Radicalizzazione 2025: l’estremismo giovanile violento a dieci anni dalla tragedia del Bataclan
di Chiara Sulmoni, presidente di START InSight
Dieci anni dopo gli attacchi terroristici che
hanno colpito Parigi il 13 novembre 2015, di cui il Bataclan rappresenta la
triste memoria collettiva, l’Europa si trova a fare i conti con una
trasformazione profonda della minaccia radicale. Non si tratta più del
terrorismo organizzato e delle azioni coordinate dello Stato Islamico
dell’epoca, ma di una galassia di gesti, simboli e linguaggi violenti che
nascono ai margini della rete e coinvolgono un numero crescente di adolescenti.
Il Rapporto 2025 sulla sicurezza della Svizzera lo afferma con chiarezza: “i casi di minori e giovani adulti che si radicalizzano online e sviluppano intenzioni terroristiche continueranno ad aumentare”. Dall’Europa all’Australia, dagli Stati Uniti all’Asia, la radicalizzazione giovanile si manifesta come un’epidemia sociale che attraversa confini, culture e matrici ideologiche.
Nel Michigan e nel New Jersey, a novembre 2025, sono stati arrestati diversi adolescenti in contatto fra loro — inclusi dei minorenni e alcuni provenienti da contesti familiari privilegiati — accusati di pianificare un attacco terroristico in nome dell’ISIS durante il weekend di Halloween. Negli stessi giorni a Canberra (Australia), un diciassettenne è stato fermato e accusato di aver progettato attacchi ispirati a ideologie razziste ed estremiste: avrebbe dichiarato che questi piani gli davano uno scopo durante la depressione[1].
Il direttore dell’intelligence australiana ha parlato recentemente di una
deriva preoccupante: minorenni che condividono video di decapitazioni nel
cortile della scuola e un dodicenne che avrebbe manifestato l’intenzione di far
esplodere un luogo di culto. L’età media in cui i minori entrano per la prima
volta nel radar dei servizi di intelligence australiani è oggi di 15 anni.
Inoltre, ha sottolineato che, secondo le previsioni interne, nei prossimi
anni raggiungerà l’età più esposta alla radicalizzazione una generazione
cresciuta interamente online. Per molti di questi giovani, il mondo digitale
rappresenta ormai il principale riferimento per costruire la propria identità,
il senso di appartenenza e la percezione della realtà[2].
In Inghilterra e Galles, la fascia fra gli 11 e i 15 anni occupa il primo posto nelle segnalazioni per sospetta radicalizzazione. Il programma nazionale di prevenzione nel 2024 ha dovuto aggiornare le categorie in cui suddivide i casi, includendo voci come “fascinazione per la violenza estrema o per gli attacchi di massa” per descrivere moventi privi di motivazioni ideologiche ma caratterizzati da ossessione per la violenza.
La Francia registra 17 minori incriminati per reati collegati al terrorismo tra gennaio e novembre 2025[3], due dei quali avrebbero pianificato attacchi contro la Torre Eiffel e sinagoghe parigine. Tre giovani donne fra i 18 e i 21 anni, sono state fermate e accusate di preparare un attentato jihadista nella capitale. Di fronte a questa tendenza, all’inizio dell’anno la Procura nazionale antiterrorismo ha pensato ad istituire una sezione dedicata ai minori, per studiare e prevenire in modo più efficacie la radicalizzazione precoce[4].
Circa un terzo delle persone arrestate per
reati di terrorismo nell’Unione Europea nel 2024 aveva meno di 20 anni.
In Belgio, un terzo circa dei soggetti che negli ultimi tre anni hanno pianificato attacchi non aveva ancora raggiunto la maggiore età.
In Italia, nel luglio 2025, la Polizia di Stato ha eseguito ventidue perquisizioni nei confronti di adolescenti tra i 13 e i 17 anni legati a contesti estremisti di diversa matrice.
Nella Svizzera tedesca, nella primavera del 2025 sarebbe stato sventato un attentato di matrice islamista da parte di un 18enne[5]. Nel Canton Vaud, i casi di minori seguiti dall’unità di prevenzione delle radicalizzazioni -un servizio attivo dal 2018[6]-, costituiscono quasi la metà del totale, con bambini che sono rimasti coinvolti già a partire dai 10 anni. Per la metà, si tratta di ragazze[7]. Questa percentuale paritaria non è frequente.
Il servizio di mentoring del Canton Berna, nel 2024, ha accompagnato 12 persone radicalizzate, di età compresa tra 11 e 20 anni.[8] Lo scorso anno l’allora capo dell’intelligence aveva dichiarato che la svizzera è toccata dal fenomeno della radicalizzazione dei minori più di altri paesi europei. Nella Confederazione, lo jihadismo rimane in testa alle preoccupazioni.
La salute
mentale come nuova frontiera della sicurezza
Secondo Europol, la combinazione fra isolamento sociale, disagio psicologico e uso intensivo delle tecnologie digitali costituisce oggi il terreno più fertile per la radicalizzazione precoce. La salute mentale, in questo contesto, non è un tema secondario: ansia, depressione, solitudine e senso di inutilità rappresentano oggi fattori chiave che possono spingere i giovani verso narrative polarizzanti e totalizzanti.
Come ricorda Clare Allely nel suo libro The Psychology of Extreme Violence, “la violenza nasce spesso dal tentativo dell’individuo di recuperare un senso di valore o significato personale perduto o minacciato”. La radicalizzazione, allora, non è solo una questione di ideologia, ma un meccanismo di compensazione.
Alcune ricerche e dati statistici evidenziano che nei processi di radicalizzazione individuale, in particolare tra adolescenti, possono essere presenti condizioni neurodivergenti (come i disturbi dello spettro autistico) o difficoltà di regolazione emotiva e sociale. Non si tratta di una relazione causale, ma di una vulnerabilità specifica: chi fatica a decodificare norme sociali o emozioni altrui può essere più esposto a comunità online che offrono identità rigide, appartenenza immediata e linguaggi semplificati.
Per tutti questi motivi, da tempo ormai si parla della necessità di un approccio di salute pubblica alla prevenzione della radicalizzazione: non più solo sicurezza e intelligence, ma benessere mentale, sostegno psicologico e resilienza comunitaria.
L’ecosistema
digitale come “camera dell’identità”
L’estremismo contemporaneo è autonomo e reticolare. Non risponde più a una leadership gerarchica, ma vive in una rete di simboli e riferimenti che mutano in continuazione. La propaganda si diffonde attraverso linguaggi emotivi e visivi — meme, video brevi, canzoni, influencer — in grado di catturare bisogni identitari e compensare la mancanza di riconoscimento nella vita reale.
Le piattaforme digitali diventano spazi di appartenenza emotiva, dove la socializzazione avviene in modo nuovo e frammentato. Qui la radicalizzazione non si costruisce più solo attraverso legami ideologici tradizionali, ma tramite interazioni online, imitazione di modelli violenti e partecipazione a comunità che mescolano jihadismo, suprematismo, incel (i cosiddetti celibi involontari, una sottocultura digitale con un proprio linguaggio e vari gradi di misoginia), complottismi e derive esoteriche. Questa ibridazione di ideologie fluide sostituisce spesso la religione o la politica con la promessa di significato personale, mentre i giovani osservano attentatori precedenti, come esempi da cui trarre insegnamenti.
In questo ecosistema, chi compie atti di violenza può quindi diventare fonte d’ispirazione per altri: come Brenton Tarrant, che nel 2019 a Christchurch uccise oltre 50 persone in due moschee; oppure Elliott Rodger, che nel 2014 in California, a 22 anni, realizzò una strage ispirata a ideologie misogine e oggi è idolatrato da comunità incel violente; fino al quindicenne svizzero autore dell’accoltellamento di un ebreo ortodosso a Zurigo il 2 marzo del 2024, il cui gesto è stato celebrato dai sostenitori dello Stato Islamico. Pochi giorni dopo l’evento, il Counter Extremism Project individuò sei profili su TikTok che esaltavano l’azione dello jihadista svizzero[9].
T-shirt con l’iconografia di Luigi Mangione in vendita su una piattaforma d’acquisti
O ancora, Luigi Mangione, il giovane che nel
2024 uccise a New York un dirigente della compagnia assicurativa sanitaria
United Healthcare, e che oggi per parte della generazione Z americana è
diventato un’icona pop ribattezzata “San Luigi”. La violenza viene
reinterpretata come atto di giustizia alternativa, risposta alla frustrazione
collettiva e alla perdita di fiducia nelle istituzioni.
L’atto estremo funziona come uno “schermo” si
cui proiettare rabbia e impotenza.
Il ricercatore John
Richardson, autore di Luigi: The Making and Meaning, citato dal New York
Post: “Cercare di individuare il movente di Luigi è fuorviante. Ciò che conta è la sua elusività. Per un numero crescente di giovani che vibrano di ansie esistenziali, è diventato uno schermo su cui proiettano le proprie paure e i propri sogni”.
Emblematico è anche il caso di Axel Rudakubana, il diciassettenne (autistico) che nel 2024 a Southport, in Gran Bretagna, accoltellò e uccise tre bambine in una scuola di danza. Il ragazzo non agiva in nome di un’ideologia, ma di un malessere personale. Il caso di due adolescenti britannici arrestati nei mesi successivi e sospettati di volerlo emulare, conferma come oggi la violenza si diffonda anche per imitazione, ispirazione o ricerca di visibilità.
Va sottolineato che gli attacchi effettivamente portati a termine restano prevalentemente opera di adulti. Secondo il database di START InSight, che monitora i profili degli jihadisti entrati in azione in Europa, l’età mediana degli autori degli attacchi tra il 2014 e il 2023 è di 26 anni, con fluttuazioni nel tempo: 24 anni nel 2016, 30 anni nel 2019, e 28,5 anni nel 2023.
Tuttavia, “ “Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, uno studio pubblicato dall’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) del King’s College di Londra, che ha preso in esame le attività di 43 minorenni condannati per reati collegati al terrorismo, sempre in Inghilterra e Galles, dal 2016 al 2023 (13), invita a non sottovalutare il ruolo dei ragazzi; sebbene nel periodo preso in considerazione nessun bambino sia riuscito a commettere un attentato e il reato più comune sia consistito nel possesso di materiale estremista, dalla ricerca emerge come un terzo sia stato condannato per la preparazione di atti di terrorismo, e come i ragazzi abbiano agito da “amplificatori” e “innovatori”, in grado di produrre materiali di propaganda, di reclutare altri e di pianificare attacchi. A fare deragliare i loro piani, potrebbero essere stati fattori legati all’età, come l’ingenuità e l’incapacità organizzativa.” (Estratto da Estremismo giovane, autonomo ed emancipato, in: Rapporto ReaCT2024)
Conclusione
A dieci anni dagli attentati del Bataclan, la radicalizzazione giovanile non si limita a rappresentare una minaccia ideologica: riflette una profonda crisi esistenziale. Solitudine, perdita di fiducia nelle istituzioni e percezione di un futuro chiuso alimentano un vuoto di senso, appartenenza e riconoscimento, che l’estremismo riesce a occupare. Investire in salute mentale, educazione relazionale e comunità vive non è solo un bene sociale, ma un elemento di sicurezza nazionale. Prevenire il radicalismo significa ricostruire legami, dare voce ai giovani e offrire prospettive concrete, restituendo loro la possibilità di sentirsi parte di qualcosa che meriti di essere costruito.
Sei linee
di intervento
1️⃣ Ridefinire i criteri di rischio Andare oltre le tradizionali etichette ideologiche e considerare segnali di fragilità psicologica: isolamento, attrazione per la violenza, imitazione di gesti estremi e ossessione per figure violente o “giustizialiste”.
2️⃣ Formazione multidisciplinare Educatori (scuola, associazioni giovanili), psicologi, operatori sociali e forze dell’ordine devono condividere linguaggi, strumenti e protocolli comuni.
3️⃣ Intervento precoce e
coordinato
Ogni segnalazione deve tradursi in un percorso di supporto, anche in assenza di
elementi ideologici espliciti.
4️⃣ Comunicazione e
contro-narrative credibili
Valorizzare il pensiero critico e proporre modelli simbolici alternativi e
positivi.
5️⃣ Ricerca e monitoraggio
continuo
Investire in studi interdisciplinari e nel monitoraggio delle piattaforme
digitali emergenti, per intercettare segnali di “fissazioni violente” prima che
degenerino in atti concreti.
6️⃣ Ruolo di educatori e genitori Agire prima che compaiano segnali d’allarme, formando e sensibilizzando insegnanti e famiglie su manifestazioni di rischio, fattori di protezione e canali di aiuto. La prevenzione efficace è sempre multidisciplinare, territoriale e in rete.
Dieci anni ci separano dal più grande attentato terroristico in Europa. L’attacco al “Bataclan” rappresenta infatti un evento eccezionale in termini di impatto emotivo, mediatico e operativo. Al tempo stesso quel terribile evento dimostra come un’azione a basso costo in termini di realizzazione possa ottenere un risultato dalle drammatiche conseguenze sul piano operativo e strategico. In particolare l’utilizzo all’interno della realtà europea, delle sue città, contro i suoi cittadini, di tecniche, tattiche e procedure militari acquisite dai terroristi jihadisti sui campi di battaglia mediorientali – in particolare la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan – ha dimostrato di saper mettere in crisi la sicurezza interna degli stati europei.
Oggi, a dieci anni da
quell’evento straordinario, riproponiamo la lettura analitica su quanto accadde
nella drammatica notte del 13 novembre 2015, e nei giorni successivi.
Dall’articolo originale del 18 novembre 2015: C. Bertolotti,
Commando suicidi’: dopo gli attacchi di
Parigi, l’Italia è a rischio? Analisi della minaccia del ‘Nuovo
Terrorismo Insurrezionale’, Speciale
terrorismo, in Osservatorio
Strategico 2015 – Edizione Speciale, CeMiSS, CASD 2016.
Cosa accadde
in quei giorni di dieci anni fa? L’arco operativo degli attentati di Parigi si
articolò in più fasi, distribuite su un periodo di cinque giorni, tra il 13 e
il 18 novembre; un’operazione pianificata con logica militare, caratterizzata
da un’elevata coordinazione e da una precisa volontà strategica: colpire il
cuore simbolico e politico dell’Europa.
La sera del 13 novembre, a
partire dalle 21:16, prese avvio
una sequenza di attacchi simultanei
che investì tre aree della capitale francese: lo Stade de France, alcuni bistrot
e ristoranti nei quartieri orientali e, infine, il teatro Bataclan. In meno di tre ore,
tra le 21:16 e le 00:20, le cellule jihadiste misero in atto un’azione
coordinata e ad altissima letalità, colpendo
obiettivi civili, simbolici e mediaticamente sensibili. Il bilancio fu
devastante: 130 vittime, oltre 350 feriti e un’intera città
paralizzata dal terrore.
Il giorno successivo, 14 novembre,
lo Stato francese reagì con una misura d’emergenza senza precedenti dalla
Seconda guerra mondiale. Fu dichiarato lo stato d’emergenza nazionale, vennero sospese alcune garanzie
costituzionali e si avviò una vasta operazione
di intelligence e controterrorismo mirata all’identificazione dei
responsabili, dei fiancheggiatori e della rete logistica che aveva consentito
la pianificazione dell’attacco.
L’epilogo giunse all’alba del 18
novembre, quando le forze speciali francesi (RAID e BRI) circondarono un
edificio nel quartiere di Saint-Denis,
dove si nascondeva Abdelhamid Abaaoud,
considerato il cervello operativo dell’attentato. Dopo un prolungato scontro a
fuoco, Abaaoud e due suoi complici vennero uccisi. L’operazione segnò la
conclusione della fase operativa del più grave attentato jihadista mai compiuto
in Francia.
Dall’articolo
originale del 18 novembre 2015: C. Bertolotti, Commando suicidi’: dopo gli attacchi di Parigi, l’Italia è a rischio? Analisi
della minaccia del ‘Nuovo Terrorismo Insurrezionale’, Speciale terrorismo, in Osservatorio Strategico 2015 – Edizione
Speciale, CeMiSS, CASD 2016.
Introduzione
A meno di un anno di distanza dal terribile attacco a
Charlie Hebdo, il 7 gennaio 2015, il terrore ha investito nuovamente il cuore
dell’Europa attraverso una serie di azioni spettacolari.
E proprio l’attacco alla Francia del 13 novembre 2015,
proseguito con i violenti
scontri del giorno 18 nel quartiere di Saint Denis, – spartiacque sostanziale
nell’evoluzione del fenomeno terroristico contemporaneo –
evidenzia come il fondamentalismo jihadista, che si diffonde dal Medio Oriente,
attraverso il Nord Africa, fino ad arrivare a colpire il cuore della Europa,
sia una minaccia concreta e crescente: una minaccia che è conseguenza
dell’avanzata neo-jihadista del gruppo Stato
islamico (IS/Daesh) in combinazione con le dinamiche conflittuali locali
(interne all’area MENA) e con il disagio sociale di una parte della comunità musulmana,
sia dell’area MENA (in particolare Tunisia, Libia, area del Syraq) sia europea,
quest’ultima spesso di
seconda, o terza, generazione.
Un’imposizione di violenza che, con i suoi 130 morti, 350
feriti – almeno cento in modo grave –, e 11 jihadisti caduti nei due giorni di
combattimento a Parigi (13 e 18 novembre), ha portato a compimento con successo
una serie di
operazioni coordinate e simultanee. Ciò che è avvenuto è stato un classico esempio
di trasferimento di capacità tattica da un teatro operativo a un altro.
Ma a differenza del passato, dove le tecniche, tattiche e
procedure venivano trasferite dall’Iraq all’Afghanistan, alla Siria, o alla
Libia, oggi l’evoluzione di una tecnica di combattimento maturata e collaudata
nell’area del Grande-Medioriente – dal sub-continente indiano al Maghreb – si è
imposta in Francia,
uno Stato europeo, e potrà verosimilmente espandersi ad altri stati
dell’Unione,
e l’Italia rappresenta un obiettivo significativo sul cui territorio vi sono molteplici
target di alto valore (HVT – High Value Target),
materiale e
simbolico.
È la tecnica del ‘commando suicida’, largamente
utilizzata e affinata, che ha
fatto la sua comparsa per la prima volta nel 2008.
Oggi, esportando questa tecnica, il gruppo Stato islamico ha dimostrato di essere
in grado, direttamente o indirettamente – di minacciare realmente l’Europa e i
suoi cittadini.
E lo ha fatto dimostrando di disporre di ‘combattenti’ in
grado di costituire nuclei di individui determinati, con adeguato livello di
addestramento e Commando suicidi’: coordinamento e con buona capacità operativa
in un contesto urbano; il livello delle capacità logistiche e intelligence è
valutato come adeguato, per quanto minimale. Si tratta di capacità procedurali
già applicate in Afghanistan, prima,
e nei teatri operativi del Syraq (Siria e Iraq) e della Libia, più
recentemente.
1. La dinamica dell’attacco
Un attacco senza precedenti è stato portato, quello del
13 novembre, a cui ha fatto seguito, il successivo 18 novembre, la reazione al
blitz delle forze di sicurezza francesi nel quartiere Saint Denis.
Giorno 13 novembre
Un commando di attaccanti suicidi ha colpito sei volte in
meno di mezz’ora. Un’azione propriamente militare sviluppatasi, per la prima
volta in Europa, attraverso la tecnica del ‘commando suicida’.
7 gli attaccanti suicidi, affiancati da elementi di
supporto al combattimento, equipaggiati con armi da guerra (AK47 e fucili shotgun a pompa), bombe a mano e giubbotti
esplosivi individuali.
– Obiettivo ‘uno’:
Stade de France’ porta ‘B’, colpito alle 21.20 da un attaccante suicida fermato
mentre tentava di accedere allo stadio (con regolare biglietto acquistato);
riconosciuto si è dato alla fuga facendosi esplodere e
provocando la morte di un passante. Un secondo attaccante suicida si è fatto esplodere
alla porta ‘H’, senza provocare ulteriori vittime.
Nel complesso, le azioni sono state due, entrambe
all’esterno della struttura; di queste una in fase di penetrazione (sventata
dal sistema di sicurezza).
– Obiettivo ‘due’:
locali pubblici (ristoranti e bistrot) collocati all’interno del XII
arrondissement. La tecnica è quella del fuoco di saturazione contro i ristoranti
Carillon e Petit Cambodge, dove sono state uccise complessivamente 15 persone
(altre 10 gravemente ferite); segue un altro attacco con fuoco di saturazione
al locale Bonne Biere (19 vittime) e poi un’altra azione viene portata a
compimento da un attaccante suicida in boulevard Voltaire.
– Obiettivo ‘tre’:
teatro-sala concerti ‘Bataclan’, dove il commando principale (composto da 4
attaccanti) ha fatto irruzione nel locale sparando sulla folla e tenuto la
posizione per circa tre ore provocando 89 morti. L’azione si è conclusa con la
morte (autoindotta per esplosione) di tre attaccanti e l’uccisione di uno di
questi da parte delle forze di sicurezza.
Giorno 18 novembre
Quartiere di Saint Denis, nel corso di un blitz da parte
delle forze di sicurezza francesi finalizzato alla neutralizzazione/cattura degli
altri elementi componenti il gruppo di terroristi,
– un uomo si è fatto esplodere attaccando le forze di
sicurezza;
– gli altri elementi del nucleo hanno opposto resistenza
cercando di contrastare il blitz dall’interno di un appartamento condominiale,
provocando il ferimento di 5 elementi della squadra d’intervento.
Equipaggiamentoutilizzato:
– armi individuali: fucili d’assalto AK47, fucili a pompa
tipo;
– giubbotti esplosivi: tritolo rafforzato da perossido di
idrogeno con chiodi e bulloni per creare l’effetto shrapnel;
– veicoli: due auto noleggiate (Seat ‘Leon’ colore nero,
e Volkswagen ‘Polo’).
La
natura degli obiettivi colpiti
Si tratta di obiettivi dal forte impatto emotivo e
simbolico poiché rappresentano i simboli quotidiani della società occidentale:
stadio, teatro, ristoranti.
– L’obiettivo ‘uno’ è tecnicamente un hard-target, con un medio livello di sicurezza,
ad elevata concentrazione di popolazione – tra queste il presidente Francois
Hollande. L’obiettivo presunto era il pubblico presente alla
manifestazione sportiva che avrebbe dovuto, nei piani dell’organizzazione, essere
coinvolto sfruttando gli effetti del panico generale, prevedendone una fuga di massa che avrebbe provocato ancora
più vittime dello stesso attacco.
– Gli obiettivi ‘due’ e ‘tre’ (locali XII arrondissement
e teatro ‘Bataclan’) sono di tipo soft target, caratterizzati da un basso
livello di sicurezza e alta concentrazione di popolazione.
Tutti gli obiettivi sono di natura puntiforme,
distanziati sul piano spaziale al fine di imporre la dispersione sul terreno
delle forze di sicurezza, un aumento delle unità impiegate, di quelle di pronto
impiego e riserva.
Il risultato, a fronte di un costo ridotto per la condotta
degli attacchi, è stata l’imposizione di significativi costi, in termini di
risorse materiali e umane, sforzi logistico-operativi, difficoltà di coordinamento,
ritardo nell’intervento da parte dell’apparato di sicurezza francese.
2.
Tattica, tecnica e procedura
La tattica utilizzata è il raid condotto da ‘commando
suicidi’ affiancati da elementi di supporto operativo convenzionale (tiratori
dotati di armi automatiche individuali) attraverso fasi successive. Le tre
singole azioni prese
in esame sono vere e proprie operazioni militari, in cui agli equipaggiamenti esplosivi
dei combattenti-suicidi si aggiungono le armi leggere e di sostegno dei nuclei
combattenti. In particolare, per l’obiettivo ‘tre’, le fasi operative si sono
così succedute: movimento verso l’obiettivo, penetrazione, uccisione indiscriminata,
ricerca del panico, ostaggi, uccisione selettiva, conclusione con la morte
autoindotta degli attaccanti (giubbotti esplosivi).
Ha fatto la sua comparsa, dunque anche in Europa, la
tecnica di attacco delle unità commando composte da più combattenti-suicidi
affiancati e sostenuti da elementi operativi. Una tecnica che ha dato prova di
efficacia in Afghanistan e successivamente anche nel teatro operativo del
Syraq. Il primo episodio di questo tipo ad aver ottenuto un’attenzione
mediatica globale è quello di Mumbai nel novembre del 2008.
Inoltre, nella sua variante europea, si è manifestato
come azione inserita in un contesto esclusivamente urbano, e per questo ascrivibile
ad operazione dello urban warfare
contemporaneo: l’evoluzione del combattimento nei centri abitati, difficile da
contrastare, a rischio coinvolgimento di attori non-combattenti (popolazione
civile), caratterizzato dall’imprevedibilità della minaccia e dall’elevato
numero di target potenziali.
Si tratta di una tattica efficace – frutto della commistione
dei due metodi classici veicolo-bomba[1] e uomo-bomba[2] uniti alla tecnica
dell’assalto armato convenzionale – basata sul coordinamento di uno o più
combattenti-suicidi
(spesso divisi in sotto-unità o scaglioni) sostenuti da nuclei di «sicurezza vicina»
e finalizzata alla massimizzazione dell’opera di distruzione in funzione della
penetrazione delle linee difensive e a sostegno dell’attacco suicida principale.
Una tecnica che si è sviluppata e affinata attraverso il tempo grazie alla
capacità di information-sharing tra i
gruppi di opposizione armata e l’influenza diretta del conflitto iracheno; tecnica
utilizzata ed evolutasi nel conflitto del Kashmir e applicata da quei gruppi
insurrezionali kashmiri e pakistani, in primis il Lashkar-e-Taiba.
Questa tipologia di azione ottiene il risultato di un
elevato numero di vittime provocate per singolo attacco, maggiore che non per
le azioni condotte da singoli attaccanti, e maggiore attenzione mediatica.
E Parigi – come altre capitali o principali città europee
– rappresenta un importante obiettivo, strategico e simbolico al tempo stesso;
qui, le opportunità di colpire obiettivi di alto profilo sono elevate e
garantiscono proprio quella eco mediatica amplificata che viene ricercata dai
gruppi di opposizione armata: è l’opportunità a dettare la scelta per la
condotta dei cosiddetti «attacchi spettacolari», al fine di spettacolarizzare
la violenza.
Il successo del terrorismo è a livello operativo.
Come abbiamo avuto modo di evidenziare in #ReaCT2024 – 5°
Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa, anche quando un attacco
terroristico non riesce, produce comunque un risultato significativo: impegna
pesantemente le forze armate e di polizia, distraendole dalle loro normali
attività o impedendo loro di intervenire a favore della collettività. Inoltre,
può interrompere o sovraccaricare i servizi sanitari, limitare, rallentare,
deviare o fermare la mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il regolare
svolgimento delle attività quotidiane, commerciali e professionali,
danneggiando le comunità colpite. Questo riduce efficacemente il vantaggio
tecnologico e il potenziale operativo, nonché la capacità di resilienza. In
generale, infligge danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità
di provocare vittime. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato
misurabile ottenuto attraverso queste azioni.
In sostanza, il successo del terrorismo, anche senza causare vittime, risiede nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionare i comportamenti nel tempo in relazione alle misure di sicurezza o limitazioni imposte dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza. Questo fenomeno è noto come “blocco funzionale”. Nonostante la capacità operativa del terrorismo sia sempre più ridotta, il “blocco funzionale” rimane uno dei risultati più importanti ottenuti dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace nel conseguire il “blocco funzionale” nell’80% dei casi, con un picco del 92% nel 2020 e dell’89% nel 2021. Questo risultato impressionante, ottenuto con risorse limitate, conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo, pur a fronte di una rilevata perdita progressiva di capacità che ha visto diminuire l’ottenimento del “blocco funzionale”, sceso al 78% nel 2022 e al 67% nel 2023.
Il terrorismo jihadista si impone come una minaccia ideologica diffusa, collegata alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa, ma con una crescente componente di immigrati di prima generazione, spesso giunti in Europa da poco tempo. E parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto; con ciò invitando a un cambio di paradigma nella stessa definizione di terrorismo: non più un’azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque nelle intenzioni; bensì intesa come l’effetto della violenza applicata. È così il terrorismo diviene manifestazione di violenza, priva di un’organizzazione alle spalle: è terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.
All’interno della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di lotta, e lo fa con diversi gradi e modelli di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan, in Iraq.
Italia: il Documento Programmatico della Difesa (2025-2027)
Orientamenti strategici e sfide per la sicurezza nazionale
di Andrea Molle
Il Documento
Programmatico Pluriennale della Difesa 2025–2027 si colloca in una fase di
transizione geopolitica e strategica di grande complessità per l’Italia e per
l’Europa. Dopo il consolidamento della postura NATO in Europa orientale e la
crescente instabilità in Africa e nel Mediterraneo allargato, la Difesa italiana
punta a un rafforzamento complessivo della propria capacità di deterrenza,
interoperabilità e resilienza. Il DPP 2025 non introduce discontinuità rispetto
agli anni precedenti, ma consolida una traiettoria già avviata: una
modernizzazione graduale, tecnologicamente avanzata e sempre più interconnessa
con l’industria nazionale della difesa.
Il documento
insiste sulla necessità di mantenere una proiezione credibile e autonoma
nel quadro europeo, pur riconoscendo la centralità del legame atlantico.
L’obiettivo è duplice: rafforzare la partecipazione italiana ai programmi di
difesa comuni UE (come l’EDF e il PESCO) e, al tempo stesso, garantire la
coerenza con le esigenze operative NATO. Questa duplice appartenenza implica un
aumento della spesa in conto capitale — non tanto in nuovi fondi, quanto nella
stabilizzazione di quelli già approvati — destinata a piattaforme ad alta
tecnologia, capacità cyber e spaziali, e infrastrutture di comando e controllo
integrate.
Sotto il profilo
economico, il DPP conferma un bilancio della Difesa che nel 2025 supera i 31
miliardi di euro, con una ripartizione che tende a privilegiare
investimenti piuttosto che spese correnti. Tuttavia, dietro questo apparente
consolidamento si cela una tensione tra necessità di sostenibilità
finanziaria e ambizione strategica: la crescita della spesa militare
resta ancorata a vincoli di bilancio complessivi, e gran parte dei programmi
dipende dal mantenimento dei fondi già autorizzati dal Parlamento. La
prospettiva di raggiungere il 5% del PIL richiesto dalla NATO è evocata come
obiettivo politico, ma appare ancora più una traiettoria che un traguardo
immediato.
L’accento sulla trasformazione
digitale è un tratto distintivo del documento. Le Forze Armate vengono
descritte come attori in un processo di “digitalizzazione operativa”, che
comprende l’adozione di sistemi C4ISR avanzati, capacità di difesa cibernetica
e integrazione dei domini spaziale e marittimo. In questo senso, il DPP
prosegue nel solco dell’“integrazione multidominio”, non solo tecnologica ma
anche concettuale: il futuro della difesa italiana passa per la capacità di
agire simultaneamente su più teatri — terrestre, navale, aereo, cibernetico,
cognitivo e spaziale — con coerenza dottrinale.
Sul piano
politico, il DPP 2025 mostra un forte allineamento con la strategia del governo
nel Mediterraneo e in Africa. L’Italia intende rafforzare la sua presenza
militare e diplomatica nel “Mediterraneo allargato”, da Gibilterra al Mar
Rosso, quale area vitale per la sicurezza energetica, le rotte commerciali e la
stabilità regionale. Le missioni in Libano, Iraq, Sahel e Corno d’Africa sono
confermate, ma con un progressivo riequilibrio in funzione della disponibilità
di forze e risorse.
Non mancano però
le ambiguità. Diverse analisi sottolineano che il DPP 2025 risulta meno
trasparente dei precedenti: fornisce meno dettagli sulle allocazioni specifiche
e riduce la granularità informativa sui singoli programmi d’armamento. Questa
scelta, interpretata da alcuni come volontà di semplificare la comunicazione
pubblica, è letta da altri come un passo indietro nella rendicontazione
democratica della spesa militare.
L’Allegato
tecnico, parte integrante del DPP, completa il quadro offrendo una
mappatura dei programmi in corso e futuri. Vi si trovano i piani di sviluppo
per l’Esercito (nuovi veicoli da combattimento e capacità anti-drone), la
Marina (modernizzazione delle FREMM, sottomarini U212NFS, nuovi pattugliatori e
unità anfibie) e l’Aeronautica (potenziamento della componente F-35, droni MALE
e capacità di difesa aerea). A questi si aggiungono i programmi spaziali, in
particolare per la sorveglianza e il posizionamento satellitare, ambiti in cui
l’Italia mira a consolidare un’autonomia strategica parziale ma significativa.
In termini di
filosofia generale, il DPP 2025 conferma la tendenza della Difesa italiana a
considerarsi non solo strumento militare ma infrastruttura nazionale di
sicurezza integrata, in grado di operare anche in ambiti civili (protezione
civile, sanità, emergenze ambientali). Questa impostazione “dual use” risponde
sia a esigenze di efficienza interna sia al tentativo di accrescere il consenso
sociale verso la spesa militare, legittimandola come investimento per la
collettività.
Nel complesso, il
DPP 2025–2027 rappresenta dunque un documento di continuità e consolidamento,
più che di rottura. Ambizioso nelle intenzioni, prudente nelle allocazioni, e
orientato a mantenere l’Italia nel gruppo di testa europeo in termini di
capacità tecnologiche e industriali della difesa. Resta aperta, tuttavia, la
questione della trasparenza e del controllo democratico su una spesa che si
muove ormai verso livelli strutturalmente elevati, e la cui giustificazione
dipende sempre più da una narrativa di “emergenza permanente” nel contesto
internazionale.
Il DPP
2025–2027 conferma dunque la tendenza della politica della difesa italiana
a essere al tempo stesso reattiva e conservatrice piuttosto che pienamente
strategica. È reattiva perché si adatta alle nuove minacce — guerra ibrida,
cyber-attacchi, competizione nello spazio e nei mari — ma è conservatrice nella
struttura decisionale e nei meccanismi di allocazione delle risorse. La
pianificazione resta in larga misura incrementale, cioè basata
sull’aggiustamento di programmi pluriennali già avviati più che su una
ridefinizione strategica delle priorità. In questo senso, il DPP 2025 è più un
documento di gestione che di visione.
Dal punto di
vista strategico, la Difesa italiana continua invece a muoversi su un
doppio binario: da un lato la piena integrazione nella NATO e nel suo
dispositivo orientato alla deterrenza convenzionale verso la Russia;
dall’altro, la volontà di preservare una specificità mediterranea che
consenta all’Italia di restare un attore di primo piano nel Nord Africa e nel
Medio Oriente. Questa duplice direttrice produce talvolta un effetto di
dispersione: le forze e i bilanci vengono divisi tra teatri lontani e missioni
di natura diversa (proiezione, stabilizzazione, deterrenza, sostegno civile).
Il risultato è una postura globale coerente ma non sempre efficace in termini
di concentrazione dello sforzo.
Dal punto di
vista industriale, il DPP prosegue nella strategia di integrazione tra
sistema militare e sistema produttivo nazionale. Il complesso della difesa
viene descritto come un “ecosistema tecnologico” in cui le grandi imprese
(Leonardo, Fincantieri, MBDA, Iveco Defence) assumono un ruolo di cerniera tra
capacità operative e innovazione industriale. Questa scelta è coerente con la
logica europea dell’EDF e della PESCO, ma comporta un rischio crescente di dipendenza
politica dalle esigenze di mantenimento delle filiere e dei distretti
industriali, più che dalle reali priorità strategiche. In altre parole, la
pianificazione rischia di essere guidata dalla “logica dell’offerta”
industriale piuttosto che da una domanda operativa chiara.
Un secondo
elemento critico, che emerge in filigrana nel DPP 2025–2027, riguarda la
persistente assenza di un paradigma di “difesa totale” o di sicurezza
nazionale integrata, sul modello nordico. Nonostante la crescente
consapevolezza delle minacce ibride — cyber, infrastrutturali, cognitive e
sociali — il documento continua a leggere la resilienza quasi esclusivamente in
chiave militare o tecnico-istituzionale, trascurando la dimensione sociale e
civile della difesa. In altri termini, manca una visione che concepisca il
cittadino, l’impresa e il territorio come parte attiva del sistema di sicurezza
nazionale. In questo senso, gli investimenti restano concentrati sullo
strumento militare e sulla sua proiezione esterna, ma poco si fa per costruire
una resilienza diffusa, capace di rendere la società italiana meno
vulnerabile alle crisi energetiche, informative e logistiche. Il riferimento al
modello “total defense” — che in Paesi come Svezia, Finlandia o Norvegia
integra difesa, protezione civile, comunicazione strategica e formazione civica
— evidenzia quanto l’Italia sia ancora ancorata a una concezione verticale
della sicurezza, affidata allo Stato più che condivisa con la società. Il
rischio è quello di un sistema di difesa moderno, dual use, ma isolato dal
suo tessuto civile, incapace di trasformare la sicurezza in una cultura
collettiva.
Un terzo elemento
critico riguarda la trasparenza e la legittimazione democratica.
Rispetto ai DPP precedenti, quello del 2025 riduce il livello di dettaglio
pubblico sulle spese e sui singoli programmi, rendendo più difficile un
controllo parlamentare e civico. Ciò potrebbe derivare da ragioni tecniche — la
semplificazione della comunicazione — ma sul piano politico è sintomo di un
trend più generale: la normalizzazione di un livello di spesa elevato,
giustificato dal contesto geopolitico, ma sottratto in parte al dibattito
pubblico o da una strategia di resilienza diffusa. La difesa tende così a
diventare un “ambito protetto” del bilancio, in cui il consenso viene costruito
più attraverso la retorica della sicurezza che attraverso la verifica dei
risultati.
Sotto il profilo europeo,
il DPP 2025 riflette un tentativo di allineamento con il paradigma emergente
del “re-armamento europeo” (ReArm Europe), ma resta timido nel promuovere una
vera integrazione industriale o operativa. L’Italia si presenta come un
contributore affidabile ma non come un leader concettuale: segue la traiettoria
franco-tedesca, adattandola ai propri interessi nel Mediterraneo e nel settore
navale-aerospaziale.
Nel complesso, il
documento esprime un equilibrio pragmatico: un compromesso fra vincoli di
bilancio, esigenze di interoperabilità e aspirazioni di autonomia strategica.
Tuttavia, l’impressione generale è che manchi una visione coerente del ruolo
dell’Italia nel sistema internazionale della sicurezza. L’aumento della
spesa, la digitalizzazione e la cooperazione industriale sono strumenti, non
fini: e il DPP 2025, pur ben strutturato tecnicamente, non articola in modo
convincente quale debba essere il fine politico — se deterrenza, stabilità
regionale, proiezione globale o solo continuità istituzionale.
In questo senso, il DPP 2025–2027 è un documento necessario, ma non ancora sufficiente. Segna il consolidamento di una politica di difesa moderna, tecnologicamente avanzata e integrata con l’Europa, ma lascia aperta la domanda più profonda: quale modello di potenza l’Italia intende essere nel mondo che si prepara alla competizione permanente tra grandi attori?
Il nuovo asse europeo della difesa e il posto dell’Italia
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
Nell’Europa del 2025, la
difesa torna al centro della politica. La firma del primo patto bilaterale tra
Germania e Regno Unito dalla fine della Seconda guerra mondiale segna una
svolta storica e simbolica. È un accordo articolato, con 17 progetti congiunti
che spaziano dal rafforzamento della deterrenza sul fianco orientale della NATO
allo sviluppo congiunto di capacità ad alta tecnologia, tra cui missili a lungo
raggio e sistemi subacquei avanzati. Ma dietro la notizia si cela una
trasformazione ben più ampia: l’evoluzione dell’architettura della sicurezza
europea, che vede emergere un nuovo triangolo strategico – Londra, Berlino,
Parigi – e chiede con urgenza a Roma di decidere se vuole restare alla
periferia o sedersi al tavolo dove si disegna il futuro della sicurezza
continentale.
È chiaro intanto che il
nuovo patto anglo-tedesco non cancella l’asse franco-tedesco, né tanto meno lo
rimpiazza. Al contrario, ne allarga i confini operativi e lo rafforza in chiave
trilaterale, grazie anche alla continuità garantita dalle cooperazioni
precedenti tra Regno Unito, Francia e Germania all’interno del formato E3. Il
trattato siglato nel 2024 tra Parigi e Londra, con cui il Regno Unito ha esteso
un ombrello nucleare europeo condiviso, ne è stato il primo segnale. La
Germania, con questo nuovo passo, si rende protagonista di una strategia di
alleanze multiple che punta a integrare la deterrenza NATO, sfruttando le
capacità britanniche, la visione strategica francese e la propria potenza
industriale.
A margine, ma si spera in
modo sempre più visibile, si muove l’Italia. Pur ancora lontana dal target NATO
del 5% del PIL in spesa militare – e con una discussione interna dominata da
timori fiscali e disattenzione strategica – Roma ha iniziato a riallacciare i
fili con ciascuno dei grandi partner europei. Con il Regno Unito è attiva da
anni una collaborazione sulla sicurezza, rafforzata da esercitazioni congiunte
e da una convergenza sulla lotta alla migrazione illegale e al traffico di
esseri umani. Con la Germania l’intesa industriale si è consolidata attraverso
Leonardo e Rheinmetall, in progetti comuni che riguardano la difesa antiaerea e
la logistica militare. Il rapporto con la Francia è più profondo e strutturato,
ma anche molto più difficile essendo caratterizzata da una competizione diretta
in molti teatri e domini strategici. Oltre alla cooperazione industriale su
piattaforme navali (come il programma Fincantieri–Naval Group), esiste però una
convergenza politica sulla necessità di un “pilastro europeo” nella NATO e sul
rilancio della difesa comune.
Il vero nodo, però, è
strutturale. L’Unione Europea ha lanciato il programma ReArm Europe –
ribattezzato Readiness 2030 – che prevede uno stanziamento di oltre 800
miliardi di euro per rafforzare l’autonomia strategica dell’Europa, includendo
anche un fondo militare da 150 miliardi destinato all’industria della difesa. A
questa iniziativa si affianca un nuovo quadro finanziario pluriennale, già
approvato, che apre la strada a deroghe fiscali per la spesa militare, consentendo
(o forse meglio dire costringendo) agli Stati di indebitarsi per rafforzare la
propria sicurezza senza infrangere le regole di bilancio.
Su questo tema, l’Italia
sembra muoversi con cautela, se non con vera e propria esitazione. Il governo
ha espresso formalmente l’impegno a raggiungere il 5% di spesa, ma le modalità
restano poco chiare e l’opinione pubblica è divisa. Il rischio è che il nostro
Paese finisca per approcciare il riarmo europeo come una necessità tecnica, o
nel peggiore dei casi come una delega in bianco per la spesa pubblica, e non
come una scelta strategica. In tal modo, l’Italia si condannerebbe a essere un
partner minore, spettatrice di un processo che altri stanno guidando con
visione e audacia.
Eppure, le opportunità
non mancano. L’Italia può entrare da protagonista nei progetti E3, candidarsi
come piattaforma logistica per il fianco Sud della NATO, rilanciare la sua
industria con programmi comuni e difendere un’autonomia tecnologica europea
anche attraverso il proprio tessuto imprenditoriale. Ma per farlo serve una
scelta politica chiara: investire davvero nella difesa non solo come costo, ma
come garanzia di sovranità, crescita industriale e centralità strategica.
Il nuovo asse anglo‑tedesco
non è pertanto una minaccia, ma un’occasione. A condizione che l’Italia smetta
di osservare, e torni a pensarsi come potenza media responsabile, europea e
strategicamente matura.
Profilo di rischio degli autori di violenza politica negli Stati Uniti vs l’Unione Europea (UE 27) nel 2024 – primo trimestre 2025
di Andrea Molle negli Stati Uniti
Recenti analisi
prodotte da agenzie per la sicurezza e istituti di ricerca rivelano una
crescente convergenza nei profili demografici e geografici degli individui
coinvolti in atti di violenza politica nelle democrazie occidentali. Sebbene le
ideologie specifiche varino — temi razzisti ed etnici e le teorie complottiste
anti-governative sono più diffuse negli Stati Uniti, mentre in Europa
prevalgono i movimenti jihadisti e separatisti — il profilo tipico appare
sorprendentemente simile su entrambe le sponde dell’Atlantico. Si tratta, in
genere, di un uomo di giovane età, spesso compresa tra la tarda adolescenza e i
vent’anni, che si radicalizza online e viene spinto ad agire in contesti dove
la visibilità mediatica è elevata o dove i risentimenti locali offrono terreno
fertile per la mobilitazione.
La tabella che
segue presenta le statistiche più aggiornate fornite dall’FBI, dal Dipartimento
della Sicurezza Interna (DHS), dal rapporto TE-SAT 2025 di Europol, dal
database START-PIRUS e da analisi spaziali fondate sul monitoraggio degli
eventi ACLED (Armed Conflict Location
and Event Data). Insieme, queste fonti offrono un quadro dettagliato
dell’attuale panorama delle minacce.
Etno‑nazionalisti/separatisti =38 % degli attacchi nel 2024
Religione
< 7 % ispirazione jihadista negli USA (HTA 2025); crescita della frangia Christian‑identity
Ideologia jihadista in 24 dei 58 attacchi; estremismo politico “post-religioso” (TE‑SAT)
Affiliazione politica
Anti‑gov./sovereign + partisan = 49 % degli episodi dal 2016 (CSIS)
Micro – cellule accelerazioni-ste e neo‑Nazi in aumento (TE‑SAT)
Città / Campagna
72 % degli episodi in aree urbane > 250 k; picco secondario nelle contee a bassa densità di milizie (arXiv 2025)
Grandi capitali e periferie separatiste (Corsica, Paesi Baschi)
Tabella 1: Indicatori Comparativi del Rischio
la fascia più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni
Una chiara
disparità di genere caratterizza gli individui coinvolti in atti di violenza
politica sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Negli Stati Uniti, i
dati del database START-PIRUS, relativi al periodo 1990–2021, mostrano che
circa l’85% degli autori è di sesso maschile. La tendenza è ancora più marcata
in Europa, dove il rapporto TE-SAT 2025 di Europol indica che il 91% dei
sospetti arrestati per terrorismo giovanile nel 2024 era di sesso maschile.
Questa netta predominanza rappresenta una delle caratteristiche costanti,
trasversale a tutti gli orientamenti ideologici.
Anche l’età
rappresenta un predittore significativo. In entrambe le regioni, la fascia
più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa
tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni. Negli Stati Uniti, quasi il
70% degli autori rientra nella fascia tra i 18 e i 34 anni. Allo stesso modo,
Europol riporta che il 29% di tutti gli arresti legati al terrorismo nell’UE
nel 2024 ha riguardato minorenni o giovani adulti tra i 12 e i 20 anni. Questi
dati evidenziano la crescente vulnerabilità delle fasce giovanili, in
particolare all’interno degli ambienti digitali e dei social media.
Anche l’identità razziale ed etnica ha un ruolo rilevante nella definizione dei profili degli autori. Negli Stati Uniti, l’FBI ha classificato il 52% degli interventi contro estremisti violenti interni (DVE) nell’anno fiscale 2024 come motivati da ragioni razziali o etniche, con la maggioranza dei casi collegati a ideologie suprematiste bianche. Nell’Unione Europea, il quadro risulta più variegato: il 41% degli attacchi compiuti nel 2024 è stato attribuito ad attori jihadisti, mentre il 38% è stato condotto da gruppi etno-nazionalisti o separatisti, in particolare in aree interessate da conflitti legati all’autonomia regionale.
in Europa, il segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato da microcellule accelerazioniste e neo-naziste
L’ideologia
religiosa, pur non essendo più dominante negli Stati Uniti, continua a
rappresentare un fattore determinante negli attacchi in Europa. Negli USA, gli attentati ispirati al
jihad costituiscono oggi meno del 7% dei casi di estremismo violento interno
(DVE), segnalando un più ampio spostamento verso motivazioni secolari o ibride.
Al contrario, in Europa queste motivazioni sono state responsabili del 41% di
tutti gli attacchi terroristici mortali nel 2024, rendendo la religione un
fattore molto più rilevante nel contesto europeo.
Infine,
l’affiliazione politica è emersa come un elemento determinante dell’estremismo
violento più recente. Negli Stati Uniti, i dati del Center for Strategic and
International Studies (CSIS) indicano che il 49% degli episodi dal 2016 ha
coinvolto attori anti-governativi, appartenenti al movimento dei “cittadini
sovrani” o legati a polarizzazioni partitiche estreme. In Europa, il
segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato
da microcellule accelerazioniste e neo-naziste: gruppi piccoli,
decentralizzati, spesso attivi a livello transnazionale e coordinati tramite
piattaforme di comunicazione criptata.
Negli Stati
Uniti, i cluster geografici di violenza politica non sono distribuiti
uniformemente. Un’analisi spaziale basata sui dati degli eventi registrati da
ACLED rivela che California, Texas, Florida e Georgia guidano la classifica
nazionale per numero totale di episodi. Tuttavia, se si considera la
popolazione, il primato in termini pro capite spetta al Pacifico
nord-occidentale, in particolare agli stati dell’Oregon e di Washington. Al
di fuori delle grandi aree metropolitane, emerge un secondo cluster che merita
attenzione nelle contee rurali con reti militanti attive, tra cui alcune
aree del nord dell’Idaho e dell’est dell’Oregon. Queste regioni, sebbene
meno popolate, ospitano comunità con un forte sentimento anti-governativo e con
infrastrutture logistiche in grado di sostenere attività estremiste.
Anche l’Unione
Europea presenta un andamento altrettanto disomogeneo. L’Italia ha registrato
il maggior numero di attacchi terroristici nel 2024, con 20 episodi, seguita
dalla Francia con 14. Spagna e Francia guidano la classifica per numero totale
di arresti legati alla violenza politica. Nel frattempo, atti di violenza
separatista a bassa intensità ma persistenti continuano a verificarsi in aree
come la Corsica e i Paesi Baschi, dove rivendicazioni storiche e identità
regionali alimentano conflitti localizzati. Queste zone restano focolai di
attività etno-nazionalista, nonostante l’attenzione più ampia si stia spostando
verso minacce di natura transnazionale.
Un recente quadro statistico basato sui dati di Europol e START InSight curato da Claudio Bertolotti nel Rapporto annuale ReaCT2024 sul terrorismo e la radicalizzazione in Europa, conferma la persistenza della minaccia terroristica in Europa. Nel 2023 sono stati compiuti 43 attacchi e ne sono stati sventati altri 33, con oltre 600 arresti effettuati nei vari stati membri dell’UE. Francia e Austria guidano la classifica per numero di arresti, segnalando sia un’elevata intensità operativa sia una chiara priorità attribuita all’attività di intelligence. I dati evidenziano inoltre la sfida costante rappresentata dai gruppi etno-nazionalisti e separatisti — in particolare in Francia e Spagna — accanto a residui di minacce jihadiste. L’analisi di Bertolotti rafforza l’idea che i processi di radicalizzazione siano sempre più spinti da fattori ibridi, in cui si intrecciano ideologia, fragilità personali e vulnerabilità psicologiche, soprattutto tra i giovani disillusi.
Sebbene gli indicatori demografici e geografici aiutino a individuare chi sono gli autori e dove operano, comprendere come avviene il processo di radicalizzazione offre una prospettiva più profonda sulla traiettoria della minaccia.
gli spazi digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la mobilitazione
Indipendentemente
dall’ideologia di riferimento, la maggior parte degli individui coinvolti in
atti di violenza politica tende a seguire un percorso di radicalizzazione
simile. In genere, tutto ha inizio con una crisi personale — come disagio
emotivo, isolamento sociale o difficoltà economiche — che si sovrappone a
narrative più ampie basate su teorie del complotto o rivendicazioni
identitarie. Questi racconti offrono una chiave di lettura distorta attraverso
cui l’individuo rielabora la propria condizione, attribuendo la colpa a
istituzioni, governi o gruppi specifici. Con il tempo, il bisogno di
significato o appartenenza lo spinge verso comunità online dove tali visioni
vengono rafforzate. Sia l’FBI che Europol hanno segnalato i social media, le
piattaforme di gaming e le app di messaggistica criptata come acceleratori
cruciali in questo processo, in particolare tra gli utenti più giovani. Questi spazi
digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra
pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la
mobilitazione.
La probabilità
che un individuo compia atti di violenza politica varia in base a una
combinazione di fattori demografici, geografici e comportamentali. Il profilo a
più alto rischio è quello di un uomo tra i 18 e i 34 anni, residente in un’area
urbana politicamente polarizzata o in una regione con movimenti separatisti
attivi. Questo individuo è generalmente molto immerso in contenuti estremisti
online, spesso attraverso forum, social network o applicazioni di messaggistica
criptata.
Un livello di
rischio moderato è associato agli individui che vivono in contee rurali degli
Stati Uniti dove è documentata l’attività di milizie. Questo gruppo comprende
spesso persone con precedenti per violenza domestica o altri episodi di
aggressione minore, suggerendo che un passato di aggressività interpersonale
possa fungere da precursore alla violenza politica quando si intreccia con
influenze ideologiche radicali.
All’estremo
inferiore dello spettro di rischio si trovano gli adulti più anziani — in
particolare le donne oltre i 45 anni — che non presentano alcuna traccia
rilevante di attività online in ambienti estremisti. Questo segmento
demografico risulta ampiamente sottorappresentato in tutti i dataset noti
relativi alla violenza di matrice politica.
Per ridurre efficacemente la minaccia della violenza politica, le strategie di prevenzione devono concentrarsi sui gruppi più vulnerabili e sugli ambienti ad alto rischio. Una delle priorità più urgenti è l’intervento precoce rivolto ai giovani maschi tra i 13 e i 24 anni, che costituiscono il segmento in più rapida crescita tra coloro che si radicalizzano online. Programmi di sensibilizzazione e coinvolgimento attivo, mirati a intercettare questi individui prima che si integrino stabilmente in reti estremiste, possono ridurre in modo significativo il rischio a lungo termine.
Invece di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico, jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a schemi comportamentali comuniche attraversano trasversalmente tutte le ideologie
Allo stesso
tempo, i centri di coordinamento federali e locali (fusion centers) dovrebbero
allineare l’impiego delle risorse ai cluster geografici individuati dai dati
ACLED e dai modelli spaziali elaborati da diversi analisti. Ciò implica
concentrare gli sforzi non solo nei grandi centri urbani, ma anche in quelle
contee specifiche dove è stata documentata un’attività estremista, passata o
presente.
È fondamentale
che i programmi di prevenzione superino le rigide classificazioni ideologiche. Invece
di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico,
jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a
schemi comportamentali comuni — come crisi personali, isolamento sociale e
radicalizzazione online — che attraversano trasversalmente tutte le
ideologie.
Infine, è
necessario prestare particolare attenzione ai cicli elettorali. Sia il
Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) che il Center for Strategic and
International Studies (CSIS) hanno documentato picchi ricorrenti di violenza
politica e attività minacciose in corrispondenza delle principali elezioni. Una
pianificazione preventiva e l’adozione di misure di sicurezza mirate durante
questi periodi sono essenziali per mitigare il rischio di esplosioni di
violenza.
Rischio
Stimato per la Popolazione e Strategie di Mitigazione
Sebbene il panorama della violenza politica sia in continua evoluzione e sempre più visibile, il rischio effettivo di subire danni fisici per un cittadino medio rimane statisticamente molto basso, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Secondo i dati aggregati di FBI, DHS ed Europol, la probabilità annua che un civile venga ucciso in un attacco a motivazione politica è inferiore a 1 su 10 milioni nella maggior parte dei paesi occidentali. Per fare un paragone, si tratta di probabilità simili a quelle di essere colpiti da un fulmine o vittima di una fuga di gas domestico.
l’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa contribuisce ad alimentare nel tempo
Tuttavia, queste
medie nascondono importanti sfumature. La percezione della minaccia risulta
infatti molto più elevata in determinati contesti ad alta visibilità — come
edifici governativi, manifestazioni politiche o istituzioni religiose — dove la
probabilità di un attacco è effettivamente maggiore, specialmente durante fasi
di forte tensione politica o in seguito a eventi polarizzanti. In tali
ambienti, il rischio per alcune categorie di persone (funzionari pubblici,
giornalisti, attivisti, membri di minoranze religiose o etniche) risulta
sensibilmente più alto rispetto alla media della popolazione.
Negli ultimi
cinque anni, negli Stati Uniti si è registrata una media annuale di 25–35
episodi documentati di violenza politica interna con esiti fisici gravi o
intenti letali. Nell’Unione Europea, sebbene il numero di attacchi portati a
termine sia inferiore, il volume di arresti e complotti sventati — oltre 400
solo nel 2024 — segnala un livello elevato di intenzionalità e di capacità di
mobilitazione.
Il vero
rischio, dunque, non
risiede tanto negli eventi a elevato numero di vittime, quanto nell’erosione
cumulativa della fiducia pubblica, della stabilità democratica e delle norme
civiche.L’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta
nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa
contribuisce ad alimentare nel tempo.
Tre dinamiche
interconnesse aumentano l’esposizione al rischio per specifici gruppi:
• Prossimità a
istituzioni simboliche o politiche (es. sedi parlamentari, sinagoghe,
ambasciate)
• Visibilità demografica (es. minoranze religiose o razziali
frequentemente bersaglio)
• Partecipazione ad attività civiche ad alta esposizione (es. attivisti,
funzionari eletti, giornalisti)
Per mitigare tali
rischi, è necessario adottare un approccio preventivo multilivello, che
coinvolga tanto le autorità quanto le comunità locali. Le
strategie chiave includono:
Valutazione comportamentale delle
minacce (Behavioral Threat Assessment): Formazione di personale in prima linea —
insegnanti, assistenti sociali, responsabili delle risorse umane — per
riconoscere i segnali precoci di radicalizzazione e intervenire prima che
si concretizzi la mobilitazione.
Alfabetizzazione digitale e contrasto
alla radicalizzazione: Promozione di competenze di verifica dei fatti, resilienza online e
meccanismi di segnalazione tra le fasce giovanili, in particolare tra i
maschi di età compresa tra i 13 e i 24 anni.
Partenariati di comunità: Investire in attori locali
affidabili, come leader religiosi e organizzazioni di quartiere, per
costruire relazioni, ridurre l’isolamento sociale e rafforzare il capitale
sociale.
Pianificazione di sicurezza per i
cicli elettorali:
Schierare risorse di sicurezza mirate e strumenti di contrasto alla
disinformazione durante le elezioni, ormai sistematicamente associate a
picchi di minacce.
Centri di ricerca basati su dati
quantitativi:
Rafforzare la capacità dei centri di intelligence regionali di condividere
in tempo reale analisi geospaziali e comportamentali tra forze dell’ordine
e istituzioni civiche.
In definitiva,
sebbene sia improbabile che la violenza politica colpisca direttamente il
cittadino medio, i suoi effetti a catena possono compromettere profondamente la
vita democratica se non vengono affrontati in modo adeguato. Per questo,
l’attenzione non deve concentrarsi unicamente sulla sicurezza, ma anche sulla
ricostruzione della fiducia nelle istituzioni e sul rafforzamento della
resilienza sociale.
Fonti
[1] Europol. *European Union Terrorism Situation & Trend Report
(TE‑SAT 2025)*. Luxembourg: Publications Office of the EU, 2025.
[2] DHS Office of Intelligence & Analysis. *Homeland
Threat Assessment 2025*. Washington DC, 2024.
[3] University
of Maryland START. *Profiles of Individual Radicalization in the United
States (PIRUS) Research Brief*, March 2023 update.
[4] Claudio
Bertolotti, ed., #ReaCT2023 – Report on Radicalization and Terrorism
(Rome: START InSight, 2023),
https://www.startinsight.eu/react2023-report-on-radicalization-and-terrorism/
[5] Riley
McCabe. “The Rising Threat of Anti‑Government Domestic Terrorism: What the Data
Tells Us.” CSIS Brief, October 21 2024.
[6] Ravi Varma
Pakalapati & Gary E. Davis. “Spatial and Temporal Analysis of
Political Violence in the United States.” arXiv preprint 2503.14399,
March 2025.
NATO – Cosa implica quel 5% di spesa per l’Italia
di Andrea Molle dagli Stati Uniti
L’adozione, al
vertice dell’Aia del 24-25 giugno, del nuovo obiettivo NATO di spesa al 5% del
PIL non è un mero aggiornamento contabile: segna una svolta strategica che
ridefinisce il concetto stesso di difesa. La formula 3,5% + 1,5% — tre punti e
mezzo per “hard defence” in senso classico e un punto e mezzo per investimenti
dual-use a sostegno della resilienza nazionale — cristallizza la lezione della
guerra in Ucraina: senza vie di comunicazione rinforzate, scorte energetiche
sicure e cyberspazio protetto, i carri armati non arrivano al fronte e i droni
non decollano.
Per l’Italia la
sfida è doppia. Da un lato, il governo Meloni si è impegnato a onorare il nuovo
target pur mantenendo un sentiero di rientro del deficit; dall’altro, parte da
un livello “puro” di circa 1,57%, ben al di sotto del 3,5% richiesto per la
componente militare tradizionale. Tradotto in cifre, significa trovare
nell’arco di dieci anni fra i 32 e i 42 miliardi di euro aggiuntivi l’anno solo
per armamenti, addestramento e readiness operativa, a cui si sommano gli
investimenti per infrastrutture e cyber-resilienza. Tuttavia, la stessa
Alleanza ha chiarito che l’obiettivo del 5% è da raggiungere in modo
progressivo: 3,5% per la difesa militare e 1,5% per la sicurezza civile,
entrambi spalmati su un orizzonte decennale. L’aumento effettivo richiesto è
quindi contenuto, pari a un massimo dello 0,3% del PIL all’anno. Si tratta di
un impegno oneroso, ma non insostenibile.
Il Ministero
della Difesa non potrà più diluire gli incrementi fra le tre Forze Armate come
in passato. Per l’Esercito, relegato per anni al terzo posto dietro Marina e
Aeronautica, l’occasione è irripetibile: colmare il ritardo su mezzi corazzati,
artiglieria a lunga gittata, munizioni di precisione e capacità contro-UAS,
garantire poligoni moderni e manutenzione, dotarsi di sensoristica strategica
oggi appannaggio quasi esclusivo degli Stati Uniti. Senza questa svolta, gli
impegni sul fianco Est resteranno nominali.
La quota dell’1,5%
apre invece un terreno di politica industriale. Porti come Gioia Tauro, i
corridoi ferroviari TEN-T e la dorsale 5G/quantum italiana possono essere
co-finanziati dall’UE sotto l’ombrello “Military Mobility”, veicolando
investimenti che valgono sia per la Difesa sia per la competitività logistica
nazionale. Qui l’Esercito può diventare attore-ponte con Protezione Civile e
infrastrutture critiche, ridefinendo il proprio ruolo di “forza-territorio” nel
disegno di una difesa totale.
L’orizzonte 2035
offre una gradualità che attenua lo shock sul bilancio, ma non deve illudere:
il procurement terrestre richiede cicli decennali. I contratti per Ariete,
Dardo, PzH 2000 e SAMP/T NG vanno firmati ora se si vuole evitare un nuovo
decennio di eterne mezze soluzioni. È un banco di prova anche politico: se Roma
non riuscirà a trasformare il 5% in occasione di modernizzazione industriale e
deterrenza credibile, il nuovo criterio rischierà di ridursi a un ulteriore
indicatore-tabù come il vecchio 2%.
La posta in
gioco, insomma, non è solo soddisfare Washington né evitare future minacce di
dazi; è dimostrare ai partner che un’Italia con 5 milioni di riservisti
virtuali, ma senza munizioni né strade percorribili da un Leopard, è un anello
debole. Se la Penisola saprà invece coniugare ambizione europea, realismo
contabile e impulso al proprio esercito, il 5% potrà diventare il volano di una
sicurezza finalmente integrata fra caserme, fabbriche e ponti.
Questo nuovo
paradigma impone anche una riscrittura del rapporto tra Forze Armate e società
civile, dopo decenni di separazione culturale e funzionale. L’investimento
nella resilienza nazionale, nella protezione delle infrastrutture critiche e
nella risposta alle minacce ibride restituisce ai militari un ruolo visibile,
concreto, integrato nel tessuto del Paese. Non più solo professionisti di
missioni all’estero, ma attori centrali della sicurezza collettiva, custodi del
territorio e partner della cittadinanza. È un’occasione storica per ricucire
quel legame, fondandolo non sulla retorica ma sull’utilità strategica e sulla
trasparenza democratica.
L’ITALIA CHE SERVE A TRUMP
In un’Europa frammentata, l’Italia di Giorgia Meloni diventa l’alleato decisivo per la visione trumpiana dell’Occidente
di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)
In un contesto globale segnato da instabilità e dalla ridefinizione degli
equilibri internazionali, l’Italia emerge come potenziale perno in una nuova
configurazione dell’Occidente. La presidenza Trump, tornata al centro della
scena internazionale, rilancia una visione basata sulla centralità degli Stati
sovrani, sul pragmatismo economico e su un’alleanza atlantica non più mediata
dalle istituzioni multilaterali, ma fondata su rapporti diretti tra governi
affini.
In questa prospettiva, l’Italia sembra rispondere con coerenza e tempestività. L’approccio di Meloni — che combina atlantismo con rivendicazione di autonomia nazionale — si inserisce in un disegno più ampio che guarda a una riorganizzazione dei rapporti tra Europa e Stati Uniti.
La vera domanda, ora, è: quale sarà lo sviluppo di questo momento storico?
La risposta sembra intrecciarsi con un nuovo asse internazionale: un’Italia più autonoma ma pienamente inserita in un Occidente in trasformazione, dove il rapporto con gli Stati Uniti — e in particolare con il mondo che ruota attorno a Donald Trump — potrebbe risultare decisivo per ridefinire non solo il ruolo dell’Italia, ma anche quello dell’Europa.
Donald Trump e la nuova strategia verso l’Europa: sovranità contro
burocrazia
Già durante il suo primo mandato presidenziale (2017–2021), Donald Trump
aveva manifestato una visione critica nei confronti dell’architettura europea.
La sua politica estera rompeva con l’approccio tradizionale americano di
sostegno incondizionato alle istituzioni multilaterali, ponendo al centro il
principio della sovranità nazionale come fondamento della cooperazione
internazionale.
Nel discorso
all’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite del 2018,
Trump dichiarò senza mezzi termini: “Rifiutiamo l’ideologia del
globalismo e abbracciamo la dottrina del patriottismo.” Questa visione
si tradusse in una serie di azioni concrete: la pressione sugli alleati NATO
affinché aumentassero la loro spesa per la difesa (ennesima sollecitazione
americana); l’opposizione a trattati multilaterali considerati penalizzanti per
gli Stati Uniti; il sostegno implicito a quei governi europei che rivendicavano
maggiore autonomia decisionale rispetto a Bruxelles, come la Polonia,
l’Ungheria e, più recentemente, l’Italia.
Sul piano
strategico, Trump ha sempre visto con diffidenza l’Unione Europea perché troppo
burocratizzata, percependola non come alleato complementare, ma come potenziale
concorrente economico. Come affermò nel
2020 in un’intervista a Fox News: “L’Unione Europea è stata creata per
approfittare degli Stati Uniti. Io lo so. E anche loro lo sanno.”
La sua proposta
di un “Patto tra
Nazioni libere“, più che una coalizione
istituzionale rigida, mirava a costruire una rete di Stati sovrani legati da
interessi comuni e dalla difesa delle rispettive identità nazionali. Questo
approccio richiama una tradizione storica americana. Già nel 1947, il presidente
Harry S.
Truman, in un messaggio speciale al Congresso,
sottolineava: “Considerata dal punto di vista della nostra economia, la
ripresa europea è essenziale.” Trump
ha richiamato questo stesso principio, in forme aggiornate, nel suo discorso
all’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite del 2017:
“Il successo delle Nazioni Unite dipende dalla forza indipendente dei suoi
membri.”
Per Trump,
dunque, un’Europa forte — ma composta da Stati sovrani, non da un’unica entità
burocratica — è un elemento strategico per garantire stabilità globale e
reciproca prosperità economica. La sua critica all’Unione Europea non si
concentra sull’idea di cooperazione tra Paesi, bensì sulla trasformazione della
UE in una struttura sovranazionale percepita come distante dai popoli e
penalizzante per gli interessi nazionali.
Il suo ritorno
alla Casa Bianca 2025 ha visto la messa in atto del “progetto Trump” ossia la
ridefinizione delle relazioni transatlantiche occupando così un posto centrale
nell’agenda geopolitica, per aprire nuovi spazi di manovra per quei Paesi
europei — come l’Italia — che intendano riaffermare il primato degli interessi
nazionali.
Da questa prospettiva, l’interesse
verso leader come Giorgia Meloni si inserisce in un disegno più ampio: favorire
la costruzione di un’Europa basata sulla collaborazione tra nazioni libere e
forti, capaci di relazionarsi direttamente con gli Stati Uniti in un quadro di
parità e di rispetto reciproco. Non è solo una convergenza ideologica, ma una
strategia pragmatica, volta a bilanciare la competizione globale con nuove
alleanze dinamiche e resilienti.
l rapporto privilegiato tra Italia e Stati Uniti: una lunga alleanza, non
senza ombre
Fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il legame tra Italia e Stati Uniti si è consolidato come uno dei pilastri fondamentali dell’ordine atlantico. Con la firma del Trattato del Nord Atlantico nel 1949 e l’ingresso dell’Italia nella NATO, Roma divenne un alleato strategico imprescindibile per Washington, non solo per la posizione geografica nel Mediterraneo, ma anche come baluardo democratico in Europa durante la Guerra Fredda. Nel corso dei decenni, tuttavia, questo rapporto non è stato privo di tensioni e di dinamiche complesse. In più occasioni, gli Stati Uniti hanno esercitato una forma di influenza diretta e indiretta sulla politica interna italiana, soprattutto nei momenti più delicati della vita istituzionale. Il primo caso fu quello dell’ambasciatrice Claire Booth Luce, (moglie del fondatore di Time) che durante il suo mandato (1953–1956), esercitò un’influenza significativa sulla politica italiana promuovendo attivamente politiche anticomuniste, sovrintendendo a programmi di aiuti segreti destinati a rafforzare i governi centristi e a contenere l’espansione del Partito Comunista, in linea con la strategia americana di difesa dell’Europa occidentale.
Giorgia Meloni e il principio di non ingerenza: riaffermare la sovranità
nell’alleanza
In questo
contesto storico si inserisce l’approccio di Giorgia Meloni, che, pur
riaffermando con forza l’alleanza atlantica, ha introdotto una differenza
sostanziale: il rifiuto di ogni forma di ingerenza esterna nella politica
interna italiana. Una linea di condotta
chiara, ribadita recentemente: “Confermiamo la nostra posizione di non
ingerenza negli affari politici degli altri Stati” e “Non sono mai una
sostenitrice di quelli che commentano la politica altrui. L’ho subìto.” (Governo.it)
Attraverso questa postura, l’Italia si propone come un alleato affidabile,
ma capace di difendere con fermezza la propria autonomia decisionale, in linea
con una concezione moderna dell’amicizia tra nazioni libere e sovrane.
L’Italia come motore per una nuova Europa
Oggi più che
mai, l’Unione Europea si trova davanti a un bivio storico. Le crisi internazionali, la crescente distanza
tra istituzioni comunitarie e cittadini, le sfide economiche e migratorie hanno
reso evidente che il modello attuale — fortemente centralizzato e burocratico —
fatica a rispondere alle esigenze reali degli Stati membri. Sempre più voci si
levano a favore di una revisione profonda delle dinamiche comunitarie, per
evitare che il progetto europeo si trasformi in una costruzione astratta, incapace
di rappresentare le identità nazionali e le aspirazioni popolari. . Ma se l’Italia saprà proporsi come
laboratorio di questo nuovo equilibrio europeo, potrebbe aprirsi una nuova
strada a una stagione politica capace di ridare senso e legittimità al progetto
europeo stesso, evitando che l’Unione si riduca a un mero esercizio burocratico
privo di anima. La sfida è ambiziosa
Un’alleanza strategica tra Italia e Stati Uniti: vantaggi e sfide nel rapporto
tra Giorgia Meloni e Donald Trump
Il recente
incontro tra la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e il Presidente degli
Stati Uniti, Donald Trump, ha evidenziato una forte sintonia su temi chiave
come la sicurezza, l’immigrazione e la difesa dei valori occidentali. Meloni ha
sottolineato l’importanza di rafforzare la cooperazione transatlantica,
dichiarando: “Quando parlo
dell’Occidente, non parlo di uno spazio geografico:
parlo di una civiltà. Voglio rendere questa civiltà più forte” e Meloni ri-frasando
Trump ha dichiarato: “Il mio obiettivo è rendere l’Occidente di nuovo
grande.”
Questa affermazione sottolinea, senza citarli, le tante sfide che non solo l’Italia ma tutta l’Europa sta affrontando: dall’immigrazione africana e asiatica, all’influenza della sharia nei diversi ordinamenti nazionali, l’incapacità di tramandare le tradizioni a nuove generazioni autoctone e molte, molte altre prove.
Tuttavia,
questa alleanza, Italia-USA, presenta non poche ostacoli: dalle politiche
protezionistiche di Trump, con l’introduzione di nuovi dazi sui prodotti
europei, l’approccio transazionale di Trump dove è data
precedenza al bilateralismo snobbando Bruxelles; tutto ciò, potrebbe mettere a
dura prova la capacità dell’Italia di mantenere un equilibrio tra la sua
relazione statunitense e i suoi obblighi europei.
Parallelamente,
tutta l’Europa si trova esposta agli effetti delle tensioni globali: la guerra in Ucraina, i conflitti in Medio
Oriente, il crescente protezionismo commerciale e i cambiamenti climatici
contribuiscono a generare instabilità economica, aumento dei costi energetici e
pressioni migratorie, aggravando ulteriormente il quadro macroeconomico.
Conclusione: un’Italia autonoma in un Occidente in trasformazione
In un’epoca di instabilità globale e di crisi dei modelli politici
tradizionali, l’Italia ha l’opportunità storica di proporsi come forza
propulsiva per una nuova Europa, fondata sulla cooperazione tra nazioni libere
e sovrane.
Come disse
Lord Acton, “Freedom is the right to do as you please. Liberty is the right to do as you
ought.” (freedom, intesa come assenza di costrizioni, e liberty,
ovvero la libertà esercitata nel rispetto di un ordine giusto).
La sfida oggi è proprio questa: difendere la libertà di scelta nelle relazioni internazionali, ma farlo
con la responsabilità di costruire ponti, tutelare la propria identità e
rafforzare i valori condivisi dell’Occidente. Il successo di questa visione
dipenderà dalla capacità, da parte di tutti, di accantonare in sede europea le
vecchie diatribe, per affermare un ordine multipolare più equo, ma saldo nei
principi occidentali. Forse, in questo contesto, l’Italia potrà davvero
proporsi come interlocutore credibile tra le due sponde dell’Atlantico,
contribuendo alla costruzione di un nuovo equilibrio internazionale?
“Dalla Russia con amore”: le nuove minacce per l’Italia e il ruolo della Russia tra cyberspazio, salute pubblica, disinformazione e spionaggio.
Articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico 1/2025 del Centro Alti Studi per la Difesa – Scuola Superiore Universitaria.
Abstract
L’articolo analizza le principali minacce alla sicurezza nazionale italiana attribuite alla Russia, con un focus su tre aree strategiche: cyber security, disinformazione e spionaggio. La Russia emerge come una delle principali sfide per l’Italia in ambito informatico, grazie alla sua capacità di condurre attacchi mirati volti a ottenere informazioni sensibili o a interferire con le infrastrutture critiche. Parallelamente, l’uso sistematico della disinformazione da parte di Mosca rappresenta uno strumento per influenzare l’opinione pubblica e le decisioni politiche in Italia, sfruttando social media e media tradizionali per diffondere contenuti falsi o manipolati. Il tema dello spionaggio si inserisce nel quadro di cooperazioni bilaterali come l’operazione “Dalla Russia con amore” del 2020, durante la quale sono emersi rischi legati alla raccolta di informazioni sensibili sotto il pretesto di assistenza sanitaria. Questo aspetto si collega a casi emblematici come l’arresto di Walter Biot, ufficiale della Marina militare italiana, accusato di spionaggio a favore della Russia. L’articolo sottolinea la necessità di strategie di contrasto multidimensionali per fronteggiare queste minacce, combinando tecnologie avanzate, cooperazione internazionale e rafforzamento della resilienza istituzionale.
Situazioni di emergenza, crisi e vulnerabilità: il terreno ideale per l’emergere di nuove minacce.
Le dinamiche delle relazioni
internazionali e le politiche globali incidono profondamente sulla competizione
tra attori statali e non statali, influenzando i settori politico, sociale ed
economico. L’assertività dimostrata da alcuni Paesi nell’arena internazionale
sta contribuendo, inoltre, a ridefinire gli equilibri di potere sia a livello
regionale che globale. Fenomeni come l’emergenza pandemica da Covid-19, il
conflitto tra Russia e Ucraina e la crisi energetica stanno già lasciando
un’impronta destinata a perdurare a lungo, sia per l’Italia che per molte altre
nazioni, con effetti significativi in ambito economico e sociale.
La pandemia da Covid-19 ha
messo a dura prova l’Italia, evidenziando vulnerabilità sistemiche e criticità
latenti. Essa ha generato una crisi sanitaria senza precedenti, con un
incremento esponenziale dei contagi e dei decessi, oltre a un sovraccarico del
sistema sanitario. A ciò si è aggiunta una crisi economica e sociale, caratterizzata
da un aumento della disoccupazione e da una contrazione dei consumi,
conseguenze dirette delle misure restrittive come i lockdown, che hanno portato alla chiusura di numerose attività
produttive.
Prima che gli impatti della
pandemia potessero essere completamente assorbiti, il 24 febbraio 2022 è
scoppiato il conflitto in Ucraina, avviato dall’invasione russa. Questa guerra
ha innescato una nuova crisi economica, aggravata dall’aumento dei costi delle
materie prime e dalla riduzione dei flussi commerciali. Parallelamente, ha
provocato una crisi politica internazionale, con l’introduzione di sanzioni
contro la Russia e complicazioni nell’approvvigionamento energetico per molti
Paesi europei.
La crisi energetica che ne è
derivata ha ulteriormente peggiorato il quadro economico, determinando un
ulteriore incremento dei prezzi delle risorse primarie e difficoltà di accesso
all’energia. Questi fattori hanno avuto un impatto diretto sull’economia
italiana, riducendo la competitività delle imprese nazionali. Questo contesto
evidenzia la complessità delle relazioni internazionali e la volatilità dei
rapporti tra alleati e rivali, sottolineando l’imprevedibilità di eventi capaci
di ostacolare l’accesso alle risorse energetiche, condizionandone disponibilità
e prezzi. Tali dinamiche hanno ripercussioni significative sui piani sociale,
politico ed economico, rendendo indispensabile una gestione attenta e
strategica di questi fenomeni globali (Bertolotti, 2023).
Minacce emergenti per la sicurezza dell’Italia e capacità della Russia (e sue linee d’azione).
La sicurezza e la difesa dell’Italia sono
messe a rischio da una serie di minacce emergenti, che si manifestano in vari
ambiti in relazione al contesto globale. Tra queste, il cybercrime rappresenta una delle sfide più rilevanti. Con la
crescente dipendenza dalle tecnologie digitali, le infrastrutture critiche e le
imprese italiane diventano bersagli sempre più vulnerabili ad attacchi
informatici. Tali attacchi, spesso condotti attraverso metodi sofisticati,
mirano a sottrarre informazioni sensibili o compromettere sistemi, causando
danni significativi. La Russia, in particolare, è considerata una delle
principali fonti di queste minacce, utilizzando il cyberspazio per attività di
spionaggio e interferenza sulle infrastrutture strategiche.
Un ulteriore rischio è rappresentato
dallo spionaggio industriale, che colpisce i
settori d’eccellenza del sistema produttivo italiano e il know-how nazionale.
In un contesto di competizione globale, settori come l’automotive,
l’aerospazio, la difesa e l’energia risultano particolarmente esposti a tali
pratiche. Le tecnologie avanzate e le innovazioni di punta diventano obiettivi
di attacchi mirati, con conseguenze strategiche per la competitività del Paese.
Anche il sistema
sanitario nazionale è vulnerabile. Gli attacchi informatici contro questo
settore possono compromettere la fornitura di servizi essenziali, mettere a
rischio i dati personali di pazienti e operatori, e generare perdite economiche
significative per le strutture sanitarie. Queste azioni possono avere un
impatto devastante sulla salute pubblica, aggravando ulteriormente situazioni
di emergenza.
La disinformazione
e propaganda costituiscono un’altra minaccia emergente, con la capacità
di manipolare l’opinione pubblica attraverso la diffusione di notizie false o
distorte. Social media e media tradizionali sono spesso usati per creare
confusione e incertezza, influenzando le decisioni politiche e ostacolando la
gestione di crisi. In un contesto già fragile, segnato dagli effetti della
pandemia e della crisi energetica, tali dinamiche possono amplificare le
divisioni sociali, minando la stabilità e la coesione nazionale.
La crisi
energetica, inoltre, si configura come una minaccia significativa. La
dipendenza dalle risorse esterne e l’aumento dei prezzi delle materie prime
hanno un impatto diretto sull’economia italiana e sulla competitività delle
imprese, rendendo più complessa la gestione delle emergenze e il processo
decisionale delle autorità (Bertolotti, 2023).
Il ruolo della Russia.
La Russia si posiziona come uno degli attori principali nello scenario delle minacce emergenti per l’Italia. Grazie a una vasta capacità nel campo degli attacchi informatici, Mosca utilizza tecnologie avanzate per condurre azioni di hacking, impiegare malware sofisticati e sfruttare tecniche di phishing e ingegneria sociale. Questi strumenti, spesso supportati da gruppi APT (Advanced Persistent Threat) collegati al governo russo, permettono di interferire con sistemi protetti e ottenere informazioni strategiche.
In ambito geopolitico, la Russia ha sviluppato un approccio integrato alla comunicazione strategica e alla diplomazia digitale. Come descritto dal presidente Vladimir Putin nel 2012, il soft power viene utilizzato per perseguire obiettivi di politica estera senza ricorrere direttamente a strumenti militari. Organizzazioni come il “Russian World” e il “Gorchakov Fund of Public Diplomacy”, insieme all’Agenzia Rossotrudnichestvo, sono attori chiave di questa strategia, operando attraverso la diffusione di informazioni mirate e narrative alternative sui social network.
Durante la pandemia da Covid-19, la
Russia ha intensificato il proprio impegno propagandistico attraverso l’invio
di aiuti umanitari a vari Paesi, tra cui l’Italia. Tali iniziative, veicolate
attraverso una comunicazione mirata sui social media, sono state utilizzate per
consolidare la propria influenza a livello internazionale. Questo approccio ha
permesso al Cremlino di guadagnare consenso in regioni strategiche come i
Balcani, il Medio Oriente e l’America Latina, oltre che all’interno dell’Unione
Europea.
La combinazione di disinformazione,
propaganda e capacità cyber rende la Russia un attore centrale nelle dinamiche
delle minacce emergenti, con impatti significativi sulla sicurezza e sulla
stabilità globale. Per l’Italia, affrontare queste sfide richiede strategie
coordinate e mirate, capaci di tutelare le infrastrutture critiche, proteggere
la coesione sociale e rafforzare la resilienza nazionale.
Invitare la spia in casa: l’Operazione “Dalla Russia con amore”. Un’analisi delle dinamiche e implicazioni.
Durante le fasi iniziali
della pandemia di Covid-19, il 7° Reggimento di difesa chimica, biologica,
radiologica e nucleare “Cremona” (CBRN) dell’Esercito Italiano fu coinvolto,
tra marzo e maggio 2020, in attività di sanificazione e decontaminazione.
Questo impegno includeva il supporto ai centri di accoglienza per persone
provenienti dall’estero e la sanificazione di oltre 180 strutture in Lombardia.
A queste operazioni partecipò un contingente russo inviato nell’ambito
dell’operazione “Dalla Russia con amore”, che portò alla formazione
di 9 task force miste italo-russe (Senato della Repubblica, Doc. CLXIV n. 31,
p. 85). L’intervento, inizialmente concentrato nella provincia di Bergamo,
evidenziò vulnerabilità legate alla raccolta di informazioni da parte di attori
esterni, con il rischio che l’aiuto offerto fosse usato come pretesto per
penetrare il perimetro di sicurezza nazionale.
La missione russa vide il coinvolgimento di 104 operatori, tra cui i due epidemiologi di spicco Natalia Y. Pshenichnaya e Aleksandr V. Semenov. La presenza russa, tuttavia, fu oggetto di limitazioni: il contributo iniziale previsto di 400 operatori fu ridotto a 100 per decisione dell’allora ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Inoltre, il generale Luciano Portolano, comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze, respinse richieste di estendere le operazioni russe a siti strategici come basi militari e uffici governativi, tra cui la base di Ghedi (Brescia), utilizzata dalla NATO, limitandole ad ospedali e case di cura. Durante queste attività, i russi tentarono più volte di raccogliere campioni di virus e offrirono incentivi economici a ricercatori italiani per ottenere dati scientifici. Un esempio significativo fu l’offerta di 250mila euro a un dirigente dell’ospedale Spallanzani di Roma, che favorì il vaccino russo “Sputnik” a scapito del progetto italiano “Reithera” (Jacoboni, 2022).
Il Contesto e le Controversie.
L’accordo tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte fu raggiunto telefonicamente il 21 marzo 2020. Tuttavia, l’intervento russo, percepito come una forma di “assegno in bianco” da parte dell’Italia, fu attuato in modo non coordinato, senza consultare adeguatamente il governo italiano. Il contributo russo includeva esperti militari, specialisti in minacce biologiche e chimiche, e unità tecniche per lo studio di agenti patogeni, ma mancavano dispositivi per il rilevamento specifico del Covid-19.
Le aree selezionate dai russi
per la sanificazione sollevarono preoccupazioni: molti dei siti erano vicini a
infrastrutture sensibili come basi NATO contenenti arsenali nucleari. Questi
fattori portarono il governo italiano a interrompere prematuramente
l’operazione, considerandola un potenziale rischio per la sicurezza nazionale.
Ruolo degli epidemiologi russi
Un elemento di rilievo fu la
presenza non autorizzata dei due epidemiologi russi, Pshenichnaya e Semenov,
entrambi operativi presso la Rospotrebnadzor, l’ente russo responsabile della
gestione della pandemia. I due avevano precedentemente lavorato a Wuhan e
dichiararono che l’obiettivo della loro missione era acquisire esperienza sulle
modalità di gestione del Covid-19 adottate in altri Paesi. Tuttavia, due mesi
dopo la loro partenza dall’Italia, pubblicarono un report critico sulla
gestione italiana della pandemia (Santarelli, 2022), alimentando dubbi sul reale
scopo della loro presenza (Bertolotti, 2023).
Considerazioni finali
L’operazione “Dalla
Russia con amore” solleva interrogativi sulla gestione di aiuti
internazionali in contesti di emergenza e sui rischi connessi alla sicurezza
nazionale. Mentre l’intervento russo fu ufficialmente presentato come un
contributo umanitario, molteplici azioni suggeriscono che potesse servire anche
come strumento per raccogliere informazioni strategiche e consolidare
l’influenza geopolitica di Mosca. Queste dinamiche sottolineano l’importanza di
un coordinamento rigoroso e di un’attenta valutazione dei rischi legati alla
cooperazione internazionale in situazioni di crisi.
Analisi dell’operazione russa in Italia: una strategia di guerra ibrida
L’intervento militare russo in Italia durante la
pandemia di Covid-19 rappresenta un esempio pratico dell’applicazione della
cosiddetta “guerra ibrida,” utilizzata da Mosca per ottenere un
vantaggio strategico temporaneo nel contesto dell’emergenza sanitaria globale
(Santarelli, 2022). A differenza della Cina, che si limitò a fornire consulenza
tramite videoconferenze, l’Italia accolse e offrì ampia libertà di azione ai
militari russi. Questo permise loro di raccogliere preziose informazioni sulla
gestione e diffusione del virus, informazioni che furono sfruttate per una
campagna di propaganda sia interna che internazionale, inclusa la promozione
del vaccino russo “Sputnik V.”
L’operazione russa sembrava perseguire tre obiettivi
principali. Primo, l’acquisizione di informazioni strategiche attraverso
attività di spionaggio, con l’obiettivo di sviluppare una strategia di gestione
della pandemia basata sulle conoscenze acquisite in Italia. Secondo, la
propaganda interna ed esterna, finalizzata a esaltare i progressi della Russia
e a promuovere l’adozione del vaccino “Sputnik” da parte di altri
Paesi, inclusa l’Italia. Terzo, una campagna di “guerra informativa”
volta a screditare la gestione italiana della crisi sanitaria, attraverso il
contributo e le dichiarazioni di autorevoli epidemiologi russi.
Implicazioni per la Sicurezza Nazionale
L’operazione “Dalla Russia con amore”
evidenzia la necessità di valutare attentamente le implicazioni per la
sicurezza nazionale in situazioni di emergenza. Questo caso offre un esempio
concreto di come attori esterni possano sfruttare contesti critici per
infiltrare le loro reti di intelligence, raccogliere dati strategici o
penetrare sistemi di sicurezza nazionale. In nome di una presunta assistenza
umanitaria, tali operazioni possono minare la stabilità interna e rafforzare
l’influenza geopolitica di Paesi terzi.
L’esperienza italiana dimostra l’importanza di
mantenere un controllo rigoroso e di definire limiti chiari nelle
collaborazioni internazionali in situazioni emergenziali, al fine di prevenire
rischi per l’integrità e la sicurezza dello Stato (Bertolotti, 2023).
Bibliografia
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della Russia (cyber, sanitaria, disinformazione, spionaggio), in “La Russia
nel contesto post-bipolare (RUSPOL). I rapporti con l’Europa tra competizione e
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Latvian Center for Security and Strategic Research), 5.
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Santarelli, M., (2022). Dalla Russia con amore. Aiuti covid o spionaggio dalla Russia? Cosa c’è
dietro la missione dell’esercito russo a Bergamo, Agenda Digitale, 17
gennaio 2022.
Senato
della Repubblica (2020), XVIII Legislatura, Doc. CLXIV n. 31, “Relazione sullo stato della spesa,
sull’efficacia nell’allocazione delle risorse e sul grado di efficienza
dell’azione amministrativa svolta dal ministero della Difesa, corredata del
rapporto sull’attività di analisi e revisione delle procedure di spesa e
dell’allocazione delle relative risorse in bilancio”, p. 85.
Tsvetkova, N.,
Rushchin D. (2021). Russia’s Public
Diplomacy: From Soft Power to Strategic Communication. Journal of Political Marketing, 20(1), 50-59.
La telefonata Trump-Zelensky sulla pace in Ucraina: leggiamo tra le righe
di Claudio Bertolotti.
Dall’intervista a “Effetto Notte” – Radio24, ospite di Roberta Giordano (puntata del 19 marzo 2025).
La dichiarazione al termine della conversazione telefonica è stata concordata e allineata, una copia l’una dell’altra. Dalla convergenza sulla riconosciuta importanza degli incontri negoziali di Gedda alla decisione di accettare un cessate il fuoco incondizionato, il che equivale a cedere alla Russia. Quello di un’Ucraina provata dei territori conquistati da Mosca è lo scenario che prospettiamo da almeno due anni ma di cui si è preferito non parlare prediligendo una narrazione ideale e non realistica volta alla liberazione dell’Ucraina tout court. Purtroppo.
C’è una differenza sottile però nelle dichiarazioni di
Washington e Kiev: Zelensky
ha ribadito la necessità di rinforzare la difesa contraerea. Trump ha
concordato su questa necessità, evidenziando
però che farà il possibile per trovare in Europa la risposta a tale necessità.
Dunque passando la palla agli europei, o quantomeno richiamando l’UE a un ruolo
che, a parole, pretende ma che nella pratica ha giocato Washington fo dal
principio. Forse non in termini economici, ma certamente in termini di
forniture materiali di armi ed equipaggiamenti. Inoltre, Zelensky non l’ha
fatto, Trump si, è stata ventilata l’ipotesi di un passaggio di proprietà del
settore energetico ucraino a favore di aziende statunitensi. Interessante, poiché
questo potrebbe essere un limite all’eventuale aggressiva pretesa futura da
parte di Mosca.
Di fatto l’Ucraina ha incassato il colpo piegandosi alla
volontà statunitense, non potendo fare altrimenti e non essendoci una reale
alternativa.
Dunque l’opzione che si prospetta all’orizzonte è quella di un’Ucraina ridimensionata, territorialmente, in termini di risorse naturali, e privata di un eventuale possibilità di inclusione all’interno dell’Alleanza atlantica, ma non dell’Unione europea: un’opzione che, però, sarebbe molto vantaggiosa per la Russia che, nell’Europa, non intravede un baluardo invalicabile.
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