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Gaza underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas (dal libro di C. Bertolotti)

di Claudio Bertolotti

Articolo tratto dal libro: C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight Lugano (Link)

Abstract (Italian)

L’uso dei tunnel nelle guerre non è nuovo. La ricerca di vantaggi attraverso l’utilizzo di spazi naturali o artificiali nel sottosuolo è antica quanto la guerra stessa: dalle storie di tunnel utilizzati per vincere enormi battaglie nella Bibbia, alla guerra “di caverna” della Grande Guerra, agli spazi sotterranei che diventano fattori chiave per le battaglie urbane contemporanee, come Mariupol e Bakhmut nella guerra in Ucraina. Le nazioni moderne, tra cui gli Stati Uniti, la Cina e la Corea del Nord, investono miliardi in bunker militari e complessi di tunnel sepolti in profondità. E, infatti, si valuta che la Cina abbia tremila miglia di tunnel e bunker in grado di resistere agli attacchi nucleari in una rete che è stata chiamata la “Grande Muraglia sotterranea”; alcune stime confermano che la Corea del Nord avrebbe oltre cinquemila tunnel e infrastrutture che includono più basi aeree sotterranee con piste, siti radar e porti sottomarini all’interno delle montagne costiere. Ma ciò che Israele ha affrontato a Gaza rappresenta una novità unica nella guerra, vale a dire, un caso in cui i tunnel costituiscono uno dei due pilastri, insieme al tempo, della strategia politico-militare di un combattente. Un complesso che per vastità, struttura, complessità e “potere impeditivo intrinseco” rappresenta un qualcosa che un esercito moderno non ha mai affrontato nella storia

Keywords: Israele, Hamas.

La svolta urbana negli affari militari e strategici

Nessun ambiente è più sfidante per le forze militari di una città. Nessuna forma di combattimento è intrinsecamente più distruttiva della guerra urbana. Eppure, troppo spesso, le forze militari sono sia impreparate di fronte alle sfide imposte dai campi di battaglia ad alta densità di popolazione, sia incapaci di evitare di essere trascinate in brutali combattimenti urbani. Nel libro Understanding urban warfare, gli Autori Liam Collins e John Spencer hanno posto l’attenzione sulla prospettiva della guerra urbana in termini di sfide uniche: dagli effetti limitanti del terreno tridimensionale su molti sistemi d’arma, alla molteplicità di punti di fuoco nemici all’interno delle vie di comunicazione urbane (strade, vicoli, viali), alla necessità fondamentale di minimizzare le vittime civili, proteggere le infrastrutture critiche e il patrimonio culturale.[1] Città, intese come terreno di scontro, che offrono opzioni di manovra differenti – e spesso con una limitata prevedibilità – a seconda della tipologia di area urbana (megalopoli, città metropolitane, città periferiche, conurbazioni e persino smart city), le cui caratteristiche peculiari sono in grado di influenzare le operazioni militari nel loro complesso.

Molte le battaglie urbane più recenti – dalla Battaglia di Mogadiscio del 1993 alla Seconda Battaglia di Falluja in Iraq nel 2004, alla Battaglia di Shusha nel 2020 nella Seconda Guerra del Nagorno-Karabakh, e, ancora, Mariupol nel 2022 e Bakhmut nel 2023 nella guerra russo-Ucraina – ci consegnano tendenze e lezioni apprese per comprendere meglio la guerra urbana poiché in un mondo sempre più urbanizzato, il futuro carattere del conflitto sarà anch’esso sempre più urbano.

Negli ultimi anni, in relazione allo sviluppo dei più recenti conflitti, si è consolidato un dibattito, all’interno delle comunità accademica e militare, sulla cosiddetta “svolta urbana negli affari militari e strategici”, sebbene vi siano differenti interpretazioni su ciò che stia accadendo, del perché e del probabile impatto sul più ampio panorama della sicurezza. Nel merito della discussione su ciò che sta accadendo, la tendenza maggiormente consolidata è la teoria di una “nuova urbanistica militare”,[2] descritta da Stephen Graham nel suo saggio intitolato Cities under siege: the new military urbanism. Nel libro, l’autore sostiene, in primo luogo, che c’è tra i principali eserciti del mondo un nuovo (o talvolta caratterizzato come rinnovato) interesse per la guerra negli ambienti urbani. Inoltre, l’Autore ri­leva come sia stata sviluppata una serie di nuove tecnologie e tecniche per il combattimento nei centri abitati pur ponendo l’accento su un aspetto di rilevante interesse, ossia che tali tecnologie, unitamente a tecniche, tattiche e procedure, starebbero già facendo la loro comparsa, dopo essere state testate nei teatri operativi più recenti – dalla Siria, all’Afghanistan all’Iraq –, tra le forze di sicurezza interna, e non solo tra le forze armate.[3]

Città sotto assedio

La letteratura accademica in tale ambito, non scevra da rilevanti critiche, tende ad identificare in tre Paesi in particolare –  Israele, Stati Uniti e Regno Unito – gli attori principali di un progetto di acquisizione di capacità militari in ambito urbano. Il geografo Stephen Graham, a cui abbiamo fatto accenno, nel suo libro Cities under siege ha descritto quello che sarebbe un processo di rapida implementazione di un «sistema ombra di ricerca urbana militare»[4] volta ad acquisire competenze nella gestione e nel controllo delle aree ad alta densità di popolazione e delle crisi che in esse dovessero emergere.

Le più recenti preoccupazioni per la sicurezza delle città, in particolare quelle associate alle minacce asimmetriche emergenti, evidenziano l’adattamento delle tecniche militari agli ambienti urbani. Nel 2015, Londra fu teatro di una massiccia esercitazione antiterrorismo che simulava attacchi simili a quelli di Mumbai o Parigi, riconoscendo la gravità della minaccia in contesti urbani. Nonostante le critiche, la condivisione di strategie e ammaestramenti tra forze militari internazionali si è progressivamente estesa e aperta, coerentemente con una visione improntata alla realpolitik, coinvolgendo anche accademici in seminari e wargame.

Ma la “nuova urbanistica militare” rimane un concetto ancora sfuggente; esperti e militari concordano sulla mancanza di una visione chiara in questo ambito. I wargame e le simulazioni, pur tentando di affrontare il combattimento urbano, spesso si rivelano inefficaci, mentre il timore e il tentativo di evitare la guerriglia urbana sono aspetti storicamente consolidati e ben radicati negli staff degli stati maggiori militari, riecheggiati da Sun Tzu, che consigliava di «combattere in città solo come ultima risorsa».[5]

I dilemmi della guerra urbana sono numerosi e complessi, spaziando dalla gestione del comando in un ambiente frammentato, alla manovra sicura delle forze, fino al mantenimento della capacità intelligence in aree densamente popolate. La sfida è bilanciare la necessità tattica con l’obiettivo strategico generale, evitando danni ai civili e alle infrastrutture. Con le città che diven­tano sempre più interconnesse, ignorare gli ambienti urbani non è una strategia sostenibile a lungo termine: un fattore dinamico che solleva questioni rilevanti su capacità di controllo, rischio di crisi umanitarie e gestione della comunicazione.

La rivoluzione dell’intelligenza artificiale.

In relazione alla necessità di identificare la posizione di elementi nemici, un contributo sempre più significativo è dato dall’uso crescente dell’intelligenza artificiale (AI, Artificial Intelligence) che ha il potere di trasformare le operazioni militari, specialmente nelle complesse aree urbane, migliorando il targeting e riducendo i danni collaterali tramite algoritmi avanzati che processano dati da diverse fonti. Innovazioni come il riconoscimento facciale e l’analisi comportamentale predittiva consentono di identificare minacce specifiche, mentre l’AI facilita la distinzione tra obiettivi civili e militari. Ma nonostante il suo potenziale, l’uso dell’AI in ambito militare solleva però questioni etiche, sottolineando l’importanza della supervisione umana per assicurare che le operazioni rispettino i principi etici e umanitari. La guerra Israele-Hamas a Gaza lo ha dimostrato con violenta evidenza, come avremo modo di descrivere nel libro, così come ha dimostrato di essere, da un punto di vista militare, il primo evento di una “nuova epoca” in termini di strategie, tecniche di combattimento e tecnologie applicate al campo di battaglia, in particolare in relazione all’impiego massiccio dell’intelligenza artificiale attraverso il software Lavender, dove la macchina ha imparato a combattere grazie all’uomo, che con un algoritmo l’ha addestrata a discernere quale sia un obiettivo nemico da quelli che non lo sono. L’operazione Iron Swords, avviata da Israele in conseguenza dei tragici eventi del 7 ottobre 2023, ha plasmato un pezzo di questa nuova epoca, definendo un nuovo “anno zero” dei conflitti armati. Sebbene l’AI non abbia ancora innescato una rivoluzione negli affari militari (Rma, Revolution in Military Affairs), ha indubbiamente portato cambiamenti significativi: dall’abilitazione di capacità multidominio e sistemi di sistemi alla riduzione di spazio e tempo, l’AI detiene un potenziale immenso.

I conflitti e le guerre propriamente dette si stanno dunque trasformando ed è difficile dare un contorno definito e chiaro di ciò che ci aspetterà in futuro, sul come e dove si svilupperanno le guerre, quali saranno i campi di battaglia primari e, ancora, quali saranno le dinamiche di spazio e tempo che determineranno la condotta delle operazioni militari. Eppure, dalle montagne dell’Afghanistan al deserto della Siria passando per le pianure ucraine, la direzione sembra essere quella di un significativo prevalere degli scontri all’interno delle aree urbane ad alta densità di popolazione, con particolare riferimento alle metropoli che si stanno formando in conseguenza di tendenze sociali e demografiche ormai ben definite: l’aumento della popolazione, la crescente urbanizzazione, lo sviluppo costiero e la sempre più rilevante connettività globale.

È in tale tipologia di scenario che i conflitti del futuro prenderanno forma, con attenzione alle metropoli costiere, alle periferie urbane sempre più fuori dal controllo statale, in particolare nel continente africano, in Medioriente, America Latina e Asia. Le città, più che le nazioni, costituiranno l’elemento centrale per l’analisi dei futuri conflitti e la resilienza, anziché la stabilità, sarà il fine primario da perseguire. In tali realtà assumeranno un ruolo sempre più forte e determinante i Non-State Armed Groups (NSAGs) in una competizione sempre più accesa con lo Stato e con altri gruppi non statali per il controllo del territorio, delle popolazioni e delle risorse spesso illegali. Tra questi attori si imporranno i cartelli della droga, le bande e i signori della guerra, sfruttando il supporto delle comunità locali, offrendo opportunisticamente sicurezza e servizi, anche sociali, così da rispondere alle istanze delle popolazioni target e affini creando un rapporto di fiducia e dipendenza.[6]

Le città sono dunque in procinto di divenire oggetto primario della dottrina militare come nuovo campo di battaglia in un mondo sempre più urbano: dalle baraccopoli del Sud globale alle aree ad alta densità del Medioriente, ai ricchi centri finanziari dell’Occidente. Un quadro, in fase di definizione, in cui le forze armate e di sicurezza occidentali tendono sempre più a percepire il terreno urbano come una zona di conflitto abitata da nemici ombra pronti a colpire. Gli abitanti delle città si trasformano così in bersagli che devono essere tracciati, scansionati e controllati. In questo senso alcuni tra i più lungimiranti eserciti occidentali hanno iniziato un processo di tra­sformazione in forze urbane di contro-insurrezione ad alta tecnologia, coerentemente con gli obiettivi e le ambizioni dei rispettivi governi.

Oggi stiamo osservando i prodromi di ciò che sarà. La guerra Israele-Hamas sta ponendo all’attenzione di analisti e militari le numerose sfide che una guerra in un contesto urbano imporrà in maniera sempre più rilevante agli eserciti impegnati in guerra. E la dimensione sotterranea – l’altro fronte urbano – è forse quella più pericolosa poiché, a fronte delle criticità nel riuscire a identificare la presenza di tunnel, vie di accesso occultate, depositi e bunker sotterranei, si impone la difficoltà nel riuscire a decifrare la possibile azione del nemico, la direzione dell’attacco e la sua dimensione.

L’uso dei tunnel nelle guerre non è nuovo. La ricerca di vantaggi attraverso l’utilizzo di spazi naturali o artificiali nel sottosuolo è antica quanto la guerra stessa: dalle storie di tunnel utilizzati per vincere enormi battaglie nella Bibbia, alla guerra “di caverna” della Grande Guerra, agli spazi sotterranei che diventano fattori chiave per le battaglie urbane contemporanee, come Mariupol e Bakhmut nella guerra in Ucraina. Le nazioni moderne, tra cui gli Stati Uniti, la Cina e la Corea del Nord, investono miliardi in bunker militari e complessi di tunnel sepolti in profondità. E, infatti, si valuta che la Cina abbia tremila miglia di tunnel e bunker in grado di resistere agli attacchi nucleari in una rete che è stata chiamata la “Grande Muraglia sotterranea”; alcune stime confermano che la Corea del Nord avrebbe oltre cinquemila tunnel e infrastrutture che includono più basi aeree sotterranee con piste, siti radar e porti sottomarini all’interno delle montagne costiere.[7]

Ma ciò che Israele ha affrontato a Gaza rappresenta una novità unica nella guerra, vale a dire, un caso in cui i tunnel costituiscono uno dei due pilastri, insieme al tempo, della strategia politico-militare di un combattente. Un complesso che per vastità, struttura, complessità e “potere impeditivo intrin­seco” rappresenta un qualcosa che un esercito moderno non ha mai affrontato nella storia. Ma più che per le dimensioni dei tunnel, la guerra tra Israele e Hamas è la prima guerra in cui un combattente ha fatto della vasta rete sotterranea un fulcro della propria strategia politico-militare complessiva.[8] Tutti aspetti, e minacce, che le Israel Defense Forces (Idf, Forze di difesa di Israele) hanno dovuto affrontare nella condotta delle operazioni terrestri nella Striscia di Gaza, con maggiore intensità a partire dall’ottobre 2023.

Parallelamente, e in maniera inestricabilmente associata, si sono imposti e si imporranno sempre più gli effetti mediatici, comunicativi e di propaganda associati alla presenza di civili sul campo di battaglia e ai pericoli ai quali sono soggetti. Pericoli che sono indubbiamente concreti, ma che vengono sfruttati dalla parte in difficoltà per additare all’opinione pubblica globale la condotta di azioni non rispettose del diritto umanitario.

La guerra che ha travolto la Striscia di Gaza e, in particolare, l’area urbana ad alta densità di popolazione della città di Gaza, è paragonabile ai combattimenti osservati nella guerra russo-ucraina iniziata nel 2022, in particolare nella città di Mariupol, nel sud dell’Ucraina, o nella battaglia per Mosul tra le forze irachene e il cosiddetto Stato islamico nel 2016 e 2017. Un parallelismo che ovviamente non si limita all’osservazione dei combattimenti veri e propri, ma che si estende alla sfera della comunicazione e dell’informazione dove la capacità militare di muovere unità sul terreno e di conquistare capisaldi difensivi passa in secondo piano rispetto agli effetti della propaganda e delle false informazioni diffuse in maniera virale attraverso il Web.[9]

Sul fatto che Israele abbia dimostrato di avere la capacità di vincere sul piano tattico la guerra ci sono pochi dubbi: almeno sul piano convenzionale la conquista di Gaza ha anticipato la sconfitta militare di Hamas, nonostante le difficoltà intrinseche della dimensione sotterranea della guerra urbana.[10] Ma fino a che punto Israele è stato in grado di limitare gli effetti collaterali di una guerra concentrata in una città ad altissima densità di popolazione, e caratterizzata da una minaccia intrinseca nella dimensione sotterranea, dove la stessa popolazione è stata indotta o obbligata da Hamas a rimanere in fun­zione di “scudo umano” in prossimità di obiettivi militari spesso coincidenti con infrastrutture sanitarie, scolastiche e religiose? E ancora, in quanto tempo e a fronte di quali sacrifici Israele ha raggiunto l’obiettivo di eliminare, ancorché solo parzialmente, la minaccia di Hamas attraverso la condotta di un’operazione militare molto impegnativa e onerosa? Quali gli insegnamenti storici e le lezioni apprese che condizioneranno la revisione della dottrina militare per la guerra urbana e sotterranea?

Queste sono le domande alle quali daremo risposta nel libro, scritto utilizzando fonti di archivio, in particolare gli studi del genio statunitense relativi alla guerra dei tunnel in Viet Nam, e di pubblicazioni tecniche di esperti e funzionari del Ministero della Difesa israeliano, testimonianze dirette e la, seppur non ampia, specifica letteratura scientifica, con particolare attenzione alle dinamiche e ai fattori rilevanti a livello tattico, operativo e strategico.


[1] Collins L, Spencer J. (2022), Understanding Urban Warfare, Howgate Publishing Limited, pp. 392.

[2] Graham S. (2011), Cities Under Siege: The New Military Urbanism, Paperback, Verso Books, pp. 432.

[3] Betz D., Peering into the past and future of urban warfare in Israel, Commentary War on the Rocks, 17 dicembre 2015, in https://warontherocks.com/2015/12/peering-into-the-past-and-future-of-urban-warfare-in-israel/.

[4] Graham S. (2011), Cities Under Siege, cit.

[5] Sun Tzu, L’arte della guerra, (a cura di) Jialin H., J., Luraghi R (1995), Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1995, p. 43.

[6] Kilcullen D. (2015), Out of the Mountains: The Coming Age of the Urban Guerrilla, Oxford University Press, pp.‎ 352.

[7] Spencer J., Gaza’s underground: Hamas’s entire politico-military strategy rests on its tunnels, Modern War Institute at West Point, 18 gennaio 2024, in: https://mwi.westpoint.edu/gazas-underground-hamass-entire-politico-military-strategy-rests-on-its-tunnels/.

[8] Ibidem.

[9] Hofmann F., How Israel is training for urban warfare, Deutsche Welle, 18 ottobre 2023, in https://www.dw.com/en/how-israel-is-training-for-urban-warfare/a-67134424.

[10] Ibidem.


Razzi su Israele: l’attacco dopo l’uccisione di un leader del movimento palestinese “Jihad Islamico”

Articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico, Ce.Mi.S.S. 6/2019

L’azione israeliana contro l’organizzazione “Jihad islamico”

All’alba del 12 novembre un attacco aereo israeliano, nella zona orientale di Shejaiya a Gaza, ha portato alla morte di Baha Abu al-Ata (42 anni), un senior leader del gruppo terrorista palestinese Jihad islamico (Harakat al-Jihād al-Islāmī fī Filasṭīn, PIJ). Contemporaneamente a questa azione, altre due persone sono state uccise e 10 ferite nella capitale siriana, Damasco, in un secondo attacco aereo israeliano contro Akram al-Ajouri, un altro leader politico del movimento palestinese Jihad islamico. Akram al-Ajouri sarebbe sopravvissuto, ma suo figlio e la nipote sarebbero rimasti uccisi.

Secondo il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Abu al-Ata, comandante del PIJ nella regione settentrionale di Gaza, era una “bomba ad orologeria” che stava pianificando attacchi al paese; secondo la dichiarazione del Primo Ministro, l’obiettivo della missione era l’eliminazione del “principale istigatore del terrorismo dalla Striscia di Gaza”.

Il capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane (IDF), il generale Aviv Kochavi, ha dichiarato che Abu al-Ata ha minato i recenti sforzi volti a mediare un cessate il fuoco tra Israele e il gruppo militante Hamas, che gestisce Gaza ed è considerato un rivale del PIJ. “Abu al-Ata stava pianificando attacchi terroristici nei confronti di civili israeliani e truppe dell’IDF da portare a compimento a breve”, “la sua eliminazione è stato un atto volto a prevenire una minaccia imminente”.

Baha Abu al-Ata aveva riscosso successi nel corso dell’anno guidando, a nord e ad est della striscia di Gaza, i combattenti della Brigata al-Quds del movimento Jihad islamico. Ma ha agito in maniera crescente sempre più al di fuori del controllo di Hamas, ordinando attacchi missilistici senza preventiva autorizzazione in seguito al ferimento dei manifestanti palestinesi da parte dei soldati israeliani durante le proteste di novembre al confine con Israele. In tale scenario, è valutabile una possibile escalation di ostilità.

La reazione dei terroristi

A seguito dell’attacco aereo contro Baha Abu al-Ata, centinaia di razzi sono stati lanciati da Gaza verso il territorio israeliano: tra il 12 e il 13 novembre, almeno 200 missili sono stati lanciati verso le aree meridionali e centrali di Israele, compresa la città di Tel Aviv e gli abitati di Holon e Modiin, che si trovano a più di 50 km dal confine con Gaza. Alcuni sono stati intercettati dal sistema di difesa aerea israeliano Iron Dome. Una fabbrica di Sderot è stata colpita, provocando un grande incendio, insieme a due case a Netivot e al palazzo del Consiglio regionale di Eshkol.

Il 12 novembre, l’IDF ha avviato una serie di attacchi di rappresaglia contro gli obiettivi nella striscia di Gaza riconducibili al PIJ, colpendo un’infrastruttura addestrativa, siti sotterranei utilizzati per la produzione e lo stoccaggio di esplosivi e munizioni e ancora, in due attacchi separati, le strutture di lancio di razzi. Contemporaneamente, Israele avrebbe chiuso i punti di ingresso-uscita da e per Gaza e ridotto l’area di pesca fino a 6 miglia nautiche concessa ai palestinesi di Gaza.

Il movimento Jihad islamico, organizzazione radicale riconosciuta come terrorista da Unione Europea, Stati Uniti, Canada e Israele, è la seconda più grande fazione militante palestinese a Gaza dopo Hamas (oggi al governo della striscia). Da quando nel 1981 è stata fondato il Jihad islamico, il movimento terroristico ha lanciato migliaia di razzi e ha portato a compimento innumerevoli azioni finalizzate a danneggiare e uccidere civili israeliani. Creato su iniziativa di soggetti islamisti, il gruppo affonda le sue radici nei campi profughi palestinesi e si ritiene che comprenda oggi alcune migliaia di combattenti. Considerata da Israele una proxy force iraniana, avrebbe il suo comando strategico nella capitale siriana, Damasco; sempre secondo Israele, il gruppo riceverebbe milioni di dollari in finanziamenti iraniani ogni anno con i quali finanzierebbe le azioni terroristiche ai danni di Israele. Solo quest’anno il Jihad islamico ha lanciato centinaia di razzi contro strutture in territorio israeliano, ha altresì tentato di infiltrarsi in Israele scavando tunnel sotterranei da utilizzare per attacchi e ha sparando contro i militari dell’IDF in servizio sulla linea di confine.

Sia Hamas che il Jihad islamico invocano “la distruzione di Israele”, concentrano le proprie azioni terroristiche contro i civili. Tra i due, il Jihad islamico è considerato più aggressivo, soprattutto perché può concentrarsi su attività militari, a differenza di Hamas che deve governare 2 milioni di persone nell’enclave palestinese. Mentre Hamas e il Jihad islamico mantengono un rapporto che può essere definito di “cauta alleanza”, quest’ultimo manifesta il proprio disappunto e frustrazione a causa delle tregue non ufficiali tra Hamas e Israele.