La Libia è instabile: nessuna soluzione politica senza impegno militare? La strategia turca indebolisce l’Italia
di Claudio Bertolotti
La guerra in Libia è entrata in una nuova fase, ma il Paese appare sull’orlo del collasso come mai prima d’ora. Il governo di accordo nazionale di Tripoli è riuscito a rompere un assedio durato 14 mesi da parte dell’esercito nazionale libico guidato dal generale Khalifa Haftar, e a invertire gli equilibri del conflitto lanciando una controffensiva. Il sostegno della Turchia si è rivelato essenziale. In tale quadro, la competizione tra Italia e Turchia in Libia potrebbe finire come per la Russia e l’Iran in Siria dove, pur sostenendo la stessa fazione, i due attori cercano di escludersi a vicenda. Tutti questi elementi aprono alla possibilità di uno scenario di rivalità aperta, pur non escludendo una possibile cooperazione basata sul comune interesse.
La situazione libica e i rischi per la sicurezza regionale
La guerra in Libia è entrata in una nuova fase, ma il Paese appare sull’orlo del collasso come mai prima d’ora. Il governo di accordo nazionale (GNA) di Tripoli, riconosciuto a livello internazionale, è riuscito a rompere un assedio durato 14 mesi da parte dell’esercito nazionale libico (LNA), guidato dal generale Khalifa Haftar, e a invertire gli equilibri del conflitto lanciando una controffensiva. Il sostegno della Turchia si è rivelato essenziale per il GNA, così come per Haftar lo è stato il supporto degli Emirati Arabi Uniti, della Russia e dell’Egitto: un’interferenza che ha confermato, ancora una volta, il ruolo chiave giocato dal sostegno esterno alle parti in guerra. Il recente rifiuto del GNA di accettare il cessate il fuoco proposto da Haftar e dal presidente egiziano Abdel-Fattah al Sisi, suggerisce che la guerra potrebbe presto essere caratterizzata da una nuova escalation, in cui il GNA proverebbe a sfruttare il vantaggio militare ottenuto. Da un lato, la ritirata di Haftar dal fronte di Tripoli rappresenta un bivio che potrebbe portare l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e la Russia a ripensare il sostegno all’LNA e ad aprire a un possibile accordo di compromesso sulla Libia che avrebbe ripercussioni dirette sulle priorità strategiche del Cairo, anche in rapporto alle relazioni con le potenze del Golfo e le ambizioni espansionistiche della Turchia nel Mediterraneo. Dall’altro lato, l’instabilità in Libia potrebbe così influire sulla sicurezza del Nord Africa e il sud dell’Europa, inteso anche come fianco sud della NATO. Mentre gli attori regionali e internazionali si contendono l’influenza sul Paese, gli stati europei sembrano incapaci di rilanciare il percorso diplomatico avviato a gennaio con la Conferenza di Berlino e a prevenire un incombente disastro umanitario ai confini meridionali dell’Unione Europea. Inoltre, uno dei punti più importanti dell’immigrazione clandestina è la Libia, perché è molto vicina all’Europa: c’è Malta proprio di fronte; è prossima a Italia e Spagna. A fronte di una persistente instabilità in Libia, la migrazione irregolare è valutato che aumenterà, così come il traffico di droga e di esseri umani. Appare così evidente come, nel contesto del conflitto armato libico, ogni proposta di soluzione politica esterna che abbia escluso l’impiego dello strumento militare si sia rivelata improduttiva; al contrario, l’audace interventismo militare – inteso come intervento diretto o uso potenziale dello strumento militare – concretizzato da alcuni attori, ha ottenuto risultati tangibili che verranno utilizzati sul piano negoziale a favore di obiettivi e ambizioni nazionali. La Turchia (e sull’altro fronte la Russia, ma con diversi risultati) lo ha dimostrato con i fatti, schierando a Tripoli le proprie unità militari guidate dal generale turco Irfan Ozsert, da cui dipendono anche le migliaia di miliziani islamisti siriani inviati da Ankara; grazie a questa scelta di forza la Turchia ha azzerato la campagna del generale Haftar per conquistare Tripoli, ipotecando così il ruolo di main player in Libia.
Consolidamento turco in Libia e attivismo militare nel Mediterraneo
Il potere marittimo è il principale strumento strategico per gli stati che abbiano un’ambizione di proiezione a tutela dei propri interessi strategici nazionali. Il Mediterraneo è diventato il centro dell’instabilità dovuta alle politiche espansionistiche di Ankara e di Mosca, perseguite anche attraverso il supporto delle parti contrapposte nei teatri di conflitto. In particolare, le interferenze turche e russe in Libia, Siria, e il ruolo di Ankara in Iraq, Cipro e nel Mar Egeo, sono una concausa primaria dell’instabilità regionale e potrebbero costituire una minaccia alla sicurezza collettiva nel medio periodo, portando così al consolidamento di equilibri geopolitici del tutto svantaggiosi per l’Italia. Uno dei primi passi formali sul piano internazionale per l’avvio dell’espansione turca in Libia è stata la firma del controverso accordo di demarcazione delle frontiere marittime, firmato da Ankara con il governo di accordo nazionale (GNA), che ha portato all’ampliamento della zona economica esclusiva turca (ZEE) nel Mediterraneo orientale. Ankara fornisce supporto militare e diplomatico al GNA di Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj, mentre la Russia (insieme a Emirati Arabi Uniti ed Egitto) sostiene il comandante rivale dell’esercito nazionale libico (LNA) di Tobruk, il generale Khalifa Haftar. Il sostegno turco ha permesso alla coalizione a supporto di al-Sarraj di invertire le sorti di una guerra prima sfavorevole e di respingere un’offensiva durata oltre un anno e trasformatasi in un logorante assedio che ha sempre più indebolito, militarmente e politicamente, il fronte del generale Khalifa Haftar. Nel confronto tra Russia e Turchia, la questione libica si intreccia con quella siriana. In Siria, il governo di Bashar al-Assad appoggiato dalla Russia mira a riprendere la provincia settentrionale di Idlib, togliendola dal controllo dei militanti islamisti sostenuti da Ankara, mentre la Turchia ha promesso di non lasciare mai che ciò accada, inviando migliaia di truppe turche e milizie arabe per proteggere i propri interessi nazionali e impedire un nuovo afflusso di rifugiati sul suo territorio. Benchè di difficile realizzazione, Mosca starebbe dunque spingendo Ankara verso un compromesso in Libia usando la carta Idlib, e minacciando raid aerei contro le posizioni delle forze sostenute dalla Turchia nel nord della Siria.Il GNA, con il sostegno militare e il decisivo impiego dei droni da parte della Turchia, sta perseguendo l’obiettivo di porre sotto controllo le basi aeree di Sirte e al-Jufra. Tripoli vuole espandere il proprio controllo alla fascia costiera e alla Mezzaluna petrolifera, così da consolidare ulteriormente i vantaggi militari. Con buona probabilità non si fermerà fino a quando questi obiettivi non saranno raggiunti. Il conflitto è ora focalizzato su Sirte e sulla mezzaluna petrolifera, in cui vi sono il 70-80% dei giacimenti di petrolio. All’inizio di giugno, la Turchia ha dichiarato di poter espandere la sua cooperazione in Libia con nuovi accordi in materia di energia e costruzioni una volta terminato il conflitto.Secondo lo Yeni Şafak, giornale di informazione pro-AKP (Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, in turco Adalet ve Kalkınma Partisi, partito politico conservatore turco di maggioranza), benché non siano state prese decisioni definitive sul possibile uso militare, la Turchia consoliderà la propria presenza in Libia e nel Mediterraneo occidentale attraverso la costruzione di due basi militari: una base navale a Misurata, che potrebbe ospitare navi d’assalto, da ricognizione e navi ausiliarie, e una base aerea ad Al-Watiya, recentemente riconquistata dal GNA e all’interno della quale verranno schierate unità di droni aerei (UAV). Ma la Turchia avrebbe messo gli occhi anche su al-Qardabiya, vicino a Sirte, obiettivo importante in quanto permetterebbe di controllare l’importante mezzaluna petrolifera. Parimenti, anche la Russia ambisce ad avere avamposti fissi a Sirte e al-Jafra, dove già sono stati schierati dei caccia: una presenza legata alla volontà di influenza nel Mediterraneo. Nel frattempo hanno avuto luogo importanti manovre ed esercitazioni navali e aeree di Ankara nel Mediterraneo (Adnkronos e Agenzia Nova, 15 giugno). Otto navi da guerra tra fregate e corvette e 17 aerei (prevalentemente F16) hanno partecipato all’esercitazione organizzata dalle Forze armate turche denominata “Alto Mare”. Chiuso lo spazio aereo e marittimo: lo ha annunciato il ministero della Difesa turco in una nota. Le manovre sono durate otto ore per un totale di 2 mila chilometri percorsi nel Mediterraneo. I media statali turchi hanno definito le manovre una “dimostrazione di forza”; esercitazioni che giungono nel pieno delle tensioni nel Mediterraneo orientale dove incombe, oltre alla guerra in Libia, anche la crisi tra Grecia e Turchia a causa delle esplorazioni turche nell’area di Cipro dove sono presenti i giacimenti di gas recentemente scoperti. Per diversi mesi, la Turchia ha aumentato le attività esplorative al largo dell’isola, ignorando gli avvertimenti dell’Unione europea che ritiene le azioni illegali. Severa la presa di posizione della “Lega araba”: ”L’interferenza turca in Libia, Siria e Iraq è inaccettabile e va condannata. Ankara si nasconde dietro l’accordo con il governo di Tripoli per conseguire interessi economici, politici e militari”. Nel frattempo Mevlut Cavusoglu, ministro degli esteri turco, lo scorso 18 giugno ha guidato un importante missione in Libia con una delegazione di 25 esponenti del governo di Ankara, tra cui il responsabile dell’intelligence Hakan Fidan e il ministro delle Finanze, Beyrat Albayrak, genero del presidente Recep Tayyip Erdogan. Un evento di rilevo, certamente sul piano diplomatico ma ancora di più su quello economico-commerciale che vedrà la Turchia espandere sempre più il proprio ruolo in Libia. Al contrario, dopo aver incontrato in due momenti separati il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, e l’omologo turco Cavusoglu con i quali è stato affrontato il dossier libico, l’incontro successivo tra il premier Fayez al-Sarraj e il ministro degli esteri italiano Luigi Di Maio del 24 giugno, non ha portato a risultati di rilievo. Due le questioni discusse. La prima è la richiesta libica di estendere anche alle vie terrestri l’applicazione dell’embargo di armi da parte della missione EUNAVFORMED “Irini”; una richiesta che mira a indebolire le forze di Haftar, equipaggiate e armate dall’Egitto attraverso la frontiera tra i due paesi. La seconda questione è la disponibilità libica al rispetto dei diritti umani dei migranti, così come chiesto dall’Italia; un tema certamente “sensibile” ma non rilevante ai fini della stabilità libica e della tutela degli interessi nazionali italiani nel Mediterraneo. Per contro, al-Sarraj ha formalmente chiesto all’Italia di ricostruire l’aeroporto di Tripoli e procedere allo sminamento di un’ampia area della capitale libica, senza però offrire nulla in cambio.
La guerra vince sull’opzione politica e impone un riposizionamento diplomatico
La Turchia, grazie all’intervento armato in Libia, che ha di fatto capovolto le sorti del conflitto, ha ipotecato il proprio ruolo di interlocutore primario e imposto all’Egitto (e ai partner del Golfo) un arresto sul piano militare.Da una parte il presidente francese Emmanuel Macron ha biasimato Erdogan e i suoi “giochi pericolosi” in Libia che “confermano la morte celebrale della Nato”; a fronte di tali insinuazioni, la Turchia ha risposto accusando a sua volta la Francia di “perdita di lucidità” e di responsabilità della destabilizzazione libica.Dall’altra parte, i paesi arabi del Golfo, con in testa Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (sostenitori del generale Haftar), si sono pubblicamente schierati a favore dell’Egitto, che ha minacciato il ricorso alle armi e un intervento diretto in Libia per tutelare la fazione di Tobruk (di cui Haftar è la guida politico-militare) in risposta all’appello di Aguila Saleh, capo del parlamento libico di Tobruk, che ha chiesto al Cairo di rispondere militarmente nel caso in cui le forze del GNA attaccassero Sirte.Ma anche Washington, a fronte del cambio di situazione, ha ripreso in mano il dossier libico con maggiore interesse: il 22 giugno una delegazione guidata dall’ambasciatore statunitense in Libia, Richard Norland, e dal comandante generale di AFRICOM, Stephen Townsend, ha incontrato i rappresentanti di Tripoli al fine di “promuovere un cessate il fuoco e un dialogo politico” ottenendo, al contempo, la richiesta da parte libica alla Turchia di ritirare le milizie islamiste “illegali” sostenute da Ankara, a cominciare dalla formazione estremista “Sultan Murad”, già attiva nella guerra siriana[1]. Un chiaro indicatore della mutevolezza di un quadro geopolitico di cui gli Stati Uniti paiono ora preoccuparsi, in virtù del crescente attivismo militare e della sempre più dinamica presenza del competitor russo nel Mediterraneo.
Analisi, valutazione, previsione. Italia e Turchia: alleati o rivali in Libia?
Il 14 maggio 2020 il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha avuto un colloquio telefonico con il presidente della Turchia Erdogan. In tale occasione, il segretario dell’Alleanza Atlantica ed Erdogan hanno discusso anche della situazione in Libia. Stoltenberg ha sottolineato che la posizione della NATO rimane coerente: come affermato dai capi di Stato e di governo della NATO al vertice di Bruxelles del 2018, “la NATO è pronta ad aiutare la Libia nell’ambito della costruzione di istituzioni di difesa e sicurezza, in risposta alla richiesta del Primo Ministro del governo di accordo nazionale (GNA) di rafforzare le istituzioni di sicurezza libiche. Qualsiasi assistenza della NATO in Libia terrà conto delle condizioni politiche e di sicurezza e verrà fornita in piena complementarità e in stretto coordinamento con altri attori internazionali, compresi le Nazioni Unite e l’Unione Europea”[2].In merito alla competizione per un ruolo di primo piano in Libia, Ankara ha una relazione complicata con l’Italia. I due paesi hanno, da un lato, legami storici e interessi non compatibili in Libia ma, dall’altro lato, stanno attualmente sostenendo la stessa fazione (GNA) tra le due in campo: la Turchia in maniera esclusiva; Roma non escludendo il dialogo aperto anche con la controparte (LNA). Tuttavia, in seguito alla dichiarazione del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, i due paesi stanno cercando ambedue di assumere il ruolo dominante nella definizione della strategia dell’Alleanza transatlantica per la Libia, ambendo entrambi a guidare un possibile intervento della NATO. La competizione tra Italia e Turchia in Libia potrebbe finire come per la Russia e l’Iran in Siria dove, pur sostenendo la stessa fazione, i due attori cercano di escludersi a vicenda. Tutti questi elementi aprono alla possibilità di uno scenario di rivalità aperta, pur non escludendo una possibile cooperazione basata sul comune interesse di contrastare Haftar per diversi motivi: da un lato Ankara mira a contrastare l’espansione russa, egiziana ed emiratina; dall’altro l’Italia intende contenere l’influenza francese sul paese.Di fatto, tra i due contendenti, la Turchia è quello che potrebbe trarre i maggiori vantaggi dall’attuale situazione. Ankara sembra aver raggiunto la maggior parte degli obiettivi: con le forze di Haftar in ritirata, è in una posizione favorevole per imporre un ruolo di primo piano a livello regionale. D’altra parte, dobbiamo considerare gli altri attori principali (Russia ed Egitto), il loro ruolo, le effettive capacità e la volontà di intervento diretto. Le guerre convenzionali richiedono forti flussi di cassa: la Russia, l’Egitto, la Turchia, e anche l’Italia, sono economicamente vulnerabili e questo è un fattore che può limitare la loro capacità di influire a fondo sulle dinamiche politiche e militari della Libia.Come evidenzia Karim Mezran, tra i più influenti esperti di Libia, il GNA non è forte abbastanza per controllare e gestire il paese; il popolo libico è consapevole dell’inconsistenza del GNA, che è inefficace e disfunzionale. L’obiettivo di GNA è creare la struttura istituzionale del Paese, non gestirlo, ed è evidente come sia improbabile che questo riesca a conquistare militarmente l’est del paese, così come è improbabile che l’LNA possa porre sotto controllo la Tripolitania. In tale quadro l’Italia ha come unica carta da giocare quella dell’attivismo politico-diplomatico finalizzato ad esercitare il ruolo di mediatore al fine di una tregua tra le parti. È molto difficile ma non è impossibile, poiché l’assenza di proprie truppe combattenti potrebbe essere utilizzato come argomento per convincere le cancellerie europee (Francia in testa), gli attori impegnati in Libia (in primis Egitto, Russia e Turchia) e gli Stati Uniti, a riconoscere a Roma questo delicato e ambizioso incarico. Così da trasformare gli svantaggi, derivanti da un’assenza sul campo di battaglia libico, in opportunità.
Libia: nulla di fatto a Berlino
di Claudio Bertolotti
Il vertice europeo di Berlino del 19 gennaio 2020 avrebbe dovuto segnare un primo passo per la risoluzione del conflitto militare e politico in Libia, caratterizzato da numerosi ostacoli e molteplici attori coinvolti. Il 27 gennaio l’incontro di Berlino è stato archiviato: il Consiglio presidenziale del Governo di Accordo Nazionale libico (GNA), riconosciuto dalle Nazioni Unite e guidato da Fayez al Serraj, ha detto ufficialmente che dovrà “riconsiderare la sua partecipazione a qualsiasi dialogo a causa delle violazioni del cessate il fuoco” da parte dell’LNA – Libyan National Army, guidato dal generale Khalifa Haftar che, dal 4 aprile dello scorso anno, assedia Tripoli nel tentativo di prendere il potere con la forza.
Russia (con Egitto e UAE) e Turchia, pur a fronte di generici impegni orientati a una non ingerenza negli affari libici, non hanno di fatto ridefinito le proprie ambizioni e attività a sostegno delle due parti libiche. Tra i sostenitori di Haftar, gli Emirati Arabi Uniti, sono l’attore più attivo sebbene meno sotto i riflettori internazionali: sponsor principale di Haftar, gli UAE sono impegnati nella condotta di attacchi aerei mediante l’utilizzo di droni: si citano, tra le principali azioni, i bombardamenti dell’aeroporto di Misurata, all’interno del quale è presente il contingente militare italiano.
Gli USA paiono non essere intenzionati a lasciare un vuoto, così come (temporaneamente) fatto in Siria, a fronte del timore di un ruolo crescente della Russia nel Mediterraneo e, sebbene in maniera non evidente, di una Cina sempre più presente nel continente africano e nell’area mediterranea. L’Italia, debole sul piano delle relazioni internazionali, è a rischio marginalizzazione nel processo di stabilizzazione della Libia.
Di fatto a Berlino fin da subito sono mancati gli elementi fondamentali per poter avviare un dialogo negoziale funzionale alla cessazione delle ostilità: non c’è stato accordo di pace tra i due contendenti libici (che non si sono incontrati e non hanno siglato la dichiarazione congiunta), non c’è stata la deposizione delle armi (nessuna tregua o cessate il fuoco), né è stato avviato un processo politico per l’unificazione dei due parlamenti.
Tenendo in considerazione le ambizioni strategiche dei sostenitori esterni del premier al-Sarraj e del Generale Haftar, i quali, da soli, non sono in grado di condurre operazioni militari risolutive, appare evidente come lo stato di conflittualità cronica trovi ragione d’essere nelle ambizioni e negli interessi nazionali di supporter esterni sempre più impegnati in quella che è una war by proxy sempre più simile al conflitto siriano, a causa della crescente presenza di gruppi combattenti stranieri. Preoccupa la presenza di mercenari sudanesi (valutati in circa 2.000 unità) a supporto delle forze di Haftar, alle quali si contrappongono i circa 3.000 islamisti reduci dalla guerra in Siria che sarebbero stati trasferiti in Tripolitania, a sostegno del GNA, dalla Turchia. Presenti anche circa 1.000 contractor della compagna russa Wagner e alcune decine di ufficiali tirchi con funzione di “consulenza” e “supporto” (Fonte START InSight).
Il blocco del petrolio e la pressione di Haftar
La compagnia petrolifera statale libica afferma che la produzione è diminuita del 75% a causa del blocco delle esportazioni, che ha portato alla chiusura dei principali campi petroliferi e porti nell’est e nel sud del paese, imposto dal cosiddetto “Esercito nazionale Libico” (LNA) guidato dal generale Kalifa Haftar. Le esportazioni sono state sospese nei porti di Brega, Ras Lanouf, Al-Sidra, Al-Hariga e Zweitina nella “mezzaluna petrolifera” del paese, corridoio in cui transita la maggior parte delle esportazioni di greggio libico. La NOC (National Oil Company) ha anche denunciato la chiusura di valvole in una stazione di pompaggio nel sud-ovest, che portato all’interruzione della produzione nei principali campi di Al-Sharara e Al-Fil.
Un’azione che, nel complesso, avrebbe causato perdite stimate per 256 milioni di dollari con una produzione passata da 1,2 milioni di barili al giorno a poco più di 320.000 (Fonte NOC,). Nel complesso, la produzione di petrolio della Libia è precipitata di circa tre quarti dal 19 gennaio, in concomitanza con l’infruttuoso dialogo sulla Libia di Berlino.
Una scelta strategica, quella di Haftar, volta a ridurre la principale fonte di reddito del paese in risposta alla decisione della Turchia di inviare consiglieri e addestratori militari a sostegno del Governo di Unità Nazionale (GNA) guidato da Fayez al-Sarraj. Una mossa che, a dispetto delle dichiarazioni congiunte in occasione del dialogo di Berlino, non ha trovato l’opposizione di Russia, Emirati Arabi Uniti (EAU) ed Egitto, sostenitori di Haftar.
Il Commento per RaiNews24 di Claudio Bertolotti, Direttore START InSight
Libia tra ENI e Palermo
Le opportunità italiane per la Libia: dalla Conferenza di Palermo alle iniziative dell’ENI
L’analisi di C. Bertolotti per l’Osservatorio Strategico del Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.), n. 1/2018
Il 26 agosto nei quartieri meridionali della capitale Tripoli sono stati registrati violenti scontri in conseguenza dell’attacco sferrato dalle milizie della Settima Brigata di Tarhuna (città a 60 chilometri a sud di Tripoli) – legata a Salah Badi, già capo di Libya Dawn – a cui hanno risposto le Brigate dei Rivoluzionari di Tripoli e la Brigata Nawasi, milizie fedeli al Governo di accordo nazionale (Gna) in essere dal 2016 e guidato da Fayez al-Sarraj. La mediazione delle Nazioni Unite ha portato a una tregua tra le parti il 4 settembre, ma l’attacco con missili contro l’aeroporto di Tripoli il successivo 12 settembre ha interrotto la tregua e imposto la chiusura del traffico aereo della capitale. I combattimenti hanno fatto registrare, in un mese, la morte di 117 persone, il ferimento di altre 560 e l’abbandono da Tripoli di almeno 5.000 famiglie. Scenario che si è in parte riproposto il 14 novembre, due giorni dopo la conferenza “per la Libia” di Palermo, con l’occupazione di alcune aree del vecchio aeroporto internazionale di Tripoli da parte della Settima Brigata e i suoi alleati di Misurata (Salah Badi) e gli scontri con la milizia Ghanewa di Abu Slim.
Il Governo di accordo nazionale è indebolito dal dinamismo di numerosi competitor, privo del monopolio della forza e incapace di imporsi al di fuori di Tripoli
Una situazione che, confermando il fallimento del processo negoziale internazionale, va ad incidere in maniera significativa su un quadro politico interno di difficile ricomposizione e caratterizzato da una consolidata instabilità cronica. Il Governo di accordo nazionale, benché riconosciuto e sostenuto a livello internazionale, è indebolito dal dinamismo di numerosi competitor, milizie e gruppi sub-nazionali, locali e tribali, privo del necessario monopolio della forza e incapace di imporsi al di fuori della circoscritta area territoriale tripolina.
In tale quadro il gruppo Stato islamico (IS), privato del controllo territoriale in diverse aree del paese, da Sirte a Bengasi, fuggito nell’entroterra e in altre aree periferiche e alimentato dai reduci jihadisti in fuga da Siria e Iraq, starebbe avviando una nuova fase di violenza basata su azioni mirate, in particolare contro le infrastrutture petrolifere, come dimostrato dall’attacco del 10 settembre al quartier generale della National Oil Corporation (Noc) a Tripoli: il primo attacco di questo tipo contro la compagnia petrolifera del paese2 e la quattordicesima azione rivendicata dal gruppo dall’inizio dell’anno.
Un’altra azione di rilievo, l’ultima in ordine temporale, è stata portata a segno dal gruppo Stato islamico il 29 ottobre ad al-Fuqaha, piccolo centro abitato dell’entroterra libico a sud di Sirte (già roccaforte del gruppo jihadista), conclusa con l’uccisione del sindaco e di due agenti di polizia e il sequestro di altre 12 persone; l’attacco ha inoltre portato alla distruzione della locale stazione di polizia. Una probabile reazione del gruppo alle recenti azioni militari avviate dall’esercito nazionale libico (Libyan National Army, LNA) che fa riferimento alla fazione del generale Haftar.
Le Nazioni Unite bocciano le elezioni anticipate in Libia volute dalla Francia
A metà settembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (di cui gli Stati Uniti sono presidenti di turno) ha preso due importanti decisioni: la prima è la risoluzione che autorizza l’estensione al 2019 del mandato della United Nations Support Mission in Libya (Unsmil), l’organismo Onu che gestisce i rapporti con Tripoli, guidata dal libanese Ghassan Salamè, che ha il compito di sostenere la transizione politica della Libia, compresa l’organizzazione delle elezioni; la seconda è la rinuncia, a causa del perdurante clima di instabilità, alle elezioni presidenziali entro la fine dell’anno, così come richiesto dalla Francia. Dunque i libici non saranno chiamati alle urne prima del 15 settembre 2019 – una scelta, quest’ultima, in linea con quanto chiesto da Italia e Stati Uniti.
Benché il documento in nove punti redatto dal Regno Unito richiami alla necessità di elezioni «il prima possibile purché siano presenti le necessarie condizioni di sicurezza, tecniche, legislative e politiche», l’ambasciatore statunitense Jonathan Cohen, vice rappresentante permanente americano all’Onu, ha evidenziato come «l’imposizione di scadenze false» possa inevitabilmente portare a un peggioramento della situazione e che per questo è necessario «garantire un solido quadro giuridico e disporre di un consenso politico sufficiente per evitare di esacerbare le divisioni esistenti in Libia»; parole in linea con le affermazioni dell’ambasciatore italiano per la Libia, Giuseppe Perrone, che ad agosto aveva dichiarato che «le elezioni richiedono una serie di passi preventivi in mancanza dei quali si crea caos e conflitto».
Una decisione che rafforza la posizione e il ruolo “chiave” della missione Unsmil ma che non ha portato Parigi a desistere dalle proprie ambizioni
Una decisione, quella del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che, se da un lato rafforza la posizione e il ruolo “chiave” della missione Unsmil – mentre depotenzia quello di Ghassan Salamè (considerato poco incisivo) al cui fianco viene posta la statunitense Stephanie Williams in qualità di vice-rappresentante per gli affari politici in Libia – dall’altro non ha portato Parigi a desistere dalle proprie intenzioni, come confermato dal portavoce del ministero degli Esteri: «la Francia continuerà a sostenere gli sforzi per garantire il proseguimento del processo politico e in particolare le condizioni per la tenuta di elezioni entro la fine dell’anno».
Un’evoluzione, in termini positivi, del Piano d’azione per la Libia, frutto degli accordi siglati il 17 dicembre 2015 a Skhirat, in Marocco; accordi che le Nazioni Unite hanno riconfermato attraverso l’impegno al sostegno libico. Ma, al tempo stesso, la situazione complessiva paga il prezzo di una forte ingerenza esterna che rende improbabile una risoluzione del conflitto nel medio termine.
Se il governo libico guidato da Fayez al-Sarraj è impegnato nella tenuta della sicurezza dell’area metropolitana di Tripoli, il parlamento di Tobruk – fedele al generale Khalifa Belqasim Haftar, che controlla la Cirenaica ed è sostenuto da Francia, Russia ed Egitto – si muove verso il referendum costituzionale che vorrebbe agevolare, con l’insistenza francese, lo svolgimento delle elezioni. Due fronti in competizione tra loro attorno ai quali si uniscono, in un rapporto di collaborazione-competizione le centinaia di gruppi, milizie e brigate, in grado di imporre proprie priorità agli stessi governi di Tripoli e a Tobruk, anche mediante un forte controllo territoriale e sociale di stampo mafioso che si alimenta e auto-sostiene attraverso una ricca economia parallela derivante dal commercio internazionale e illegale di beni di contrabbando, in primis petrolio, droga e armi, e dal traffico di esseri umani.
In tale quadro emerge il rapporto di collaborazione da parte dell’Italia e degli Stati Uniti e del dialogo favorevole tra l’Italia e la Russia. Washington potrebbe tornare ad occuparsi direttamente della Libia, mostrando un tiepido interesse verso la conferenza del 12-13 novembre organizzata dal governo italiano attraverso la quale l’Italia si è impegnata lavorando sul piano diplomatico al fine di ritagliarsi un ruolo di mediazione tra i due governi libici. La visita del generale Haftar al presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Roma il 28 ottobre, due giorni dopo la visita di Al-Sarraj, accompagnato dall’inviato dell’Onu per la Libia Ghassan Salamè, avrebbe potuto essere letta come opportunità di dialogo tra le parti portando all’auspicabile ritorno in Libia dell’ambasciatore italiano, dopo il rientro in Italia ad agosto del titolare Giuseppe Perrone in seguito a una polemica proprio con Haftar, che lo ha dichiarato “persona non gradita” a seguito delle sue critiche verso l’appuntamento elettorale voluto dalla Francia.
a quel tavolo il generale Haftar non si è seduto, portando l’Italia ad ottenere un risultato parziale
La disponibilità del presidente russo Vladimir Putin dimostrata nell’invio di una delegazione alla conferenza di Palermo guidata dal primo ministro Dmitri Medvedev, e la presenza importante del presidente egiziano al-Sisi che ha sostenuto la necessità di un esercito nazionale libico, è un’ulteriore passo in avanti nel processo di dialogo tra Haftar e al-Sarraj, con un vantaggio del primo sul secondo. La conferenza, si legge nella nota della Presidenza del Consiglio, si è ispirata a «due principi fondamentali, quali il pieno rispetto della assunzione di responsabilità da parte libica e l’inclusività del processo, che si inserisce nel percorso tracciato dal piano delle Nazioni Unite», mentre la partecipazione dei principali attori libici era intesa «a sostenere le condizioni di sicurezza e di sviluppo economico, nonché il rafforzamento del quadro politico-costituzionale, quale base per un ordinato processo politico fondato sul Piano d’Azione delle Nazioni Unite». Una partecipazione allargata che, a fronte della rinuncia a una dichiarazione congiunta di fine lavori, sul piano formale avrebbe dovuto vedere sedute al tavolo tutte le fazioni, in primis Tobruk e Tripoli, che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, ha trovato la sua principale motivazione nella conferma del supporto economico da parte dell’Onu. Ma a quel tavolo il generale Haftar non si è seduto, portando l’Italia ad ottenere un risultato parziale caratterizzato da un incontro tra Haftar e al-Sarraj a margine della conferenza stessa, una partecipazione internazionale sbilanciata a favore di Haftar (Russia ed Egitto), l’assenza dei importanti rappresentanti europei di rilievo (Francia e Germania) e la presenza solamente nominale degli Stati Uniti.
ci si potrebbe aspettare dagli Stati Uniti una proposta di strategia per la Libia in un’ottica securitaria che, se definita in linea con la visione di Stephanie Williams potrebbe spingere verso la costituzione di un corpo militare scelto
In tale complesso quadro, se sul piano diplomatico la roadmap mira ad ottenere un tavolo congiunto tra le parti, ci si potrebbe aspettare dagli Stati Uniti una proposta di strategia per la Libia in un’ottica securitaria; una strategia che, se definita in linea con la visione di Stephanie Williams – forte dei 24 anni di esperienza tra il Nord Africa e il Medio Oriente e, in particolare, in Libia dove è stata «incaricata d’affari» – potrebbe spingere verso la costituzione di un corpo militare scelto in cui inglobare anche le truppe speciali di Gheddafi, oggi disperse tra i numerosi gruppi armati; un’ipotesi, anche in questo caso, che potrebbe vedere avvantaggiata la fazione attorno al generale Haftar. Gli scontri a Tripoli due giorni dopo la chiusura della conferenza di Palermo non solo altro che la conferma di una situazione lontana dall’essere risolta.
All’opportunità rappresentata dalla conferenza sulla Libia, si somma il potenziale vantaggio economico: l’8 ottobre a Londra, l’Eni, la British Petroleum (BP) e la statale Libya’s National Oil Corporation (NOC), hanno siglato un accordo che ha consentito all’azienda italiana di acquisire una partecipazione del 42,5 percento delle licenze di esplorazione ed estrazione detenute dalla BP; una percentuale pari alla metà di quanto sinora detenuto da BP, in base all’accordo con la Libia firmato nel 2007, ma che non ha mai portato a un’effettiva attività di estrazione.
Ottimi risultati per l’ENI che ha iniziato la produzione dalla “Fase 2” del bacino di gas Bahr Essalam: dagli attuali 11milioni di mc/giorno ai previsti 31 milioni
L’Eni, con questa acquisizione, assumerà il ruolo di operatore dell’Exploration and Production Sharing Agreement (EPSA) in Libia, di cui il 15 percento rimane sotto il controllo della Libyan Investment Authority. L’EPSA comprende due aree terrestri nel bacino petrolifero di Ghadames e una marittima nel bacino di Sirte, per un totale di circa 54.000 chilometri quadrati. La ripresa dell’esplorazione, nel momento in cui verrà avviata, potrà contribuire a rilanciare la produzione di petrolio e gas della Libia, drasticamente diminuita negli anni successivi alla guerra civile iniziata nel 2011 (a fronte di 1,6 milioni di barili al giorno pre-2011, la produzione attuale non supera i 1,25 milioni di barili). L’Eni, che opera in Libia dal 1959, è attualmente attiva in sei aree e la sua produzione nel 2017 ha raggiunto 384.000 barili di petrolio al giorno.
Anche sul fronte del gas gli sviluppi sono positivi per l’Italia. All’inizio del 2018, l’Eni ha iniziato la produzione dalla “Fase 2” del bacino di gas Bahr Essalam, il più grande giacimento offshore di gas in Libia (a 120 km a nord-ovest di Tripoli), dove sette nuovi pozzi sono in fase di avviamento. La seconda fase aumenterà l’output estrattivo, portandolo dagli attuali 11milioni di mc/giorno ai previsti 31 milioni.
Non è inclusa nell’accordo la francese Total.
scarica l’intero contributo pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 1/2018
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