinzip clausewitziano, derivante dalla sua diversa traduzione in termini di “disarticolazione” o “disorganizzazione”, piuttosto che distruzione fisica del nemico, riconducendolo così ai canoni più aderenti alla teoria della manovra. Tra l’ultimo scorcio del XX e l’inizio del XXI secolo, effettivamente, questa è parsa conoscere la sua definitiva affermazione tra le sabbie del Medio Oriente, rispettivamente con le operazioni “Desert Storm”, del 1991, e “Iraqi Freedom” del 2003. Nel primo caso, le forze statunitensi hanno applicato con successo i dettami della Air Land Battle, risolvendo il conflitto con una fulminea e risolutiva offensiva terrestre passata alla storia come “la guerra delle 100 ore”. Nel secondo, un altrettanto rapida vittoria è stata ottenuta seguendo un concetto derivante da un ulteriore evoluzione in chiave contemporanea dell’approccio indiretto: quella denominata “Shock and Awe” (“colpisci e terrorizza”) e “Rapid Dominance”, in questo caso declinata a partire dai livelli strategico e operativo.

Nondimeno, secondo alcuni qualificati osservatori un anno di operazioni nel conflitto ucraino stanno mettendo, almeno in parte, in discussione la valenza e soprattutto l’effettiva applicabilità dell’approccio manovriero negli ambienti operativi contemporanei. Tra questi, il professor Anthony King, titolare della cattedra di studi militari dell’università di Warwick, in Inghilterra, ha sollevato il dibattito, a più riprese, e soprattutto in un articolo dal titolo “Is Manoeuvre Alive?” apparso sull’autorevole sito inglese “The Wavell Room”. Le obiezioni sollevate da King hanno avuto una replica da parte del maggiore dell’esercito britannico Steve Maguire, il quale in un altro articolo, pubblicato sullo stesso sito, “Yes Manoeuvre is Alive. Ukraine Prove it”, ha citato come esempio per supportare la sua tesi – secondo la quale le operazioni basate sulla manovra mantengono la loro piena validità – la vittoriosa controffensiva ucraina di Kharkiv. Questa è stata effettivamente condotta con rapide penetrazioni in profondità di forze mobili, compresi distaccamenti motorizzati leggeri (“Kraken Units”), i quali rinunciando scientemente alla protezione fornita da veicoli corazzati pesanti hanno operato sfruttando la grande mobilità assicurata da quelli ruotati leggeri. A tal proposito però, ora si può aggiungere come la fase manovrata della controffensiva ucraina di Kharkiv abbia avuto una durata limitata a non più di un mese, e dopo la riconquista di Lyman, avvenuta il 1° ottobre, il ripiegamento delle forze di Mosca ha assunto la forma di un frenaggio che progressivamente – forse in ossequio alla dottrina tattica difensiva russa, che privilegia la cosiddetta “manovra difensiva” rispetto alla difesa statica, privilegiando ogniqualvolta possibile lo “scambio” dello spazio al fine di guadagnare tempo e preservare le forze – ha finito per assorbire e smorzare l’impeto di quelle ucraine, fino al definitivo irrigidimento sulla linea Svatove-Kremmina.

I due fattori che condizioneranno gli sviluppi operativi: densità delle forze e natura del terreno

Alla luce di tutto ciò, i possibili sviluppi delle operazioni nel conflitto ucraino possono essere ipotizzati tenendo conto di questi importanti aspetti generali. Appaiono ormai chiari i diversi aspetti limitanti che producono un attrito significativo nei confronti di qualsiasi operazione offensiva manovrata. Innanzitutto, la “densità” delle forze contrapposte, che al momento non consentono a entrambi i contendenti il raggiungimento di un’adeguata superiorità sull’avversario, come invece pare essere avvenuto per gli ucraini a Kharkiv. Al momento, le forze di ambedue le parti in lotta stanno gravitando soprattutto nel quadrante orientale del Donbas, dove i due gruppi operativi russi che vi sono schierati, quello di “Voronezh” e quello di “Rostov”, allineano rispettivamente l’equivalente di 54 e 67 battaglioni, o gruppi tattici di livello battaglione, anche se appare sempre più chiaro l’abbandono da parte dei russi di questa articolazione tattica a favore di un ritorno alla tradizionale struttura reggimento/divisione. A essi, lungo i circa 250 km di fronte che vanno dal settore a sud-est di Kharkiv a quello subito a ovest di Donetsk, si contrappongono circa 30 brigate ucraine, inquadrate nei comandi operativi nord, est e sud, tra le quali figurano la maggior parte di quelle pesanti (meccanizzate e corazzate) disponibili.

Tenendo conto che nell’organico di queste ultime figurano mediamente quattro battaglioni di manovra, cui si aggiungono altri reparti di supporto al combattimento di artiglieria (per quanto riguarda questa fondamentale componente in misura quasi doppia rispetto agli standard occidentali), genio, controaerei e delle trasmissioni, ne consegue che, quantomeno dal punto di vista delle unità di manovra, al momento le forze russe non dispongono della superiorità necessaria per realizzare una vera “rottura” del fronte. Inoltre, le numerose unità ucraine (ivi comprese quelle della Viiska Terytorialnoi oborony (VTO) la difesa territoriale, e della Natsionalna hvardiia Ukrainy, la Guardia Nazionale, che coadiuvano con una certa efficacia le operazioni di quelle regolari) presidiano tutti i settori del lungo fronte con dispositivi difensivi fortemente organizzati e fortificati, negando così lo spazio di manovra necessario per la condotta di una qualsiasi operazione ad ampio raggio basata sulla penetrazione e sulla mobilità.

Anche l’effettiva superiorità delle artiglierie russe, pur imponendo quello che deve essere molto probabilmente un attrito non trascurabile ai difensori, viene in parte mitigato dalla protezione fornita dalle postazioni difensive e fortificazioni campali di cui possono usufruire questi ultimi. Nello stesso modo, la stessa “densità” delle unità ucraine per la difesa controaerei, in special modo quelle maggiormente mobili – e per questo relativamente meno vulnerabili alle missioni di Suppression Enemy Air Defences (SEAD) avversarie – rende ugualmente, al momento, troppo rischiosa anche la “manovra nella terza dimensione”, impedendo qualsiasi tentativo di “aggiramento verticale” condotto da forze aviotrasportate o aeromobili, e questo almeno fino a quando le prime potranno rimanere sufficientemente operative dal punto di vista del munizionamento (in primo luogo missilistico) e del mantenimento in efficienza dei sistemi d’arma.

Il secondo fattore che sembra stia rendendo estremamente difficoltoso, se non impossibile, l’esecuzione di operazioni manovrate in Ucraina è quello relativo al terreno, e in modo particolare l’importante presenza di numerosi e relativamente estesi centri abitati, soprattutto nella regione del Donbas. In effetti, proprio la sempre maggiore urbanizzazione di aree sempre più vaste del pianeta è uno dei principali temi sulla base dei quali il professor King ha basato la sua “provocazione” dialettica sulla presunta “morte” dell’approccio manovriero. Il conflitto ucraino sembrerebbe avvalorare questa tendenza, con tutta una serie di importanti battaglie, da quella di Mariupol, a quelle di Severodonetsk, Lysichansk e Bakhmut, che si sono svolte o sono in corso nei centri abitati. L’elevato ostacolo rappresentato da questo tipo di terreno rende particolarmente difficile lo sviluppo di rapide manovre offensive, un elemento che a ben guardare era stato già osservato nel precedente confronto del 2014-15. In quel caso, i prolungati scontri svoltisi per il possesso di aree urbane o infrastrutture quali l’aeroporto di Donetsk (dove i paracadutisti ucraini resistettero ostinatamente per non meno di sette mesi ai reiterati attacchi dei separatisti) o della cittadina di Debaltsevo, hanno spinto alcuni attenti osservatori, come il maggiore dell’esercito statunitense Amos C. Fox, nel suo studio specificamente dedicato alla battaglia di Debaltsevo dal titolo “Battle of Debal’tseve: the Conventional Line of Effort in Russia’s Hybrid War in Ukraine”, a parlare esplicitamente di un ritorno alla “guerra di assedio”.

La prima lezione appresa: campo di battaglia trasparente e importanza del livello tattico

Nel conflitto oggi in corso, dopo la prima fase altamente dinamica del febbraio-marzo 2022 caratterizzata dalle prime, effettivamente rapide, penetrazioni e puntate offensive delle forze russe, anche queste sono poi giunte al loro “punto culmine” anche e soprattutto per la presenza di tutta una serie di centri urbani che venivano sistematicamente aggirati, ma nei quali i difensori ucraini continuavano, seppur isolati, a resistere. Il terzo fattore che agisce contro la manovra in Ucraina è quella che è stata già riconosciuta come una delle prime fondamentali “lezioni apprese” di questo conflitto, ossia quella relativa al cosiddetto “campo di battaglia trasparente”. In essa viene riconosciuto come la massiccia e pervasiva presenza di tutta una vasta panoplia di assetti di Intelligence, Surveillance e Reconnaissance (ISR) – dai satelliti di sorveglianza agli UAV da ricognizione distribuiti fino ai minimi livelli ordinativi – rende estremamente difficile la realizzazione della sorpresa a tutti i livelli: strategico, operativo e tattico. Questo perché qualsiasi importante concentrazione di forze, in modo particolare terrestri, in un determinato settore, viene prontamente rilevata e analizzata, consentendo al difensore (in modo particolare quando si tratta degli ucraini) di reagire con prontezza, ad esempio con il fuoco o con il rischieramento di riserve e rinforzi. Essendo proprio la sorpresa non solo uno dei riconosciuti e fondamentali principi dell’arte militare, ma anche uno dei principali “moltiplicatori di potenza” di qualsiasi operazione offensiva, è chiaro come la sua assenza determini un’estrema difficoltà nella condotta con ragionevole successo di queste ultime. 

In tale quadro, a mantenere la situazione in equilibrio vi è anche l’impossibilità da parte russa di far valere la superiorità numerica e qualitativa delle proprie forze aeree, a causa delle numerose unità controaerei mobili ucraine, esattamente come già riferito a proposito della non fattibilità di operazioni avioportate o aeromobili . In esito a ciò, tra le sue peculiari caratteristiche questo pare essere il primo conflitto da diversi decenni a questa parte in cui il potere aereo non ha costituito, fino ad ora, un fattore davvero rilevante, almeno per quanto riguarda le piattaforme pilotate (un discorso a parte va fatto certamente per gli UAV e i sistemi missilistici per l’attacco a lungo raggio).

A tutti gli effetti, questa apparente superiorità dei mezzi e delle capacità della difesa sull’attacco ricorda quanto era avvenuto nel secolo scorso durante le prime fasi del primo conflitto mondiale, a dispetto dei primi chiari segnali in questo senso emersi in alcuni importanti eventi bellici precedenti, quali la guerra anglo-boera, quella russo-giapponese, e i conflitti balcanici, aspetti cruciali che non furono raccolti dai vertici dei principali eserciti dell’epoca. D’altronde, non sono mancati da più parti i tentativi di tracciare un parallelo storico in questo senso, con diversi commentatori che hanno voluto assimilare la battaglia di Bakhmut, ad esempio, a una “nuova Verdun”. Questa precisa tendenza era stata peraltro già chiaramente illustrata ancora prima dell’invasione russa dell’Ucraina da alcuni perspicaci commentatori, quali il professor Thomas Hammes, ricercatore dell’Institute for National Strategic Studies americano, il quale in un articolo dal titolo: “the tactical defense becomes dominant again” – sotto molti aspetti davvero profetico rispetto a quanto si sta verificando oggi – aveva già illustrato con dovizia di particolari tutti questi elementi.

Due futuri possibili schemi di manovra russa

In questo momento, le offensive russe in atto nel Donbas sembrano prefigurare due schemi di manovra in atto sotto la forma di altrettanti “doppi avvolgimenti”.

Il primo è in corso sulla cintura di villaggi a nord e sud di Bakhmut, volto a tagliare le principali vie d’accesso alla città e costringere così i caparbi difensori della città ad abbandonarla, pena il completo accerchiamento. Il secondo, partendo dall’area di Yakovlivka, a nord-est della stessa Bakhmut, vede le forze del 2° corpo d’armata (rappresentato dalle forze della repubblica separatista di Luhansk, ora ufficialmente integrate in quelle della federazione russa) spingere verso nord, in direzione di Siversk, con almeno quattro brigate fucilieri motorizzati in concomitanza di una seconda direttrice, che dall’area di Kreminna, con forze della 144a divisione e 30a brigata fucilieri motorizzati, spinge verso sud-ovest al fine di minacciare il tergo delle otto brigate ucraine che difendono la linea a ovest di Lysychansk.

Tuttavia, si tratta di attacchi con una progressione lenta, che pare metodica e sempre sostenuta da un nutrito fuoco di artiglieria. In particolare, le ultime analisi indicherebbero un adattamento dei procedimenti tattici russi; tra questi, citando un esempio tra i più rilevanti, vi sarebbe la creazione di un nuovo tipo di formazione, denominata “Shturmovoy otryad” (distaccamento d’assalto), di livello compagnia rinforzata, costituita integrando fanteria (dotata di lanciarazzi impieganti munizioni con testata termobarica, efficaci nell’impiego contro edifici), carri, una sezione di artiglieria/mortai semoventi, e un’aliquota logistica. Sarebbe questa, dunque, una delle soluzioni che gli attaccanti, in questa fase, stanno adottando per fronteggiare la situazione che emerge dal campo di battaglia.

La prevalenza dell’attrito sulla manovra

In ultima analisi, le operazioni terrestri in Ucraina, e più in generale l’intero andamento del conflitto, avrebbero ormai assunto il carattere di una lotta basata sull’attrito, molto più che sulla manovra. Una vera “Materialschlacht”, ossia una “battaglia di materiali”, come questa veniva definita dalla classica terminologia militare tedesca, dove la forza del numero e dell’acciaio hanno un ruolo preminente. Effettivamente, i riflessi sul livello strategico sono ormai accertati, con tutta una serie di analisi che parlano sempre più distintamente di ritorno alla dimensione industriale della guerra. Questo era già stato evidenziato in alcuni articoli pubblicati lo scorso anno, uno dei più noti dei quali apparso nel giugno 2022 sul sito del Royal United Service Institute dal titolo “The return of industrial warfare”. A tal proposito, le preoccupazioni manifestate da più parti sulla capacità da parte dei paesi NATO (e altri del mondo occidentale) di continuare a sostenere le forze armate di Kiev, soprattutto per quanto riguarda il munizionamento d’artiglieria, sono molto indicative. Nello stesso modo, sono diverse e articolate le valutazioni sulla reale efficacia delle sanzioni economiche sull’industria bellica russa, già mobilitata al massimo per sostenere lo sforzo bellico. Se questa tendenza andrà a confermarsi, è molto improbabile che la tanto pubblicizzata “grande offensiva” russa possa sfociare in una fase dinamica e manovrata, ammesso e non concesso che, preso atto della situazione contingente, questo possa essere il reale intento dei comandi russi. Essa potrebbe invece assumere i lineamenti di una pressione costante, su ampio fronte, secondo i dettami di un approccio basato su attacchi sistematici e massiccio ricorso al fuoco di artiglieria, e in esito a ciò progredire lentamente, ma inesorabilmente, con sfondamenti limitati, seguiti da successivi consolidamenti, così come è stato durante la battaglia del Donbas di maggio-luglio 2022. La stessa cosa, specularmente, potrebbe accadere nel caso di un nuovo passaggio dell’iniziativa dalla parte ucraina, con l’avvio di nuove controffensive per la riconquista dei territori occupati. Su questo versante, in ogni caso, dopo l’annosa vicenda della fornitura dei carri Leopard 2, è opportuno sottolineare come l’arrivo di questi mezzi – a meno che non avvenga in numeri davvero importanti che comunque non sembrano molto probabili – non potrà avere un impatto decisivo sull’andamento e soprattutto l’esito delle operazioni.

Questo, comunque, potrebbe drasticamente cambiare nel caso di un cedimento drastico e rilevante di uno dei due contendenti in uno o più settori sufficientemente ampi del fronte, cosa che al momento non sta avvenendo, ma che è pur sempre possibile. Se la “guerra di manovra” potrà prendersi una sua clamorosa rivincita (come è accaduto a Kharkiv lo scorso settembre), o se cederà definitivamente il passo a una lunga, logorante e metodica “guerra di usura”, verrà sancito solamente dalla consueta, inappellabile e dirimente sentenza di quel giudice definitivo che è il campo di battaglia.


Offensiva russa in Ucraina? I limiti dell’Occidente che la Russia sfrutterà

di Claudio Bertolotti


Le battaglie stanno prosciugando le scorte di armi da entrambe le parti.

Jens Stoltenberg, Segretario generale della Nato

Le battaglie stanno prosciugando le scorte di armi da entrambe le parti. Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha avvertito all’inizio di questa settimana che l’Ucraina sta consumando le munizioni molto più velocemente di quanto i suoi alleati possano fornirle.

L’amara constatazione del Segretario generale dell’Alleanza atlantica, a conclusione della riunione dei ministri della Difesa della Nato avvenuta il 14-15 febbraio, suggerisce un quadro non favorevole a Kiev in relazione agli sviluppi della guerra russo-ucraina iniziata quasi un anno fa.

L’analisi del quadro complessivo non può tener conto di quattro fattori, da cui discendono le future prospettive e le possibili opzioni.

Il primo elemento chiave consiste nel fatto che la Russia ha la volontà politica (imposta dalla necessità della sua leadership) di proseguire la guerra fino a quando non avrà raggiunto i propri obiettivi strategici minimi, ed ha la capacità militare di proseguire una guerra di media intensità per un tempo ancora indefinito, indipendentemente dalle perdite sul campo di battaglia. L’esperienza decennale della guerra in Cecenia ne è una conferma.

Il secondo fattore è dato dalla volontà politica ucraina di proseguire sulla linea della resistenza armata, ma la sua limitata capacità militare dipende in toto dall’aiuto esterno, in primis, da parte degli Stati Uniti e, a seguire, dai Paesi e dalle organizzazioni del blocco occidentale (Unione Europea e Nato): a fronte dell’attuale ritmo di rifornimento militare, se Kiev continuerà a perseguire la linea della resistenza a oltranza come sta facendo da tempo (in particolare nell’area orientale di Bakhmut) non potrà in alcun modo condurre azioni controffensive.

Terzo fattore: la NATO. L’Alleanza fornisce un sostegno limitato, proporzionale alle sue capacità e disponibilità dei singoli Paesi aderenti, e non ha intenzione di essere trascinata in un conflitto allargato che sarebbe devastante e senza via d’uscita, se non attraverso il confronto diretto con la Russia e l’escalation di violenza che ne conseguirebbe. Un prezzo che l’Alleanza non è disposta a pagare. Dunque, si rilevano limiti politici di volontà associati a una capacità di sostegno che metterebbe in crisi il sistema industriale dei membri dell’Alleanza, la maggior parte dei quali sono anche membri di un’Unione europea politicamente debole e divisa.

Infine, il quarto fattore: gli Stati Uniti. Washington ha una limitata volontà politica e una significativa, ma condizionata, capacità di sostegno militare nel breve-medio periodo ma nessuna intenzione di sostenere una guerra sul lungo periodo rischiando un impegno simile a quello sostenuto nella guerra in Afghanistan.

Questi quattro fattori mettono in evidenza la principale criticità dell’intero meccanismo di sostegno all’Ucraina: la divergenza tra limitata volontà/capacità occidentale, propensa a un accordo negoziale in cui Kiev dovrebbe rinunciare a parte della propria sovranità territoriale, e la determinata volontà e significativa capacità russa di sostenere una guerra a media intensità sul lungo periodo per annettere (non importa in quanto tempo) l’intero territorio ucraino.

Il quadro che si è definito continua a essere a vantaggio di una Russia che, per quanto indebolita sul piano delle Relazioni internazionali, fiaccata militarmente ed economicamente impoverita, non farà alcun passo indietro, né militarmente né politicamente, così come non lo fece nel 2014/2015. E’ un deja vu: lasciare spazio di manovra negoziale a Mosca significa ripetere gli errori della prima guerra di Ucraina, che aprì le porte alla seconda fase, iniziata il 24 febbraio 2022.


Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: il libro di C. Bertolotti

Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale

Il nuovo libro di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight, “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” (ed. STARTInSight, 2023, 161 pp., Euro/CHF 14,00) è stato pubblicato per i tipi della Collana “InSight”, disponibile su Amazon.it o richiedendolo all’editore (info@startinsight.eu).

La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.

Il “sistema Mediterraneo” è attualmente sottoposto a un forte stress, politico, sociale, economico, commerciale ed energetico. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.

Non v’è dubbio alcuno che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, è e sarà sempre più l’elemento in grado di condizionare il livello di stabilità o instabilità dell’intera area del mediterraneo allargato. Questo intreccio di ambizioni e legittime aspettative, a cui si aggiungono i fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali, che spesso appaiono inconciliabili tra loro, è la sfida che la nostra generazione ha di fronte e deve affrontare.

Acqua ed energia sono i due elementi chiave che determineranno, e che già ora determinano, l’insorgere di instabilità, emergenze e sfide sempre più pressanti e urgenti.

Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i Paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di risorse idriche e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti energetici interregionali. Dall’altro lato, gli Stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.

Relativamente al contesto energetico, l’area mediterranea è caratterizzata da un notevole aumento delle importazioni di energia convenzionale: l’80% dei Paesi del Mediterraneo occidentale sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico ed evitare la produzione eccessiva di gas serra, con uno sguardo rivolto verso l’alternativa delle energie rinnovabili.

In particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di energia, esistono approcci contrastanti sulle modalità di accesso e sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali); dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una base puramente temporale. Quest’ultimo, certamente minoritario e marginale all’interno dell’ampio panorama dell’opinione pubblica, è però in grado di ottenere un’amplificazione massmediatica delle proprie istanze, complice l’assenza di una strategia comunicativa di contro-narrazione istituzionale efficace.

Governi e decisori politici saranno pertanto chiamate ad attuare politiche realistiche, economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, anche lo sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini di contenimento dell’inquinamento globale il cui contributo, unitamente e in maniera coordinata e bilanciata a quello delle fonti energetiche sostenibili, richiede importanti investimenti e una chiara visione di lungo periodo.

Il tema del volume “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo. Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” parte dalle riflessioni e dalle valutazioni della ricerca[ sviluppata nel 2022 in seno alla “5+5 Defense Initiative” dal gruppo internazionale di ricercatori designati dai Paesi aderenti all’iniziativa. Il tema affrontato è strategico e di estrema attualità data la crescita nel consumo di acqua e di energie rinnovabili che le rende un importante argomento politico ed economico e al contempo oggetto primario nelle relazioni internazionali e negli equilibri di potere, interno ed esterno, alle nazioni.

«Acqua pulita e accessibile per tutti» è l’obiettivo numero 6 nella lista degli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, Sdg) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015. Di vitale importanza per la vita umana, i Paesi del Mediterraneo occidentale, le loro popolazioni, agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono un’importanza vitale all’acqua.

Per quanto riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica), il cui potenziale è considerato inesauribile, sono però prodotte con costi ancora elevati, e spesso non sostenibili su larga scala e con le infrastrutture esistenti. In tale quadro, caratterizzato da una grande incertezza in cui le opportunità politiche e le istanze di una parte della società civile svolgono un ruolo non sempre favorevole e costruttivo, si registra un’accelerazione da parte dei Paesi maggiormente industrializzati dell’Unione europea verso una “transizione energetica” che, sotto molti aspetti, tende a imporsi come una riduzione forzata e irrazionale dell’utilizzo di fonti energetiche fossili, con danni potenzialmente gravi e irreversibili per le economie nazionali e per gli equilibri economici, sociali e politici.

Ciò nonostante, va però riconosciuto che un approccio responsabile che guardi ad un affrancamento progressivo dalle fonti fossili e combustibili, dunque una “transizione energetica” sostenibile, progressiva e che tenga conto delle capacità tecnologiche, dell’impatto economico-sociale e delle attuali fonti energetiche primarie, se da un lato presenta criticità evidenti, dall’altro lato apre alla possibilità di quella auspicata e necessaria autonomia energetica strategica, essenziale tanto ai singoli Paesi quanto e ancor di più, al «sistema europeo». Una scelta strategica, quella che l’Unione europea ha definito, essenziale per imporsi come modello di sviluppo di riferimento in un’epoca storica caratterizzata dagli effetti del cambiamento climatico e dalle crescenti difficoltà di accesso e disponibilità di combustibili fossili. Ciò potrà trovare realizzazione solo attraverso la consapevolezza della primazia di un fattore ineludibile e condizionante: la crescita e lo sviluppo della popolazione sono le variabili indipendenti che determinano un aumento del consumo di risorse energetiche e idriche e mai il contrario. Dunque la capacità di approvvigionamento e di produzione energetica dovrà tener conto di un aumento progressivo della domanda di energia, coerentemente con l’andamento demografico ed economico, così come dello sviluppo tecnologico dei Paesi che ridefiniranno le loro strategie nazionali di sicurezza energetica in questa direzione.

Ed è in questo preciso scenario teorico che va ad inserirsi la guerra russo-ucraina iniziata nel febbraio 2022, quale dimostrazione pratica della mutabilità delle relazioni internazionali, dei rapporti tra alleati e competitor, così come dell’imprevedibilità di eventi naturali o umani in grado di negare, in tutto o in parte, l’accesso alle risorse energetiche e di condizionare in maniera sfavorevole i prezzi delle fonti energetiche, con dirette ripercussioni sul piano sociale, politico ed economico. E proprio la guerra russo-ucraina, ha riportato l’attenzione dei governi sui rischi di interruzione delle forniture che comportano, per definizione, quel costo strategico che va opportunamente calcolato: esercizio non semplice, che non può essere ridotto al semplice computo di investimenti e relativi rendimenti, ma comprende anche valutazioni sulle diverse opzioni strategiche limitando, in primis, i rischi legati alla fortissima dipendenza da idrocarburi e, in secondo luogo, imponendo l’esigenza di una diversificazione del mix energetico a prezzi accessibili e di un potenziamento dell’influenza dal lato dell’offerta, in particolare attraverso la realizzazione dei gasdotti, a cui devono associarsi il principio della solidarietà tra Stati amici (in particolare tra Stati membri dell’Unione europea).

In sintesi, l’obiettivo a cui si guarda è quello di creare un mix energetico sostenibile, efficiente e diversificato, cioè che sia sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico, che utilizzi le risorse in modo efficiente e che sia basato su diverse fonti di energia, in modo da ridurre la dipendenza da una sola fonte. Inoltre, è importante adottare un approccio integrato per affrontare le sfide e le opportunità legate ai cambiamenti climatici, cioè un approccio che consideri i diversi aspetti e le connessioni tra loro.

Sul piano politico-strategico, assume particolare rilevanza lo sviluppo di un “sistema mediterraneo dell’energia”, ovvero un sistema che colleghi in modo sicuro e a più vie le due sponde del Mediterraneo. Ciò potrebbe includere il potenziamento delle infrastrutture esistenti, come gasdotti e condotti sottomarini, e la costruzione di nuove infrastrutture, come impianti di trasformazione e stoccaggio dell’energia. L’obiettivo è quello di aumentare la sicurezza e la diversificazione delle fonti di energia per l’Europa, oltre che di sfruttare le opportunità economiche offerte dalla cooperazione energetica con i paesi della sponda Sud del Mediterraneo, con l’obiettivo primario di governare le dinamiche delle relazioni internazionali, senza esserne sopraffatti a causa di una mancata o inadeguata strategia di sicurezza nazionale.

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Sicurezza energetica e accesso all’acqua: la sicurezza del Mediterraneo secondo la “5+5”

La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.

Coerentemente con questo principio e nell’ottica di cooperare per la sicurezza e la stabilità del Mediterraneo, i Ministri della Difesa aderenti alla “5+5 Defense initiative” (Italia, Francia, Spagna, Malta, Portogallo, Mauritania, Marocco, Libia, Algeria, Tunisia) in occasione della riunione ministeriale tenuta a Rabat (Marocco) lo scorso 16 dicembre, hanno discusso e approvato il documento di ricerca, e gli indirizzi di policy in esso contenuti, dal titolo: “Risorse idriche e energia rinnovabile come strategia per la stabilità futura nello spazio 5+5“. Il documento, a cui ha contribuito il ricercatore senior e rappresentante unico per l’Italia Claudio Bertolotti, direttore di START InSight, è stato illustrato al Sottosegretario di Stato alla Difesa Matteo Perego di Cremnago.

Non c’è dubbio che il “sistema Mediterraneo” sia attualmente sottoposto a un forte stress. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.

Così come non c’è dubbio che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, sono e saranno sempre più gli elementi in grado di determinare il livello di stabilità o instabilità dell’area mediterranea.

Questo intreccio di ambizioni, aspettative legittime, a cui si aggiungono i fattori della geopolitica, spesso appaiono inconciliabili tra loro, ma sono queste le sfide che la nostra generazione ha di fronte e deve risolvere.

Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di acqua e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti interregionali. Dall’altro lato, gli stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.

Relativamente al contesto energetico, lo spazio mediterraneo è caratterizzato da un notevole aumento delle importazioni di energia convenzionale, l’80% dei paesi appartenenti all’area del Mediterraneo occidentale, sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico ed evitare la produzione di gas serra.

In particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di energia, esistono approcci contrastanti sugli aspetti di accesso e sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali); dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una base puramente temporale.

Governi e decisori politici dovranno attuare politiche realistiche che devono essere economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, lo sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini di contenimento dell’inquinamento globale.

I contenuti del documento di ricerca 2022 della “5+5 defense initiative”

Il tema di ricerca 2022 “Water Resources and Renewable Energy as a Strategy for Future Stability in the 5+5 Space” è strategico e di estrema attualità dato che l’acqua e le energie rinnovabili sono sempre più consumate, di fatto rappresentando una questione politica ed economica di primaria importanza.

“Acqua pulita e accessibile per tutti” è l’obiettivo numero 6 nell’elenco degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015. Di vitale importanza per la vita umana, e coerentemente con il principio enunciato dalle nazioni Unite, i dieci paesi dello spazio 5+5, le loro popolazioni, gli agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono grande importanza all’acqua.

Per quanto riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica) che sono inesauribili e sostenibili ma che richiedono ancora elevati costi di produzione, il loro interesse sta diventando sempre più rilevante in conseguenza dei cambiamenti climatici e della scarsità di combustibili fossili.

Oggi il mondo si trova di fronte a un importante punto di svolta della sua storia poichè la crescita demografica e lo sviluppo industriale stanno imponendo un elevato e crescente consumo di risorse energetiche e idriche.

Risorse idriche. I Paesi dell’area 5+5 dispongono di notevoli risorse idriche, ma il 90% della disponibilità è locata nei Paesi settentrionali dell’area; al contrario, Aleria, Marocco e Tunisia sono in situazione di penuria. Alcuni paesi come Malta e la Libia sono caratterizzate da un consumo superiore alla capacità delle loro risorse rinnovabili e sono tra i 10 paesi con meno risorse idriche al mondo.

Fabbisogno energetico. Il contesto energetico dell’area 5+5 è caratterizzato da un notevole aumento dell’importazione di energia convenzionale; l’80% dei suoi paesi sono grandi importatori. Si tratta di una situazione che impone la ricerca di soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico e allo stesso tempo evitare un aumento della produzione di gas serra. È quindi essenziale promuovere lo sviluppo e l’utilizzo di energie rinnovabili. In particolare, l’abbondanza di risorse energetiche solari ed eoliche è un fattore che accomuna i paesi della sponda sud dell’area 5+5.

Idroneno verde (Green hydrogene): L’idrogeno verde, prodotto dall’elettrolisi dell’acqua alimentata da fonti energetiche rinnovabili, può essere utilizzato per contribuire alla decarbonizzazione dei settori e delle aree produttive più difficili da elettrificare.

Energia nucleare. Lo sviluppo del nucleare ha contribuito alla riduzione degli effetti negativi del cambiamento climatico sui paesi industrializzati. Nel 2018, l’energia nucleare ha contribuito per il 10,1% alla produzione mondiale di elettricità, imponendosi quindi come terza più grande fonte di produzione di elettricità al mondo.

Quali gli aspetti di rilievo evidenziati dalla ricerca?

1. Risorse idriche, criticità dell’area “5+5”:

a) Almeno 3 paesi (Algeria, Marocco, Tunisia) si trovano in una situazione critica (≤ 1.000 m3/hbt/anno),

b) sfruttamento eccessivo delle acque sotterranee (fossili), perdite nelle reti e sprechi,

c) inquinamento delle risorse e impatto del cambiamento climatico,

d) carenze in alcuni quadri giuridici e scarso sviluppo delle capacità.

2. Risorse idriche, punti di forza dell’area “5+5”:

a) Ricchezza di risorse naturali,

b) Diversi partenariati a livello di istituzioni internazionali,

c) Reale volontà dei governi di attuare il diritto all’acqua e il suo accesso per tutti,

d) Grande potenziale in termini di energia sostenibile.

3. Energie rinnovabili, criticità dai Paesi dell’area “5+5”:

a) Mancanza di incentivi nei quadri legislativi esistenti,

b) Debolezza dei programmi di capacity building,

c) Mancanza di integrazione regionale dei mercati dell’energia e delle reti elettriche,

d) Affidamento a materiali e minerali rari per la produzione di tecnologie a basse emissioni di carbonio.

4. Il potenziale dei paesi membri nelle energie rinnovabili

a) Importanti capacità umane e materiali per investimenti nel settore delle energie rinnovabili,

b) Disponibilità di importanti risorse rinnovabili,

c) Il continuo sostegno dello Stato al nuovo settore energetico,

d) Il riconoscimento dell’accesso alle fonti energetiche come «priorità di sviluppo nazionale».

Alcune raccomandazioni condivise dai ricercatori con i Ministri della Difesa dell’iniziativa “5+5”

  1. I limiti nella parte meridionale dell’area 5+5 possono essere superati attraverso l’elaborazione di una strategia nazionale organica specifica per lo sviluppo delle energie rinnovabili, basata principalmente su:
  2. Istituzione di un quadro giuridico e normativo attraente per gli investitori privati;
  3. Creazione di un quadro istituzionale che copra i diversi aspetti del settore;
  4. Capacity building nella ricerca scientifica e nelle tecniche innovative nei settori delle Energie Rinnovabili e dell’Idrogeno;
  5. Elaborazione di un quadro finanziario e di incentivi;
  6. Istituzione di una piattaforma di assistenza tecnica comprendente:
  7. sensibilizzazione e formazione dei consumatori;
  8. filiera e servizi di gestione e manutenzione di impianti solari ed eolici; e
  9. standard per i fornitori di apparecchiature e servizi (tecnici e distributori di prodotti di energia rinnovabile) al fine dell’efficientamento del sistema in termini di costo-efficacia;
  10. Istituzione di un programma di trasporto e distribuzione dell’energia elettrica che promuova il commercio e l’interconnessione dell’energia per migliorare l’integrazione regionale;
  11. dipendenza dell’accesso all’energia da processi produttivi redditizi che contribuiscano alla creazione di posti di lavoro e alla riduzione della povertà;

Ucraina, Afghanistan: facciamo il punto – RADIO 24

L’analisi del Direttore Claudio Bertolotti a Radio 24 – Nessun luogo è Lontano, ospite di Giampaolo Musumeci (puntata del 7 settembre 2022)

Ieri l’Aiea ha pubblicato il rapporto sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Dal documento si evince che nonostante i diversi danni alla struttura, i livelli di radiazione nella zona sono “rimasti normali”. Ciononostante l’agenzia è “gravemente preoccupata per la situazione”. Ne abbiamo parlato con Marco Sumini, professore di Fisica dei reattori nucleari all’Università di Bologna.

A poco più di un anno dalla presa del potere da parte dei talebani, torniamo a Kabul con voci esclusive per raccontare ancora un paese che sembra essere nuovamente dimenticato dalla maggior parte dei media e dell’opinione pubblica. Il racconto con Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight, e con le voci raccolte da Morteza Pajhwok, giornalista a Kabul.


Ascolta il Commento di C. Bertolotti a Radio 24 – Nessun luogo è lontano (dal minuto 25)
Possibile intesa sul Nucleare con cappello ONU come accordo sul grano? Di necessità virtù? E forse prodromo a un ulteriore tassello di pace? Cioè singoli dossier molto verticali sui quali si trova accordo (grano, nucleare, ecc) e che magari sommati alla lunga portano verso la pace

Ecco, questo è certamente un fatto di importanza rilevante. Il Segretario generale dell’Onu António Guterres, di fatto ha ribadito in forma edulcorata e accettabile per i russi, quanto già aveva auspicato all’inizio di agosto, e lo ha fatto definendo una precisa priorità, ossia che: “Le forze russe e ucraine debbano impegnarsi a non intraprendere alcuna operazione militare verso o dal sito della centrale. Come secondo passo, dovrebbe essere garantito un accordo su un perimetro smilitarizzato“. Il fatto interessante è che come nel primo passo auspicato non sia fatto esplicito riferimento all’abbandono dell’area da parte delle forze russe che, sì, non potrebbero usare l’area per intraprendere attività offensive ma potrebbero collocarvi, o mantenervi, all’interno assetti importanti per le attività di comando, controllo e comunicazione. Il che sarebbe un grande vantaggio per la Russia, non per l’Ucraina, ma che tranquillizzerebbe le opinioni pubbliche occidentali e dunque le cancellerie europee. E forse sarebbe l’unica opzione accettabile dalla Russia che in questo momento continua a mantenere, come ha fatto per tutta la guerra, il vantaggio tattico pur a fronte di grandi perdite, umane e materiali. Può essere un tassello verso un possibile negoziato, a piccolissimi passi.

Un suo personale bilancio su questo primo anno di governo talebano in Afghanistan

A un anno dalla presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan è un paese fallito, in preda a una crisi alimentare ed agricola senza precedenti e con un governo incapace di rispondere alle più elementari necessità del suo popolo, dalla salute alla sicurezza, e che, nonostante la crisi economica e sociale, impone un’economia di guerra e una sempre più severa restrizione dei diritti individuali, a partire dalle donnesempre più a margine della vita sociale. Però va detto che l’Afghanistan è oggi un paese sostanzialmente più sicuro di quanto non lo fosse un anno fa. Una sicurezza che si traduce in numeri di vittime civili e militari che si sono ridotti a una minima frazione di quelli registrati durante la guerra dei vent’anni. Ma non per questo l’Afghanistan è divenuto un posto migliore in cui vivere, anzi… è divenuto un incubatore di realtà jihadiste, nuove e vecchie, che hanno la possibilità di collaborare o anche di combattersi a vicenda. Dunque parliamo di una sicurezza relativa e di breve durata. E le premesse non aprono ad alcuna prospettiva di miglioramento nel breve periodo; al contrario, aumenta la presenza, l’attivismo, la capacità organizzativa e operativa dei gruppi jihadisti che in questo paese hanno ritrovato una base sicura per colpire all’interno dei confini afghani (dove si impone la competizione tra i talebani al governo e il gruppo terrorista “Stato islamico Khorasan”), nei paesi della regione (i talebani pakistani, il movimento islamico dell’Uzbekistan, i jihadisti uiguri che guardano alla Cina come obiettivo da colpire) ma anche più lontano, in Occidente, in Africa e nel Sud-Est asiatico. Una situazione dinamica che ci consegna un paese più pericoloso e fertile per il jihadismo internazionale di quanto non lo fosse prima dell’intervento statunitense contro al-Qa’ida, responsabile degli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 e ospitata dai talebani afghani.

Dopo la presa del potere dei Talebani, in molti temevano una ondata di profughi afghani cercare rifugio in Europa. Così non è stato; come mai?

L’unica certezza per poter espatriare dall’Afghanistan è quella irregolare, o illegale, dal momento che i talebani hanno vietato l’espatrio se non per motivi particolari, con esclusione delle donne che non possono lasciare il paese se non accompagnate da un uomo. Una situazione in cui aumentano dunque i pericoli di un viaggio che non garantisce certezze ma che ha costi molto elevati in pochi possono permettersi. Due le rotte migratorie principali: l’Iran e il Pakistan, dove da ottobre a gennaio il numero di attraversamenti sarebbe quadruplicato rispetto ai dati dell’anno precedenti. E parliamo di cifre che si attestano a 4/5000 persone al giorno. Il fatto che non arrivino profughi afghani in Europa non significa che non ci siano afghani che vogliano raggiungerla, bensì è conseguenza della determinazione dell’Unione europea a contenere i migranti nella regione. Unione europea che lo scorso autunno ha promesso oltre 1 miliardo di dollari in aiuti umanitari per l’Afghanistan e i paesi vicini che ospitano gli afghani che sono fuggiti.

L’Afghanistan dei Talebani continua ad essere isolato dal punto di vista diplomatico; la situazione è destinata a rimanere la stessa?

L’isolamento diplomatico è solamente una questione di prospettiva. Se guardiamo con lo sguardo da occidente sì, l’Afghanistan è isolato sul piano formale, anche se su quello sostanziale non mancano gli indizi che suggeriscono un dialogo costante con gli Stati Uniti – dialogo che ha avuto un momento di tensione con l’uccisione del capo di al-Qa’ida, ayman al-Zawairi, proprio nel centro di Kabul, con questo confermando il solido legame con la frangia talebana più estremista, quella del gruppo Haqqani il cui leader è oggi il potente ministro degli interni. Ma di isolamento non possiamo proprio parlare se guardiamo da una prospettiva orientale e mediorientale. Palista, Uzbekistan, Qatar, Arabia Saudita sono paesi che hanno avviato rapporti sempre più intensi con l’Emirato talebano, in particolare in tema di scambi commerciali e supporto. Ma oltre a questi paesi di medio e piccolo peso se uniscono die pesi massimi: la Cina e la Russia. La prima interessata a tutelare i propri investimenti fatti in Afghanistan nel settore estrattivo minerario, la seconda, Mosca, che ospita i talebani a tutti gli eventi di natura commerciale che organizza. Dunque attenzione a parlare di isolamento, perché questo in realtà è sempre meno concreto ed efficace.

La guerra in Ucraina ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica e delle cancellerie internazionali; l’Afghanistan è destinato a scivolare sempre più al margine dello scacchiere internazionale?

Purtroppo sì. Quella afghana è una guerra che l’Occidente guidato dagli Stati Uniti ha perso. E le sconfitte devono essere dimenticate, chiuse negli archivi della storia e lontane dall’opinione pubblica. Si guarda oltre, alle priorità immediate: ora è la guerra in Ucraina che focalizza la nostra attenzione, ma un giorno tornerà l’Afghanistan, insieme al sahel, all’Africa sub sahariana ad attirare la nostra attenzione su conflitti che sono già in corso ma che sono fuori dall’attenzione massmediatica e politica.


Attacco all’ambasciata russa di Kabul: quali le ragioni?

Il commento del Direttore Claudio Bertolotti a Radio24 – Effetto Notte, ospite di Roberta Giordano


Ascolta il commento di Claudio Bertolotti a radio 24, puntata del 5 settembre 2022 (dal minuto 48).

L’entità e la portata degli eventi che abbiamo registrato nell’ultimo anno, cioè da quando i talebani hanno provocato il collasso dello stato afghano, è marginale e rappresenta una minima parte degli attacchi che i talebani hanno storicamente condotto contro le forze afghane e quelle occidentali. Dunque lo Stato islamico Khorasan, che ha rivendicato l’attacco contro l’ambasciata russa di Kabul, ad oggi è ancora una minaccia limitata.


i terroristi di al-Qa’ida, legati indissolubilmente ai talebani

Il problema è però spostato avanti nel tempo in quanto il gruppo terrorista e gli altri gruppi regionali si stanno rafforzando sempre più: da una parte ci sono i terroristi di al-Qa’ida, legati indissolubilmente ai talebani, dall’altra parte ci sono i gruppi del jihad globalista che guardano ai talebani come dei traditori da colpire e che auspicano una guerra settaria, in primo luogo contro la minoranza hazara di confessione sciita.

Sullo specifico attacco alla sede diplomatica russa a Kabul, sono due gli aspetti che devono essere considerati per valutarne la portata e la volontà di compierlo. Il primo è dimostrare che i talebani, che da forza insurrezionale e terrorista hanno assunto il ruolo di forza di governo, sono incapaci di garantire un minimo livello di sicurezza in un paese già sostanzialmente fallito e che non è in grado di garantire nulla ai propri cittadini e, come in questo caso, non è in grado di garantire la sicurezza agli stranieri.


la volontà di colpire, simbolicamente, quella Russia che i talebani cerca di coinvolgerli sul piano politico

Dall’altro lato vi è poi la volontà di colpire, simbolicamente, quella Russia che con i talebani non solo dialoga ma coerentemente con la propria visione cerca di coinvolgerli sul piano politico, ma ancor prima economico, commerciale e di ricostruzione infrastrutturale in linea con quanto cercò di fare la stessa Unione Sovietica nel 1989 quando cercò il dialogo e la collaborazione del leader della resistenza afghana Ahmad Shah Massoud.


Afghanistan, l’esperto: “Rischio diventi trampolino jihadismo globale” (ADNKRONOS)

di Alessia Virdis, ADNKRONOS

Vai all’articolo originale di Alessia Virdis su ADNKRONOS

Bertolotti (Ispi): “Il paradosso di al-Qaeda in parte rappresentata all’interno del governo talebani. Vede i Talebani come modello di riferimento per gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali dall’Africa subsahariana al Sudest asiatico”.

‘Ruolo chiave al-Qaeda che considera i Talebani come modello di riferimento per gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali dall’Africa subsahariana al Sudest asiatico’

Passato un anno dal ritiro delle forze internazionali e dal ritorno al potere dei Talebani, l’Afghanistan è “di fatto una terra in cui vi è assenza di comando e controllo da parte dell’autorità centrale”, che “addirittura tollera, quando non sostiene direttamente, la presenza di gruppi jihadisti radicali che potrebbero trasformare” il Paese “in un trampolino del jihadismo globale”. Risponde così Claudio Bertolotti, ricercatore associato Ispi e direttore di Start InSight, se gli si chiede quali siano i rischi per un Paese martoriato da decenni di guerre e di nuovo in mano ai Talebani.

Con un passato di missioni in terra afghana, quando “tra il 2003 e il 2008 era a capo della sezione contro-intelligence e sicurezza della Nato”, è stato “uno dei 500 italiani che ha fatto parte dell’operazione Usa ‘Enduring Freedom'” e oggi in un’intervista all’Adnkronos sottolinea la “presenza, non solo indisturbata ma addirittura come ospite formale di Sirajuddin Haqqani, in Afghanistan di Aymar Al-Zawahiri“, il numero uno di al-Qaeda la cui uccisione a Kabul è stata annunciata nei giorni scorsi dagli Usa. Quel Sirajuddin, comandante della ‘rete Haqqani’, vicina ad al-Qaeda, figlio del defunto Jalaluddin Haqqani e da un anno ministro degli Interni del governo talebano.

Bertolotti parla del “ruolo chiave attribuito” ad al-Qaeda in questo Afghanistan, della “presenza nel Paese di un gruppo terroristico con una visione globale”, un gruppo che “nelle parole di Al-Zawahiri ha definito i Talebani come i portatori dell’interpretazione corretta della sharia, che dovrebbe essere applicata a livello globale”, quindi “indicando i Talebani come modello di riferimento per tutti quei gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali che dall’Africa subsahariana fino al Sudest asiatico si stanno diffondendo e addirittura consolidando”.

‘minaccia crescente Stato islamico Khorasan, aumenta conflittualità all’interno della compagine talebana’

Al-Qaeda, rileva, “è il principale attore a cui si associa il suo competitor per eccellenza, lo Stato islamico Khorasan”, la “variante” nella regione dello Stato islamico, uno “Stato islamico regionale che si è consolidato territorialmente, compete con il governo talebano e si è trasformato in una minaccia concreta, crescente alla sicurezza stessa dell’Afghanistan inteso come Emirato islamico e ma anche dei suoi cittadini”. La componente sciita in particolare. Quella che, sottolinea, lo “Stato islamico Khorasan ha indicato come principale obiettivo insieme ai Talebani”, considerati dal gruppo “come apostati, corrotti, come coloro che hanno accettato un compromesso con l’Occidente”. E’ in questo ‘quadro’ che si inserisce la notizia della morte in un attacco di un attentatore suicida a Kabul, rivendicato dall’Is-K, di Rahimullah Haqqani, figura influente che sosteneva il governo talebano e si era pronunciato a favore del diritto all’istruzione delle donne.

E, prosegue, “la solidità di questo trampolino del jihad globale accresce col tempo a mano a mano che aumenta la conflittualità all’interno della stessa compagine talebana”. Perché, osserva Bertolotti, “il rischio è che le correnti all’interno del movimento talebano possano trasformare questa competizione per il potere in un confronto armato”. E all’interno di questo possibile confronto armato si inserirebbero “tre variabili”, che l’esperto indica nello Stato islamico Khorasan, nella “galassia di gruppi più o meno piccoli di jihadisti che in Afghanistan si stanno consolidando” e nella “cosiddetta resistenza afghana” – quella identificata con il Panjshir che è diventata il ‘Fronte nazionale di resistenza’ e che è guidata da Ahmad Massoud, il figlio del ‘Leone del Panjshir’ – che “si inserisce in un contesto conflittuale amplificandolo”, pur “non avendo la capacità di poter sconfiggere i Talebani”.

Quello della resistenza afghana, sottolinea Bertolotti, è un “elemento importante, non numericamente, ma da un punto vista politico” in un Afghanistan in cui i “Talebani hanno preso il potere, hanno posto un governo di fatto che però nel concreto non è in grado gestire la cosa pubblica afghana né di garantire quella minima cornice di sicurezza fisica ma anche economica di cui la popolazione ha bisogno”. A questo si aggiunge, rimarca, l’elemento di “‘esclusività” del governo talebano “in contrapposizione all’auspicata inclusività”. Di fatto, osserva, “si è assistito a una presa e consolidamento del potere da parte della forte componente della Shura di Quetta”, la storica leadership talebana “che si è di fatto trasformata in forza di governo esclusiva dell’Emirato islamico dell’Afghanistan”.

‘il paradosso di al-Qaeda in parte rappresentata all’interno del governo talebano’

Escluse dalla spartizione del potere, sottolinea, “le molteplici e variegate realtà talebane che nel corso degli anni e in particolar modo nell’ultimo periodo si sono coalizzate attorno al principale e storico nucleo talebano”. Esclusi in particolare “i Talebani del nord e dell’ovest, la componente uzbeka”. Un governo quello talebano, dice Bertolotti, che “non risponde in toto a quelle che erano le premesse dell’Accordo di Doha” del febbraio 2020 tra i Talebani e gli Usa e che “prevedeva tra i punti i principali l’esclusione dell’influenza ma anche della presenza fisica di associati ad al-Qaeda in territorio afghano”. Il raid Usa contro al-Zawahiri nel centro di Kabul.

E oggi siamo con il “paradosso” di “vedere al-Qaeda in parte rappresentata all’interno” del governo talebano e “con un ruolo di consulenza e confronto, in particolar modo con l’ala più oltranzista legata alla rete Haqqani, alla figura di Sirajuddin Haqqani”, che “si contrappone, un po’ anche in competizione interna, all’altra ala più ‘pragmatica’” quella del malawi Yaqoob – figlio del mullah Omar, il fondatore dei Talebani, e oggi ministro della Difesa dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, fresco di ‘promozione’ da mullah a malawi – e degli “associati” al mullah Baradar, vice premier del governo talebano e di fatto con un’autorità ridimensionata dopo essere stato il protagonista degli Accordi di Doha. E, conclude, “Sirajuddin e Yaqoob sono di fatto i due uomini di fiducia del malawi Haibatullah Akhundzada“, leader supremo dei Talebani.

Vai all’articolo originale di Alessia Virdis su ADNKRONOS


Ucciso Al-Zawahiri: cosa accadrà ad al-Qa’ida? Rispondono Bertolotti e Vidino (Adnkronos)

Per analisti al-Qaeda forte dopo al-Zawahiri, successore dall’Africa?

di Melissa Bertolotti, ADNKRONOS

Intervista originale pubblicata su ADNKRONOS

Per Bertolotti dell’Ispi è ”verosimile aspettarsi una reazione contro gli Usa”. Vidino vede tra i possibili successori l’egiziano Saif al-Adel o Abdal-Rahman al-Maghrebi, ma anche leader di gruppi in Africa dove il jihad si sta espandendo.

”Per al-Qaeda non cambia nulla” con l’uccisione del suo leader, l’ideologo egiziano Ayman al-Zawahiri, ”non è che la morte di un vecchio leader carismatico”. Perché ”oggi finisce la guerra al terrore, ma non finisce il terrore”, e a livello politico ”si chiude un’epoca storica, un capitolo importante già chiuso con il ritiro fallimentare dall’Afghanistan”. Ma sul terreno ”al-Qaeda è più forte che mai”, perché abbandonato ”l’idealismo e la visione globale di Osama Bin Laden” si è trasformata in ”una realtà regionale più concreta sul campo proprio grazie a Zawahiri”. Ne è convinto Claudio Bertolotti, analista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), che con l’Adnkronos riflette invece su come l’uccisione di al-Zawhiri ”cambi le cose per Biden. Tra tre mesi ci sono le elezioni e i democratici hanno bisogno di avere un presidente che abbia ottenuto dei risultati”.

Al contrario, la morte del successore di Osama Bin Laden ”non avrà un impatto diretto sulle capacità di al-Qaeda”. Anzi, ”ogni volta che un leader del movimento jihadista viene colpito, la reazione non si fa attendere”, così come non tarda ad arrivare ”un nuovo capo che in genere cerca di imporsi con la pianificazione nuovi attentati”. E’ quindi è ”verosimile aspettarsi una reazione di al-Qaeda contro gli Stati Uniti”, afferma Bertolotti, che ricorda come al-Zawahiri considerasse ”controproducente il jihad globale e idealista voluto da Bin Laden, criticava la sua volontà di colpire il Grande Satana, gli Stati Uniti, ovunque, anche in casa sua. Perché ogni azione provoca una reazione”.

La ”rivoluzione” che al-Zawahiri attua dal 2014 porta al-Qaeda a legarsi sempre più a gruppi di opposizione armata, ricorda Bertolotti, citando gli al-Shabab in Somalia e al-Qaeda nel Maghreb islamico nel Nord Africa, la presenza della Rete nell’Africa Sub sahariana e quella nel continente indiano. ”Tutte realtà che si rafforzano e fondano le loro radici con le istanze locali”, creando ”generazioni di combattenti che daranno il via in un futuro ipotetico alla nuova al-Qaeda”, spiega.

Su chi prenderà il posto di Zawahiri alla guida di al-Qaeda, l’analista esclude che possa essere l’attuale ministro degli Interni del governo dei Talebani, Sirajuddin Haqqani, che ospitava il leader terroristico nella sua casa in centro a Kabul dove è stato ucciso. ”Troppo furbo per prendere il posto di al-Zawahiri – spiega Bertolotti – Resterà leader dell’Haqqani network, organizzazione interna ai Talebani, ma autonoma. Non ha alcun interesse a diventare il nuovo capo al-Qaeda”.

Piuttosto, a succedere ad al-Zawahiri potrebbe essere un ”suo amico fraterno, l’ex colonnello egiziano Saif al-Adel”. Oppure Abdal-Rahman ”al-Maghrebi, capo della comunicazione mediatica di al-Qaeda” e genero di al-Zawahiri. In ogni caso si parla di ”un nuovo ideologo, di qualcuno che tenga viva l’al-Qaeda idealista e che non si occupi di far operare le truppe sul territorio”.

”Il futuro di al-Qaeda potrebbe essere in Africa”. E’ lì che si sta rafforzando ed è da lì, probabilmente, che arriverà il nuovo leader dopo l’uccisione di Ayman al-Zawahiri. Anche perché la rete fondata da Osama Bin Laden ”ha perso molto valore sullo scenario globale”, anche se ”ne ha guadagnato con l’ascesa dei Talebani in Afghanistan”. E ”il fatto che Zawahiri sia stato ucciso in centro a Kabul in una casa di proprietà del braccio destro del ministro degli Interni del governo dei Talebani lo dimostra, dimostra che al-Qaeda può operare liberamente nel Paese e ha un suo santuario in Afghanistan”. E’ quanto spiega all’Adnkronos Lorenzo Vidino, direttore del Program on Extremism della George Washington University. ‘

‘Il luogo dove Zawahiri è stato ucciso dimostra che sono veri i timori legati al fatto che il governo dei Talebani avrebbe fatto operare liberamente al-Qaeda”, afferma Vidino, notando ”le implicazioni di policy che questo comporta” anche per il fatto che ”i Talebani vogliamo ricevere fondi dalla comunità internazionale…”.

Insomma, è ”un deja vu, come era successo undici anni fa con Bin Laden ucciso in una villa a poche centinaia di metri da una caserma dell’esercito pachistano”. Ma è anche ”una prova schiacciante, ma non sconvolgente” della protezione che i Talebani forniscono ad al-Qaeda. E’ una ”chiara violazione degli accordi di Doha” perché la casa in cui viveva Zawahiri era di proprietà della rete Haqqani ”che fa da trait d’union tra i Talebani e al-Qaeda”. Ora ”bisognerà vedere questo cosa comporterà, anche se la situazione non cambia. A comandare sono i Talebani e se bisogna interagire con loro alla fine bisogna farlo”, al di là delle ”evidenze di supporto al terrorismo o delle violazioni dei diritti umani e delle donne”.

Sul ”toto candidati per la leadership” di al-Qaeda Vidino vede ”varie possibilità” a partire da ”un paio di candidati interni, il numero 2 Saif al Adel e il numero tre al-Maghrebi, genero di Zawahiri, entrambi pare siano in Iran”. Ma Vidino sottolinea anche che ”negli ultimi anni c’è stato un trend di crescita potenziale di alcuni affiliati, come gli al-Shabab in Somalia, e una perdita di valore di al-Qaeda globale”. Quindi ”potrebbe anche essere possibile che il nuovo leader del gruppo venga dalle affiliazioni”, considerato anche ”il riposizionamento jihadista globale sullo scenario africano”. L’analista spiega come ”il mondo jihadista e al-Qaeda stiano guadagnando terreno in Africa e meno sugli scenari classici come il Medio Oriente”. In ogni caso occorre ”in tempi rapidi trovare un successore” per dimostrare che ”il colpo inferto non sia letale” e ”lo spin che daranno è lo stesso del post morte Bin Laden, ovvero che la scomparsa di un leader non cambia nulla nell’importanza del concetto di Jihad, perché quello che conta sono gli obiettivi e non le persone”.

Comunque sia, al-Qaeda perde ”un suo personaggio importante, leader per 11 anni nonché uno dei fondatori”. Notizia accolta positivamente anche in Arabia Saudita, dove Vidino si trova. ”Nel Golfo, a livello governativo, è cambiato molto rispetto a 20 anni – spiega – Quasi tutti i Paesi del Medio Oriente e del Golfo non hanno più le ambiguità forti del passato per quanto riguarda il jihadismo. Anche se sicuramente esistono sacche di simpatia”. A fare eccezione è ”il Qatar, non a caso è un tramite con i Talebani e gli accordi sono stati firmati a a Doha”. Ma in Arabia Saudita ”la notizia della morte di Zawahiri è stata data dai telegiornali, come notizia di un giorno e nulla di eclatante”.

Vai all’intervista originale su ADNKRONOS


Guerra russo-ucraina: da Kiev al Donbas. Seconda parte: la battaglia del Donbas.

di Fabio Riggi, Analista indipendente

Key Takeaways:

  • Il doppio avvolgimento subito dalle forze ucraine;
  • Il fronte navale: l’affondamento del “Moskva” come effetto morale;
  • Mariupol: dalla resistenza a oltranza alla caduta;
  • La “presa di contatto” russa, male interpretata come disorganizzazione, è il supporto della manovra con il fuoco;
  • Donbas: progressi russi, ma lenti;
  • Nonostante i rallentamenti, i russi mantengono il vantaggio tattico e l’iniziativa;
  • Una parziale pausa operativa nel Donbas

Keywords: Himars, Kiev,Russia, Ukraine

Il doppio avvolgimento subito dalle forze ucraine e la presa di Izium

A partire dai primi giorni di aprile, i lineamenti della battaglia del Donbas hanno iniziato a prendere chiaramente forma. Sin dalle prime fasi del conflitto, su questo scacchiere la manovra offensiva a livello operativo che si è sviluppata da parte delle forze russe è stata quella di un doppio avvolgimento delle forze ucraine poste a difesa della linea di contatto, che corre lungo il margine orientale delle due repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk, ed è quella scaturita dal conflitto del 2014-15. I due bracci di questa “tenaglia”, di ampio respiro, sembravano essere costituiti da quello sud-ovest, costituito dalle forze provenienti dalla Crimea e dirette sulle città di Zaporozhie e Dnipro (due fondamentali punti di attraversamento sul Dnepr) e da quello nord-est, lungo la direttrice d’attacco seguita dalle unità russe che stavano investendo Kharkiv. In questo modo, se la manovra a così largo raggio fosse riuscita, tutta l’ampia aliquota di forze dell’esercito ucraino schierate nel Donbas, tra le migliori disponibili nell’esercito di Kiev, sarebbe stata tagliata fuori dai fondamentali punti di attraversamento del Dnepr, in direzione ovest, e circondate. Tuttavia, la forte resistenza incontrata, soprattutto lungo la direttrice di Zaporozhie e, presumibilmente, la necessità di impegnare forze consistenti nel protratto assedio di Mariupol (fino a un totale stimato di 12 BTG – Batal’onnaya Takticheskaya Gruppa, Gruppi tattici a livello battaglione), ha di fatto frenato, fino ad annullarla, la “tenaglia meridionale” dell’iniziale avvolgimento. Quella settentrionale è invece rimasta attiva, seppur anch’essa molto rallentata, e in questo settore, comunque, il 1° aprile, a seguito di reiterati e violenti attacchi, le unità attaccanti riuscivano a conquistare la posizione chiave rappresentata dalla città di Izium, località ben nota già nella storia delle campagne condotte in quei luoghi durante la seconda guerra mondiale.

Il fronte navale: l’affondamento del “Moskva” come effetto morale

Intanto, sul versante navale, il 13 aprile gli ucraini infliggevano un duro colpo, soprattutto dal punto di vista morale e psicologico, agli avversari, riuscendo ad affondare, con l’utilizzo di missili antinave “Neptune” (secondo quanto comunicato da fonti ufficiali di Kiev) l’incrociatore lanciamissili Moskva, nave ammiraglia della flotta del Mar Nero. In realtà, con un conflitto che si sta svolgendo in prevalenza sui fronti terrestri – vista la scarsissima consistenza della marina ucraina, neutralizzata dagli attacchi iniziali russi entro le prime ore di ostilità – questo seppur significativo episodio non si è mostrato certo passibile di modificarne sostanzialmente l’esito. Tuttavia, la perdita di un’unità che, oltre a un potente armamento missilistico anti-nave – 12 contenitori/lanciatori per missili P-500 “Bazalt” (SS-N-12 “Sandbox” in codice NATO) – disponeva anche di un capace sistema per la difesa aerea di zona – S-300F (SA-N-6 “Grumble” in codice NATO, versione navale del noto S-300 terrestre) – ha rappresentato senz’altro per le forze navali di Mosca una perdita molto grave, anche e soprattutto in termini di copertura anti-aerea sulle acque prospicienti il teatro di operazioni. Peraltro, anche in questo caso, è facile ipotizzare il decisivo supporto, in termini di ricerca e acquisizione di un obiettivo così pagante, fornito agli ucraini da assetti della NATO e di USA e UK.

Mariupol: dalla resistenza a oltranza alla caduta

Intanto, nei primi giorni di aprile le forze terrestri di Mosca continuavano ad effettuare una serie di attacchi su piccola scala lungo la linea di contatto, molto probabilmente volti a saggiarne la consistenza delle difese – le quali, dopo essere state preparate per otto anni, sono ancora molto robuste, organizzate e articolate in profondità su tre linee successive, in alcuni tratti anche con opere permanenti in cemento – e a riconoscerne le posizioni. Intanto, tra il 16 e il 17 aprile la guarnigione assediata di Mariupol, rappresentata dal reggimento “Azov” e dalla 36a brigata di fanteria di Marina, veniva costretta a ripiegare nella grande acciaieria “Azovstal”, perdendo così il controllo del centro abitato della città. Il 18 aprile, il presidente ucraino Zelensky ha annunciato che la nuova offensiva russa nel Donbas era iniziata, indicatore che il ridispiegamento delle forze russe precedentemente impegnate nel nord-est del paese era stato completato (in particolare, diverse unità pesanti della 1a armata carri della guardia rischierate nel settore di Izium). Nel contempo, però, l’esercito ucraino iniziava proprio in quei giorni la sua prima controffensiva di un certo respiro. Ciò avveniva nel settore di Kharkiv, a sud-est della città, dove la 92 brigata meccanizzata ucraina, rivelatasi tra le più efficienti e combattive, sferrava un robusto contrattacco in direzione est, iniziando a guadagnare rapidamente terreno, e riconquistando sin dalle prime fasi l’insediamento di Chuhuiv. Entro la fine del mese di aprile, in quel quadrante diversi villaggi sono stati riconquistati e le truppe di Kiev hanno continuato a spingere le unità avversarie verso la frontiera, mentre sull’altro lato di Kharkiv, a nord della città, anche la 72a brigata meccanizzata ucraina sferrava un attacco in direzione nord e nord-est, anche in questo caso verso il confine originario con la federazione russa, riuscendo ad avanzare con una certa rapidità. L’obiettivo di questa controffensiva dell’esercito di Kiev era duplice: innanzitutto allontanare le truppe avversarie da Kharkiv, in modo tale da porla al di fuori della portata delle artiglierie, dopodiché, con l’azione della  92a brigata a sud-est, tagliare, o quantomeno minacciare, le linee di comunicazione delle forze russe impegnate nella “tenaglia” settentrionale che premeva sul Donbas, nell’area di Izium, collegamenti rappresentati dalla rotabile che, da nord a sud,  partendo da Belgorod, in territorio russo, passa per Vovchansk, Velykyi Burluk e il vitale snodo di Kupiansk.

La “presa di contatto” russa, male interpretata come disorganizzazione, è il supporto della manovra con il fuoco

Sempre nel mese di aprile, nonostante la crescente pressione della controffensiva ucraina su Kharkiv, le operazioni delle forze russe nel Donbas iniziavano ad assumere carattere di maggiore intensità e sistematicità. A partire dai giorni 20-21 aprile, oltre a una serie di attacchi a sud Izium, le unità russe e dei separatisti si impegnavano in una serie di azioni, su ampio fronte, lungo la linea di contatto tra Orikhiv, Hulyapole, Marinka e Avdiivka, con le ultime due località situate in prossimità di Donetsk. Inoltre, all’estremità orientale del fronte, nel quadrante di Izium – dove gli attaccanti avevano ora concentrato una massa di 25 BTG tra questo settore e Popasna, all’estremità meridionale del saliente venutosi a creare – altre azioni offensive su piccola scala venivano effettuate portando, tra il 19 e il 21 aprile, alla conquista di Kremmina. Tuttavia, il carattere apparentemente frammentario di questi attacchi, tutti valutati come “falliti” dalle analisi occidentali, e il fatto che fossero condotti da forze di modesta entità, hanno spinto molti commentatori ha trarre la conclusione che fossero l’indicatore, ancora una volta, di una scarsa capacità da parte della catena di comando russa di impostare operazioni offensive di ampia portata. In realtà, osservazioni più attente, e lo sviluppo successivo delle operazioni, ci indicano che molto probabilmente si trattava di azioni di “localizzazione” e “presa di contatto” delle principali posizioni difensive ucraine, al fine di poterle battere con maggiore efficacia con il fuoco di artiglieria. Questa ricostruzione, peraltro, è coerente al ben noto assioma tattico, riguardante la dottrina d’impiego delle forze terrestri russe, secondo il quale, contrariamente alla maggior parte degli eserciti che “supportano la manovra con il fuoco”, esse invece “supportano il fuoco con la manovra”. Si tratta di un gioco di parole solo apparente, che spiega bene invece la tradizionale importanza che la “scuola russa” attribuisce all’artiglieria, un elemento di carattere addirittura storico, in quanto risalente ai tempi dello Zar Pietro il Grande, personaggio che può essere ritenuto il vero padre fondatore delle moderne istituzioni militari russe.

Ed è proprio con il sistematico martellamento delle posizioni avversarie con la propria artiglieria, integrata da continue missioni di appoggio tattico ravvicinato dell’aviazione e delle unità di elicotteri da combattimento, che a partire dalla seconda metà di aprile le forze russo-separatiste hanno iniziato a esercitare una crescente pressione, inizialmente lungo tutta la linea di contatto della regione del Donbas. Nell’ultima settimana di quel mese, alcuni limitati successi nel settore di Izium, con la conquista della località di Lozove e la realizzazione di una testa di ponte oltre il fiume Krasna, a ovest di Severodonetsk, unitamente all’andamento delle restanti operazioni, facevano apparire più chiaramente il nuovo disegno di manovra degli attaccanti. L’iniziale ampia manovra di doppio avvolgimento si stava ora sviluppando in un raggio più ristretto, con la direttrice settentrionale che partiva da Izium, verso sud, e quella meridionale che invece spingeva da Donetsk, con l’obiettivo di chiudere in una sacca le forze ucraine che difendevano le aree di Sloviansk, Kramatorsk, Severodonetsk, Rubizhne, Lysychansk e Popasna, stimate, nelle varie fasi, dalle 7 alle 11 brigate, tra quelle regolari e di difesa territoriale. In particolare, proprio la “cerniera”, rappresentata dal settore Sloviansk-Kramatorsk, rappresenta a tutt’oggi un obiettivo di valore operativo che potrebbe spalancare, qualora conseguito, alle forze russo-separatiste attaccanti la strada verso la riva sinistra del Dnepr e i fondamentali punti di attraversamento di Zaporozhie e Dnipro. Nel contempo, altri attacchi lungo la porzione sud-occidentale della linea di contatto del Donbas, tra Zaporozhie e Velyka Novosilka, erano probabilmente condotti dai russi per agganciare le maggiori forze avversarie possibili, impedendogli di essere rispiegate nei settori più a est.

Donbas: progressi russi, ma lenti

Nondimeno, giunti ai primi giorni di maggio, quando l’offensiva russa nel Donbas era a due settimane dal suo inizio effettivo, è apparso chiaro che i progressi compiuti dalle unità attaccanti erano estremamente lenti. A tal proposito, diverse analisi compiute sul decorso delle operazioni hanno evidenziato due principali fattori condizionanti, o per meglio dire limitanti, dello slancio offensivo dei reparti russo-separatisti. Oltre alla consueta tenacia e abilità mostrate dagli ucraini, il primo di questi è stato, ancora una volta, quello relativo al rapporto di forze in atto. In quel momento, su tutto il teatro operativo, risultavano operanti un totale stimato di 93 BTG russo-separatisti, contro un totale stimato di 81 unità di manovra a livello battaglione ucraine (derivanti dal calcolo di 27 brigate identificate, ma probabilmente approssimate per difetto, in quanto risulterebbe che le brigate meccanizzate ucraine dovrebbero avere in organico 4-5 battaglioni di manovra). Nello scacchiere del Donbas, dopo che anche gli ucraini, dopo l’abbandono da parte russa delle regioni settentrionali, vi hanno rischierato prontamente quello che è stato stimato come un totale di 7 brigate aggiuntive (in primo luogo della difesa territoriale), la proporzione è rimasta la medesima: a fronte di 68 BTG russi-filorussi se ne contrapponevano 48 ucraini, un rapporto di forze che si aggira sul 1,5:1, e che è ben lontano da quello ritenuto sufficiente dalla dottrina tattica russa per l’esecuzione di un attacco con ragionevole probabilità di successo, la quale indica un rapporto di forze di 4:1 per questo scopo. Inoltre, un elemento aggiuntivo estremamente importante è relativo al fatto che le unità ucraine erano (e sono tutt’ora) schierate su posizioni fortemente organizzate a difesa, notevole fattore incrementale del già intrinseco vantaggio tattico di chi esegue operazioni difensive nei confronti dell’attaccante. Il secondo elemento che ha contribuito a rendere lenti e difficoltosi gli attacchi russi sul fronte del Donbas è quello da riferirsi alla natura del terreno. Come già esposto in una precedente valutazione, l’alto tasso di urbanizzazione dell’area ha consentito agli ucraini di incentrare le proprie azioni difensive su una molteplicità di centri abitati, non ultimi quelli di dimensioni non trascurabili di Severodonetsk e Lysychansk, rendendo così una regione solo apparentemente pianeggiante e “a elevato indice di scorrimento” tutt’altro che favorevole alle operazioni offensive di forze pesanti. Inoltre, ai numerosi insediamenti urbani del Donbas si aggiungono, in special modo nei settori di Izium e Severodonetsk, fitte aree boscose e una nutrita idrografia, con zone acquitrinose e corsi d’acqua anche di significativa importanza, come il fiume Siversky Donets, che ha rappresentato invariabilmente, in diverse fasi, come si vedrà, un ostacolo di notevole valore impeditivo.

Nonostante i rallentamenti, i russi mantengono il vantaggio tattico e l’iniziativa

Nonostante le summenzionate difficoltà e svantaggi di ordine tattico e ambientale, nel mese di maggio le operazioni offensive russe nel Donbas sono proseguite, mostrando la volontà, e la capacità, di mantenere un elemento che è in modo unanime riconosciuto come uno dei prìncipi cardine dell’arte militare: quello dell’iniziativa. Inizialmente, gli sforzi principali russi si sono concentrati sulla porzione nord della “tenaglia”, con reiterati tentativi di realizzare delle teste di ponte sulla riva meridionale del fiume Siversky Donets, da aggiungere a quella già realizzata a sud di Izium, dove però l’ulteriore progressione delle loro forze verso sud era stata arrestata nel corso del mese di aprile. In particolare, proprio lungo l’asse settentrionale nei primi giorni di maggio gli attacchi russi attraverso il Siversky Donets sono stati condotti più a est, nelle aree subito a ovest di Severodonetsk. Il 2 maggio un primo tentativo è stato effettuato a ovest di Rubizhne, ma è fallito a causa della pronta reazione ucraina con artiglieria e contrattacchi delle riserve tattiche nel settore. Il 4 maggio una seconda azione russa di forzamento è stata eseguita più a ovest, nei pressi di Yampil, ma anche in questo caso un contrattacco ucraino ha respinto le unità russe sulla riva opposta. Il 9 maggio, un ulteriore sforzo per passare il fiume è stato lanciato dai russi in corrispondenza di Bilohorivka, più o meno al centro del settore interessato da queste azioni, ma ancora una volta il risultato è stato un costoso insuccesso, a seguito del quale i due BTG impegnati avrebbero riportato perdite tali da risultarne quasi annientati. Tutti questi eventi hanno ben presto indicato una ulteriore modifica al “raggio” della manovra di avvolgimento perseguita dai comandi russi nel Donbas: ora questa si stava svolgendo, con una portata ancora più ridotta, ancora più ad est, per la riduzione ed eliminazione del saliente di Severodonetsk, e il controllo di quest’ultima e del poco distante insediamento di Lysychansk. Proprio in questo settore, mentre i tentativi di forzamento del Siversky Donets, sul lato nord del saliente, venivano frustrati dalle forze ucraine, il 5-6 maggio le forze russo-separatiste attaccanti ottenevano il successo che si rivelerà essere il più importante del ciclo operativo, conquistando la cittadina di Popasna (già lungamente contesa e teatro di aspri combattimenti nelle settimane precedenti) e realizzando un vero e proprio sfondamento di quel tratto di fronte, posto a sud-ovest di Severodonetsk. A partire da quel momento, la battaglia per il possesso di quest’ultima città ha iniziato a prendere una piega favorevole per gli attaccanti. Dall’8 al 24 maggio, concentrando gli sforzi nel settore di Popasna, le unità russo-separatiste, sempre appoggiate da un massiccio fuoco di artiglieria, sono riuscite a espandere il settore di sfondamento, ottenendo il risultato di minacciare – fino, nelle fasi finali dell’operazione, a tagliare del tutto – la strada T 1302 (da alcuni romanzescamente battezzata “la strada della vita”), una vitale arteria di comunicazione che correndo da Artemivsk in direzione nord-est assicurava l’alimentazione tattica e logistica delle unità ucraine poste a difesa del saliente di Severodonetsk, collegandole al resto del Donbas, e mettendo sotto pressione (soprattutto con l’artiglieria) una seconda rotabile utilizzata a questo scopo, la T0513. A tutto questo si aggiungeva, sul lato nord del saliente, con la conquista di un’altra posizione chiave, quella di Lyman, che ha avvicinato i reparti russi al lato nord-est di Sloviansk.   

A seguito della perdita di Popasna, e della penetrazione realizzata dagli avversari, che è andata a cadere sul tergo dell’organizzazione difensiva ucraina a Severodonetsk, quest’ultima ha iniziato a entrare lentamente, ma inesorabilmente, in crisi. Pur potendo contare sul vantaggio di chi difende un saliente, ossia la “manovra per linee interne”, le forze ucraine si sono ritrovate a dover impiegare consistenti rinforzi per contenere l’avanzata da Popasna, trovandosi così iper-estese e vulnerabili all’azione di quella che poi è stata una vera e propria “masse de décision”, che ha iniziato a premere direttamente su Severodonetsk. Il termine francese utilizzato è di origine napoleonica, ricordando come il grande condottiero corso aveva proprio nella “manouvre sur le derriéres” uno dei suoi più ricorrenti ed efficaci schemi di manovra, che culminavano proprio con il colpo sferrato da una forza d’attacco che colpiva l’avversario impegnato, e soprattutto “sbilanciato”, nel fronteggiare l’avvolgimento di cui era stato fatto oggetto nella prima fase dell’operazione. Pur adottando la dovuta prudenza nel tracciare un simile parallelo, questo sviluppo è proprio quello che si è visto materializzarsi poi nel mese di giugno nella battaglia di Severodonetsk. Sempre più pressate dalle “ganasce” degli attaccanti, rappresentate dalle direttrici d’attacco da nord, da sud, e poi direttamente anche sull’abitato di Severodonetsk, e sempre più a rischio di rimanere tagliate fuori definitivamente dal resto delle forze amiche, alla fine, dopo una strenua difesa, le unità ucraine sono state costrette a ritirarsi, e il 24 giugno i russo-separatisti hanno completato la conquista della città, seguita, solo pochi giorni dopo, il 3 luglio, da quella di Lysychansk. Attualmente non è chiaro in che circostanze sia avvenuto il ripiegamento dei reparti di Kiev dal “calderone” di Severodonetsk, ma alcuni rapporti indicano che le perdite sarebbero risultate elevate, con alcune unità – tra le quali la 24a brigata meccanizzata, la quale operava a difesa di Popasna e che ha rischiato di essere completamente circondata – che ne sarebbero uscite gravemente logorate, e in alcuni casi non più in grado di combattere.

La controffensiva ucraina a Kharkiv ha continuato a guadagnare terreno

Mentre tutto ciò accadeva nel Donbas e nella battaglia di Severodonetsk, la controffensiva ucraina a Kharkiv – condotta a sud e sud-est della città in primo luogo dalla ormai famosa 92a brigata meccanizzata, e a nord dalla 72a brigata meccanizzata (seppur entrambe coadiuvate da numerosi battaglioni della difesa territoriale e reparti di volontari mobilitati) – tra la fine di aprile e la prima metà di maggio ha continuato a guadagnare terreno, riconquistando diversi insediamenti, e, soprattutto a nord, avvicinandosi alla frontiera con la Federazione Russa. Tuttavia, con il passare dei giorni, la resistenza delle forze russe nel settore, stimate in circa 7 BTG, ha iniziato a irrigidirsi, e soprattutto ha potuto contare sul consueto massiccio supporto del fuoco di artiglieria. Ciò ha portato al progressivo rallentamento e allo smorzarsi dello slancio delle forze ucraine, le quali alla fine, nel quadrante sud-est sono rimaste lontane dall’obiettivo di interdire, o quantomeno minacciare, le linee di comunicazione russe da Belgorod a Kupiansk fino a Izium e nel resto del Donbas. Inoltre, anche l’altro obiettivo tattico dell’operazione, quello di costringere i russi a distogliere forze dalle operazioni nel Donbas, non è stato evidentemente conseguito, e anche il terzo, quello minimo di allontanare gli schieramenti di artiglieria russi da Kharkiv, al fine di porre la città fuori dalla loro portata, pare lungi dall’essere raggiunto, nel momento in cui questa risulta ancora a tutt’oggi sottoposta alla loro azione, seppur con le sorgenti di fuoco a più lunga gittata.

Intanto, il 20 maggio, cessava ogni ulteriore resistenza ucraina nell’assediata Mariupol, la cui definitiva caduta ha sancito il raggiungimento di uno degli obiettivi fissati dai vertici del Cremlino per l’“operazione militare speciale”, ossia il collegamento terrestre tra le aree occupate del Donbas e la Crimea, l’acquisizione di un importante porto, e con esso il controllo di tutta la sponda meridionale del Mar d’Azov. Sempre sul fronte sud, oltre alla controffensiva su Kharkiv, lo stato maggiore ucraino ha cercato di strappare l’iniziativa all’avversario anche con un’operazione analoga sulla testa di ponte di Kherson. Questa, iniziata il 23 maggio, ha avuto un avvio promettente, con le unità di Kiev che sono riuscite a stabilire una testa di ponte sulla riva sud del fiume Inhulets, nell’area di Davydiv Brid, e ha visto impegnate da parte ucraina forze considerevoli, rappresentate dalla 14a, 60a, e 63a brigata meccanizzata, dalla 80a brigata d’assalto aereo, e dalla 108a brigata di difesa territoriale. Tuttavia, anche in questo caso, dovendosi confrontare con forze russe che da tempo si erano attestate a difesa con un dispositivo articolato in profondità organizzato su più linee difensive, e sottoposte alle onnipresenti azioni di fuoco di sbarramento e repressione dell’artiglieria russa, nel corso del mese di giugno le unità ucraine impegnate in questa controffensiva sono state arrestate a diversi chilometri dall’area di Kherson, giungendo alla fine a una situazione di sostanziale stallo. Inoltre, al momento, oltre al cruciale obiettivo rappresentato da Kherson e dalla relativa testa di ponte russa sulla riva destra del Dnepr, anche questa controffensiva ucraina nel settore più meridionale del fronte non è riuscita nell’intento di attrarre forze russe importanti dall’area del Donbas, non riuscendo così a rovesciare il bilancio dell’iniziativa a proprio favore.

Una parziale pausa operativa nel Donbas

In questo momento, a seguito dell’esito favorevole della battaglia di Severodonetsk – e nonostante quelli che sono stati riportati come duri colpi subiti per opera delle azioni di fuoco di interdizione in profondità dell’artiglieria ucraina, che ha celermente impiegato i lanciarazzi multipli M-142 HIMARS (High Mobility Artillery Rocket System) appena ricevuti dagli Stati Uniti – le forze russe nel Donbas risultano impegnate in una parziale pausa operativa e di riorganizzazione, ma nello stesso tempo un’aliquota di esse è impiegata nella prosecuzione dello sforzo offensivo verso ovest, e starebbe già operando nei confronti della nuova linea difensiva ucraina tra Siversk e Bakhmut. Qualora fossero in grado di superarla, potrebbero giungere agli approcci occidentali della “cerniera” del Donbas, rappresentata dall’area Sloviansk-Kramatorsk, e ipotecare così la possibilità di proseguire verso il conseguimento di obiettivi di livello operativo, sempre rappresentati dalla sponda orientale del basso Dnepr e dei suoi fondamentali punti di attraversamento di Zaporozhie e Dnipro. Infine, sempre riguardo al fondamentale aspetto dei rapporti di forza, tra la fine di giungo e i primi giorni di luglio questi sarebbero cambiati, indicando un marcato logoramento delle forze ucraine, che sarebbero scese a un totale di 60 battaglioni di manovra, di fronte a un totale di BTG dei russo-separatisti che invece avrebbero incrementato il totale fino a 108 unità.

Da ultimo, sul versante delle operazioni nello scacchiere marittimo del Mar Nero, c’è da registrare l’evacuazione, eseguita il 30 giugno da parte dei russi dell’isola dei serpenti, precedentemente occupata nelle prime fasi dell’invasione. Nonostante i notevoli sforzi per rinforzare questa posizione, posta nel Mar Nero nord-occidentale, a circa 18 miglia nautiche dalla costa ucraina, e non lontano da quella della Romania (si trova anche a meno di 100 miglia nautiche dal porto di Costanza), i continui attacchi condotti dagli ucraini con UAS (droni) e aerei, e parrebbe anche artiglieria a lunga gittata, su questo isolotto dalle ridottissime dimensioni (è caratterizzato da una larghezza massima di meno di 700 metri) ha reso impossibile per le forze di Mosca continuare a mantenervi una guarnigione. In effetti, nelle settimane precedenti la pressione sull’isola aveva assunto i caratteri di un vero e proprio martellamento, e l’afflusso di forze e assetti (in primo luogo sistemi controaerei) su di essa era diventata proibitiva, anche e soprattutto per la minaccia rappresentata dai sistemi missilistici antinave ucraini in installazione costiera (sembrerebbe anche di tipo RGM-84 Harpoon di fornitura occidentale) che hanno agito con una significativa funzione che la moderna terminologia militare definisce, nell’ambito delle operazioni navali, di “Sea Denial”. A tutti gli effetti, e seppure nel contesto di una netta superiorità delle forze navali russe nel teatro marittimo del conflitto, la perdita dell’Isola dei Serpenti rappresenta di certo un nuovo scacco, che fa il paio con la perdita dell’incrociatore Moskva, e che ne limita in modo marcato le capacità di controllo delle aree costiere, in particolar modo nel Mar Nero nord-occidentale e nella regione di Odessa.

(Segue da: “Guerra russo-ucraina: da Kiev al Donbas. Prima parte: la battaglia di Kiev”)