Guerra Israele-Hamas: quale scenario dopo la tregua? RaiNews24
di Claudio Bertolotti
Dall’intervento del direttore Claudio Bertolotti a In un’ora, RaiNews 24, puntata del 27 novembre 2023.
La tregua e le sue dinamiche
Guardando alla striscia di Gaza e al territorio israeliano, al momento non sembrano esserci stati episodi significativi in grado di influire sulla tenuta della tregua tra le parti, comprese eventuali iniziative da parte del libanese Hezbollah. Ad oggi sembra che entrambe le parti siano interessate ad estendere il cessate il fuoco per altri 4 giorni. Per Israele è un’opzione vantaggiosa dal punto di vista politico e di ricerca di consenso, anche perché ciò offrirebbe maggiori garanzie per eventuali altri prigionieri rapiti che potrebbero essere rilasciati dai terroristi di Hamas. Per contro, lo svantaggio per Israele sarebbe tattico e operativo, perché lascia le truppe schierate sul terreno in una posizione di relativa vulnerabilità e darebbe ad Hamas il tempo per riorganizzare la propria capacità di comando e controllo e logistica, fortemente compromessa dall’uccisione di ben cinque comandanti di medio-alto livello negli ultimi giorni[1].
Per Hamas, si rileva un apparente risultato politico nell’aver ottenuto una tregua con Israele, ma non dobbiamo dimenticare che questa non è una concessione da parte di Hamas, bensì il risultato di un’operazione controffensiva israeliana che ha messo sotto pressione la leardership palestinese, sia quella politica che quella militare. Va però rilevato che lo stesso Hamas ha tratto grande vantaggio sul piano militare poiché, oltre alla riorganizzazione in atto, una consistente parte degli aiuti umanitari, in particolare il carburante, verrebbe dirottata prioritariamente a sostegno dei combattenti e non della popolazione civile.
Quale
lo scenario futuro?
Sul prolungamento del cessate il fuoco sembra che ci sia una
posizione condivisa nel proseguirlo poichè, di solito, o sono estesi da un
accordo fatto mentre sono in vigore o sono infranti prima della scadenza. E al
momento non sembrano esserci violazioni significative in corso.
Difficile anche fare previsioni circa l’andamento della guerra,
per quanto appaia imprescindibile il risultato di una vittoria israeliana e
questo non per una ragione limitata all’andamento della guerra, bensì per l’esistenza
stessa dello Stato di Israele che, se non fosse in grado di imporre con la forza
la propria superiorità su Hamas, creerebbe un pericoloso precedente a cui
seguirebbero altre azioni offensive a danno dei cittadini israeliani all’interno
di Israele e non solo da parte palestinese. È dunque una questione di
sopravvivenza per Israele, che non farà sconto alcuno, nonostante il
prolungamento del cessate il fuoco.
Per contro, Hamas guarda al futuro immediato con la speranza
di un allargamento del conflitto che sembra però uno scenario che si allontana
sempre di più, con un Iran sempre più convinto a non spingere verso un’escalation
che sarebbe devastante per Teheran. Iran, che non vuole essere coinvolto
direttamente in una guerra regionale ma che persiste nel sostenere ed
alimentare azioni di disturbo da parte dei suoi attori di prossimità, dal
libanese Hezbollah alle milizie nello Yemen e in Iraq.
E allora ad Hamas, esclusa l’ipotesi di un’escalation
orizzontale che coinvolga tutti gli attori regionali, resta l’opzione dell’allargamento
interno, con il coinvolgimento delle milizie palestinesi della Cisgiordania che
otterrebbero il risultato di impegnare le truppe israeliane su un secondo
eventuale fronte.
[1] I
comandanti uccisi sarebbero: il comandante della Brigata della Striscia di Gaza
settentrionale Ahmed Ghandour, a capo delle attività di Hamas nel nord della
Striscia di Gaza. Gli attacchi aerei israeliani avrebbero anche ucciso Farsan
Khalifa, il capo del Comitato Tulkarm di Hamas responsabile di aver reclutato e
formato le cellule di combattenti nel campo profughi di Nur al Shams, vicino a
Tulkarm, in Cisgiordania.
L’informazione “dettata” da Hamas: la guerra cognitiva dei terroristi. Dal commento di C. Bertolotti a Start (SKY TG24).
I commenti di Claudio Bertolotti, Direttore di START inSight e Natalie Tocci, Direttore IAI a START, trasmissione di SKY TG24 (puntata del 19 ottobre 2023)
(Bertolotti) “Guardando al caso dell’ospedale nella striscia di Gaza colpito da un razzo palestinese, emerge quanto sia pericoloso dar credito a informazioni non verificate in grado di incidere in maniera significativa, sia sull’opinione pubblica, sia sui processi decisionali, politici e militari.
In questo specifico caso, così come in molti altri, la percezione ha prevalso sulla realtà: e questo è l’effetto della guerra cognitiva, volta a indirizzare il nostro pensiero. Una guerra che Hamas sta conducendo in maniera estremamente abile e che ha portato a definire i tempi e le modalità delle relazioni internazionali, annullando o posticipando gli incontri tra le parti. La responsabilità di Israele è stata esclusa, ammesso che ci sia mai stata. E questa, da un lato è la sconfitta del giornalismo che non è stato in grado di verificare, prestandosi alla propaganda di un gruppo jihadista, e, dall’altro è stata la grande vittoria della disinformazione di Hamas, che è così riuscita a spingere le masse arabe nelle piazze e, al contempo, ha smosso la mole di utili inconsapevoli che in Occidente sono caduti nel tranello, o meglio nell’operazione.”
Israele: una guerra diversa. Il punto della situazione e l’analisi
di Claudio Bertolotti
dall’intervento di Claudio Bertolotti a SKY TG24 Mondo (Puntata del 13 ottobre 2023)
Il punto della guerra contro Hamas a Gaza (13 ottobre)
A quasi una settimana dagli attacchi di Hamas contro le città e le comunità israeliane, continuano gli attacchi dell’IDF contro siti terroristici a Gaza, mirati alle capacità militari e amministrative di Hamas. L’aviazione israeliana ha colpito alti dirigenti, centri di comando e controllo, siti di lancio di razzi, istituzioni finanziarie e governative chiave di Hamas che contribuiscono alle sue operazioni militari. In totale, oltre 1.000 terroristi sono stati uccisi (Fonte IDF).
L’IDF continua a fare affidamento sull’intelligence per eseguire questi attacchi. Una serie di obiettivi colpiti includeva una rete di siti di lancio di UAV all’interno e sopra le case di Gaza. Il sito preso di mira la scorsa notte includeva le case di un agente della forza Nukhba, un sito operativo di Hamas in cui sembra si trovasse il fratello di Yahya Sinwar e una postazione dell’intelligence di Hamas utilizzata per tracciare i movimenti delle forze (fonte IDF).
Venerdì, in vista di una continuazione degli attacchi operativi dell’IDF, l’IDF ha chiesto ai civili di Gaza di spostarsi a sud di Wadi Gaza attraverso una varietà di canali, compresi i media tradizionali e i media digitali, tutti in arabo. L’obiettivo è quello di fornire allarmi efficaci e anticipati in modo che i civili possano proteggersi evacuando, cercando riparo o intraprendendo altre azioni appropriate (fonte IDF).
Il valico di Erez rimane non utilizzabile a seguito degli attacchi di Hamas, mentre il valico di Kerem continua ad essere sotto attacco. 9 delle 10 linee elettriche da Israele a Gaza sono state distrutte dal lancio di razzi di Hamas. Israele ha dichiarato che non riparerà queste infrastrutture né continuerà la sua fornitura di elettricità e carburante a Gaza, che Hamas sfrutta per uso militare e impedisce che raggiunga la popolazione civile (fonte IDF).
Difesa del sud di Israele
Le forze dell’IDF nel sud di Israele continuano a respingere i tentativi di attacchi di infiltrazione, così come gli attacchi isolati da parte di cellule terroristiche rimaste nel sud di Israele. Ciò includeva la neutralizzazione di un terrorista vicino al Kibbutz Kissufim giovedì sera, una delle città che erano state attaccate durante il massacro di sabato. In totale, almeno cinque terroristi sono stati neutralizzati dalle forze dell’IDF nelle ultime 24 ore.
Altri settori militari
L’esercito è in uno stato di elevata capacità e preparato a qualsiasi minaccia. Nell’ambito della valutazione della situazione in corso, l’IDF ha dichiarato l’area di Metula, la parte più settentrionale di Israele, come zona militare interdetta. Le forze dell’IDF sono dispiegate e monitorano attivamente l’area.
Nel corso delle operazioni notturne in Giudea e Samaria, sono stati arrestati 47 soggetti, 34 dei quali appartenevano ad Hamas. Ad Azun è stato trovato anche un laboratorio di esplosivi di Hamas. In totale, 130 agenti di Hamas sono stati arrestati nella regione di Giudea, Samaria e Beka’a da sabato.
Il fronte interno
Il lancio di razzi da Gaza è continuato, comprese raffiche di razzi verso il sud e il centro di Israele, con una salva sparata verso il nord di Israele venerdì pomeriggio. Sbarramenti particolarmente pesanti furono sparati verso Ashkelon (132.000 abitanti) e Sderot (27.000 abitanti). A partire da ieri, oltre 6.000 razzi sono stati lanciati contro Israele.
Analisi generale
Perché questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti dall’esercito israeliano?
Questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti perché a differenza delle precedenti rischia di sfociare in una guerra regionale in grado di coinvolgere l’Iran, la Siria, il Libano e gli Stati Uniti, e di allargarsi ulteriormente con strascichi di lungo periodo difficili da prevedere.
L’allargamento regionale del conflitto, da un punto di vista
razionale in realtà non è auspicato da nessuno, in primo luogo da Hezbollah e
dal Libano a causa del rischio di implosione economica e sociale dello stato
libanese, con il rischio di una nuova guerra civile. Ma neanche l’Iran vuole
dare il via a un’escalation che allarghi il conflitto. Ma da un punto di vista
emotivo c’è sempre il rischio che le parti siano spinte o si lascino trascinare
verso una crescente partecipazione alla guerra contro Israele e questo
rappresenterebbe un punto di non ritorno che determinerebbe la ridefinizione
violenta degli equilibri dell’intero vicino e medioriente.
Differenze tra Hamas,
Hezbollah, Jihad dal punto di vista della possibile offensiva e della reazione
all’offensiva israeliana
Nella sostanza, e sposando l’approccio israeliano dobbiamo
considerare le due organizzazioni non come “insorti” o “guerriglieri”, ma
come “eserciti organizzati, ben addestrati, ben equipaggiati per le
loro missioni”. Questo da un punto di vista sostanziale che li colloca
all’interno della medesima categoria di nemici sul campo di battaglia.
E sempre sul piano sostanziale sono due minacce dirette alla sicurezza dello Stato di Israele, e per questo inserite negli obiettivi primari della strategia di difesa israeliana.
Da un punto di vista storico e ideologico, le differenze ci sono, e non solamente dal punto di vista religioso, sciiti gli appartenenti a Hezbollah, sunniti gli appartenenti ad Hamas. Non sono ideologicamente vicini, tant’è che nella guerra in Siria hanno combattuto su fronti contrapposti, ma entrambi ambiscono a distruggere Israele.
Hezbollah movimento jihadista islamico sciita che
nasce come movimento di resistenza anti-israeliano.
Il suo obiettivo è la difesa del Libano contro la “probabile aggressione israeliana” e la creazione di
uno Stato
islamico libanese, però in contrapposizione alla visione
dello Stato islamico, già ISIS.
Hamas nasce anch’esso come movimento islamista, ma sunnita e
fortemente legato alla Fratellanza musulmana, con chiare connotazioni radicali.
L’obiettivo primario è la liberazione dei territori palestinesi e la
distruzione dello Stato di Israele, non riconosce le Nazioni Unite e rifiuta di
accettare qualunque conferenza di pace e qualunque forma di compromesso con
Israele, rifiutando di fatto l’ipotesi dei due stati per due popoli.
Quanto sono
“fondamentali” per Hamas ostaggi e residenti? Hamas si è detta contraria a
corridoio umanitario
Hamas, accecato dalla propria visione e immerso nella propria battaglia ideologica, ha sottovalutato gli effetti di questa operazione a danno di Israele e pagherà con la propria esistenza l’eccesso di violenza. In questo momento la presenza degli ostaggi viene sfruttato da Hamas per indurre Israele a un minore livello di violenza contro Gaza. Ma questo non avverrà. E allora Hamas ricorre alla carta estrema di trasformare l’intera popolazione di Gaza in un immenso scudo umano da sfruttare a proprio favore o da trasformare in martiri utili alla propaganda jihadista che verrà sfruttata ed ereditata dai movimenti jihadisti che raccoglieranno il testimone di Hamas dopo la sua scomparsa.
È vero che Israele ha
abbandonato lo spionaggio “sul campo” per affidarsi tutto alla tecnologia? È
per questo che un attacco pianificato per due anni sia stato completamente
ignorato?
La dottrina strategica di Israele del 2015 e il più recente concetto operativo delle forze armate israeliane prevede, come pilastro e elemento di successo, il funzionamento dello strumento intelligence. Sia in termini di raccolta informazioni ad alto livello tecnologico sia attraverso la raccolta informazioni diretta dagli uomini sul campo. Nessuna delle due è venuta meno nel corso degli anni, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato, in parte per aver sopravvalutato l’effettiva propria capacità informativa, in parte per l’alto livello di depistaggio attuato da Hamas e, forse in parte, per la competizione interna tra Shin Bet e Mossad, le due agenzie di intelligence israeliane.
Come potrà
svilupparsi l’operazione di terra? Chirurgica o più su vasta scala? Quanto può
durare? Con quali fasi?
La somma delle due opzioni: una prima attività di bombardamento mirato e chirurgico a cui seguirà un’invasione massiccia mista: mezzi corazzati e fanteria leggera per il combattimento nel centro urbano di Gaza, che rappresenta la più pericolosa delle fasi della guerra e che potrebbe portare a un elevato numero di vittime da entrambe le parti. Rimando alla lettura dell’analisi dettagliata pubblicata con ISPI (Spazio e tempo dell’offensiva israeliana a Gaza).
Alle operazioni
militari si affiancano operazioni psicologiche per influenzare opinione
pubblica e attivazione canali diplomatici. Quanto sarà fondamentale il sostegno
della popolazione di Gaza ad Hamas?
Hamas e Israele sfruttano entrambe le operazioni psicologiche. Israele per indurre il terrore nei confronti di Hamas; basta la frase di Netanyahu “ogni uomo di Hamas è un uomo morto” per far capire il peso e la gravità della situazione. Al tempo stesso Hamas spaccia per mera propaganda la possibilità che Israele attacchi violentemente Gaza, e questo per tenere la popolazione nell’area degli obiettivi militari, arrivando anche a minacciare le stesse famiglie palestinesi in cerca di salvezza.
Il sostegno della popolazione per Hamas è certamente importante ma, a questo punto credo non risolutivo. Se Hamas è dovuta ricorrere alla minaccia per tenere la popolazione di Gaza all’interno della città significa che la fiducia nell’organizzazione politica e terrorista è venuta meno.
Rispetto alla geografia
di Gaza, dove potrebbe avvenire lo schieramento?
Guardando alle forze in campo e alla geografia del
territorio, limitandoci alla componente terrestre possiamo ipotizzare un primo
schieramento di carri armati israeliani a sud di Gaza City dove
c’è una linea di cresta che domina il centro urbano; area che potrebbe essere
strategica per il controllo del terreno e per il supporto di fuoco. Al
tempo stesso, una seconda aliquota potrebbe posizionarsi all’estremo nord di
Gaza, vicino al valico di Erez, dove si trovano aree rurali e ampi terreni utili
allo schieramento di unità di supporto al combattimento. Un terzo
punto di accesso potrebbe essere l’estremo sud, vicino a Rafah.
Un’altra area di
possibile schieramento a supporto delle unità di fanteria si trova a est
di Khan Yunis, a sud della città di Gaza, dove i mezzi corazzati
possono muoversi più facilmente e prendere posizioni di fuoco.
Una nota sull’uso fosforo bianco
L’uso di munizionamento al fosforo bianco è legittimo quando usato contro obiettivi militari isolati, per illuminare il campo di battaglia di notte o per creare cortine di fumo utili a nascondere il movimento delle truppe sul terreno. È invece vietato il suo utilizzo in ogni caso in cui vi sia il rischio di colpire obiettivi civili. E in questo senso va la decisione israeliana di imporre alla popolazione di Gaza di abbandonare il centro urbano; ed è lo stesso motivo per cui Hamas starebbe obbligando con la minaccia e la violenza la popolazione di Gaza a rimanere nelle proprie case, come scudi umani in funzione di deterrenza.
Israele: la risposta e lo scenario di guerra
di Claudio Bertolotti
Il 7 ottobre, Hamas attraverso la sua ala militante, la Brigata Al Qassem, ha lanciato un attacco a sorpresa, terrestre e aereo, contro Israele. Un fatto che si è imposto come la più significativa escalation di violenza tra le due parti degli ultimi decenni. Centinaia di combattenti di Hamas hanno attraversato la Striscia di Gaza in territorio israeliano e hanno attaccato i posti di confine, investendo con la loro violenza obiettivi militari e aree residenziali (fonte ISW).
In tale contesto di violenza, Hamas e la Brigata Al Qassem hanno invitato le milizie palestinesi e i membri dell’Asse della Resistenza a unirsi alla lotta contro Israele.
Un
appello, rivolto e raccolto dal gruppo libanese Hezbollah che, unitamente alle milizie palestinesi, hanno
condotto attacchi contro le posizioni israeliane rispettivamente dal Libano
meridionale e dalla Cisgiordania (fonte ISW)
Quali
le ragioni all’origine di questa azione coordinata e strutturata su ampia
scala?
Due i principali fattori determinanti il
conflitto in corso: interni ed esterni alla questione palestinese.
Il principale fattore interno è
rappresentato dalla competizione tra l’ala politica e militare di Hamas e l’Autorità
nazionale palestinese (Anp), dove il primo attore intende esautorare il secondo
per divenire unico punto di riferimento della popolazione palestinese e nei
rapporti internazionali.
Parallelamente al fattore interno si
impone quello esterno, conseguente al processo di normalizzazione dei rapporti
tra paesi arabi (Arabia Saudita in primis)
e Israele. Un effetto destabilizzante per le ambizioni regionali dell’Iran.
Guardando ad entrambe le dimensioni,
interne ed esterne, è ovvio che fosse nell’interesse di Hamas e dell’Iran minare
tale accordo. Dunque una convergenza di interessi, sebbene su basi molto
diverse.
L’aver inflitto un così grave danno ad
Israele, oltre ad aver evidenziato la vulnerabilità di Gerusalemme, ha dimostrato
forza e volontà di Hamas (e dell’Iran) e la debolezza della classe politica
dell’ANP, disposta a concedere molto (troppo) agli israeliani.
Un recente articolo di Samia Nakhoul e Jonathan Saul perReuters getta luce su alcuni aspetti interessanti, che dovranno presto essere approfonditi per comprendere le dinamiche che hanno determinato lo scenario a cui stiamo assistendo. In primis, Hamas avrebbe costruito un finto insediamento israeliano a Gaza per addestrarsi in preparazione dell’attacco; in secondo luogo, la preparazione sarebbe durata due anni, durante i quali Hamas ha dato l’impressione di non voler entrare in conflitto aperto ma di essere piuttosto focalizzato su economia/assicurare i diritti dei lavoratori della Striscia di Gaza; infine, terzo elemento, molti leaders di Hamas sarebbero stati all’oscuro dell’operazione.
In ogni caso, il risultato ottenuto è stato quello di minare nel breve periodo l’accordo tra le parti, ricollocando la questione palestinese al centro delle dinamiche mediorientali e di tutto il mondo arabo, dopo la sostanziale marginalizzazione di fatto avvenuta negli ultimi anni.
Quali
gli sviluppi possibili del conflitto in corso?
Cosa accadrà (e cosa sta già accadendo)? Gli israeliani cercheranno di decapitare la leadership di Hamas. E se questo non bastasse (e non basterà) per indurre Hamas a cessare il lancio di razzi e ad avviare negoziati per liberare gli ostaggi, allora potremmo assistere a un’invasione israeliana su vasta scala di Gaza. Con ciò proponendo uno scenario simile a quello del 2005, quando Israele lasciò Gaza dopo averla occupata, con grande sforzo e oneri straordinari (intervista a Martin Indyk, per Foreign affairs del 7 ottobre 2023).
In questo caso, sul piano operativo si
pone il problema della gestione di un conflitto in un’area ad alta densità di
popolazione, dove la manovrabilità delle truppe di terra e il rischio di
provocare un elevato numero di vittime potrebbe provocare una reazione di massa
non solo da parte degli arabi a Gaza, ma anche dei profughi palestinesi nel
vicino Libano e il molto probabile coinvolgimento di Hezbollah, anche questo
sostenuto dall’Iran, e contemporanee rivolte violente in Cisgiordania e nella
capitale Gerusalemme. Dunque un conflitto su più fronti, veramente difficile da
sostenere, nonostante il massiccio e indiscusso supporto degli Stati Uniti.
E proprio per evitare il pantano di una guerriglia urbana è molto probabile che la prima fase della risposta di Gerusalemme possa svilupparsi attraverso l’impiego massiccio dell’aviazione e di droni per attacchi mirati, con l’obiettivo di indurre Hamas a desistere dall’offensiva intrapresa. Un’opzione operativa che potrebbe avere qualche speranza di successo solo se i paesi arabi più influenti su Hamas (Arabia Saudita, Qatar, Egitto) riuscissero attraverso un’azione diplomatica ad incidere sul gruppo palestinese. È una possibilità, ma la probabilità che ciò avvenga è molto limitata.
Al contrario, almeno nelle intenzioni di Hamas, è l’escalation di violenza il risultato fortemente voluto e ricercato dal gruppo. E questo perché è l’unica opzione per far rivoltare le opinioni pubbliche dei paesi arabi nei confronti delle rispettive leadership di governo (in particolare Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, insieme a quelli che hanno aderito all’“accordo di Abramo” avviato dall’allora presidente statunitense Donald J. Trump), perché l’obiettivo strategico di Hamas è quello di cancellare Israele dalla faccia della terra.
Insomma, l’unica carta vincente di Hamas (a dispetto delle esigenze e delle priorità dei palestinesi di Gaza), è l’intensificazione e l’allargamento del conflitto che coinvolga quanti più attori possibili, così da ottenere la sconfitta e la distruzione di Israele, l’unica democrazia liberale in tutto il Medioriente.
Competizione NATO e Cina-Russia nel Mar del Giappone
di Andrea Molle
La reazione sino-russa
alla diplomazia NATO nell’indo-pacifico, che include anche i recenti sforzi
italiani, non si fa attendere. Dopo la conferma delle indiscrezioni di una
futura apertura di un liaison office dell’Alleanza in Giappone, ipotesi
peraltro volutamente omessa dalle dichiarazioni ufficiali dell’incontro di
Vilnius, i due paesi annunciano un’esercitazione navale comune nel Mar del
Giappone.
Il Mar del Giappone è un fondamentale
teatro strategico sia per la Cina che per la Russia. In particolare gli stretti
di Soya, di Tsushima e Tsugaru hanno importanti implicazioni per la sicurezza
nazionale di Beijin e Mosca. Sabato, il Ministro della Difesa cinese ha
dichiarato che forze navali e aeree russe prenderanno parte alle esercitazioni
militari “Northern/Interaction”, organizzate dal comando del teatro
settentrionale dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). Va precisato che le
relazioni militari tra i due paesi non sono una novità; basti ricordare, ad esempio,
che a partire dal 2018, la Cina ha partecipato regolarmente alle principali
esercitazioni annuali russe tra cui “Vostok 2018”, “Tsentr-2019” e “Kavkaz-2020”.
Nell’agosto 2021, la Russia ha anche preso parte all’esercitazione “Western/Interaction”,
condotta nella regione autonoma dello Ningxia Hui, nella Cina nord-occidentale,
la prima in cui la Cina ha invitato a partecipare forze armate straniere.
Successivamente, nel 2022, Beijin ha inviato componenti delle sue forze
terrestri, navali e aeree in Russia per partecipare alle esercitazioni “Vostok
2022” le cui attività si sono svolte in ben 13 siti addestrativi russi
e in diverse aree di interesse del Mar del Giappone.
Tuttavia, quest’ultima campagna
addestrativa comune, che si aggiunge all’attività di pattugliamento congiunto del Mar del Giappone
e del Mar Cinese Orientale da parte delle due Forze Armate iniziata lo scorso
giugno, sembra rappresentare un salto di qualità verso un vero e
proprio partenariato strategico. Il Ministero
della Difesa ha infatti sottolineato come questa esercitazione congiunta abbia
sì uno scopo
prettamente operativo, cioè di acquisire le capacità necessarie al mantenimento della
sicurezza delle rotte marittime strategiche, ma ha anche aggiunto che, tramite
lo sviluppo di più
strette relazioni militari, Cina e Russia intendono affermarsi politicamente
come i reali garanti della pace e della stabilità nella regione.
Diversi esperti militari prevedono
anche che queste attività addestrative andranno ad aumentare in futuro,
anche grazie alla probabile rotazione tra tutti e cinque i comandi del PLA che
potranno interessare diversi teatri strategici e scenari di conflitto tra i
quali naturalmente spicca l’isola di Taiwan.
Ancora non si conosce l’entità nè la configurazione del contingente navale russo, ma la componente navale cinese sembra includere i cacciatorpedinieri missilistici Qiqihar e Guiyang, le fregate missilistiche Zaozhuang e Rizhao e la nave da rifornimento Taihu, salpate dal porto di Qingdao, sito nella provincia dello Shandong nella Cina orientale.
Fotografia di Michael Afonso
Controffensiva ucraina: conviene a Kiev? Il fattore tempo è a favore di Mosca. Il commento di C. Bertolotti a RadioInBlu
Controffensiva ucraina: cosa possiamo aspettarci? Quale il miglior risultato ottenibile per Kiev?
Intesa come controffensiva in grado di ricacciare indietro i russi imponendo l’abbandono del fronte, quella ucraina rimane un miraggio perché il potenziale militare ucraino è adeguato per una guerra difensiva, tuttalpiù per azioni offensive limitate, contrattacchi, ma difficilmente potrebbe sostenere un’azione in profondità su tutto il fronte. E questo perché una controffensiva risolutiva richiede un numero di carri armati, pezzi di artiglieria e potere aereo che, in questo momento l’Ucraina non ha.
In secondo luogo dobbiamo chiederci se all’Ucraina convenga avviare un’azione offensiva che sarebbe molto onerosa in termini di risorse materiali e umane: ricordiamo che chi attacca deve mettere in campo almeno il triplo delle risorse schierate da chi invece si difende. Quel che è certo è che se una controffensiva ucraina dovesse essere condotta questa avverrà prima realizzando un piano d’inganno, ossia un attacco simulato per distrarre le difese russe, e contemporaneamente concentrando un attacco massiccio in un preciso punto del fronte, su più direttrici d’attacco, senza disperdere le forze già molto limitate. Ma è difficile riuscire a immaginare che una tale situazione possa poi essere gestita dalle forze ucraine che ancora non hanno una capacità militare tale da riuscire a contenere la scontata azione controffensiva russa.
Il fattore tempo gioca a favore di Russia o Ucraina?
Il fattore tempo gioca a favore di chi ha il maggior numero
di pedine da mettere in campo e un sistema produttivo in grado di sostenerlo.
L’Ucraina ha la possibilità di sostenere lo sforzo militare grazie quasi
esclusivamente al sostegno statunitense, a cui si unisce quello inferiore ma
non marginale dei paesi dell’Unione europea. Ma è un sostegno a termine, che
difficilmente potrà essere garantito sul lungo periodo vista la crescente
diffidenza di un Congresso statunitense che chiede conto dei soldi dei
contribuenti spesi in una guerra che dura ormai da troppo tempo.
Al contrario, la Russia ha uomini e materiali, associati a
un sistema produttivo e militare sostanzialmente intaccato. È indubbio che sia
Mosca a mantenere una posizione di primazia sul campo, se non altro in termini
di quantità di risorse sacrificabili
Cosa rappresenta Bakhmut?
È un simbolo per entrambi i contendenti ed è, al contempo,
strategicamente importante sia tenerla sia occuparla perché è un obiettivo che
diverrà il perno di manovra di possibili azioni offensive russe. Per questo
motivo Kiev si ostina a mantenere la posizione. Ora lo stallo è totale, ma si
apre la prospettiva di un’offensiva russa o contrattacchi ucraini. Bakhmut
rientra tra gli emblemi russi, perché una vittoria darebbe un’ulteriore spinta
alla sua narrazione, oltre ad avere effetti significativi sul piano militare. I
russi avrebbero una grande capacità di manovra e la conquista gli consentirebbe
di consolidare la linea del fronte, offrendogli un vantaggio tattico e
operativo nell’area. Sul fronte opposto, la tenuta di Bakmut garantisce all’Ucraina
l’accesso di vie di comunicazione e logistiche, stradali e ferroviarie
necessarie a sostenere lo sforzo militare al fronte. Perdere la città, aspetto
che Kiev ha di fatto già accettato, ha imposto una riorganizzazione del
retrofronte in relazione a un abbandono delle posizioni strenuamente tenute in
questi mesi.
Un 9 maggio sotto tono in Russia, droni sul Cremlino, attentati, effetto Prigozhin… Una Russia meno solida?
Direi una Russia sospesa e rassegnata a condurre una guerra
di logoramento nel lungo periodo e con una leadership presidenziale ben salda
al potere, forte della capacità di propaganda con cui riesce a consolidare il
sostegno, o comunque la mancata opposizione dell’opinione pubblica interna,
alle decisioni governative.
La leadership sa che il costo di questa guerra è
immensamente più grande rispetto alla peggiore delle previsioni che il governo
russo valutò prima di dare il via alla cosiddetta “operazione militare
speciale”. Ciò nonostante non ha alternative: la guerra continuerà ancora fino
a quando non verrà dichiarata una qualche forma di vittoria. Non importa se
vera o no, quel che possiamo valutare è che la forma e il metodo con cui questa
vittoria verrà annunciata sarà in grado di far accettare l’esito all’opinione
pubblica interna. In questo quadro si conferma come pienamente efficace
l’azione di propaganda e controllo dell’informazione in Russia.
Quale il ruolo della Cina?
La Cina potrebbe imporsi come interlocutore primario dal
punto di vista pragmatico perché ha la capacità di influenzare le decisioni
russe anche in termini di supporto indiretto alla guerra stessa. In questo caso
sarà necessario capire quanto gli Stati Uniti saranno disposti a concedere alla
Cina e sebbene la Russia sia in questo momento in cima alle preoccupazioni
delle Cancellerie occidentali, l’attore primario è la Cina. E il confronto non
è tra Russia e Stati Uniti o tra Russia e Nato, ma tra Stati Uniti e Cina.
Credo si debba guardare alla guerra in Ucraina in prospettiva cercando di
trovare alcune dinamiche comuni in quello che potrebbe essere il dossier Taiwan
nel prossimo futuro.
Vent’anni fa la guerra in Iraq. L’anniversario scomodo di una guerra dalle conseguenze irreversibili per l’ordine internazionale
20 anni dall’invasione dell’Iraq: è un anniversario scomodo per l’Occidente e, se sì, perché?
La guerra in Iraq è una delle guerre più controverse e disastrose degli ultimi decenni; una guerra in cui gli effetti negativi hanno superato di gran lunga qualsiasi possibile risultato positivo.
Parte dell’opinione pubblica di allora ha oggi allontanato
le emozioni e i sentimenti provati e vissuti vent’anni fa in occasione della
guerra in Iraq che seguì, di poco, quella maggiormente coinvolgente in
Afghanistan. Un’altra parte dell’attuale opinione pubblica, per ragioni
generazionali, non ha vissuto quei momenti e colloca l’evento in un momento
storico privato della sua componente emotiva. Detto questo, credo che la
risposta sia: “sì, l’anniversario dell’invasione dell’Iraq del 20 marzo 2003 è
scomodo per l’Occidente, e lo è per diverse ragioni”.
La prima di queste ragioni è la consapevolezza di una
ricercata manipolazione dell’opinione pubblica volta a convincerla della
necessità e della bontà dell’intervento militare: ricordiamo tutti l’imbarazzo
del segretario di Stato Colin Powel davanti al Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite mostrare una provetta contenente borotalco, asserendo si
trattasse di antrace per
giustificare l’emergenza di un intervento militare Guerra basata su informazioni
sbagliate. L’invio delle truppe statunitensi in Iraq si basava principalmente
su informazioni errate o addirittura inventate sulle armi di distruzione di
massa (WMD) possedute dal regime di Saddam Hussein. Quando si scoprì che queste
informazioni erano false, molti accusarono l’amministrazione Bush di aver
manipolato l’opinione pubblica per giustificare la guerra.
Un’altra ragione sono i costi della guerra. L’invasione
dell’Iraq ha comportato un costo enorme in termini di vite umane e risorse
finanziarie. Secondo alcune stime, la guerra ha causato la morte di oltre
100.000 civili iracheni e più di 4.400 militari americani, oltre a un costo
stimato di 1,7 trilioni di dollari.
Una terza ragione è l’avvio di un periodo (ancora in corso)
di instabilità regionale. L’invasione dell’Iraq ha destabilizzato l’intera
regione del Medio Oriente, creando un vuoto di potere che ha permesso la
nascita di gruppi estremisti come lo Stato islamico (ISIS) Creando al contempo tensioni
tra i paesi dell’Occidente e quelli musulmani, alimentando il sentimento
anti-occidentale in molte parti del mondo.
Una quarta ragione, infine, è data dai dubbi sulla
legittimità dell’azione militare. La guerra in Iraq ha diviso l’opinione
pubblica sia negli Stati Uniti che in Europa. L’assenza di un mandato del
Consiglio di sicurezza dell’ONU e la mancanza di una minaccia imminente alla
sicurezza nazionale degli Stati Uniti hanno portato molti a chiedere il perché dell’avvio
della guerra.
E ancora oggi, per fortuna, la guerra in Iraq continua a
suscitare dibattiti sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo e sulla
giustificazione delle azioni militari unilaterali.
Le conseguenze della guerra in Iraq continuano ad avere ripercussioni sul Medioriente?
La guerra in Iraq, iniziata vent’anni fa, è un punto di
rottura sul piano delle relazioni internazionali e una svolta su quello degli
equilibri geopolitici a livello regionale e globale. Un fatto storico che ha
determinato l’impossibilità di ritorno all’ordine internazionale precedente,
come quello della Guerra Fredda o del primo periodo post-Guerra Fredda.
Parliamo di cambiamenti irreversibili tanto da determinare
ancora oggi i ritmi della politica regionale e le scelte in campo
internazionale in cui giocano ora tre attori determinanti: Stati Uniti,
Russia e Cina che determinano e sono condizionati dalla conflittualità competitiva
tra Arabia Saudita e Iran e dalle
dinamiche di allineamento degli altri attori minori che , a cui altri attori
sono obbligati ad adattarsi; e nelle sue istituzioni regionali, che mostrano
tutti marcati cambiamenti e nuovi orientamenti. Al contempo non dobbiamo
dimenticare il ruolo di influenza, non marginale, che la guerra in Iraq ha
avuto sui fenomeni rivoluzionari e insurrezionali delle cosiddette Primavere arabe
che si sarebbero sviluppati dopo pochi anni.
L’invasione dell’Iraq ha rappresentato un punto di rottura nell’ordine internazionale e ha portato a rapidi cambiamenti negli equilibri di potere regionali, che hanno costretto alla diversificazione delle alleanze e dei quadri istituzionali. Ciò è stato dimostrato dagli eventi più recenti, come la dipendenza dalla Cina e dalla Russia per le forniture di vaccini durante la pandemia di COVID-19 e l’emergere di nuove relazioni internazionali, come quella tra Iran e Russia e quella tra gli stati arabi e Israele riflessa negli accordi di Abramo del 2020. La guerra in Ucraina ha dimostrato come gli stati arabi filo-occidentali si siano astenuti dal criticare l’invasione russa, mentre altri stati si sono avvicinati a Mosca.
Qual è oggi la situazione dell’Iraq, sia a livello politico che di sicurezza?
L’Iraq è un paese in difficoltà, ma ci sono anche segnali di
progresso. La situazione politica e di sicurezza rimane instabile, ma ci sono
sforzi in corso per migliorare la situazione.
L’instabilità politica e di sicurezza evidenzia il permanere
di numerosi problemi da affrontare e risolvere. Sul piano politico, il paese ha
affrontato numerose crisi, compresa la recente crisi costituzionale del
2019-2020, caratterizzata da proteste popolari e dimissioni di funzionari
governativi. Inoltre, la situazione è complicata dalla divisione tra le fazioni
politiche e le tensioni etniche e religiose.
Dal punto di vista della sicurezza, l’Iraq si trova ancora
sotto la minaccia del terrorismo e delle milizie armate. Sebbene lo Stato
Islamico sia stato sconfitto in gran parte del paese, ancora perpetrano
attacchi terroristici. Inoltre, le milizie armate filo-iraniane ancora presenti,
rappresentano una minaccia per la stabilità del paese.
L’Iraq ha anche affrontato una serie di sfide economiche e
sociali, inclusa la carenza di servizi essenziali, la disoccupazione e la
corruzione. Tuttavia, il paese ha anche fatto progressi in alcuni settori, come
l’energia, e sta cercando di attirare investimenti stranieri per stimolare la
crescita economica.
In tale contesto non dobbiamo sottovalutare l’assertività di
tre importanti attori: Russia, Cina e Iran, che cercando di aumentare la loro
influenza in Iraq attraverso diverse azioni.
In primo luogo, la Russia sta cercando di espandere la sua
presenza economica in Iraq, soprattutto nel settore energetico. Mosca ha
stretto accordi con il governo iracheno per l’estrazione di petrolio e gas, e
ha fornito assistenza militare sotto forma di armi e consiglieri militari.
Anche la Cina sta cercando di espandere la propria influenza
economica e commerciale, offrendo investimenti e assistenza tecnica in diversi
settori. Pechino ha inoltre stretto accordi energetici con l’Iraq, e ha
recentemente firmato un accordo per costruire una linea ferroviaria ad alta
velocità tra Baghdad e Basra.
L’Iran, invece, ha mantenuto una forte presenza politica,
economica e militare, e ha sostenuto attivamente il governo iracheno nella
lotta contro l’ISIS poi evoluto nel fenomeno “Stato islamico” dal 2014. Teheran
ha inoltre stretto accordi commerciali e di sicurezza con il governo iracheno,
e ha supportato diverse milizie sciite in Iraq.
In generale, i tre paesi cercano di aumentare la loro influenza nel paese attraverso investimenti, aiuti economici e militari, e accordi commerciali. Tuttavia, la presenza e l’influenza degli Stati Uniti in Iraq rimane forte, e gli sforzi di Russia, Cina e Iran potrebbero essere ostacolati da una crescente opposizione irachena alle ingerenze straniere.
Timeline della guerra in Iraq (CNN)
CNN (original article) — Here’s a look at the Iraq War which was known as Operation Iraqi Freedom until September 2010, when it was renamed Operation New Dawn. In December 2011, the last US troops in Iraq crossed the border into Kuwait, marking the end of the almost-nine year war.
November 8, 2002 – The UN Security Council adopts Resolution 1441, giving Iraq a final chance to comply with its “disarmament obligations” and outlining strict new weapons inspections with the goal of completing the disarmament process. The resolution threatens “serious consequences” as a result of Iraq’s “continued violations of its obligations.”
February 14, 2003 – UN Chief Weapons Inspector Hans Blix reports to the UN Security Council that his team has found no weapons of mass destruction in Iraq.
March 17, 2003 – Bush issues an ultimatum to Hussein and his family – leave Iraq within 48 hours or face military action.
March 19, 2003 – Bush announces US and coalition forces have begun military action against Iraq.
March 20, 2003 – Hussein speaks on Iraqi TV, calling the coalition’s attacks “shameful crimes against Iraq and humanity.”
April 9, 2003 – Coalition forces take Baghdad. A large statue of Hussein is toppled in Firdos Square. The White House declares “the regime is gone.”
May 1, 2003 – Speaking on the USS Abraham Lincoln, Bush declares “major combat operations” over, although some fighting continues.
May 22, 2003 – The UN Security Council approves a resolution acknowledging the US and Great Britain’s right to occupy Iraq.
July 22, 2003 – Hussein’s sons, Uday and Qusay, are killed by US forces.
December 13, 2003 – Hussein is captured in Tikrit.
June 28, 2004 – The handover of sovereignty to the interim Iraqi government takes place two days before the June 30 deadline previously announced by the US-led coalition.
June 30, 2004 – The coalition turns over legal control of Hussein and 11 other former top Iraqi officials to the interim Iraqi government. The United States retains physical custody of the men.
September 6, 2004 – The number of US troops killed in Iraq reaches 1,000.
November 2004 – US and Iraqi forces battle insurgents in Falluja. About 2,000 insurgents are killed. On November 14, Falluja is declared to be liberated.
October 25, 2005 – The number of US troops killed in Iraq reaches 2,000.
November 5, 2006 – The Iraqi High Tribunal reaches a verdict in the 1982 Dujail massacre case. Hussein is found guilty and sentenced to death by hanging, pending appeal.
December 30, 2006 – Hussein is hanged.
December 30, 2006 – The number of US troops killed in Iraq reaches 3,000.
January 10, 2007 – A troop surge begins, eventually increasing US troop levels to more than 150,000.
September 3, 2007 – Basra is turned over to local authorities after British troops withdraw from their last military base in Iraq to an airport outside the city.
March 22, 2008 – The number of US troops killed in Iraq reaches 4,000.
July 16, 2008 – The surge officially ends, and troop levels are reduced.
December 4, 2008 – The Iraqi Presidential Council approves a security agreement that paves the way for the United States to withdraw completely from Iraq by 2011.
January 1, 2009 – The US military hands over control of Baghdad’s Green Zone to Iraqi authorities.
February 27, 2009 –US President Barack Obama announces a date for the end of US combat operations in Iraq: August 31, 2010.
June 30, 2009 – US troops pull back from Iraqi cities and towns and Iraqi troops take over responsibility for security operations.
August 19, 2010 – The last US combat brigade leaves Iraq. A total of 52,000 US troops remain in the country.
September 1, 2010 – Operation Iraqi Freedom is renamed Operation New Dawn to reflect the reduced role US troops will play in securing the country.
May 22, 2011 – The last British military forces in Iraq, 81 Royal Navy sailors patrolling in the Persian Gulf, withdraw from the country. A total of 179 British troops died during the country’s eight-year mission in Iraq.
October 17, 2011 – A senior US military official tells CNN that the United States and Iraq have been unable to come to an agreement regarding legal immunity for US troops who would remain in Iraq after the end of the year, effectively ending discussion of maintaining an American force presence after the end of 2011.
October 21, 2011 – Obama announces that virtually all US troops will come home from Iraq by the end of the year. According to a US official, about 150 of the 39,000 troops currently in Iraq will remain to assist in arms sales. The rest will be out of Iraq by December 31.
December 15, 2011 – American troops lower the flag of command that flies over Baghdad, officially ending the US military mission in Iraq.
December 18, 2011 – The last US troops in Iraq cross the border into Kuwait.
Dallo stallo ai due possibili schemi di manovra offensiva russa.
Analisi del primo anno di guerra e la prospettiva della Storia militare
Dopo un ciclo operativo sostanzialmente favorevole ai russi, che si era concretizzato nel periodo maggio-luglio 2022 (battaglia del Donbas), con la conquista da parte delle forze di Mosca della città portuale di Mariupol (con la quale la Russia si è assicurata il controllo di tutta la costa settentrionale del Mar d’Azov) Severodonetsk e Lysichansk, l’offensiva di Mosca ha raggiunto il suo punto culmine. Le operazioni terrestri in Ucraina, e più in generale l’intero andamento del conflitto, avrebbero ormai assunto il carattere di una lotta basata sull’attrito, molto più che sulla manovra. Una vera “Materialschlacht”, ossia una “battaglia di materiali”, come questa veniva definita dalla classica terminologia militare tedesca, dove la forza del numero e dell’acciaio hanno un ruolo preminente.
Key Takeaways:
La capacità offensiva russa ha raggiunto il culmine
(maggio-luglio);
Il momentum
ucraino: la svolta grazie al sistema HIMARS (agosto-novembre);
L’esaurimento ucraino e la ripresa russa alla fine del
2022;
L’attesa dell’offensiva russa: la manovra dei 300.000
prima della “Rasputitsa”;
La guerra di manovra della Nato: dalla “difesa attiva”
alla dottrina Air-Land Battle;
Gli insegnamenti della Storia
militare per comprendere la “manovra” russa;
La prima lezione appresa: campo
di battaglia trasparente e importanza del livello tattico;
La capacità offensiva russa ha
raggiunto il culmine (maggio-luglio)
La guerra in
Ucraina è entrata nel suo primo anno, e oltre ad alcune annotazioni relative
all’andamento attuale delle operazioni è oggi possibile formulare
considerazioni e ipotesi di carattere generale, frutto delle informazioni e del
materiale attualmente disponibili. Ciò con la pur sempre doverosa avvertenza
che praticamente nulla può ancora essere ritenuto consolidato e definitivo,
nella considerazione che l’oggetto di studio è un conflitto ancora in pieno
svolgimento e dall’esito incerto.
Dopo un ciclo
operativo sostanzialmente favorevole ai russi, che si era concretizzato nel
periodo maggio-luglio 2022 (battaglia del Donbas), con la conquista da parte
delle forze di Mosca della città portuale di Mariupol (con la quale la Russia
si è assicurata il controllo di tutta la costa settentrionale del Mar d’Azov)
Severodonetsk e Lysichansk, l’offensiva di Mosca ha raggiunto il suo punto
culmine. A proposito di quest’ultima definizione, giova ricordare come essa sia
dottrinalmente definita come il momento di un’operazione in cui le capacità
operative di chi la conduce non consentono più l’assolvimento della missione, o
nel caso specifico di un’offensiva, quando quella dell’attaccante tende a
equivalersi con quella del difensore, andando a rallentare, fino ad arrestarla,
la sua progressione. A causa di ciò, le forze russe non sono riuscite nemmeno a
intaccare la successiva linea fortificata ucraina della regione del Donbas,
quella corrispondente all’allineamento Sloviansk-Kramatorsk.
Il momentum ucraino: la svolta grazie al sistema HIMARS
(agosto-novembre)
In seguito, nel
prosieguo delle settimane estive, si è assistito a un sostanziale stallo delle
operazioni, situazione caratterizzata però da una crescente intensità delle
azioni di fuoco di interdizione in profondità condotte dall’artiglieria
ucraina. Queste si sono svolte in particolare grazie alle forniture di uno
specifico sistema: il lanciarazzi multiplo statunitense HIMARS (High
Mobility Artillery Rocket System), che con le sue munizioni guidate (razzi
M-30/M-31 con gittata di 70 Km) ha rappresentato un “fattore” nel colpire tutta
una serie di obiettivi nella “zona arretrata” delle forze russe. Anche grazie
all’efficacia di queste attività, dalla fine di agosto si è materializzata una
massiccia controffensiva ucraina, sviluppatasi dapprima contro la testa di
ponte di Kherson, nel settore meridionale, poi, a partire dal 6 settembre, in
quello orientale, a sud di Kharkiv. L’attacco su Kherson, condotto con ingenti
forze e su tre direttrici, ha subito incontrato una forte resistenza e
nonostante alcuni progressi iniziali è stato in seguito sostanzialmente
contenuto da un dispositivo difensivo predisposto in precedenza e articolato in
profondità su tre linee difensive. Le operazioni ucraine nel quadrante est, al
contrario, hanno avuto subito un travolgente successo, che nel volgere di poche
settimane ha costretto le forze russe ad abbandonare non solo le importanti
posizioni di Kupiansk, Izium e Lyman, ma anche a ripiegare dall’intero oblast
di Kharkiv.
Nel prosieguo delle
settimane autunnali l’iniziativa è rimasta saldamente nelle mani delle forze di
Kiev, che ad est, dopo aver attraversato il fiume Oskil, hanno continuato a
spingere verso la linea Svatove-Kremmina. A sud gli ucraini hanno mantenuto una
costante pressione sulla testa di ponte di Kherson, spingendo alla fine i russi
ad abbandonarla – ripiegamento condotto peraltro in buon ordine e riducendo al
minimo le perdite – completandone l’evacuazione entro l’11 novembre per
attestarsi sulla riva sinistra del Dnepr, dove hanno proseguito i lavori di
rafforzamento delle posizioni difensive. In seguito però l’intensità e il ritmo
delle operazioni offensive ucraine sono venuti meno, e in poco tempo il loro “momentum” è scemato fino a spegnersi del
tutto; quest’ultimo concetto, in particolare, è un preciso parametro operativo
definito oggi dottrinalmente come la combinazione tra la velocità di
progressione di un’offensiva e il mantenimento dell’iniziativa. A tale
riguardo, comunque, altri autori classici nello studio dell’arte militare
contemporanea avevano in precedenza coniato diverse definizioni del concetto di
momentum, come ha fatto il brigadiere
Richard E. Simpkin, un ufficiale dell’esercito britannico, nel suo libro
pubblicato negli anni ’80 dello scorso secolo, “Race to the Swift”, il
quale lo ha descritto come il prodotto di velocità, massa di forze impegnate e
risultante celerità con la quale viene assolta una missione assegnata. Si
tratta di una teoria che, ripresa e ampliata da un altro ufficiale, lo
statunitense Robert Leonhard nel suo “The art of Maneuver”, applica alle
operazioni militari terrestri (specie quelle offensive) termini e definizioni
mutuati da quella branca della fisica che è la meccanica, associando in qualche
modo lo studio dei movimenti e delle azioni degli eserciti a quello dei corpi
materiali. In questo modo, dopo questi studi ci si è azzardati a parlare della
teorizzazione di una sorta di “phisics of
war”. Accade così, ad esempio, che una formazione lanciata all’attacco vede
quello che è tradizionalmente chiamato “impeto” assimilato al concetto fisico
di inerzia.
L’esaurimento ucraino e la ripresa
russa alla fine del 2022
All’inizio di
dicembre gli sforzi ucraini volti a scardinare la linea Svatove-Kremmina, a est
del fiume Oskil, dove la difesa russa si era alla fine irrigidita dopo una
serie di ripiegamenti, non hanno avuto esito e i tentativi di riconquistare
queste due stesse località sono gradualmente stati fermati. Nello stesso mese,
quasi con la stessa gradualità, l’iniziativa in quasi tutti i settori è
nuovamente passata dalla parte russa, dapprima con una serie di contrattacchi
volti ad arrestare definitivamente l’azione avversaria, poi con operazioni
sempre più autonome e ad ampio respiro. Come noto, l’epicentro della lotta si è
concentrato nel settore di Bakhmut, insediamento situato 30 Km a sud-est di
Kramatorsk. A proposito di quest’ultima località, dove una violenta e
sanguinosa battaglia è in corso da quasi due mesi, inizialmente diversi
commentatori si sono affrettati a definirla “priva di significato” e di valore
“puramente simbolico”. In realtà, con un’analisi più approfondita dal punto di
vista tattico, si può rilevare come si tratti di un centro urbano di non
trascurabili dimensioni, e come tale rappresenta un ostacolo per l’attaccante e
specularmente un’opportunità per il difensore, caratteristiche che lo rendono
intrinsecamente importante. Inoltre, Bakhmut si trova in posizione baricentrica
rispetto a un sistema di strade che si diramano verso tutte le direzioni, la
principale delle quali è l’autostrada M-03, che puntando a nord-ovest, passando
per Sloviansk, collega la regione del Donbas con il resto dell’Ucraina e la
capitale Kiev. La conquista di Bakhmut consentirebbe dunque ai russi di
assumere il controllo di un importante snodo di comunicazioni, e di quello che
rappresenta il bastione e l’ancoraggio meridionale della linea difensiva
fortificata Sloviansk-Kramatorsk. Pertanto, con Bakhmut le forze russe
potrebbero disporre di una valida base di partenza per approcciare questa linea
difensiva da sud-est. Alla luce di ciò, si può comprendere dunque bene il
perché, a loro volta, le unità ucraine stiano conducendo una tenacissima
battaglia difensiva per scongiurare questa eventualità. In effetti, anche la
caparbia difesa di Severodonetsk, la scorsa estate, pur essendosi conclusa alla
fine con la ritirata dalla città, potrebbe aver inflitto agli attaccanti un
attrito tale da rendere impossibile la prosecuzione di ulteriori operazioni
verso ovest.
L’attesa dell’offensiva russa: la
manovra dei 300.000 prima della “Rasputitsa”
Al di là di quella
che è la sommaria descrizione degli ultimi sviluppi operativi del conflitto,
dopo mesi di guerra alcuni importanti risvolti di carattere generale stanno
emergendo e, soprattutto, stanno facendo scaturire interrogativi che sono al
momento oggetto di discussione sulle fonti più autorevoli e qualificate nel
campo degli studi strategico-militari. I mass
media si sono concentrati nelle ultime settimane sulla “grande offensiva”
russa, che starebbe per abbattersi sulle forze ucraine con i nuovi rinforzi
giunti sul fronte grazie alla mobilitazione iniziata lo scorso settembre. Di
certo, se l’apparato militare di Mosca riuscirà a trasformare in effettivo potenziale
di combattimento i 300.000 uomini mobilitati (secondo alcune fonti sarebbero in
realtà quasi 500.000), questo potrebbe avere un impatto decisivo a suo favore.
A tale riguardo, probabilmente, è stato proprio l’arrivo delle prime aliquote
di personale richiamato con questo provvedimento a consentire ai comandi russi
di stabilizzare la difficile situazione venutasi a creare in autunno e poi
riguadagnare l’iniziativa in tutti i settori del fronte. In caso contrario,
sarà molto difficile, se non impossibile, per la Russia poter sperare di
raggiungere i propri obiettivi nel conflitto, anche nel medio-lungo termine.
Secondo vari
commentatori, non senza qualche ragione, questa grande offensiva di Mosca
sarebbe già virtualmente iniziata, quantomeno nelle sue fasi preliminari, pur
tenendo conto del fatto che tra non molto, almeno teoricamente, il
sopraggiungere della stagione primaverile e della conseguente “Rasputitsa” farà riapparire il fango
provocato dal disgelo, il quale tornerà nuovamente a ostacolare le operazioni,
in particolare quelle delle forze mobili. Vi sono anche diverse ipotesi riguardo
alle possibili direttrici d’attacco principali, il concetto di operazione, e
gli obiettivi finali.
Tuttavia, non è
detto che questi sforzi offensivi possano sfociare in una fase
“manovrata” vera e propria. In verità, proprio questo è un aspetto
che merita un particolare ragionamento e, in qualche modo, un certo sforzo di
contestualizzazione. Occorre infatti notare che, soprattutto in occidente, ci
si è abituati, in particolare dalla seconda guerra mondiale in poi, a vedere
operazioni terrestri nelle quali la manovra – definita come il movimento di
forze e concentramento del fuoco finalizzate ad acquisire una posizione di
relativo vantaggio sull’avversario ai fini del conseguimento dell’obiettivo –
ha molto spesso, se non quasi sempre, avuto un ruolo rilevante e decisivo.
Dalla “primavera di vittorie” del 1940, con la quale la “blitzkrieg” condotta dalla Wehrmacht
schiacciò la Francia e il corpo di spedizione britannico che aveva preso parte
alla sua difesa, alle “corse” della Terza Armata americana del generale Patton
in Europa Occidentale nel 1944, fino alle grandi offensive dell’Armata Rossa
nelle fasi finali del conflitto, il secondo conflitto mondiale ha sancito come
sia da attribuire la massima importanza alla guerra di manovra quale modalità
decisiva per la vittoria. Anche nel secondo dopoguerra l’attenzione di militari
e studiosi si è concentrata sugli altri significativi eventi bellici nei quali
questa modalità di impiego delle forze terrestri si è rivelata determinante. Ciò
è avvenuto in particolare riguardo le guerre che si sono svolte in Medio
Oriente tra Israele e gli stati arabi (nel 1967 e nel 1973), dove proprio le
fulminee operazioni offensive israeliane, condotte secondo i tipici dettami
dell’approccio manovriero, furono decisive per l’esito finale di questi
conflitti.
La guerra di manovra della Nato: dalla
“difesa attiva” alla dottrina Air-Land
Battle
In realtà, con
particolare riferimento agli esempi citati, è sicuramente più corretto definire
questa tipologia di operazioni come “aero-terrestri”, poiché è stato proprio il
binomio forze corazzate-aviazione tattica la formula vincente, tanto nella Blitzkrieg
tedesca delle fasi iniziali della seconda guerra mondiale, quanto nelle
offensive condotte dalle forze armate di Israele nei vari conflitti che le
videro contrapposte a quelle arabe. In particolare, all’indomani della guerra
del Kippur del 1973, le “lezioni apprese” in campo dottrinale furono
attentamente studiate in occidente, sulla base dell’esigenza della NATO di
trovare una formula tattica per fronteggiare quelle che sarebbero state le
forze del Patto di Varsavia, preponderanti dal punto di vista numerico, sul
fronte centrale europeo. In questo caso, il problema si presentava pressoché
identico a quello che gli israeliani dovettero risolvere durante il conflitto
del 1973, in particolare sul fronte del Golan. A onor del vero, la dottrina
tattica che scaturì da quella analisi, sancita dal Field Manual 100-5
del 1976 dell’esercito statunitense, prevedeva lo sviluppo di un sistematico e
reiterato volume di fuoco da posizioni di combattimento preparate, con
l’esecuzione di contrattacchi al solo fine di neutralizzare le eventuali
penetrazioni avversarie nel dispositivo difensivo. Questo concetto operativo fu
recepito dalla NATO con la cosiddetta “difesa attiva”, che effettivamente non
poteva dirsi esattamente orientata sui canoni della guerra di manovra, quanto
piuttosto sull’idea di imporre all’avversario (attaccante) un tasso di attrito
tale da esaurirne il potenziale di combattimento e spezzarne così il “momentum”. Ma quasi subito la “difesa
attiva” si attirò le critiche di chi la considerava troppo “statica” e
sostanzialmente passiva, pertanto non idonea a ottenere una vittoria decisiva
che gli immutabili principi dell’arte della guerra, frutto di millenni di
esperienza bellica, hanno indicato come ottenibile solo con la salda
acquisizione e il mantenimento dell’iniziativa e la conseguente condotta di
operazioni offensive.
Non passò dunque
molto tempo prima dell’affermarsi di un ulteriore e importante evoluzione
dottrinale, quella che sancì l’affermazione della cosiddetta “Air-Land
Battle”. Questa, con la sua enfasi posta sull’impiego di mezzi di
erogazione del fuoco a lunga gittata – impieganti munizionamento guidato di
precisione – e delle forze aerotattiche per colpire le retrovie e le unità in
secondo scaglione dell’esercito sovietico (considerate il Centro di Gravità
delle formazioni Sovietiche in attacco), poneva le premesse per indicare poi
come imprescindibile la vigorosa ripresa dell’iniziativa e l’esecuzione di
controffensive ad ampio raggio e in profondità con l’impiego delle forze
mobili, sempre ampiamente supportate dal fuoco aereo. In buona sostanza, si
trattò di un ritorno a pieno titolo della concezione occidentale delle
operazioni terrestri sotto la forma della guerra di manovra. Questa è stata
definita con precisione nel quadro del noto concetto di “approccio indiretto”,
già teorizzato da illustri pensatori militari della prima metà del XX secolo,
come il celebre ufficiale britannico B.H. Liddel Hart (passato alla storia come
“il capitano che insegnò la guerra ai generali”), ma che a ben guardare
affondava le sue lontanissime origini anche nell’opera di colui che fu
probabilmente il primo vero teorico dell’arte bellica di cui abbiamo memoria:
il cinese Sun Zu. L’approccio indiretto prescrive l’ottenimento della vittoria
non (o meglio non principalmente) attraverso la distruzione fisica delle forze
dell’avversario, bensì attraverso la sopraffazione della sua volontà e della
sua tenuta morale per mezzo di astute e attente manovre volte a neutralizzarne,
fino ad azzerarlo del tutto, la capacità e/o volontà di operare. Andando a
recepire questi precetti senza tempo, oggi il corpus dottrinale occidentale e NATO definisce il potenziale di
combattimento (“combat power”) di una forza militare come composto da
tre componenti fondamentali: fisica, cognitiva e morale. Il cosiddetto
approccio manovriero, che rappresenta uno dei cardini fondamentali della nostra
concezione delle operazioni militari terrestri, preconizza la compromissione
delle componenti cognitiva e morale (ossia quelle “immateriali” per
definizione, rappresentate dai processi decisionali, dalle informazioni
disponibili, dalla consapevolezza della situazione e dalla volontà di
combattere) del potenziale di combattimento nemico attraverso operazioni
offensive rapide e risolutive, e subito dopo, in modo “indiretto”, anche di
quella fisica, che cadrebbe così come un frutto maturo nella mani del vincitore.
Attualmente, nell’Alleanza
Atlantica e in ambito nazionale, si è dunque giunti a ritenere la “manoeuver
warfare“, e i suoi corollari quali il comando decentralizzato e il
processo di apprendimento e adattamento, come la via migliore e la più efficace
da perseguire: e questo per numerosi buoni motivi. Come dimostrato dalle
esperienze belliche del passato, con la sua applicazione si può ragionevolmente
sperare di vincere in modo rapido, e quindi “economico” in termini di materiali
e, soprattutto, di vite umane. Non è un caso, infatti, se lo stesso Liddel
Hart, memore ed egli stesso vittima del carnaio del primo conflitto mondiale
(era rimasto ferito e debilitato permanentemente a seguito di un attacco
condotto con l’uso di gas tossici), aveva elaborato le sue idee anche e soprattutto
allo scopo di evitare il tragico ripetersi di una sanguinosa guerra di
posizione come quella che aveva vissuto personalmente sul fronte occidentale
nel 1914-18.
Gli insegnamenti della Storia
militare per comprendere la “manovra” russa
Tuttavia, nella
lunga e articolata storia dell’arte militare non è stato sempre così. Per lungo
tempo vi è stata una differente scuola di pensiero strategico, riguardante
invece la “guerra di usura” e il cosiddetto “approccio diretto”.
Molti hanno visto nello stesso Clausewitz l’antesignano e uno dei massimi
esponenti di questa posizione, esemplificata dal Vernichtungprinzip, contenuto nella fondamentale opera del celebre
prussiano, il Vom Kriege, e in tale ottica questo termine è stato
tradotto in “principio di annientamento”. A tal proposito, lo stesso Liddel
Hart aveva mosso una critica al pensiero di Clausewitz definendolo come il
“Mahdi della massa”.
La dicotomia (ma
anche le relazioni) tra i concetti di “guerra di attrito” e “guerra di
manovra”, e quelli rispettivamente correlati di “approccio diretto” e
“approccio indiretto”, sono stati presi in esame e descritti compiutamente
negli anni ‘80 dello scorso secolo proprio da Simpkin in “Race to the Swift”. In esso l’autore menziona anche
un’interpretazione alternativa del Vernichtungprinzip clausewitziano, derivante
dalla sua diversa traduzione in termini di “disarticolazione” o
“disorganizzazione”, piuttosto che distruzione fisica del nemico,
riconducendolo così ai canoni più aderenti alla teoria della manovra. Tra
l’ultimo scorcio del XX e l’inizio del XXI secolo, effettivamente, questa è
parsa conoscere la sua definitiva affermazione tra le sabbie del Medio Oriente,
rispettivamente con le operazioni “Desert
Storm”, del 1991, e “Iraqi Freedom”
del 2003. Nel primo caso, le forze statunitensi hanno applicato con successo i
dettami della Air Land Battle,
risolvendo il conflitto con una fulminea e risolutiva offensiva terrestre
passata alla storia come “la guerra delle 100 ore”. Nel secondo, un altrettanto
rapida vittoria è stata ottenuta seguendo un concetto derivante da un ulteriore
evoluzione in chiave contemporanea dell’approccio indiretto: quella denominata
“Shock and Awe” (“colpisci e
terrorizza”) e “Rapid Dominance”, in
questo caso declinata a partire dai livelli strategico e operativo.
Nondimeno, secondo
alcuni qualificati osservatori un anno di operazioni nel conflitto ucraino
stanno mettendo, almeno in parte, in discussione la valenza e soprattutto
l’effettiva applicabilità dell’approccio manovriero negli ambienti operativi
contemporanei. Tra questi, il professor Anthony King, titolare della cattedra
di studi militari dell’università di Warwick, in Inghilterra, ha sollevato il
dibattito, a più riprese, e soprattutto in un articolo dal titolo “Is Manoeuvre Alive?” apparso
sull’autorevole sito inglese “The Wavell
Room”. Le obiezioni sollevate da King hanno avuto una replica da parte del
maggiore dell’esercito britannico Steve Maguire, il quale in un altro articolo,
pubblicato sullo stesso sito, “Yes
Manoeuvre is Alive. Ukraine Prove it”, ha citato come esempio per
supportare la sua tesi – secondo la quale le operazioni basate sulla manovra
mantengono la loro piena validità – la vittoriosa controffensiva ucraina di
Kharkiv. Questa è stata effettivamente condotta con rapide penetrazioni in
profondità di forze mobili, compresi distaccamenti motorizzati leggeri (“Kraken Units”), i quali rinunciando
scientemente alla protezione fornita da veicoli corazzati pesanti hanno operato
sfruttando la grande mobilità assicurata da quelli ruotati leggeri. A tal
proposito però, ora si può aggiungere come la fase manovrata della
controffensiva ucraina di Kharkiv abbia avuto una durata limitata a non più di
un mese, e dopo la riconquista di Lyman, avvenuta il 1° ottobre, il
ripiegamento delle forze di Mosca ha assunto la forma di un frenaggio che
progressivamente – forse in ossequio alla dottrina tattica difensiva russa, che
privilegia la cosiddetta “manovra difensiva” rispetto alla difesa statica,
privilegiando ogniqualvolta possibile lo “scambio” dello spazio al fine di
guadagnare tempo e preservare le forze – ha finito per assorbire e smorzare
l’impeto di quelle ucraine, fino al definitivo irrigidimento sulla linea
Svatove-Kremmina.
I due fattori che condizioneranno
gli sviluppi operativi: densità delle forze e natura del terreno
Alla luce di tutto
ciò, i possibili sviluppi delle operazioni nel conflitto ucraino possono essere
ipotizzati tenendo conto di questi importanti aspetti generali. Appaiono ormai
chiari i diversi aspetti limitanti che producono un attrito significativo nei
confronti di qualsiasi operazione offensiva manovrata. Innanzitutto, la
“densità” delle forze contrapposte, che al momento non consentono a entrambi i
contendenti il raggiungimento di un’adeguata superiorità sull’avversario, come
invece pare essere avvenuto per gli ucraini a Kharkiv. Al momento, le forze di
ambedue le parti in lotta stanno gravitando soprattutto nel quadrante orientale
del Donbas, dove i due gruppi operativi russi che vi sono schierati, quello di
“Voronezh” e quello di “Rostov”, allineano rispettivamente l’equivalente di 54
e 67 battaglioni, o gruppi tattici di livello battaglione, anche se appare
sempre più chiaro l’abbandono da parte dei russi di questa articolazione
tattica a favore di un ritorno alla tradizionale struttura
reggimento/divisione. A essi, lungo i circa 250 km di fronte che vanno dal
settore a sud-est di Kharkiv a quello subito a ovest di Donetsk, si
contrappongono circa 30 brigate ucraine, inquadrate nei comandi operativi nord,
est e sud, tra le quali figurano la maggior parte di quelle pesanti (meccanizzate
e corazzate) disponibili.
Tenendo conto che
nell’organico di queste ultime figurano mediamente quattro battaglioni di
manovra, cui si aggiungono altri reparti di supporto al combattimento di
artiglieria (per quanto riguarda questa fondamentale componente in misura quasi
doppia rispetto agli standard occidentali), genio, controaerei e delle trasmissioni,
ne consegue che, quantomeno dal punto di vista delle unità di manovra, al
momento le forze russe non dispongono della superiorità necessaria per
realizzare una vera “rottura” del fronte. Inoltre, le numerose unità ucraine
(ivi comprese quelle della Viiska
Terytorialnoi oborony (VTO) la difesa territoriale, e della Natsionalna hvardiia Ukrainy, la Guardia
Nazionale, che coadiuvano con una certa efficacia le operazioni di quelle
regolari) presidiano tutti i settori del lungo fronte con dispositivi difensivi
fortemente organizzati e fortificati, negando così lo spazio di manovra
necessario per la condotta di una qualsiasi operazione ad ampio raggio basata
sulla penetrazione e sulla mobilità.
Anche l’effettiva
superiorità delle artiglierie russe, pur imponendo quello che deve essere molto
probabilmente un attrito non trascurabile ai difensori, viene in parte mitigato
dalla protezione fornita dalle postazioni difensive e fortificazioni campali di
cui possono usufruire questi ultimi. Nello stesso modo, la stessa “densità”
delle unità ucraine per la difesa controaerei, in special modo quelle
maggiormente mobili – e per questo relativamente meno vulnerabili alle missioni
di Suppression Enemy Air Defences
(SEAD) avversarie – rende ugualmente, al momento, troppo rischiosa anche la
“manovra nella terza dimensione”, impedendo qualsiasi tentativo di “aggiramento
verticale” condotto da forze aviotrasportate o aeromobili, e questo almeno fino
a quando le prime potranno rimanere sufficientemente operative dal punto di
vista del munizionamento (in primo luogo missilistico) e del mantenimento in
efficienza dei sistemi d’arma.
Il secondo fattore
che sembra stia rendendo estremamente difficoltoso, se non impossibile,
l’esecuzione di operazioni manovrate in Ucraina è quello relativo al terreno, e
in modo particolare l’importante presenza di numerosi e relativamente estesi
centri abitati, soprattutto nella regione del Donbas. In effetti, proprio la
sempre maggiore urbanizzazione di aree sempre più vaste del pianeta è uno dei
principali temi sulla base dei quali il professor King ha basato la sua
“provocazione” dialettica sulla presunta “morte” dell’approccio manovriero. Il
conflitto ucraino sembrerebbe avvalorare questa tendenza, con tutta una serie
di importanti battaglie, da quella di Mariupol, a quelle di Severodonetsk,
Lysichansk e Bakhmut, che si sono svolte o sono in corso nei centri abitati.
L’elevato ostacolo rappresentato da questo tipo di terreno rende
particolarmente difficile lo sviluppo di rapide manovre offensive, un elemento
che a ben guardare era stato già osservato nel precedente confronto del
2014-15. In quel caso, i prolungati scontri svoltisi per il possesso di aree
urbane o infrastrutture quali l’aeroporto di Donetsk (dove i paracadutisti
ucraini resistettero ostinatamente per non meno di sette mesi ai reiterati
attacchi dei separatisti) o della cittadina di Debaltsevo, hanno spinto alcuni
attenti osservatori, come il maggiore dell’esercito statunitense Amos C. Fox,
nel suo studio specificamente dedicato alla battaglia di Debaltsevo dal titolo
“Battle
of Debal’tseve: the Conventional Line of Effort in Russia’s Hybrid War in
Ukraine”, a parlare esplicitamente di un ritorno alla “guerra di
assedio”.
La prima lezione appresa: campo di
battaglia trasparente e importanza del livello tattico
Nel conflitto oggi
in corso, dopo la prima fase altamente dinamica del febbraio-marzo 2022
caratterizzata dalle prime, effettivamente rapide, penetrazioni e puntate
offensive delle forze russe, anche queste sono poi giunte al loro “punto
culmine” anche e soprattutto per la presenza di tutta una serie di centri urbani
che venivano sistematicamente aggirati, ma nei quali i difensori ucraini
continuavano, seppur isolati, a resistere. Il terzo fattore che agisce contro
la manovra in Ucraina è quella che è stata già riconosciuta come una delle
prime fondamentali “lezioni apprese” di questo conflitto, ossia quella relativa
al cosiddetto “campo di battaglia trasparente”. In essa viene riconosciuto come
la massiccia e pervasiva presenza di tutta una vasta panoplia di assetti di Intelligence, Surveillance e Reconnaissance
(ISR) – dai satelliti di sorveglianza agli UAV da ricognizione distribuiti fino
ai minimi livelli ordinativi – rende estremamente difficile la realizzazione
della sorpresa a tutti i livelli: strategico, operativo e tattico. Questo
perché qualsiasi importante concentrazione di forze, in modo particolare
terrestri, in un determinato settore, viene prontamente rilevata e analizzata,
consentendo al difensore (in modo particolare quando si tratta degli ucraini)
di reagire con prontezza, ad esempio con il fuoco o con il rischieramento di
riserve e rinforzi. Essendo proprio la sorpresa non solo uno dei riconosciuti e
fondamentali principi dell’arte militare, ma anche uno dei principali
“moltiplicatori di potenza” di qualsiasi operazione offensiva, è chiaro come la
sua assenza determini un’estrema difficoltà nella condotta con ragionevole
successo di queste ultime.
In tale quadro, a
mantenere la situazione in equilibrio vi è anche l’impossibilità da parte russa
di far valere la superiorità numerica e qualitativa delle proprie forze aeree,
a causa delle numerose unità controaerei mobili ucraine, esattamente come già
riferito a proposito della non fattibilità di operazioni avioportate o
aeromobili . In esito a ciò, tra le sue peculiari caratteristiche questo pare
essere il primo conflitto da diversi decenni a questa parte in cui il potere
aereo non ha costituito, fino ad ora, un fattore davvero rilevante, almeno per
quanto riguarda le piattaforme pilotate (un discorso a parte va fatto
certamente per gli UAV e i sistemi missilistici per l’attacco a lungo raggio).
A tutti gli
effetti, questa apparente superiorità dei mezzi e delle capacità della difesa
sull’attacco ricorda quanto era avvenuto nel secolo scorso durante le prime
fasi del primo conflitto mondiale, a dispetto dei primi chiari segnali in
questo senso emersi in alcuni importanti eventi bellici precedenti, quali la
guerra anglo-boera, quella russo-giapponese, e i conflitti balcanici, aspetti
cruciali che non furono raccolti dai vertici dei principali eserciti dell’epoca.
D’altronde, non sono mancati da più parti i tentativi di tracciare un parallelo
storico in questo senso, con diversi commentatori che hanno voluto assimilare
la battaglia di Bakhmut, ad esempio, a una “nuova Verdun”. Questa precisa
tendenza era stata peraltro già chiaramente illustrata ancora prima
dell’invasione russa dell’Ucraina da alcuni perspicaci commentatori, quali il
professor Thomas Hammes, ricercatore dell’Institute
for National Strategic Studies americano,
il quale in un articolo dal titolo: “the
tactical defense becomes dominant again” – sotto molti aspetti davvero
profetico rispetto a quanto si sta verificando oggi – aveva già illustrato con
dovizia di particolari tutti questi elementi.
Due futuri possibili schemi di
manovra russa
In questo momento,
le offensive russe in atto nel Donbas sembrano prefigurare due schemi di manovra
in atto sotto la forma di altrettanti “doppi avvolgimenti”.
Il primo è in corso
sulla cintura di villaggi a nord e sud di Bakhmut, volto a tagliare le
principali vie d’accesso alla città e costringere così i caparbi difensori
della città ad abbandonarla, pena il completo accerchiamento. Il secondo,
partendo dall’area di Yakovlivka, a nord-est della stessa Bakhmut, vede le
forze del 2° corpo d’armata (rappresentato dalle forze della repubblica
separatista di Luhansk, ora ufficialmente integrate in quelle della federazione
russa) spingere verso nord, in direzione di Siversk, con almeno quattro brigate
fucilieri motorizzati in concomitanza di una seconda direttrice, che dall’area
di Kreminna, con forze della 144a divisione e 30a brigata
fucilieri motorizzati, spinge verso sud-ovest al fine di minacciare il tergo
delle otto brigate ucraine che difendono la linea a ovest di Lysychansk.
Tuttavia, si tratta
di attacchi con una progressione lenta, che pare metodica e sempre sostenuta da
un nutrito fuoco di artiglieria. In particolare, le ultime analisi
indicherebbero un adattamento dei procedimenti tattici russi; tra questi,
citando un esempio tra i più rilevanti, vi sarebbe la creazione di un nuovo
tipo di formazione, denominata “Shturmovoy
otryad” (distaccamento d’assalto), di livello compagnia rinforzata,
costituita integrando fanteria (dotata di lanciarazzi impieganti munizioni con
testata termobarica, efficaci nell’impiego contro edifici), carri, una sezione
di artiglieria/mortai semoventi, e un’aliquota logistica. Sarebbe questa,
dunque, una delle soluzioni che gli attaccanti, in questa fase, stanno
adottando per fronteggiare la situazione che emerge dal campo di battaglia.
La prevalenza dell’attrito sulla manovra
In ultima analisi,
le operazioni terrestri in Ucraina, e più in generale l’intero andamento del
conflitto, avrebbero ormai assunto il carattere di una lotta basata
sull’attrito, molto più che sulla manovra. Una vera “Materialschlacht”,
ossia una “battaglia di materiali”, come questa veniva definita dalla classica
terminologia militare tedesca, dove la forza del numero e dell’acciaio hanno un
ruolo preminente. Effettivamente, i riflessi sul livello strategico sono ormai
accertati, con tutta una serie di analisi che parlano sempre più distintamente
di ritorno alla dimensione industriale della guerra. Questo era già stato
evidenziato in alcuni articoli pubblicati lo scorso anno, uno dei più noti dei
quali apparso nel giugno 2022 sul sito del Royal United Service Institute
dal titolo “The return of industrial warfare”. A tal proposito, le
preoccupazioni manifestate da più parti sulla capacità da parte dei paesi NATO
(e altri del mondo occidentale) di continuare a sostenere le forze armate di
Kiev, soprattutto per quanto riguarda il munizionamento d’artiglieria, sono
molto indicative. Nello stesso modo, sono diverse e articolate le valutazioni
sulla reale efficacia delle sanzioni economiche sull’industria bellica russa,
già mobilitata al massimo per sostenere lo sforzo bellico. Se questa tendenza
andrà a confermarsi, è molto improbabile che la tanto pubblicizzata “grande
offensiva” russa possa sfociare in una fase dinamica e manovrata, ammesso e non
concesso che, preso atto della situazione contingente, questo possa essere il
reale intento dei comandi russi. Essa potrebbe invece assumere i lineamenti di
una pressione costante, su ampio fronte, secondo i dettami di un approccio
basato su attacchi sistematici e massiccio ricorso al fuoco di artiglieria, e
in esito a ciò progredire lentamente, ma inesorabilmente, con sfondamenti
limitati, seguiti da successivi consolidamenti, così come è stato durante la
battaglia del Donbas di maggio-luglio 2022. La stessa cosa, specularmente,
potrebbe accadere nel caso di un nuovo passaggio dell’iniziativa dalla parte
ucraina, con l’avvio di nuove controffensive per la riconquista dei territori
occupati. Su questo versante, in ogni caso, dopo l’annosa vicenda della
fornitura dei carri Leopard 2, è opportuno sottolineare come l’arrivo di questi
mezzi – a meno che non avvenga in numeri davvero importanti che comunque non
sembrano molto probabili – non potrà avere un impatto decisivo sull’andamento e
soprattutto l’esito delle operazioni.
Questo, comunque,
potrebbe drasticamente cambiare nel caso di un cedimento drastico e rilevante
di uno dei due contendenti in uno o più settori sufficientemente ampi del
fronte, cosa che al momento non sta avvenendo, ma che è pur sempre possibile.
Se la “guerra di manovra” potrà prendersi una sua clamorosa rivincita (come è
accaduto a Kharkiv lo scorso settembre), o se cederà definitivamente il passo a
una lunga, logorante e metodica “guerra di usura”, verrà sancito solamente
dalla consueta, inappellabile e dirimente sentenza di quel giudice definitivo
che è il campo di battaglia.
Offensiva russa in Ucraina? I limiti dell’Occidente che la Russia sfrutterà
di Claudio Bertolotti
Le battaglie stanno prosciugando le scorte di armi da entrambe le parti.
Jens Stoltenberg, Segretario generale della Nato
Le battaglie stanno prosciugando le scorte di armi da entrambe le parti. Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha avvertito all’inizio di questa settimana che l’Ucraina sta consumando le munizioni molto più velocemente di quanto i suoi alleati possano fornirle.
L’amara constatazione del Segretario generale dell’Alleanza atlantica, a conclusione della riunione dei ministri della Difesa della Nato avvenuta il 14-15 febbraio, suggerisce un quadro non favorevole a Kiev in relazione agli sviluppi della guerra russo-ucraina iniziata quasi un anno fa.
L’analisi del quadro complessivo non può tener conto di quattro fattori, da cui discendono le future prospettive e le possibili opzioni.
Il primo elemento chiave consiste nel fatto che la Russia ha la volontà politica (imposta dalla necessità della sua leadership) di proseguire la guerra fino a quando non avrà raggiunto i propri obiettivi strategici minimi, ed ha la capacità militare di proseguire una guerra di media intensità per un tempo ancora indefinito, indipendentemente dalle perdite sul campo di battaglia. L’esperienza decennale della guerra in Cecenia ne è una conferma.
Il secondo fattore è dato dalla volontà politica ucraina di proseguire sulla linea della resistenza armata, ma la sua limitata capacità militare dipende in toto dall’aiuto esterno, in primis, da parte degli Stati Uniti e, a seguire, dai Paesi e dalle organizzazioni del blocco occidentale (Unione Europea e Nato): a fronte dell’attuale ritmo di rifornimento militare, se Kiev continuerà a perseguire la linea della resistenza a oltranza come sta facendo da tempo (in particolare nell’area orientale di Bakhmut) non potrà in alcun modo condurre azioni controffensive.
Terzo fattore: la NATO. L’Alleanza fornisce un sostegno limitato, proporzionale alle sue capacità e disponibilità dei singoli Paesi aderenti, e non ha intenzione di essere trascinata in un conflitto allargato che sarebbe devastante e senza via d’uscita, se non attraverso il confronto diretto con la Russia e l’escalation di violenza che ne conseguirebbe. Un prezzo che l’Alleanza non è disposta a pagare. Dunque, si rilevano limiti politici di volontà associati a una capacità di sostegno che metterebbe in crisi il sistema industriale dei membri dell’Alleanza, la maggior parte dei quali sono anche membri di un’Unione europea politicamente debole e divisa.
Infine, il quarto fattore: gli Stati Uniti. Washington ha una limitata volontà politica e una significativa, ma condizionata, capacità di sostegno militare nel breve-medio periodo ma nessuna intenzione di sostenere una guerra sul lungo periodo rischiando un impegno simile a quello sostenuto nella guerra in Afghanistan.
Questi quattro fattori mettono in evidenza la principale criticità dell’intero meccanismo di sostegno all’Ucraina: la divergenza tra limitata volontà/capacità occidentale, propensa a un accordo negoziale in cui Kiev dovrebbe rinunciare a parte della propria sovranità territoriale, e la determinata volontà e significativa capacità russa di sostenere una guerra a media intensità sul lungo periodo per annettere (non importa in quanto tempo) l’intero territorio ucraino.
Il quadro che si è definito continua a essere a vantaggio di una Russia che, per quanto indebolita sul piano delle Relazioni internazionali, fiaccata militarmente ed economicamente impoverita, non farà alcun passo indietro, né militarmente né politicamente, così come non lo fece nel 2014/2015. E’ un deja vu: lasciare spazio di manovra negoziale a Mosca significa ripetere gli errori della prima guerra di Ucraina, che aprì le porte alla seconda fase, iniziata il 24 febbraio 2022.
Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: il libro di C. Bertolotti
Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale
Il nuovo libro di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight, “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” (ed. STARTInSight, 2023, 161 pp., Euro/CHF 14,00) è stato pubblicato per i tipi della Collana “InSight”, disponibile su Amazon.it o richiedendolo all’editore (info@startinsight.eu).
La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.
Il “sistema Mediterraneo” è attualmente sottoposto a un forte stress, politico, sociale, economico, commerciale ed energetico. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.
Non v’è dubbio alcuno che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, è e sarà sempre più l’elemento in grado di condizionare il livello di stabilità o instabilità dell’intera area del mediterraneo allargato. Questo intreccio di ambizioni e legittime aspettative, a cui si aggiungono i fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali, che spesso appaiono inconciliabili tra loro, è la sfida che la nostra generazione ha di fronte e deve affrontare.
Acqua ed energia sono i due elementi chiave che determineranno, e che già ora determinano, l’insorgere di instabilità, emergenze e sfide sempre più pressanti e urgenti.
Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i Paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di risorse idriche e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti energetici interregionali. Dall’altro lato, gli Stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.
Relativamente
al contesto energetico, l’area mediterranea è caratterizzata da un notevole aumento
delle importazioni di energia convenzionale: l’80% dei Paesi del Mediterraneo
occidentale sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che
richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno
energetico ed evitare la produzione eccessiva di gas serra, con uno sguardo
rivolto verso l’alternativa delle energie rinnovabili.
In
particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di
energia, esistono approcci contrastanti sulle modalità di accesso e
sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e
pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive
esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali);
dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato
sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle
tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una
base puramente temporale. Quest’ultimo, certamente minoritario e marginale
all’interno dell’ampio panorama dell’opinione pubblica, è però in grado di
ottenere un’amplificazione massmediatica delle proprie istanze, complice
l’assenza di una strategia comunicativa di contro-narrazione istituzionale
efficace.
Governi
e decisori politici saranno pertanto chiamate ad attuare politiche realistiche,
economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, anche lo
sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e
principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini
di contenimento dell’inquinamento globale il cui contributo, unitamente e in
maniera coordinata e bilanciata a quello delle fonti energetiche sostenibili,
richiede importanti investimenti e una chiara visione di lungo periodo.
Il tema del volume “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo. Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” parte dalle riflessioni e dalle valutazioni della ricerca[ sviluppata nel 2022 in seno alla “5+5 Defense Initiative” dal gruppo internazionale di ricercatori designati dai Paesi aderenti all’iniziativa. Il tema affrontato è strategico e di estrema attualità data la crescita nel consumo di acqua e di energie rinnovabili che le rende un importante argomento politico ed economico e al contempo oggetto primario nelle relazioni internazionali e negli equilibri di potere, interno ed esterno, alle nazioni.
«Acqua
pulita e accessibile per tutti» è l’obiettivo numero 6 nella lista degli
obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable
Development Goals, Sdg) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015. Di vitale
importanza per la vita umana, i Paesi del Mediterraneo occidentale, le loro
popolazioni, agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono un’importanza
vitale all’acqua.
Per
quanto riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica),
il cui potenziale è considerato inesauribile, sono però prodotte con costi
ancora elevati, e spesso non sostenibili su larga scala e con le infrastrutture
esistenti. In tale quadro, caratterizzato da una grande incertezza in cui le
opportunità politiche e le istanze di una parte della società civile svolgono
un ruolo non sempre favorevole e costruttivo, si registra un’accelerazione da
parte dei Paesi maggiormente industrializzati dell’Unione europea verso una
“transizione energetica” che, sotto molti aspetti, tende a imporsi come una
riduzione forzata e irrazionale dell’utilizzo di fonti energetiche fossili, con
danni potenzialmente gravi e irreversibili per le economie nazionali e per gli
equilibri economici, sociali e politici.
Ciò
nonostante, va però riconosciuto che un approccio responsabile che guardi ad un
affrancamento progressivo dalle fonti fossili e combustibili, dunque una
“transizione energetica” sostenibile, progressiva e che tenga conto delle
capacità tecnologiche, dell’impatto economico-sociale e delle attuali fonti
energetiche primarie, se da un lato presenta criticità evidenti, dall’altro
lato apre alla possibilità di quella auspicata e necessaria autonomia
energetica strategica, essenziale tanto ai singoli Paesi quanto e ancor di più,
al «sistema europeo». Una scelta strategica, quella che l’Unione europea ha
definito, essenziale per imporsi come modello di sviluppo di riferimento in
un’epoca storica caratterizzata dagli effetti del cambiamento climatico e dalle
crescenti difficoltà di accesso e disponibilità di combustibili fossili. Ciò
potrà trovare realizzazione solo attraverso la consapevolezza della primazia di
un fattore ineludibile e condizionante: la crescita e lo sviluppo della
popolazione sono le variabili indipendenti che determinano un aumento del
consumo di risorse energetiche e idriche e mai il contrario. Dunque la capacità
di approvvigionamento e di produzione energetica dovrà tener conto di un
aumento progressivo della domanda di energia, coerentemente con l’andamento
demografico ed economico, così come dello sviluppo tecnologico dei Paesi che
ridefiniranno le loro strategie nazionali di sicurezza energetica in questa
direzione.
Ed
è in questo preciso scenario teorico che va ad inserirsi la guerra
russo-ucraina iniziata nel febbraio 2022, quale dimostrazione pratica della
mutabilità delle relazioni internazionali, dei rapporti tra alleati e competitor, così come
dell’imprevedibilità di eventi naturali o umani in grado di negare, in tutto o
in parte, l’accesso alle risorse energetiche e di condizionare in maniera
sfavorevole i prezzi delle fonti energetiche, con dirette ripercussioni sul
piano sociale, politico ed economico. E proprio la guerra russo-ucraina, ha
riportato l’attenzione dei governi sui rischi di interruzione delle forniture
che comportano, per definizione, quel costo strategico che va opportunamente
calcolato: esercizio non semplice, che non può essere ridotto al semplice
computo di investimenti e relativi rendimenti, ma comprende anche valutazioni
sulle diverse opzioni strategiche limitando, in primis, i rischi legati alla fortissima dipendenza da
idrocarburi e, in secondo luogo, imponendo l’esigenza di una diversificazione
del mix energetico a prezzi accessibili e di un potenziamento dell’influenza
dal lato dell’offerta, in particolare attraverso la realizzazione dei gasdotti,
a cui devono associarsi il principio della solidarietà tra Stati amici (in
particolare tra Stati membri dell’Unione europea).
In
sintesi, l’obiettivo a cui si guarda è quello di creare un mix energetico
sostenibile, efficiente e diversificato, cioè che sia sostenibile dal punto di
vista ambientale ed economico, che utilizzi le risorse in modo efficiente e che
sia basato su diverse fonti di energia, in modo da ridurre la dipendenza da una
sola fonte. Inoltre, è importante adottare un approccio integrato per
affrontare le sfide e le opportunità legate ai cambiamenti climatici, cioè un
approccio che consideri i diversi aspetti e le connessioni tra loro.
Sul piano politico-strategico, assume particolare rilevanza lo sviluppo di un “sistema mediterraneo dell’energia”, ovvero un sistema che colleghi in modo sicuro e a più vie le due sponde del Mediterraneo. Ciò potrebbe includere il potenziamento delle infrastrutture esistenti, come gasdotti e condotti sottomarini, e la costruzione di nuove infrastrutture, come impianti di trasformazione e stoccaggio dell’energia. L’obiettivo è quello di aumentare la sicurezza e la diversificazione delle fonti di energia per l’Europa, oltre che di sfruttare le opportunità economiche offerte dalla cooperazione energetica con i paesi della sponda Sud del Mediterraneo, con l’obiettivo primario di governare le dinamiche delle relazioni internazionali, senza esserne sopraffatti a causa di una mancata o inadeguata strategia di sicurezza nazionale.
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🔴@cbertolotti1 a FanPage sulle varie ipotesi dell'attacco👉"(...) non si tratterebbe di droni in grado di fare danni significativi, ma piuttosto di una tipologia di equipaggiamento in grado di fare danni limitati con l'obiettivo di portare l'attenzione mediatica sulla questione" twitter.com/cbertolotti1/s…
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