0ec373f7-5ee8-43a5-bb55-eb9ab219ce35

Radicalizzazione 2025: l’estremismo giovanile violento a dieci anni dalla tragedia del Bataclan

di Chiara Sulmoni, presidente di START InSight

Dieci anni dopo gli attacchi terroristici che hanno colpito Parigi il 13 novembre 2015, di cui il Bataclan rappresenta la triste memoria collettiva, l’Europa si trova a fare i conti con una trasformazione profonda della minaccia radicale. Non si tratta più del terrorismo organizzato e delle azioni coordinate dello Stato Islamico dell’epoca, ma di una galassia di gesti, simboli e linguaggi violenti che nascono ai margini della rete e coinvolgono un numero crescente di adolescenti.

Il Rapporto 2025 sulla sicurezza della Svizzera lo afferma con chiarezza: “i casi di minori e giovani adulti che si radicalizzano online e sviluppano intenzioni terroristiche continueranno ad aumentare”. Dall’Europa all’Australia, dagli Stati Uniti all’Asia, la radicalizzazione giovanile si manifesta come un’epidemia sociale che attraversa confini, culture e matrici ideologiche.

Nel Michigan e nel New Jersey, a novembre 2025, sono stati arrestati diversi adolescenti in contatto fra loro — inclusi dei minorenni e alcuni provenienti da contesti familiari privilegiati — accusati di pianificare un attacco terroristico in nome dell’ISIS durante il weekend di Halloween. Negli stessi giorni a Canberra (Australia), un diciassettenne è stato fermato e accusato di aver progettato attacchi ispirati a ideologie razziste ed estremiste: avrebbe dichiarato che questi piani gli davano uno scopo durante la depressione[1].

Il direttore dell’intelligence australiana ha parlato recentemente di una deriva preoccupante: minorenni che condividono video di decapitazioni nel cortile della scuola e un dodicenne che avrebbe manifestato l’intenzione di far esplodere un luogo di culto. L’età media in cui i minori entrano per la prima volta nel radar dei servizi di intelligence australiani è oggi di 15 anni.

Inoltre, ha sottolineato che, secondo le previsioni interne, nei prossimi anni raggiungerà l’età più esposta alla radicalizzazione una generazione cresciuta interamente online. Per molti di questi giovani, il mondo digitale rappresenta ormai il principale riferimento per costruire la propria identità, il senso di appartenenza e la percezione della realtà[2].

In Inghilterra e Galles, la fascia fra gli 11 e i 15 anni occupa il primo posto nelle segnalazioni per sospetta radicalizzazione. Il programma nazionale di prevenzione nel 2024 ha dovuto aggiornare le categorie in cui suddivide i casi, includendo voci come “fascinazione per la violenza estrema o per gli attacchi di massa” per descrivere moventi privi di motivazioni ideologiche ma caratterizzati da ossessione per la violenza.

La Francia registra 17 minori incriminati per reati collegati al terrorismo tra gennaio e novembre 2025[3], due dei quali avrebbero pianificato attacchi contro la Torre Eiffel e sinagoghe parigine. Tre giovani donne fra i 18 e i 21 anni, sono state fermate e accusate di preparare un attentato jihadista nella capitale. Di fronte a questa tendenza, all’inizio dell’anno la Procura nazionale antiterrorismo ha pensato ad istituire una sezione dedicata ai minori, per studiare e prevenire in modo più efficacie la radicalizzazione precoce[4].

Circa un terzo delle persone arrestate per reati di terrorismo nell’Unione Europea nel 2024 aveva meno di 20 anni.

In Belgio, un terzo circa dei soggetti che negli ultimi tre anni hanno pianificato attacchi non aveva ancora raggiunto la maggiore età.

In Italia, nel luglio 2025, la Polizia di Stato ha eseguito ventidue perquisizioni nei confronti di adolescenti tra i 13 e i 17 anni legati a contesti estremisti di diversa matrice.

Nella Svizzera tedesca, nella primavera del 2025 sarebbe stato sventato un attentato di matrice islamista da parte di un 18enne[5]. Nel Canton Vaud, i casi di minori seguiti dall’unità di prevenzione delle radicalizzazioni -un servizio attivo dal 2018[6]-, costituiscono quasi la metà del totale, con bambini che sono rimasti coinvolti già a partire dai 10 anni. Per la metà, si tratta di ragazze[7]. Questa percentuale paritaria non è frequente.  

Il servizio di mentoring del Canton Berna, nel 2024, ha accompagnato 12 persone radicalizzate, di età compresa tra 11 e 20 anni.[8] Lo scorso anno l’allora capo dell’intelligence aveva dichiarato che la svizzera è toccata dal fenomeno della radicalizzazione dei minori più di altri paesi europei. Nella Confederazione, lo jihadismo rimane in testa alle preoccupazioni.


La salute mentale come nuova frontiera della sicurezza

Secondo Europol, la combinazione fra isolamento sociale, disagio psicologico e uso intensivo delle tecnologie digitali costituisce oggi il terreno più fertile per la radicalizzazione precoce.
La salute mentale, in questo contesto, non è un tema secondario: ansia, depressione, solitudine e senso di inutilità rappresentano oggi fattori chiave che possono spingere i giovani verso narrative polarizzanti e totalizzanti.

The Psychology of Extreme Violence: A Case Study Approach to Serial Homicide, Mass Shooting, School Shooting and Lone-actor Terrorism book cover

Come ricorda Clare Allely nel suo libro The Psychology of Extreme Violence, “la violenza nasce spesso dal tentativo dell’individuo di recuperare un senso di valore o significato personale perduto o minacciato”. La radicalizzazione, allora, non è solo una questione di ideologia, ma un meccanismo di compensazione.


Alcune ricerche e dati statistici evidenziano che nei processi di radicalizzazione individuale, in particolare tra adolescenti, possono essere presenti condizioni neurodivergenti (come i disturbi dello spettro autistico) o difficoltà di regolazione emotiva e sociale. Non si tratta di una relazione causale, ma di una vulnerabilità specifica: chi fatica a decodificare norme sociali o emozioni altrui può essere più esposto a comunità online che offrono identità rigide, appartenenza immediata e linguaggi semplificati.

Per tutti questi motivi, da tempo ormai si parla della necessità di un approccio di salute pubblica alla prevenzione della radicalizzazione: non più solo sicurezza e intelligence, ma benessere mentale, sostegno psicologico e resilienza comunitaria.


L’ecosistema digitale come “camera dell’identità”

L’estremismo contemporaneo è autonomo e reticolare. Non risponde più a una leadership gerarchica, ma vive in una rete di simboli e riferimenti che mutano in continuazione. La propaganda si diffonde attraverso linguaggi emotivi e visivi — meme, video brevi, canzoni, influencer — in grado di catturare bisogni identitari e compensare la mancanza di riconoscimento nella vita reale.

Le piattaforme digitali diventano spazi di appartenenza emotiva, dove la socializzazione avviene in modo nuovo e frammentato. Qui la radicalizzazione non si costruisce più solo attraverso legami ideologici tradizionali, ma tramite interazioni online, imitazione di modelli violenti e partecipazione a comunità che mescolano jihadismo, suprematismo, incel (i cosiddetti celibi involontari, una sottocultura digitale con un proprio linguaggio e vari gradi di misoginia), complottismi e derive esoteriche. Questa ibridazione di ideologie fluide sostituisce spesso la religione o la politica con la promessa di significato personale, mentre i giovani osservano attentatori precedenti, come esempi da cui trarre insegnamenti.

In questo ecosistema, chi compie atti di violenza può quindi diventare fonte d’ispirazione per altri: come Brenton Tarrant, che nel 2019 a Christchurch uccise oltre 50 persone in due moschee; oppure Elliott Rodger, che nel 2014 in California, a 22 anni, realizzò una strage ispirata a ideologie misogine e oggi è idolatrato da comunità incel violente; fino al quindicenne svizzero autore dell’accoltellamento di un ebreo ortodosso a Zurigo il 2 marzo del 2024, il cui gesto è stato celebrato dai sostenitori dello Stato Islamico. Pochi giorni dopo l’evento, il Counter Extremism Project individuò sei profili su TikTok che esaltavano l’azione dello jihadista svizzero[9].

T-shirt con l’iconografia di Luigi Mangione in vendita su una piattaforma d’acquisti

O ancora, Luigi Mangione, il giovane che nel 2024 uccise a New York un dirigente della compagnia assicurativa sanitaria United Healthcare, e che oggi per parte della generazione Z americana è diventato un’icona pop ribattezzata “San Luigi”. La violenza viene reinterpretata come atto di giustizia alternativa, risposta alla frustrazione collettiva e alla perdita di fiducia nelle istituzioni.

L’atto estremo funziona come uno “schermo” si cui proiettare rabbia e impotenza.

Il ricercatore John Richardson, autore di Luigi: The Making and Meaning, citato dal New York Post: “Cercare di individuare il movente di Luigi è fuorviante. Ciò che conta è la sua elusività. Per un numero crescente di giovani che vibrano di ansie esistenziali, è diventato uno schermo su cui proiettano le proprie paure e i propri sogni”.  

Emblematico è anche il caso di Axel Rudakubana, il diciassettenne (autistico) che nel 2024 a Southport, in Gran Bretagna, accoltellò e uccise tre bambine in una scuola di danza. Il ragazzo non agiva in nome di un’ideologia, ma di un malessere personale. Il caso di due adolescenti britannici arrestati nei mesi successivi e sospettati di volerlo emulare, conferma come oggi la violenza si diffonda anche per imitazione, ispirazione o ricerca di visibilità.

Va sottolineato che gli attacchi effettivamente portati a termine restano prevalentemente opera di adulti. Secondo il database di START InSight, che monitora i profili degli jihadisti entrati in azione in Europa, l’età mediana degli autori degli attacchi tra il 2014 e il 2023 è di 26 anni, con fluttuazioni nel tempo: 24 anni nel 2016, 30 anni nel 2019, e 28,5 anni nel 2023.

Tuttavia, “ “Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, uno studio pubblicato dall’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) del King’s College di Londra, che ha preso in esame le attività di 43 minorenni condannati per reati collegati al terrorismo, sempre in Inghilterra e Galles, dal 2016 al 2023 (13), invita a non sottovalutare il ruolo dei ragazzi; sebbene nel periodo preso in considerazione nessun bambino sia riuscito a commettere un attentato e il reato più comune sia consistito nel possesso di materiale estremista, dalla ricerca emerge come un terzo sia stato condannato per la preparazione di atti di terrorismo, e come i ragazzi abbiano agito da “amplificatori” e “innovatori”, in grado di produrre materiali di propaganda, di reclutare altri e di pianificare attacchi. A fare deragliare i loro piani, potrebbero essere stati fattori legati all’età, come l’ingenuità e l’incapacità organizzativa.” (Estratto da Estremismo giovane, autonomo ed emancipato, in: Rapporto ReaCT2024)


Conclusione

A dieci anni dagli attentati del Bataclan, la radicalizzazione giovanile non si limita a rappresentare una minaccia ideologica: riflette una profonda crisi esistenziale. Solitudine, perdita di fiducia nelle istituzioni e percezione di un futuro chiuso alimentano un vuoto di senso, appartenenza e riconoscimento, che l’estremismo riesce a occupare. Investire in salute mentale, educazione relazionale e comunità vive non è solo un bene sociale, ma un elemento di sicurezza nazionale. Prevenire il radicalismo significa ricostruire legami, dare voce ai giovani e offrire prospettive concrete, restituendo loro la possibilità di sentirsi parte di qualcosa che meriti di essere costruito.

Sei linee di intervento

1️⃣ Ridefinire i criteri di rischio
Andare oltre le tradizionali etichette ideologiche e considerare segnali di fragilità psicologica: isolamento, attrazione per la violenza, imitazione di gesti estremi e ossessione per figure violente o “giustizialiste”.

2️⃣ Formazione multidisciplinare
Educatori (scuola, associazioni giovanili), psicologi, operatori sociali e forze dell’ordine devono condividere linguaggi, strumenti e protocolli comuni.

3️⃣ Intervento precoce e coordinato
Ogni segnalazione deve tradursi in un percorso di supporto, anche in assenza di elementi ideologici espliciti.

4️⃣ Comunicazione e contro-narrative credibili
Valorizzare il pensiero critico e proporre modelli simbolici alternativi e positivi.

5️⃣ Ricerca e monitoraggio continuo
Investire in studi interdisciplinari e nel monitoraggio delle piattaforme digitali emergenti, per intercettare segnali di “fissazioni violente” prima che degenerino in atti concreti.

6️⃣ Ruolo di educatori e genitori
Agire prima che compaiano segnali d’allarme, formando e sensibilizzando insegnanti e famiglie su manifestazioni di rischio, fattori di protezione e canali di aiuto. La prevenzione efficace è sempre multidisciplinare, territoriale e in rete.


[1] https://www.abc.net.au/news/2025-11-06/act-teen-behind-bars-over-detailed-plans-for-public-attacks/105980252

[2] https://www.intelligence.gov.au/news/asio-annual-threat-assessment-2025#:~:text=Fewer%20than%2017%25%20of%20the,backs%20on%20violence%20and%20extremism

[3] https://www.lematin.ch/story/alerte-la-menace-terroriste-reste-vive-en-france-103445118

[4] https://fr.euronews.com/2025/08/27/deux-adolescents-mis-en-examen-pour-des-projets-dattentats-contre-la-tour-eiffel-et-des-sy

[5] https://www.rts.ch/info/suisse/2025/article/attentat-terroriste-dejoue-en-suisse-un-jeune-de-18-ans-arrete-29026118.html

[6] https://www.letemps.ch/suisse/vaud/depuis-les-attaques-du-7-octobre-les-cas-de-radicalisation-ont-double-dans-le-canton-de-vaud?srsltid=AfmBOoov6l8-sx8pIqaN4AC8bR89XmB0G90A-l5cKZUcvHc3-e-BnnGo

[7] https://radiochablais.ch/infos/100576-lutte-contre-les-extremismes-violents-vaud-veut-renforcer-la-prevention?utm_source=chatgpt.com

[8] https://www.bern.ch/politik-und-verwaltung/stadtverwaltung/sue/amt-fur-erwachsenen-und-kindesschutz/fachstelle-radikalisierung-und-gewaltpraevention

[9]https://www.startinsight.eu/estremismo-giovane-autonomo-ed-emancipato/


Bataclan: a dieci anni dal più grande attentato terroristico in Europa.

di Claudio Bertolotti.

Dieci anni ci separano dal più grande attentato terroristico in Europa. L’attacco al “Bataclan” rappresenta infatti un evento eccezionale in termini di impatto emotivo, mediatico e operativo. Al tempo stesso quel terribile evento dimostra come un’azione a basso costo in termini di realizzazione possa ottenere un risultato dalle drammatiche conseguenze sul piano operativo e strategico. In particolare l’utilizzo all’interno della realtà europea, delle sue città, contro i suoi cittadini, di tecniche, tattiche e procedure militari acquisite dai terroristi jihadisti sui campi di battaglia mediorientali – in particolare la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan – ha dimostrato di saper mettere in crisi la sicurezza interna degli stati europei.

Oggi, a dieci anni da quell’evento straordinario, riproponiamo la lettura analitica su quanto accadde nella drammatica notte del 13 novembre 2015, e nei giorni successivi.

Dall’articolo originale del 18 novembre 2015: C. Bertolotti, Commando suicidi’: dopo gli attacchi di Parigi, l’Italia è a rischio? Analisi della minaccia del ‘Nuovo Terrorismo Insurrezionale’, Speciale terrorismo, in Osservatorio Strategico 2015 – Edizione Speciale, CeMiSS, CASD 2016.

Keywords: Bataclan, jihadismo, radicalizzazione, terrorismo.

Sintesi dell’evento

Cosa accadde in quei giorni di dieci anni fa? L’arco operativo degli attentati di Parigi si articolò in più fasi, distribuite su un periodo di cinque giorni, tra il 13 e il 18 novembre; un’operazione pianificata con logica militare, caratterizzata da un’elevata coordinazione e da una precisa volontà strategica: colpire il cuore simbolico e politico dell’Europa.

La sera del 13 novembre, a partire dalle 21:16, prese avvio una sequenza di attacchi simultanei che investì tre aree della capitale francese: lo Stade de France, alcuni bistrot e ristoranti nei quartieri orientali e, infine, il teatro Bataclan. In meno di tre ore, tra le 21:16 e le 00:20, le cellule jihadiste misero in atto un’azione coordinata e ad altissima letalità, colpendo

obiettivi civili, simbolici e mediaticamente sensibili. Il bilancio fu devastante: 130 vittime, oltre 350 feriti e un’intera città paralizzata dal terrore.

Il giorno successivo, 14 novembre, lo Stato francese reagì con una misura d’emergenza senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale. Fu dichiarato lo stato d’emergenza nazionale, vennero sospese alcune garanzie costituzionali e si avviò una vasta operazione di intelligence e controterrorismo mirata all’identificazione dei responsabili, dei fiancheggiatori e della rete logistica che aveva consentito la pianificazione dell’attacco.

L’epilogo giunse all’alba del 18 novembre, quando le forze speciali francesi (RAID e BRI) circondarono un edificio nel quartiere di Saint-Denis, dove si nascondeva Abdelhamid Abaaoud, considerato il cervello operativo dell’attentato. Dopo un prolungato scontro a fuoco, Abaaoud e due suoi complici vennero uccisi. L’operazione segnò la conclusione della fase operativa del più grave attentato jihadista mai compiuto in Francia.

Dall’articolo originale del 18 novembre 2015: C. Bertolotti, Commando suicidi’: dopo gli attacchi di Parigi, l’Italia è a rischio? Analisi della minaccia del ‘Nuovo Terrorismo Insurrezionale’, Speciale terrorismo, in Osservatorio Strategico 2015 – Edizione Speciale, CeMiSS, CASD 2016.

Introduzione

A meno di un anno di distanza dal terribile attacco a Charlie Hebdo, il 7 gennaio 2015, il terrore ha investito nuovamente il cuore dell’Europa attraverso una serie di azioni spettacolari.

E proprio l’attacco alla Francia del 13 novembre 2015, proseguito con i violenti
scontri del giorno 18 nel quartiere di Saint Denis, – spartiacque sostanziale nell’evoluzione del fenomeno terroristico contemporaneo –
evidenzia come il fondamentalismo jihadista, che si diffonde dal Medio Oriente, attraverso il Nord Africa, fino ad arrivare a colpire il cuore della Europa, sia una minaccia concreta e crescente: una minaccia che è conseguenza
dell’avanzata neo-jihadista del gruppo Stato islamico (IS/Daesh) in combinazione con le dinamiche conflittuali locali (interne all’area MENA) e con il disagio sociale di una parte della comunità musulmana, sia dell’area MENA (in particolare Tunisia, Libia, area del Syraq) sia europea, quest’ultima spesso di
seconda, o terza, generazione.

Un’imposizione di violenza che, con i suoi 130 morti, 350 feriti – almeno cento in modo grave –, e 11 jihadisti caduti nei due giorni di combattimento a Parigi (13 e 18 novembre), ha portato a compimento con successo una serie di
operazioni coordinate e simultanee. Ciò che è avvenuto è stato un classico esempio di trasferimento di capacità tattica da un teatro operativo a un altro.

Ma a differenza del passato, dove le tecniche, tattiche e procedure venivano trasferite dall’Iraq all’Afghanistan, alla Siria, o alla Libia, oggi l’evoluzione di una tecnica di combattimento maturata e collaudata nell’area del Grande-Medioriente – dal sub-continente indiano al Maghreb – si è imposta in Francia,
uno Stato europeo, e potrà verosimilmente espandersi ad altri stati dell’Unione,
e l’Italia rappresenta un obiettivo significativo sul cui territorio vi sono molteplici target di alto valore (HVT – High Value Target), materiale e
simbolico.

È la tecnica del ‘commando suicida’, largamente utilizzata e affinata, che ha
fatto la sua comparsa per la prima volta nel 2008.

Oggi, esportando questa tecnica, il gruppo Stato islamico ha dimostrato di essere in grado, direttamente o indirettamente – di minacciare realmente l’Europa e i suoi cittadini.

E lo ha fatto dimostrando di disporre di ‘combattenti’ in grado di costituire nuclei di individui determinati, con adeguato livello di addestramento e Commando suicidi’: coordinamento e con buona capacità operativa in un contesto urbano; il livello delle capacità logistiche e intelligence è valutato come adeguato, per quanto minimale. Si tratta di capacità procedurali già applicate in Afghanistan, prima,
e nei teatri operativi del Syraq (Siria e Iraq) e della Libia, più recentemente.

1. La dinamica dell’attacco

Un attacco senza precedenti è stato portato, quello del 13 novembre, a cui ha fatto seguito, il successivo 18 novembre, la reazione al blitz delle forze di sicurezza francesi nel quartiere Saint Denis.

Giorno 13 novembre

Un commando di attaccanti suicidi ha colpito sei volte in meno di mezz’ora. Un’azione propriamente militare sviluppatasi, per la prima volta in Europa, attraverso la tecnica del ‘commando suicida’.

7 gli attaccanti suicidi, affiancati da elementi di supporto al combattimento, equipaggiati con armi da guerra (AK47 e fucili shotgun a pompa), bombe a mano e giubbotti esplosivi individuali.

Obiettivo ‘uno’: Stade de France’ porta ‘B’, colpito alle 21.20 da un attaccante suicida fermato mentre tentava di accedere allo stadio (con regolare biglietto acquistato); riconosciuto si è dato alla fuga facendosi esplodere e
provocando la morte di un passante. Un secondo attaccante suicida si è fatto esplodere alla porta ‘H’, senza provocare ulteriori vittime.

Nel complesso, le azioni sono state due, entrambe all’esterno della struttura; di queste una in fase di penetrazione (sventata dal sistema di sicurezza).

Obiettivo ‘due’: locali pubblici (ristoranti e bistrot) collocati all’interno del XII arrondissement. La tecnica è quella del fuoco di saturazione contro i ristoranti Carillon e Petit Cambodge, dove sono state uccise complessivamente 15 persone (altre 10 gravemente ferite); segue un altro attacco con fuoco di saturazione al locale Bonne Biere (19 vittime) e poi un’altra azione viene portata a compimento da un attaccante suicida in boulevard Voltaire.

Obiettivo ‘tre’: teatro-sala concerti ‘Bataclan’, dove il commando principale (composto da 4 attaccanti) ha fatto irruzione nel locale sparando sulla folla e tenuto la posizione per circa tre ore provocando 89 morti. L’azione si è conclusa con la morte (autoindotta per esplosione) di tre attaccanti e l’uccisione di uno di questi da parte delle forze di sicurezza.

Giorno 18 novembre

Quartiere di Saint Denis, nel corso di un blitz da parte delle forze di sicurezza francesi finalizzato alla neutralizzazione/cattura degli altri elementi componenti il gruppo di terroristi,

– un uomo si è fatto esplodere attaccando le forze di sicurezza;

– gli altri elementi del nucleo hanno opposto resistenza cercando di contrastare il blitz dall’interno di un appartamento condominiale, provocando il ferimento di 5 elementi della squadra d’intervento.

Equipaggiamento utilizzato:

– armi individuali: fucili d’assalto AK47, fucili a pompa tipo;

– giubbotti esplosivi: tritolo rafforzato da perossido di idrogeno con chiodi e bulloni per creare l’effetto shrapnel;

– veicoli: due auto noleggiate (Seat ‘Leon’ colore nero, e Volkswagen ‘Polo’).

La natura degli obiettivi colpiti

Si tratta di obiettivi dal forte impatto emotivo e simbolico poiché rappresentano i simboli quotidiani della società occidentale: stadio, teatro, ristoranti.

– L’obiettivo ‘uno’ è tecnicamente un hard-target, con un medio livello di sicurezza, ad elevata concentrazione di popolazione – tra queste il presidente Francois Hollande. L’obiettivo presunto era il pubblico presente alla
manifestazione sportiva che avrebbe dovuto, nei piani dell’organizzazione, essere coinvolto sfruttando gli effetti del panico generale, prevedendone  una fuga di massa che avrebbe provocato ancora più vittime dello stesso attacco.

– Gli obiettivi ‘due’ e ‘tre’ (locali XII arrondissement e teatro ‘Bataclan’) sono di tipo soft target, caratterizzati da un basso livello di sicurezza e alta concentrazione di popolazione.

Tutti gli obiettivi sono di natura puntiforme, distanziati sul piano spaziale al fine di imporre la dispersione sul terreno delle forze di sicurezza, un aumento delle unità impiegate, di quelle di pronto impiego e riserva.

Il risultato, a fronte di un costo ridotto per la condotta degli attacchi, è stata l’imposizione di significativi costi, in termini di risorse materiali e umane, sforzi logistico-operativi, difficoltà di coordinamento, ritardo nell’intervento da parte dell’apparato di sicurezza francese.

2. Tattica, tecnica e procedura

La tattica utilizzata è il raid condotto da ‘commando suicidi’ affiancati da elementi di supporto operativo convenzionale (tiratori dotati di armi automatiche individuali) attraverso fasi successive. Le tre singole azioni prese
in esame sono vere e proprie operazioni militari, in cui agli equipaggiamenti esplosivi dei combattenti-suicidi si aggiungono le armi leggere e di sostegno dei nuclei combattenti. In particolare, per l’obiettivo ‘tre’, le fasi operative si sono così succedute: movimento verso l’obiettivo, penetrazione, uccisione indiscriminata, ricerca del panico, ostaggi, uccisione selettiva, conclusione con la morte autoindotta degli attaccanti (giubbotti esplosivi).

Ha fatto la sua comparsa, dunque anche in Europa, la tecnica di attacco delle unità commando composte da più combattenti-suicidi affiancati e sostenuti da elementi operativi. Una tecnica che ha dato prova di efficacia in Afghanistan e successivamente anche nel teatro operativo del Syraq. Il primo episodio di questo tipo ad aver ottenuto un’attenzione mediatica globale è quello di Mumbai nel novembre del 2008.

Inoltre, nella sua variante europea, si è manifestato come azione inserita in un contesto esclusivamente urbano, e per questo ascrivibile ad operazione dello urban warfare contemporaneo: l’evoluzione del combattimento nei centri abitati, difficile da contrastare, a rischio coinvolgimento di attori non-combattenti (popolazione civile), caratterizzato dall’imprevedibilità della minaccia e dall’elevato numero di target potenziali.

Si tratta di una tattica efficace – frutto della commistione dei due metodi classici veicolo-bomba[1] e uomo-bomba[2] uniti alla tecnica dell’assalto armato convenzionale – basata sul coordinamento di uno o più combattenti-suicidi
(spesso divisi in sotto-unità o scaglioni) sostenuti da nuclei di «sicurezza vicina» e finalizzata alla massimizzazione dell’opera di distruzione in funzione della penetrazione delle linee difensive e a sostegno dell’attacco suicida principale. Una tecnica che si è sviluppata e affinata attraverso il tempo grazie alla capacità di information-sharing tra i gruppi di opposizione armata e l’influenza diretta del conflitto iracheno; tecnica utilizzata ed evolutasi nel conflitto del Kashmir e applicata da quei gruppi insurrezionali kashmiri e pakistani, in primis il Lashkar-e-Taiba.

Questa tipologia di azione ottiene il risultato di un elevato numero di vittime provocate per singolo attacco, maggiore che non per le azioni condotte da singoli attaccanti, e maggiore attenzione mediatica.

E Parigi – come altre capitali o principali città europee – rappresenta un importante obiettivo, strategico e simbolico al tempo stesso; qui, le opportunità di colpire obiettivi di alto profilo sono elevate e garantiscono proprio quella eco mediatica amplificata che viene ricercata dai gruppi di opposizione armata: è l’opportunità a dettare la scelta per la condotta dei cosiddetti «attacchi spettacolari», al fine di spettacolarizzare la violenza.

Il successo del terrorismo è a livello operativo.

Come abbiamo avuto modo di evidenziare in #ReaCT2024 – 5° Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa, anche quando un attacco terroristico non riesce, produce comunque un risultato significativo: impegna pesantemente le forze armate e di polizia, distraendole dalle loro normali attività o impedendo loro di intervenire a favore della collettività. Inoltre, può interrompere o sovraccaricare i servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il regolare svolgimento delle attività quotidiane, commerciali e professionali, danneggiando le comunità colpite. Questo riduce efficacemente il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo, nonché la capacità di resilienza. In generale, infligge danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile ottenuto attraverso queste azioni.

In sostanza, il successo del terrorismo, anche senza causare vittime, risiede nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionare i comportamenti nel tempo in relazione alle misure di sicurezza o limitazioni imposte dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza. Questo fenomeno è noto come “blocco funzionale”. Nonostante la capacità operativa del terrorismo sia sempre più ridotta, il “blocco funzionale” rimane uno dei risultati più importanti ottenuti dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace nel conseguire il “blocco funzionale” nell’80% dei casi, con un picco del 92% nel 2020 e dell’89% nel 2021. Questo risultato impressionante, ottenuto con risorse limitate, conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo, pur a fronte di una rilevata perdita progressiva di capacità che ha visto diminuire l’ottenimento del “blocco funzionale”, sceso al 78% nel 2022 e al 67% nel 2023.

Il terrorismo oggi: opportuna riflessione (dall’originale articolo per Formiche)

Il terrorismo jihadista si impone come una minaccia ideologica diffusa, collegata alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa, ma con una crescente componente di immigrati di prima generazione, spesso giunti in Europa da poco tempo. E parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto; con ciò invitando a un cambio di paradigma nella stessa definizione di terrorismo: non più un’azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque nelle intenzioni; bensì intesa come l’effetto della violenza applicata. È così il terrorismo diviene manifestazione di violenza, priva di un’organizzazione alle spalle: è terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.

All’interno della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di lotta, e lo fa con diversi gradi e modelli di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan, in Iraq.


[1] SVBIED: suicide vehicle-borne improvised explosive Device.

[2] SBBIED: suicide body-borne improvised explosive Device.


Italia: il Documento Programmatico della Difesa (2025-2027)

Orientamenti strategici e sfide per la sicurezza nazionale

di Andrea Molle

Il Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2025–2027 si colloca in una fase di transizione geopolitica e strategica di grande complessità per l’Italia e per l’Europa. Dopo il consolidamento della postura NATO in Europa orientale e la crescente instabilità in Africa e nel Mediterraneo allargato, la Difesa italiana punta a un rafforzamento complessivo della propria capacità di deterrenza, interoperabilità e resilienza. Il DPP 2025 non introduce discontinuità rispetto agli anni precedenti, ma consolida una traiettoria già avviata: una modernizzazione graduale, tecnologicamente avanzata e sempre più interconnessa con l’industria nazionale della difesa.

Il documento insiste sulla necessità di mantenere una proiezione credibile e autonoma nel quadro europeo, pur riconoscendo la centralità del legame atlantico. L’obiettivo è duplice: rafforzare la partecipazione italiana ai programmi di difesa comuni UE (come l’EDF e il PESCO) e, al tempo stesso, garantire la coerenza con le esigenze operative NATO. Questa duplice appartenenza implica un aumento della spesa in conto capitale — non tanto in nuovi fondi, quanto nella stabilizzazione di quelli già approvati — destinata a piattaforme ad alta tecnologia, capacità cyber e spaziali, e infrastrutture di comando e controllo integrate.

Sotto il profilo economico, il DPP conferma un bilancio della Difesa che nel 2025 supera i 31 miliardi di euro, con una ripartizione che tende a privilegiare investimenti piuttosto che spese correnti. Tuttavia, dietro questo apparente consolidamento si cela una tensione tra necessità di sostenibilità finanziaria e ambizione strategica: la crescita della spesa militare resta ancorata a vincoli di bilancio complessivi, e gran parte dei programmi dipende dal mantenimento dei fondi già autorizzati dal Parlamento. La prospettiva di raggiungere il 5% del PIL richiesto dalla NATO è evocata come obiettivo politico, ma appare ancora più una traiettoria che un traguardo immediato.

L’accento sulla trasformazione digitale è un tratto distintivo del documento. Le Forze Armate vengono descritte come attori in un processo di “digitalizzazione operativa”, che comprende l’adozione di sistemi C4ISR avanzati, capacità di difesa cibernetica e integrazione dei domini spaziale e marittimo. In questo senso, il DPP prosegue nel solco dell’“integrazione multidominio”, non solo tecnologica ma anche concettuale: il futuro della difesa italiana passa per la capacità di agire simultaneamente su più teatri — terrestre, navale, aereo, cibernetico, cognitivo e spaziale — con coerenza dottrinale.

Sul piano politico, il DPP 2025 mostra un forte allineamento con la strategia del governo nel Mediterraneo e in Africa. L’Italia intende rafforzare la sua presenza militare e diplomatica nel “Mediterraneo allargato”, da Gibilterra al Mar Rosso, quale area vitale per la sicurezza energetica, le rotte commerciali e la stabilità regionale. Le missioni in Libano, Iraq, Sahel e Corno d’Africa sono confermate, ma con un progressivo riequilibrio in funzione della disponibilità di forze e risorse.

Non mancano però le ambiguità. Diverse analisi sottolineano che il DPP 2025 risulta meno trasparente dei precedenti: fornisce meno dettagli sulle allocazioni specifiche e riduce la granularità informativa sui singoli programmi d’armamento. Questa scelta, interpretata da alcuni come volontà di semplificare la comunicazione pubblica, è letta da altri come un passo indietro nella rendicontazione democratica della spesa militare.

L’Allegato tecnico, parte integrante del DPP, completa il quadro offrendo una mappatura dei programmi in corso e futuri. Vi si trovano i piani di sviluppo per l’Esercito (nuovi veicoli da combattimento e capacità anti-drone), la Marina (modernizzazione delle FREMM, sottomarini U212NFS, nuovi pattugliatori e unità anfibie) e l’Aeronautica (potenziamento della componente F-35, droni MALE e capacità di difesa aerea). A questi si aggiungono i programmi spaziali, in particolare per la sorveglianza e il posizionamento satellitare, ambiti in cui l’Italia mira a consolidare un’autonomia strategica parziale ma significativa.

In termini di filosofia generale, il DPP 2025 conferma la tendenza della Difesa italiana a considerarsi non solo strumento militare ma infrastruttura nazionale di sicurezza integrata, in grado di operare anche in ambiti civili (protezione civile, sanità, emergenze ambientali). Questa impostazione “dual use” risponde sia a esigenze di efficienza interna sia al tentativo di accrescere il consenso sociale verso la spesa militare, legittimandola come investimento per la collettività.

Nel complesso, il DPP 2025–2027 rappresenta dunque un documento di continuità e consolidamento, più che di rottura. Ambizioso nelle intenzioni, prudente nelle allocazioni, e orientato a mantenere l’Italia nel gruppo di testa europeo in termini di capacità tecnologiche e industriali della difesa. Resta aperta, tuttavia, la questione della trasparenza e del controllo democratico su una spesa che si muove ormai verso livelli strutturalmente elevati, e la cui giustificazione dipende sempre più da una narrativa di “emergenza permanente” nel contesto internazionale.

Il DPP 2025–2027 conferma dunque la tendenza della politica della difesa italiana a essere al tempo stesso reattiva e conservatrice piuttosto che pienamente strategica. È reattiva perché si adatta alle nuove minacce — guerra ibrida, cyber-attacchi, competizione nello spazio e nei mari — ma è conservatrice nella struttura decisionale e nei meccanismi di allocazione delle risorse. La pianificazione resta in larga misura incrementale, cioè basata sull’aggiustamento di programmi pluriennali già avviati più che su una ridefinizione strategica delle priorità. In questo senso, il DPP 2025 è più un documento di gestione che di visione.

Dal punto di vista strategico, la Difesa italiana continua invece a muoversi su un doppio binario: da un lato la piena integrazione nella NATO e nel suo dispositivo orientato alla deterrenza convenzionale verso la Russia; dall’altro, la volontà di preservare una specificità mediterranea che consenta all’Italia di restare un attore di primo piano nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Questa duplice direttrice produce talvolta un effetto di dispersione: le forze e i bilanci vengono divisi tra teatri lontani e missioni di natura diversa (proiezione, stabilizzazione, deterrenza, sostegno civile). Il risultato è una postura globale coerente ma non sempre efficace in termini di concentrazione dello sforzo.

Dal punto di vista industriale, il DPP prosegue nella strategia di integrazione tra sistema militare e sistema produttivo nazionale. Il complesso della difesa viene descritto come un “ecosistema tecnologico” in cui le grandi imprese (Leonardo, Fincantieri, MBDA, Iveco Defence) assumono un ruolo di cerniera tra capacità operative e innovazione industriale. Questa scelta è coerente con la logica europea dell’EDF e della PESCO, ma comporta un rischio crescente di dipendenza politica dalle esigenze di mantenimento delle filiere e dei distretti industriali, più che dalle reali priorità strategiche. In altre parole, la pianificazione rischia di essere guidata dalla “logica dell’offerta” industriale piuttosto che da una domanda operativa chiara.

Un secondo elemento critico, che emerge in filigrana nel DPP 2025–2027, riguarda la persistente assenza di un paradigma di “difesa totale” o di sicurezza nazionale integrata, sul modello nordico. Nonostante la crescente consapevolezza delle minacce ibride — cyber, infrastrutturali, cognitive e sociali — il documento continua a leggere la resilienza quasi esclusivamente in chiave militare o tecnico-istituzionale, trascurando la dimensione sociale e civile della difesa. In altri termini, manca una visione che concepisca il cittadino, l’impresa e il territorio come parte attiva del sistema di sicurezza nazionale. In questo senso, gli investimenti restano concentrati sullo strumento militare e sulla sua proiezione esterna, ma poco si fa per costruire una resilienza diffusa, capace di rendere la società italiana meno vulnerabile alle crisi energetiche, informative e logistiche. Il riferimento al modello “total defense” — che in Paesi come Svezia, Finlandia o Norvegia integra difesa, protezione civile, comunicazione strategica e formazione civica — evidenzia quanto l’Italia sia ancora ancorata a una concezione verticale della sicurezza, affidata allo Stato più che condivisa con la società. Il rischio è quello di un sistema di difesa moderno, dual use, ma isolato dal suo tessuto civile, incapace di trasformare la sicurezza in una cultura collettiva.

Un terzo elemento critico riguarda la trasparenza e la legittimazione democratica. Rispetto ai DPP precedenti, quello del 2025 riduce il livello di dettaglio pubblico sulle spese e sui singoli programmi, rendendo più difficile un controllo parlamentare e civico. Ciò potrebbe derivare da ragioni tecniche — la semplificazione della comunicazione — ma sul piano politico è sintomo di un trend più generale: la normalizzazione di un livello di spesa elevato, giustificato dal contesto geopolitico, ma sottratto in parte al dibattito pubblico o da una strategia di resilienza diffusa. La difesa tende così a diventare un “ambito protetto” del bilancio, in cui il consenso viene costruito più attraverso la retorica della sicurezza che attraverso la verifica dei risultati.

Sotto il profilo europeo, il DPP 2025 riflette un tentativo di allineamento con il paradigma emergente del “re-armamento europeo” (ReArm Europe), ma resta timido nel promuovere una vera integrazione industriale o operativa. L’Italia si presenta come un contributore affidabile ma non come un leader concettuale: segue la traiettoria franco-tedesca, adattandola ai propri interessi nel Mediterraneo e nel settore navale-aerospaziale.

Nel complesso, il documento esprime un equilibrio pragmatico: un compromesso fra vincoli di bilancio, esigenze di interoperabilità e aspirazioni di autonomia strategica. Tuttavia, l’impressione generale è che manchi una visione coerente del ruolo dell’Italia nel sistema internazionale della sicurezza. L’aumento della spesa, la digitalizzazione e la cooperazione industriale sono strumenti, non fini: e il DPP 2025, pur ben strutturato tecnicamente, non articola in modo convincente quale debba essere il fine politico — se deterrenza, stabilità regionale, proiezione globale o solo continuità istituzionale.

In questo senso, il DPP 2025–2027 è un documento necessario, ma non ancora sufficiente. Segna il consolidamento di una politica di difesa moderna, tecnologicamente avanzata e integrata con l’Europa, ma lascia aperta la domanda più profonda: quale modello di potenza l’Italia intende essere nel mondo che si prepara alla competizione permanente tra grandi attori?

Foto di Slim MARS su Unsplash


Il nuovo asse europeo della difesa e il posto dell’Italia

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Nell’Europa del 2025, la difesa torna al centro della politica. La firma del primo patto bilaterale tra Germania e Regno Unito dalla fine della Seconda guerra mondiale segna una svolta storica e simbolica. È un accordo articolato, con 17 progetti congiunti che spaziano dal rafforzamento della deterrenza sul fianco orientale della NATO allo sviluppo congiunto di capacità ad alta tecnologia, tra cui missili a lungo raggio e sistemi subacquei avanzati. Ma dietro la notizia si cela una trasformazione ben più ampia: l’evoluzione dell’architettura della sicurezza europea, che vede emergere un nuovo triangolo strategico – Londra, Berlino, Parigi – e chiede con urgenza a Roma di decidere se vuole restare alla periferia o sedersi al tavolo dove si disegna il futuro della sicurezza continentale.

È chiaro intanto che il nuovo patto anglo-tedesco non cancella l’asse franco-tedesco, né tanto meno lo rimpiazza. Al contrario, ne allarga i confini operativi e lo rafforza in chiave trilaterale, grazie anche alla continuità garantita dalle cooperazioni precedenti tra Regno Unito, Francia e Germania all’interno del formato E3. Il trattato siglato nel 2024 tra Parigi e Londra, con cui il Regno Unito ha esteso un ombrello nucleare europeo condiviso, ne è stato il primo segnale. La Germania, con questo nuovo passo, si rende protagonista di una strategia di alleanze multiple che punta a integrare la deterrenza NATO, sfruttando le capacità britanniche, la visione strategica francese e la propria potenza industriale.

A margine, ma si spera in modo sempre più visibile, si muove l’Italia. Pur ancora lontana dal target NATO del 5% del PIL in spesa militare – e con una discussione interna dominata da timori fiscali e disattenzione strategica – Roma ha iniziato a riallacciare i fili con ciascuno dei grandi partner europei. Con il Regno Unito è attiva da anni una collaborazione sulla sicurezza, rafforzata da esercitazioni congiunte e da una convergenza sulla lotta alla migrazione illegale e al traffico di esseri umani. Con la Germania l’intesa industriale si è consolidata attraverso Leonardo e Rheinmetall, in progetti comuni che riguardano la difesa antiaerea e la logistica militare. Il rapporto con la Francia è più profondo e strutturato, ma anche molto più difficile essendo caratterizzata da una competizione diretta in molti teatri e domini strategici. Oltre alla cooperazione industriale su piattaforme navali (come il programma Fincantieri–Naval Group), esiste però una convergenza politica sulla necessità di un “pilastro europeo” nella NATO e sul rilancio della difesa comune.

Il vero nodo, però, è strutturale. L’Unione Europea ha lanciato il programma ReArm Europe – ribattezzato Readiness 2030 – che prevede uno stanziamento di oltre 800 miliardi di euro per rafforzare l’autonomia strategica dell’Europa, includendo anche un fondo militare da 150 miliardi destinato all’industria della difesa. A questa iniziativa si affianca un nuovo quadro finanziario pluriennale, già approvato, che apre la strada a deroghe fiscali per la spesa militare, consentendo (o forse meglio dire costringendo) agli Stati di indebitarsi per rafforzare la propria sicurezza senza infrangere le regole di bilancio.

Su questo tema, l’Italia sembra muoversi con cautela, se non con vera e propria esitazione. Il governo ha espresso formalmente l’impegno a raggiungere il 5% di spesa, ma le modalità restano poco chiare e l’opinione pubblica è divisa. Il rischio è che il nostro Paese finisca per approcciare il riarmo europeo come una necessità tecnica, o nel peggiore dei casi come una delega in bianco per la spesa pubblica, e non come una scelta strategica. In tal modo, l’Italia si condannerebbe a essere un partner minore, spettatrice di un processo che altri stanno guidando con visione e audacia.

Eppure, le opportunità non mancano. L’Italia può entrare da protagonista nei progetti E3, candidarsi come piattaforma logistica per il fianco Sud della NATO, rilanciare la sua industria con programmi comuni e difendere un’autonomia tecnologica europea anche attraverso il proprio tessuto imprenditoriale. Ma per farlo serve una scelta politica chiara: investire davvero nella difesa non solo come costo, ma come garanzia di sovranità, crescita industriale e centralità strategica.

Il nuovo asse anglo‑tedesco non è pertanto una minaccia, ma un’occasione. A condizione che l’Italia smetta di osservare, e torni a pensarsi come potenza media responsabile, europea e strategicamente matura.


Profilo di rischio degli autori di violenza politica negli Stati Uniti vs l’Unione Europea (UE 27) nel 2024 – primo trimestre 2025

di Andrea Molle negli Stati Uniti

Recenti analisi prodotte da agenzie per la sicurezza e istituti di ricerca rivelano una crescente convergenza nei profili demografici e geografici degli individui coinvolti in atti di violenza politica nelle democrazie occidentali. Sebbene le ideologie specifiche varino — temi razzisti ed etnici e le teorie complottiste anti-governative sono più diffuse negli Stati Uniti, mentre in Europa prevalgono i movimenti jihadisti e separatisti — il profilo tipico appare sorprendentemente simile su entrambe le sponde dell’Atlantico. Si tratta, in genere, di un uomo di giovane età, spesso compresa tra la tarda adolescenza e i vent’anni, che si radicalizza online e viene spinto ad agire in contesti dove la visibilità mediatica è elevata o dove i risentimenti locali offrono terreno fertile per la mobilitazione.

La tabella che segue presenta le statistiche più aggiornate fornite dall’FBI, dal Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS), dal rapporto TE-SAT 2025 di Europol, dal database START-PIRUS e da analisi spaziali fondate sul monitoraggio degli eventi ACLED (Armed Conflict Location  and Event Data). Insieme, queste fonti offrono un quadro dettagliato dell’attuale panorama delle minacce.

Variabili Stati Uniti Unione Europea
genere ≈ 85 % uomini (PIRUS, 1970–2021) ≈ 91 % uomini (TE‑SAT 2025 juveniles)
Età ≈ 68 % fra 18‑34 (PIRUS) > 60 % sotto i 35;29 % minori (TE‑SAT 2025)
Razza/etnia REMVE suprematisti bianchi = 52 % nell’FBI DVE disruptions FY 2024 Etno‑nazionalisti/separatisti =38 % degli attacchi nel 2024
Religione < 7 % ispirazione jihadista negli USA (HTA 2025); crescita della frangia
Christian‑identity
Ideologia jihadista in 24 dei 58 attacchi; estremismo politico “post-religioso” (TE‑SAT)
Affiliazione politica Anti‑gov./sovereign + partisan = 49 % degli episodi dal 2016 (CSIS) Micro – cellule accelerazioni-ste e neo‑Nazi in aumento (TE‑SAT)
Città / Campagna 72 % degli episodi in aree urbane   > 250 k; picco secondario nelle contee a bassa densità di milizie (arXiv 2025) Grandi capitali e periferie separatiste (Corsica, Paesi Baschi)

Tabella 1: Indicatori Comparativi del Rischio

la fascia più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni

Una chiara disparità di genere caratterizza gli individui coinvolti in atti di violenza politica sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Negli Stati Uniti, i dati del database START-PIRUS, relativi al periodo 1990–2021, mostrano che circa l’85% degli autori è di sesso maschile. La tendenza è ancora più marcata in Europa, dove il rapporto TE-SAT 2025 di Europol indica che il 91% dei sospetti arrestati per terrorismo giovanile nel 2024 era di sesso maschile. Questa netta predominanza rappresenta una delle caratteristiche costanti, trasversale a tutti gli orientamenti ideologici.

Anche l’età rappresenta un predittore significativo. In entrambe le regioni, la fascia più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni. Negli Stati Uniti, quasi il 70% degli autori rientra nella fascia tra i 18 e i 34 anni. Allo stesso modo, Europol riporta che il 29% di tutti gli arresti legati al terrorismo nell’UE nel 2024 ha riguardato minorenni o giovani adulti tra i 12 e i 20 anni. Questi dati evidenziano la crescente vulnerabilità delle fasce giovanili, in particolare all’interno degli ambienti digitali e dei social media.

Anche l’identità razziale ed etnica ha un ruolo rilevante nella definizione dei profili degli autori. Negli Stati Uniti, l’FBI ha classificato il 52% degli interventi contro estremisti violenti interni (DVE) nell’anno fiscale 2024 come motivati da ragioni razziali o etniche, con la maggioranza dei casi collegati a ideologie suprematiste bianche. Nell’Unione Europea, il quadro risulta più variegato: il 41% degli attacchi compiuti nel 2024 è stato attribuito ad attori jihadisti, mentre il 38% è stato condotto da gruppi etno-nazionalisti o separatisti, in particolare in aree interessate da conflitti legati all’autonomia regionale.

in Europa, il segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato da microcellule accelerazioniste e neo-naziste

L’ideologia religiosa, pur non essendo più dominante negli Stati Uniti, continua a rappresentare un fattore determinante negli attacchi in Europa. Negli USA, gli attentati ispirati al jihad costituiscono oggi meno del 7% dei casi di estremismo violento interno (DVE), segnalando un più ampio spostamento verso motivazioni secolari o ibride. Al contrario, in Europa queste motivazioni sono state responsabili del 41% di tutti gli attacchi terroristici mortali nel 2024, rendendo la religione un fattore molto più rilevante nel contesto europeo.

Infine, l’affiliazione politica è emersa come un elemento determinante dell’estremismo violento più recente. Negli Stati Uniti, i dati del Center for Strategic and International Studies (CSIS) indicano che il 49% degli episodi dal 2016 ha coinvolto attori anti-governativi, appartenenti al movimento dei “cittadini sovrani” o legati a polarizzazioni partitiche estreme. In Europa, il segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato da microcellule accelerazioniste e neo-naziste: gruppi piccoli, decentralizzati, spesso attivi a livello transnazionale e coordinati tramite piattaforme di comunicazione criptata.

Negli Stati Uniti, i cluster geografici di violenza politica non sono distribuiti uniformemente. Un’analisi spaziale basata sui dati degli eventi registrati da ACLED rivela che California, Texas, Florida e Georgia guidano la classifica nazionale per numero totale di episodi. Tuttavia, se si considera la popolazione, il primato in termini pro capite spetta al Pacifico nord-occidentale, in particolare agli stati dell’Oregon e di Washington. Al di fuori delle grandi aree metropolitane, emerge un secondo cluster che merita attenzione nelle contee rurali con reti militanti attive, tra cui alcune aree del nord dell’Idaho e dell’est dell’Oregon. Queste regioni, sebbene meno popolate, ospitano comunità con un forte sentimento anti-governativo e con infrastrutture logistiche in grado di sostenere attività estremiste.

Anche l’Unione Europea presenta un andamento altrettanto disomogeneo. L’Italia ha registrato il maggior numero di attacchi terroristici nel 2024, con 20 episodi, seguita dalla Francia con 14. Spagna e Francia guidano la classifica per numero totale di arresti legati alla violenza politica. Nel frattempo, atti di violenza separatista a bassa intensità ma persistenti continuano a verificarsi in aree come la Corsica e i Paesi Baschi, dove rivendicazioni storiche e identità regionali alimentano conflitti localizzati. Queste zone restano focolai di attività etno-nazionalista, nonostante l’attenzione più ampia si stia spostando verso minacce di natura transnazionale.

Un recente quadro statistico basato sui dati di Europol e START InSight curato da Claudio Bertolotti nel Rapporto annuale ReaCT2024 sul terrorismo e la radicalizzazione in Europa, conferma la persistenza della minaccia terroristica in Europa. Nel 2023 sono stati compiuti 43 attacchi e ne sono stati sventati altri 33, con oltre 600 arresti effettuati nei vari stati membri dell’UE. Francia e Austria guidano la classifica per numero di arresti, segnalando sia un’elevata intensità operativa sia una chiara priorità attribuita all’attività di intelligence. I dati evidenziano inoltre la sfida costante rappresentata dai gruppi etno-nazionalisti e separatisti — in particolare in Francia e Spagna — accanto a residui di minacce jihadiste. L’analisi di Bertolotti rafforza l’idea che i processi di radicalizzazione siano sempre più spinti da fattori ibridi, in cui si intrecciano ideologia, fragilità personali e vulnerabilità psicologiche, soprattutto tra i giovani disillusi.

Sebbene gli indicatori demografici e geografici aiutino a individuare chi sono gli autori e dove operano, comprendere come avviene il processo di radicalizzazione offre una prospettiva più profonda sulla traiettoria della minaccia.

gli spazi digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la mobilitazione

Indipendentemente dall’ideologia di riferimento, la maggior parte degli individui coinvolti in atti di violenza politica tende a seguire un percorso di radicalizzazione simile. In genere, tutto ha inizio con una crisi personale — come disagio emotivo, isolamento sociale o difficoltà economiche — che si sovrappone a narrative più ampie basate su teorie del complotto o rivendicazioni identitarie. Questi racconti offrono una chiave di lettura distorta attraverso cui l’individuo rielabora la propria condizione, attribuendo la colpa a istituzioni, governi o gruppi specifici. Con il tempo, il bisogno di significato o appartenenza lo spinge verso comunità online dove tali visioni vengono rafforzate. Sia l’FBI che Europol hanno segnalato i social media, le piattaforme di gaming e le app di messaggistica criptata come acceleratori cruciali in questo processo, in particolare tra gli utenti più giovani. Questi spazi digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la mobilitazione.

La probabilità che un individuo compia atti di violenza politica varia in base a una combinazione di fattori demografici, geografici e comportamentali. Il profilo a più alto rischio è quello di un uomo tra i 18 e i 34 anni, residente in un’area urbana politicamente polarizzata o in una regione con movimenti separatisti attivi. Questo individuo è generalmente molto immerso in contenuti estremisti online, spesso attraverso forum, social network o applicazioni di messaggistica criptata.

Un livello di rischio moderato è associato agli individui che vivono in contee rurali degli Stati Uniti dove è documentata l’attività di milizie. Questo gruppo comprende spesso persone con precedenti per violenza domestica o altri episodi di aggressione minore, suggerendo che un passato di aggressività interpersonale possa fungere da precursore alla violenza politica quando si intreccia con influenze ideologiche radicali.

All’estremo inferiore dello spettro di rischio si trovano gli adulti più anziani — in particolare le donne oltre i 45 anni — che non presentano alcuna traccia rilevante di attività online in ambienti estremisti. Questo segmento demografico risulta ampiamente sottorappresentato in tutti i dataset noti relativi alla violenza di matrice politica.

Per ridurre efficacemente la minaccia della violenza politica, le strategie di prevenzione devono concentrarsi sui gruppi più vulnerabili e sugli ambienti ad alto rischio. Una delle priorità più urgenti è l’intervento precoce rivolto ai giovani maschi tra i 13 e i 24 anni, che costituiscono il segmento in più rapida crescita tra coloro che si radicalizzano online. Programmi di sensibilizzazione e coinvolgimento attivo, mirati a intercettare questi individui prima che si integrino stabilmente in reti estremiste, possono ridurre in modo significativo il rischio a lungo termine.

Invece di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico, jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a schemi comportamentali comuni che attraversano trasversalmente tutte le ideologie

Allo stesso tempo, i centri di coordinamento federali e locali (fusion centers) dovrebbero allineare l’impiego delle risorse ai cluster geografici individuati dai dati ACLED e dai modelli spaziali elaborati da diversi analisti. Ciò implica concentrare gli sforzi non solo nei grandi centri urbani, ma anche in quelle contee specifiche dove è stata documentata un’attività estremista, passata o presente.

È fondamentale che i programmi di prevenzione superino le rigide classificazioni ideologiche. Invece di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico, jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a schemi comportamentali comuni — come crisi personali, isolamento sociale e radicalizzazione online — che attraversano trasversalmente tutte le ideologie.

Infine, è necessario prestare particolare attenzione ai cicli elettorali. Sia il Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) che il Center for Strategic and International Studies (CSIS) hanno documentato picchi ricorrenti di violenza politica e attività minacciose in corrispondenza delle principali elezioni. Una pianificazione preventiva e l’adozione di misure di sicurezza mirate durante questi periodi sono essenziali per mitigare il rischio di esplosioni di violenza.

Rischio Stimato per la Popolazione e Strategie di Mitigazione

Sebbene il panorama della violenza politica sia in continua evoluzione e sempre più visibile, il rischio effettivo di subire danni fisici per un cittadino medio rimane statisticamente molto basso, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Secondo i dati aggregati di FBI, DHS ed Europol, la probabilità annua che un civile venga ucciso in un attacco a motivazione politica è inferiore a 1 su 10 milioni nella maggior parte dei paesi occidentali. Per fare un paragone, si tratta di probabilità simili a quelle di essere colpiti da un fulmine o vittima di una fuga di gas domestico.

l’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa contribuisce ad alimentare nel tempo

Tuttavia, queste medie nascondono importanti sfumature. La percezione della minaccia risulta infatti molto più elevata in determinati contesti ad alta visibilità — come edifici governativi, manifestazioni politiche o istituzioni religiose — dove la probabilità di un attacco è effettivamente maggiore, specialmente durante fasi di forte tensione politica o in seguito a eventi polarizzanti. In tali ambienti, il rischio per alcune categorie di persone (funzionari pubblici, giornalisti, attivisti, membri di minoranze religiose o etniche) risulta sensibilmente più alto rispetto alla media della popolazione.

Negli ultimi cinque anni, negli Stati Uniti si è registrata una media annuale di 25–35 episodi documentati di violenza politica interna con esiti fisici gravi o intenti letali. Nell’Unione Europea, sebbene il numero di attacchi portati a termine sia inferiore, il volume di arresti e complotti sventati — oltre 400 solo nel 2024 — segnala un livello elevato di intenzionalità e di capacità di mobilitazione.

Il vero rischio, dunque, non risiede tanto negli eventi a elevato numero di vittime, quanto nell’erosione cumulativa della fiducia pubblica, della stabilità democratica e delle norme civiche. L’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa contribuisce ad alimentare nel tempo.

Tre dinamiche interconnesse aumentano l’esposizione al rischio per specifici gruppi:

Prossimità a istituzioni simboliche o politiche (es. sedi parlamentari, sinagoghe, ambasciate)
Visibilità demografica (es. minoranze religiose o razziali frequentemente bersaglio)
Partecipazione ad attività civiche ad alta esposizione (es. attivisti, funzionari eletti, giornalisti)

Per mitigare tali rischi, è necessario adottare un approccio preventivo multilivello, che coinvolga tanto le autorità quanto le comunità locali. Le strategie chiave includono:

  • Valutazione comportamentale delle minacce (Behavioral Threat Assessment): Formazione di personale in prima linea — insegnanti, assistenti sociali, responsabili delle risorse umane — per riconoscere i segnali precoci di radicalizzazione e intervenire prima che si concretizzi la mobilitazione.
  • Alfabetizzazione digitale e contrasto alla radicalizzazione: Promozione di competenze di verifica dei fatti, resilienza online e meccanismi di segnalazione tra le fasce giovanili, in particolare tra i maschi di età compresa tra i 13 e i 24 anni.
  • Partenariati di comunità: Investire in attori locali affidabili, come leader religiosi e organizzazioni di quartiere, per costruire relazioni, ridurre l’isolamento sociale e rafforzare il capitale sociale.
  • Pianificazione di sicurezza per i cicli elettorali: Schierare risorse di sicurezza mirate e strumenti di contrasto alla disinformazione durante le elezioni, ormai sistematicamente associate a picchi di minacce.
  • Centri di ricerca basati su dati quantitativi: Rafforzare la capacità dei centri di intelligence regionali di condividere in tempo reale analisi geospaziali e comportamentali tra forze dell’ordine e istituzioni civiche.

In definitiva, sebbene sia improbabile che la violenza politica colpisca direttamente il cittadino medio, i suoi effetti a catena possono compromettere profondamente la vita democratica se non vengono affrontati in modo adeguato. Per questo, l’attenzione non deve concentrarsi unicamente sulla sicurezza, ma anche sulla ricostruzione della fiducia nelle istituzioni e sul rafforzamento della resilienza sociale.

Fonti

[1] Europol. *European Union Terrorism Situation & Trend Report (TE‑SAT 2025)*. Luxembourg: Publications Office of the EU, 2025.

[2] DHS Office of Intelligence & Analysis. *Homeland Threat Assessment 2025*. Washington DC, 2024.

[3] University of Maryland START. *Profiles of Individual Radicalization in the United States (PIRUS) Research Brief*, March 2023 update.

[4] Claudio Bertolotti, ed., #ReaCT2023 – Report on Radicalization and Terrorism (Rome: START InSight, 2023), https://www.startinsight.eu/react2023-report-on-radicalization-and-terrorism/

[5] Riley McCabe. “The Rising Threat of Anti‑Government Domestic Terrorism: What the Data Tells Us.” CSIS Brief, October 21 2024.

[6] Ravi Varma Pakalapati & Gary E. Davis. “Spatial and Temporal Analysis of Political Violence in the United States.” arXiv preprint 2503.14399, March 2025.


NATO – Cosa implica quel 5% di spesa per l’Italia

di Andrea Molle dagli Stati Uniti

L’adozione, al vertice dell’Aia del 24-25 giugno, del nuovo obiettivo NATO di spesa al 5% del PIL non è un mero aggiornamento contabile: segna una svolta strategica che ridefinisce il concetto stesso di difesa. La formula 3,5% + 1,5% — tre punti e mezzo per “hard defence” in senso classico e un punto e mezzo per investimenti dual-use a sostegno della resilienza nazionale — cristallizza la lezione della guerra in Ucraina: senza vie di comunicazione rinforzate, scorte energetiche sicure e cyberspazio protetto, i carri armati non arrivano al fronte e i droni non decollano.

Per l’Italia la sfida è doppia. Da un lato, il governo Meloni si è impegnato a onorare il nuovo target pur mantenendo un sentiero di rientro del deficit; dall’altro, parte da un livello “puro” di circa 1,57%, ben al di sotto del 3,5% richiesto per la componente militare tradizionale. Tradotto in cifre, significa trovare nell’arco di dieci anni fra i 32 e i 42 miliardi di euro aggiuntivi l’anno solo per armamenti, addestramento e readiness operativa, a cui si sommano gli investimenti per infrastrutture e cyber-resilienza. Tuttavia, la stessa Alleanza ha chiarito che l’obiettivo del 5% è da raggiungere in modo progressivo: 3,5% per la difesa militare e 1,5% per la sicurezza civile, entrambi spalmati su un orizzonte decennale. L’aumento effettivo richiesto è quindi contenuto, pari a un massimo dello 0,3% del PIL all’anno. Si tratta di un impegno oneroso, ma non insostenibile.

Il Ministero della Difesa non potrà più diluire gli incrementi fra le tre Forze Armate come in passato. Per l’Esercito, relegato per anni al terzo posto dietro Marina e Aeronautica, l’occasione è irripetibile: colmare il ritardo su mezzi corazzati, artiglieria a lunga gittata, munizioni di precisione e capacità contro-UAS, garantire poligoni moderni e manutenzione, dotarsi di sensoristica strategica oggi appannaggio quasi esclusivo degli Stati Uniti. Senza questa svolta, gli impegni sul fianco Est resteranno nominali.

La quota dell’1,5% apre invece un terreno di politica industriale. Porti come Gioia Tauro, i corridoi ferroviari TEN-T e la dorsale 5G/quantum italiana possono essere co-finanziati dall’UE sotto l’ombrello “Military Mobility”, veicolando investimenti che valgono sia per la Difesa sia per la competitività logistica nazionale. Qui l’Esercito può diventare attore-ponte con Protezione Civile e infrastrutture critiche, ridefinendo il proprio ruolo di “forza-territorio” nel disegno di una difesa totale.

L’orizzonte 2035 offre una gradualità che attenua lo shock sul bilancio, ma non deve illudere: il procurement terrestre richiede cicli decennali. I contratti per Ariete, Dardo, PzH 2000 e SAMP/T NG vanno firmati ora se si vuole evitare un nuovo decennio di eterne mezze soluzioni. È un banco di prova anche politico: se Roma non riuscirà a trasformare il 5% in occasione di modernizzazione industriale e deterrenza credibile, il nuovo criterio rischierà di ridursi a un ulteriore indicatore-tabù come il vecchio 2%.

La posta in gioco, insomma, non è solo soddisfare Washington né evitare future minacce di dazi; è dimostrare ai partner che un’Italia con 5 milioni di riservisti virtuali, ma senza munizioni né strade percorribili da un Leopard, è un anello debole. Se la Penisola saprà invece coniugare ambizione europea, realismo contabile e impulso al proprio esercito, il 5% potrà diventare il volano di una sicurezza finalmente integrata fra caserme, fabbriche e ponti.

Questo nuovo paradigma impone anche una riscrittura del rapporto tra Forze Armate e società civile, dopo decenni di separazione culturale e funzionale. L’investimento nella resilienza nazionale, nella protezione delle infrastrutture critiche e nella risposta alle minacce ibride restituisce ai militari un ruolo visibile, concreto, integrato nel tessuto del Paese. Non più solo professionisti di missioni all’estero, ma attori centrali della sicurezza collettiva, custodi del territorio e partner della cittadinanza. È un’occasione storica per ricucire quel legame, fondandolo non sulla retorica ma sull’utilità strategica e sulla trasparenza democratica.


L’ITALIA CHE SERVE A TRUMP

In un’Europa frammentata, l’Italia di Giorgia Meloni diventa l’alleato decisivo per la visione trumpiana dell’Occidente

di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti
giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)

In un contesto globale segnato da instabilità e dalla ridefinizione degli equilibri internazionali, l’Italia emerge come potenziale perno in una nuova configurazione dell’Occidente. La presidenza Trump, tornata al centro della scena internazionale, rilancia una visione basata sulla centralità degli Stati sovrani, sul pragmatismo economico e su un’alleanza atlantica non più mediata dalle istituzioni multilaterali, ma fondata su rapporti diretti tra governi affini.

In questa prospettiva, l’Italia sembra rispondere con coerenza e tempestività. L’approccio di Meloni — che combina atlantismo con rivendicazione di autonomia nazionale — si inserisce in un disegno più ampio che guarda a una riorganizzazione dei rapporti tra Europa e Stati Uniti.

La vera domanda, ora, è: quale sarà lo sviluppo di questo momento storico?

La risposta sembra intrecciarsi con un nuovo asse internazionale: un’Italia più autonoma ma pienamente inserita in un Occidente in trasformazione, dove il rapporto con gli Stati Uniti — e in particolare con il mondo che ruota attorno a Donald Trump — potrebbe risultare decisivo per ridefinire non solo il ruolo dell’Italia, ma anche quello dell’Europa.

Donald Trump e la nuova strategia verso l’Europa: sovranità contro burocrazia

Già durante il suo primo mandato presidenziale (2017–2021), Donald Trump aveva manifestato una visione critica nei confronti dell’architettura europea. La sua politica estera rompeva con l’approccio tradizionale americano di sostegno incondizionato alle istituzioni multilaterali, ponendo al centro il principio della sovranità nazionale come fondamento della cooperazione internazionale.

Nel discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2018, Trump dichiarò senza mezzi termini: “Rifiutiamo l’ideologia del globalismo e abbracciamo la dottrina del patriottismo.” Questa visione si tradusse in una serie di azioni concrete: la pressione sugli alleati NATO affinché aumentassero la loro spesa per la difesa (ennesima sollecitazione americana); l’opposizione a trattati multilaterali considerati penalizzanti per gli Stati Uniti; il sostegno implicito a quei governi europei che rivendicavano maggiore autonomia decisionale rispetto a Bruxelles, come la Polonia, l’Ungheria e, più recentemente, l’Italia.

Sul piano strategico, Trump ha sempre visto con diffidenza l’Unione Europea perché troppo burocratizzata, percependola non come alleato complementare, ma come potenziale concorrente economico.  Come affermò nel 2020 in un’intervista a Fox News: “L’Unione Europea è stata creata per approfittare degli Stati Uniti. Io lo so. E anche loro lo sanno.”

La sua proposta di un “Patto tra Nazioni libere“, più che una coalizione istituzionale rigida, mirava a costruire una rete di Stati sovrani legati da interessi comuni e dalla difesa delle rispettive identità nazionali. Questo approccio richiama una tradizione storica americana. Già nel 1947, il presidente Harry S. Truman, in un messaggio speciale al Congresso, sottolineava: “Considerata dal punto di vista della nostra economia, la ripresa europea è essenziale.”  Trump ha richiamato questo stesso principio, in forme aggiornate, nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2017: “Il successo delle Nazioni Unite dipende dalla forza indipendente dei suoi membri.”

Per Trump, dunque, un’Europa forte — ma composta da Stati sovrani, non da un’unica entità burocratica — è un elemento strategico per garantire stabilità globale e reciproca prosperità economica. La sua critica all’Unione Europea non si concentra sull’idea di cooperazione tra Paesi, bensì sulla trasformazione della UE in una struttura sovranazionale percepita come distante dai popoli e penalizzante per gli interessi nazionali. 

Il suo ritorno alla Casa Bianca 2025 ha visto la messa in atto del “progetto Trump” ossia la ridefinizione delle relazioni transatlantiche occupando così un posto centrale nell’agenda geopolitica, per aprire nuovi spazi di manovra per quei Paesi europei — come l’Italia — che intendano riaffermare il primato degli interessi nazionali.

 Da questa prospettiva, l’interesse verso leader come Giorgia Meloni si inserisce in un disegno più ampio: favorire la costruzione di un’Europa basata sulla collaborazione tra nazioni libere e forti, capaci di relazionarsi direttamente con gli Stati Uniti in un quadro di parità e di rispetto reciproco. Non è solo una convergenza ideologica, ma una strategia pragmatica, volta a bilanciare la competizione globale con nuove alleanze dinamiche e resilienti.

l rapporto privilegiato tra Italia e Stati Uniti: una lunga alleanza, non senza ombre

Fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il legame tra Italia e Stati Uniti si è consolidato come uno dei pilastri fondamentali dell’ordine atlantico.  Con la firma del Trattato del Nord Atlantico nel 1949 e l’ingresso dell’Italia nella NATO, Roma divenne un alleato strategico imprescindibile per Washington, non solo per la posizione geografica nel Mediterraneo, ma anche come baluardo democratico in Europa durante la Guerra Fredda. Nel corso dei decenni, tuttavia, questo rapporto non è stato privo di tensioni e di dinamiche complesse.  In più occasioni, gli Stati Uniti hanno esercitato una forma di influenza diretta e indiretta sulla politica interna italiana, soprattutto nei momenti più delicati della vita istituzionale.  Il primo caso fu quello dell’ambasciatrice Claire Booth Luce, (moglie del fondatore di Time) che durante il suo mandato (1953–1956), esercitò un’influenza significativa sulla politica italiana promuovendo attivamente politiche anticomuniste, sovrintendendo a programmi di aiuti segreti destinati a rafforzare i governi centristi e a contenere l’espansione del Partito Comunista, in linea con la strategia americana di difesa dell’Europa occidentale.

Giorgia Meloni e il principio di non ingerenza: riaffermare la sovranità nell’alleanza

In questo contesto storico si inserisce l’approccio di Giorgia Meloni, che, pur riaffermando con forza l’alleanza atlantica, ha introdotto una differenza sostanziale: il rifiuto di ogni forma di ingerenza esterna nella politica interna italiana.  Una linea di condotta chiara, ribadita recentemente: “Confermiamo la nostra posizione di non ingerenza negli affari politici degli altri Stati” e “Non sono mai una sostenitrice di quelli che commentano la politica altrui. L’ho subìto.” (Governo.it)

Attraverso questa postura, l’Italia si propone come un alleato affidabile, ma capace di difendere con fermezza la propria autonomia decisionale, in linea con una concezione moderna dell’amicizia tra nazioni libere e sovrane.

L’Italia come motore per una nuova Europa

Oggi più che mai, l’Unione Europea si trova davanti a un bivio storico.  Le crisi internazionali, la crescente distanza tra istituzioni comunitarie e cittadini, le sfide economiche e migratorie hanno reso evidente che il modello attuale — fortemente centralizzato e burocratico — fatica a rispondere alle esigenze reali degli Stati membri. Sempre più voci si levano a favore di una revisione profonda delle dinamiche comunitarie, per evitare che il progetto europeo si trasformi in una costruzione astratta, incapace di rappresentare le identità nazionali e le aspirazioni popolari. .  Ma se l’Italia saprà proporsi come laboratorio di questo nuovo equilibrio europeo, potrebbe aprirsi una nuova strada a una stagione politica capace di ridare senso e legittimità al progetto europeo stesso, evitando che l’Unione si riduca a un mero esercizio burocratico privo di anima. La sfida è ambiziosa

Un’alleanza strategica tra Italia e Stati Uniti: vantaggi e sfide nel rapporto tra Giorgia Meloni e Donald Trump

Il recente incontro tra la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha evidenziato una forte sintonia su temi chiave come la sicurezza, l’immigrazione e la difesa dei valori occidentali. Meloni ha sottolineato l’importanza di rafforzare la cooperazione transatlantica, dichiarando: “Quando parlo dell’Occidente, non parlo di uno spazio geografico: parlo di una civiltà. Voglio rendere questa civiltà più forte” e Meloni ri-frasando Trump ha dichiarato: “Il mio obiettivo è rendere l’Occidente di nuovo grande.”

Questa affermazione sottolinea, senza citarli, le tante sfide che non solo l’Italia ma tutta l’Europa sta affrontando: dall’immigrazione africana e asiatica, all’influenza della sharia nei diversi ordinamenti nazionali, l’incapacità di tramandare le tradizioni a nuove generazioni autoctone e molte, molte altre prove.

Tuttavia, questa alleanza, Italia-USA, presenta non poche ostacoli: dalle politiche protezionistiche di Trump, con l’introduzione di nuovi dazi sui prodotti europei, l’approccio transazionale di Trump dove è data precedenza al bilateralismo snobbando Bruxelles; tutto ciò, potrebbe mettere a dura prova la capacità dell’Italia di mantenere un equilibrio tra la sua relazione statunitense e i suoi obblighi europei. 

Parallelamente, tutta l’Europa si trova esposta agli effetti delle tensioni globali:  la guerra in Ucraina, i conflitti in Medio Oriente, il crescente protezionismo commerciale e i cambiamenti climatici contribuiscono a generare instabilità economica, aumento dei costi energetici e pressioni migratorie, aggravando ulteriormente il quadro macroeconomico.

Conclusione: un’Italia autonoma in un Occidente in trasformazione

In un’epoca di instabilità globale e di crisi dei modelli politici tradizionali, l’Italia ha l’opportunità storica di proporsi come forza propulsiva per una nuova Europa, fondata sulla cooperazione tra nazioni libere e sovrane.

Come disse Lord Acton, “Freedom is the right to do as you please. Liberty is the right to do as you ought.” (freedom, intesa come assenza di costrizioni, e liberty, ovvero la libertà esercitata nel rispetto di un ordine giusto).

La sfida oggi è proprio questa: difendere la libertà di scelta nelle relazioni internazionali, ma farlo con la responsabilità di costruire ponti, tutelare la propria identità e rafforzare i valori condivisi dell’Occidente. Il successo di questa visione dipenderà dalla capacità, da parte di tutti, di accantonare in sede europea le vecchie diatribe, per affermare un ordine multipolare più equo, ma saldo nei principi occidentali. Forse, in questo contesto, l’Italia potrà davvero proporsi come interlocutore credibile tra le due sponde dell’Atlantico, contribuendo alla costruzione di un nuovo equilibrio internazionale?


“Dalla Russia con amore”: le nuove minacce per l’Italia e il ruolo della Russia tra cyberspazio, salute pubblica, disinformazione e spionaggio.

di Claudio Bertolotti.

Articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico 1/2025 del Centro Alti Studi per la Difesa – Scuola Superiore Universitaria.

Abstract

L’articolo analizza le principali minacce alla sicurezza nazionale italiana attribuite alla Russia, con un focus su tre aree strategiche: cyber security, disinformazione e spionaggio. La Russia emerge come una delle principali sfide per l’Italia in ambito informatico, grazie alla sua capacità di condurre attacchi mirati volti a ottenere informazioni sensibili o a interferire con le infrastrutture critiche. Parallelamente, l’uso sistematico della disinformazione da parte di Mosca rappresenta uno strumento per influenzare l’opinione pubblica e le decisioni politiche in Italia, sfruttando social media e media tradizionali per diffondere contenuti falsi o manipolati. Il tema dello spionaggio si inserisce nel quadro di cooperazioni bilaterali come l’operazione “Dalla Russia con amore” del 2020, durante la quale sono emersi rischi legati alla raccolta di informazioni sensibili sotto il pretesto di assistenza sanitaria. Questo aspetto si collega a casi emblematici come l’arresto di Walter Biot, ufficiale della Marina militare italiana, accusato di spionaggio a favore della Russia. L’articolo sottolinea la necessità di strategie di contrasto multidimensionali per fronteggiare queste minacce, combinando tecnologie avanzate, cooperazione internazionale e rafforzamento della resilienza istituzionale.

Situazioni di emergenza, crisi e vulnerabilità: il terreno ideale per l’emergere di nuove minacce.

Le dinamiche delle relazioni internazionali e le politiche globali incidono profondamente sulla competizione tra attori statali e non statali, influenzando i settori politico, sociale ed economico. L’assertività dimostrata da alcuni Paesi nell’arena internazionale sta contribuendo, inoltre, a ridefinire gli equilibri di potere sia a livello regionale che globale. Fenomeni come l’emergenza pandemica da Covid-19, il conflitto tra Russia e Ucraina e la crisi energetica stanno già lasciando un’impronta destinata a perdurare a lungo, sia per l’Italia che per molte altre nazioni, con effetti significativi in ambito economico e sociale.

La pandemia da Covid-19 ha messo a dura prova l’Italia, evidenziando vulnerabilità sistemiche e criticità latenti. Essa ha generato una crisi sanitaria senza precedenti, con un incremento esponenziale dei contagi e dei decessi, oltre a un sovraccarico del sistema sanitario. A ciò si è aggiunta una crisi economica e sociale, caratterizzata da un aumento della disoccupazione e da una contrazione dei consumi, conseguenze dirette delle misure restrittive come i lockdown, che hanno portato alla chiusura di numerose attività produttive.

Prima che gli impatti della pandemia potessero essere completamente assorbiti, il 24 febbraio 2022 è scoppiato il conflitto in Ucraina, avviato dall’invasione russa. Questa guerra ha innescato una nuova crisi economica, aggravata dall’aumento dei costi delle materie prime e dalla riduzione dei flussi commerciali. Parallelamente, ha provocato una crisi politica internazionale, con l’introduzione di sanzioni contro la Russia e complicazioni nell’approvvigionamento energetico per molti Paesi europei.

La crisi energetica che ne è derivata ha ulteriormente peggiorato il quadro economico, determinando un ulteriore incremento dei prezzi delle risorse primarie e difficoltà di accesso all’energia. Questi fattori hanno avuto un impatto diretto sull’economia italiana, riducendo la competitività delle imprese nazionali. Questo contesto evidenzia la complessità delle relazioni internazionali e la volatilità dei rapporti tra alleati e rivali, sottolineando l’imprevedibilità di eventi capaci di ostacolare l’accesso alle risorse energetiche, condizionandone disponibilità e prezzi. Tali dinamiche hanno ripercussioni significative sui piani sociale, politico ed economico, rendendo indispensabile una gestione attenta e strategica di questi fenomeni globali (Bertolotti, 2023).

Minacce emergenti per la sicurezza dell’Italia e capacità della Russia (e sue linee d’azione).

La sicurezza e la difesa dell’Italia sono messe a rischio da una serie di minacce emergenti, che si manifestano in vari ambiti in relazione al contesto globale. Tra queste, il cybercrime rappresenta una delle sfide più rilevanti. Con la crescente dipendenza dalle tecnologie digitali, le infrastrutture critiche e le imprese italiane diventano bersagli sempre più vulnerabili ad attacchi informatici. Tali attacchi, spesso condotti attraverso metodi sofisticati, mirano a sottrarre informazioni sensibili o compromettere sistemi, causando danni significativi. La Russia, in particolare, è considerata una delle principali fonti di queste minacce, utilizzando il cyberspazio per attività di spionaggio e interferenza sulle infrastrutture strategiche.

Un ulteriore rischio è rappresentato dallo spionaggio industriale, che colpisce i settori d’eccellenza del sistema produttivo italiano e il know-how nazionale. In un contesto di competizione globale, settori come l’automotive, l’aerospazio, la difesa e l’energia risultano particolarmente esposti a tali pratiche. Le tecnologie avanzate e le innovazioni di punta diventano obiettivi di attacchi mirati, con conseguenze strategiche per la competitività del Paese.

Anche il sistema sanitario nazionale è vulnerabile. Gli attacchi informatici contro questo settore possono compromettere la fornitura di servizi essenziali, mettere a rischio i dati personali di pazienti e operatori, e generare perdite economiche significative per le strutture sanitarie. Queste azioni possono avere un impatto devastante sulla salute pubblica, aggravando ulteriormente situazioni di emergenza.

La disinformazione e propaganda costituiscono un’altra minaccia emergente, con la capacità di manipolare l’opinione pubblica attraverso la diffusione di notizie false o distorte. Social media e media tradizionali sono spesso usati per creare confusione e incertezza, influenzando le decisioni politiche e ostacolando la gestione di crisi. In un contesto già fragile, segnato dagli effetti della pandemia e della crisi energetica, tali dinamiche possono amplificare le divisioni sociali, minando la stabilità e la coesione nazionale.

La crisi energetica, inoltre, si configura come una minaccia significativa. La dipendenza dalle risorse esterne e l’aumento dei prezzi delle materie prime hanno un impatto diretto sull’economia italiana e sulla competitività delle imprese, rendendo più complessa la gestione delle emergenze e il processo decisionale delle autorità (Bertolotti, 2023).

Il ruolo della Russia.

La Russia si posiziona come uno degli attori principali nello scenario delle minacce emergenti per l’Italia. Grazie a una vasta capacità nel campo degli attacchi informatici, Mosca utilizza tecnologie avanzate per condurre azioni di hacking, impiegare malware sofisticati e sfruttare tecniche di phishing e ingegneria sociale. Questi strumenti, spesso supportati da gruppi APT (Advanced Persistent Threat) collegati al governo russo, permettono di interferire con sistemi protetti e ottenere informazioni strategiche.

In ambito geopolitico, la Russia ha sviluppato un approccio integrato alla comunicazione strategica e alla diplomazia digitale. Come descritto dal presidente Vladimir Putin nel 2012, il soft power viene utilizzato per perseguire obiettivi di politica estera senza ricorrere direttamente a strumenti militari. Organizzazioni come il “Russian World” e il “Gorchakov Fund of Public Diplomacy”, insieme all’Agenzia Rossotrudnichestvo, sono attori chiave di questa strategia, operando attraverso la diffusione di informazioni mirate e narrative alternative sui social network.

Durante la pandemia da Covid-19, la Russia ha intensificato il proprio impegno propagandistico attraverso l’invio di aiuti umanitari a vari Paesi, tra cui l’Italia. Tali iniziative, veicolate attraverso una comunicazione mirata sui social media, sono state utilizzate per consolidare la propria influenza a livello internazionale. Questo approccio ha permesso al Cremlino di guadagnare consenso in regioni strategiche come i Balcani, il Medio Oriente e l’America Latina, oltre che all’interno dell’Unione Europea.

La combinazione di disinformazione, propaganda e capacità cyber rende la Russia un attore centrale nelle dinamiche delle minacce emergenti, con impatti significativi sulla sicurezza e sulla stabilità globale. Per l’Italia, affrontare queste sfide richiede strategie coordinate e mirate, capaci di tutelare le infrastrutture critiche, proteggere la coesione sociale e rafforzare la resilienza nazionale.

Invitare la spia in casa: l’Operazione “Dalla Russia con amore”. Un’analisi delle dinamiche e implicazioni.

Durante le fasi iniziali della pandemia di Covid-19, il 7° Reggimento di difesa chimica, biologica, radiologica e nucleare “Cremona” (CBRN) dell’Esercito Italiano fu coinvolto, tra marzo e maggio 2020, in attività di sanificazione e decontaminazione. Questo impegno includeva il supporto ai centri di accoglienza per persone provenienti dall’estero e la sanificazione di oltre 180 strutture in Lombardia. A queste operazioni partecipò un contingente russo inviato nell’ambito dell’operazione “Dalla Russia con amore”, che portò alla formazione di 9 task force miste italo-russe (Senato della Repubblica, Doc. CLXIV n. 31, p. 85). L’intervento, inizialmente concentrato nella provincia di Bergamo, evidenziò vulnerabilità legate alla raccolta di informazioni da parte di attori esterni, con il rischio che l’aiuto offerto fosse usato come pretesto per penetrare il perimetro di sicurezza nazionale.

La missione russa vide il coinvolgimento di 104 operatori, tra cui i due epidemiologi di spicco Natalia Y. Pshenichnaya e Aleksandr V. Semenov. La presenza russa, tuttavia, fu oggetto di limitazioni: il contributo iniziale previsto di 400 operatori fu ridotto a 100 per decisione dell’allora ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Inoltre, il generale Luciano Portolano, comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze, respinse richieste di estendere le operazioni russe a siti strategici come basi militari e uffici governativi, tra cui la base di Ghedi (Brescia), utilizzata dalla NATO, limitandole ad ospedali e case di cura. Durante queste attività, i russi tentarono più volte di raccogliere campioni di virus e offrirono incentivi economici a ricercatori italiani per ottenere dati scientifici. Un esempio significativo fu l’offerta di 250mila euro a un dirigente dell’ospedale Spallanzani di Roma, che favorì il vaccino russo “Sputnik” a scapito del progetto italiano “Reithera” (Jacoboni, 2022).

Il Contesto e le Controversie.

L’accordo tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte fu raggiunto telefonicamente il 21 marzo 2020. Tuttavia, l’intervento russo, percepito come una forma di “assegno in bianco” da parte dell’Italia, fu attuato in modo non coordinato, senza consultare adeguatamente il governo italiano. Il contributo russo includeva esperti militari, specialisti in minacce biologiche e chimiche, e unità tecniche per lo studio di agenti patogeni, ma mancavano dispositivi per il rilevamento specifico del Covid-19.

Le aree selezionate dai russi per la sanificazione sollevarono preoccupazioni: molti dei siti erano vicini a infrastrutture sensibili come basi NATO contenenti arsenali nucleari. Questi fattori portarono il governo italiano a interrompere prematuramente l’operazione, considerandola un potenziale rischio per la sicurezza nazionale.

Ruolo degli epidemiologi russi

Un elemento di rilievo fu la presenza non autorizzata dei due epidemiologi russi, Pshenichnaya e Semenov, entrambi operativi presso la Rospotrebnadzor, l’ente russo responsabile della gestione della pandemia. I due avevano precedentemente lavorato a Wuhan e dichiararono che l’obiettivo della loro missione era acquisire esperienza sulle modalità di gestione del Covid-19 adottate in altri Paesi. Tuttavia, due mesi dopo la loro partenza dall’Italia, pubblicarono un report critico sulla gestione italiana della pandemia (Santarelli, 2022), alimentando dubbi sul reale scopo della loro presenza (Bertolotti, 2023).

Considerazioni finali

L’operazione “Dalla Russia con amore” solleva interrogativi sulla gestione di aiuti internazionali in contesti di emergenza e sui rischi connessi alla sicurezza nazionale. Mentre l’intervento russo fu ufficialmente presentato come un contributo umanitario, molteplici azioni suggeriscono che potesse servire anche come strumento per raccogliere informazioni strategiche e consolidare l’influenza geopolitica di Mosca. Queste dinamiche sottolineano l’importanza di un coordinamento rigoroso e di un’attenta valutazione dei rischi legati alla cooperazione internazionale in situazioni di crisi.

Analisi dell’operazione russa in Italia: una strategia di guerra ibrida 

L’intervento militare russo in Italia durante la pandemia di Covid-19 rappresenta un esempio pratico dell’applicazione della cosiddetta “guerra ibrida,” utilizzata da Mosca per ottenere un vantaggio strategico temporaneo nel contesto dell’emergenza sanitaria globale (Santarelli, 2022). A differenza della Cina, che si limitò a fornire consulenza tramite videoconferenze, l’Italia accolse e offrì ampia libertà di azione ai militari russi. Questo permise loro di raccogliere preziose informazioni sulla gestione e diffusione del virus, informazioni che furono sfruttate per una campagna di propaganda sia interna che internazionale, inclusa la promozione del vaccino russo “Sputnik V.”

L’operazione russa sembrava perseguire tre obiettivi principali. Primo, l’acquisizione di informazioni strategiche attraverso attività di spionaggio, con l’obiettivo di sviluppare una strategia di gestione della pandemia basata sulle conoscenze acquisite in Italia. Secondo, la propaganda interna ed esterna, finalizzata a esaltare i progressi della Russia e a promuovere l’adozione del vaccino “Sputnik” da parte di altri Paesi, inclusa l’Italia. Terzo, una campagna di “guerra informativa” volta a screditare la gestione italiana della crisi sanitaria, attraverso il contributo e le dichiarazioni di autorevoli epidemiologi russi. 

Implicazioni per la Sicurezza Nazionale 

L’operazione “Dalla Russia con amore” evidenzia la necessità di valutare attentamente le implicazioni per la sicurezza nazionale in situazioni di emergenza. Questo caso offre un esempio concreto di come attori esterni possano sfruttare contesti critici per infiltrare le loro reti di intelligence, raccogliere dati strategici o penetrare sistemi di sicurezza nazionale. In nome di una presunta assistenza umanitaria, tali operazioni possono minare la stabilità interna e rafforzare l’influenza geopolitica di Paesi terzi. 

L’esperienza italiana dimostra l’importanza di mantenere un controllo rigoroso e di definire limiti chiari nelle collaborazioni internazionali in situazioni emergenziali, al fine di prevenire rischi per l’integrità e la sicurezza dello Stato (Bertolotti, 2023).

Bibliografia

Bertolotti, C. (2023). Le minacce emergenti per l’Italia e il ruolo della Russia (cyber, sanitaria, disinformazione, spionaggio), in “La Russia nel contesto post-bipolare (RUSPOL). I rapporti con l’Europa tra competizione e cooperazione”, 2° Geopolitical Brief, Geopolitica.info, la Sapienza, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Roma.

Bērziņš, J. (2014). Russia’s New Generation Warfare in Ukraine: Implications for Latvian Defense Policy, Policy Paper No 02, (Riga: National Defence Academy of Latvian Center for Security and Strategic Research), 5.

Putin, V. (2012). Russia and the Changing World. Rossiyskaya Gaseta, 29 febbraio 2012.

Santarelli, M., (2022). Dalla Russia con amore. Aiuti covid o spionaggio dalla Russia? Cosa c’è dietro la missione dell’esercito russo a Bergamo, Agenda Digitale, 17 gennaio 2022.

Senato della Repubblica (2020), XVIII Legislatura, Doc. CLXIV n. 31, “Relazione sullo stato della spesa, sull’efficacia nell’allocazione delle risorse e sul grado di efficienza dell’azione amministrativa svolta dal ministero della Difesa, corredata del rapporto sull’attività di analisi e revisione delle procedure di spesa e dell’allocazione delle relative risorse in bilancio”, p. 85.

Tsvetkova, N., Rushchin D. (2021). Russia’s Public Diplomacy: From Soft Power to Strategic Communication. Journal of Political Marketing, 20(1), 50-59.


La telefonata Trump-Zelensky sulla pace in Ucraina: leggiamo tra le righe

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervista a “Effetto Notte” – Radio24, ospite di Roberta Giordano (puntata del 19 marzo 2025).

La dichiarazione al termine della conversazione telefonica è stata concordata e allineata, una copia l’una dell’altra. Dalla convergenza sulla riconosciuta importanza degli incontri negoziali di Gedda alla decisione di accettare un cessate il fuoco incondizionato, il che equivale a cedere alla Russia. Quello di un’Ucraina provata dei territori conquistati da Mosca è lo scenario che prospettiamo da almeno due anni ma di cui si è preferito non parlare prediligendo una narrazione ideale e non realistica volta alla liberazione dell’Ucraina tout court. Purtroppo.

C’è una differenza sottile però nelle dichiarazioni di Washington e Kiev: Zelensky ha ribadito la necessità di rinforzare la difesa contraerea. Trump ha concordato su questa necessità, evidenziando però che farà il possibile per trovare in Europa la risposta a tale necessità. Dunque passando la palla agli europei, o quantomeno richiamando l’UE a un ruolo che, a parole, pretende ma che nella pratica ha giocato Washington fo dal principio. Forse non in termini economici, ma certamente in termini di forniture materiali di armi ed equipaggiamenti. Inoltre, Zelensky non l’ha fatto, Trump si, è stata ventilata l’ipotesi di un passaggio di proprietà del settore energetico ucraino a favore di aziende statunitensi. Interessante, poiché questo potrebbe essere un limite all’eventuale aggressiva pretesa futura da parte di Mosca.

Di fatto l’Ucraina ha incassato il colpo piegandosi alla volontà statunitense, non potendo fare altrimenti e non essendoci una reale alternativa.

Dunque l’opzione che si prospetta all’orizzonte è quella di un’Ucraina ridimensionata, territorialmente, in termini di risorse naturali, e privata di un eventuale possibilità di inclusione all’interno dell’Alleanza atlantica, ma non dell’Unione europea: un’opzione che, però, sarebbe molto vantaggiosa per la Russia che, nell’Europa, non intravede un baluardo invalicabile.