Da Kiev e Mosca, passando per Istanbul e Teheran e guardando a Gerusalemme.

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervista a Irene Cosul Cuffaro, per il quotidiano La Verità del 19 maggio 2025.

Il commento per Officina Geopolitica di START InSight

Si è conclusa la prima sessione dei negoziati tra Russia e Ucraina a Istanbul: colloqui che si sono limitati allo scambio di prigionieri. Un flop, o attorno a questo summit c’erano aspettative troppo alte?

Quelli di Istanbul sono i primi formali tra delegazioni russe e ucraine dal 2022, e se non possono essere letti come un fallimento non possono altrettanto essere considerati un progresso sostanziale. L’unico risultato concreto – lo scambio di 1.000 prigionieri per parte – è un segnale limitato ma significativo. Non tanto per il contenuto, quanto per il fatto che certifica l’apertura di un canale diplomatico tra Kiev e Mosca. E, in un contesto di guerra convenzionale prolungata e simmetrica, ciò rappresenta già un dato politico rilevante.

Le aspettative attorno al summit erano indubbiamente elevate, e forse mal calibrate. È utile ricordare che nei conflitti armati i leader non si incontrano per definire un accordo, ma per formalizzare intese già costruite a monte, nelle sedi tecniche. La mancata partecipazione di Putin e Zelensky ha confermato la natura interlocutoria dell’incontro: un primo contatto operativo, non ancora un terreno di mediazione strategica.

Dal punto di vista russo, l’iniziativa risponde a una logica di lungo periodo: Mosca è consapevole di poter mantenere un vantaggio sia sul piano militare – consolidando le linee di contatto – sia su quello diplomatico, sfruttando la fatica dell’Occidente e la crescente ambivalenza di alcune cancellerie europee. In questo scenario, la disponibilità al dialogo si traduce in uno strumento di pressione, utile a presentare l’immagine di un attore razionale e disposto al compromesso, senza in realtà cedere nulla sul terreno.

In sintesi, lo scambio di prigionieri è un passo modesto, ma simbolicamente importante. È la conferma che un canale diretto esiste, e che il confronto non è solo militare ma anche – e sempre più – politico. Nulla di risolutivo, certo. Ma in una guerra di logoramento, anche le aperture minime vanno lette come indicatori di una possibile, futura transizione negoziale.

Evocare ulteriori sanzioni contro Mosca a tavoli aperti, come fatto da Ursula von der Leyen e Donald Trump, non è una mossa controproducente?

Evocare l’ipotesi di nuove sanzioni contro Mosca nel pieno di un tentativo di apertura negoziale – come hanno fatto Ursula von der Leyen e Donald Trump – rappresenta una mossa che rischia di rivelarsi, nel migliore dei casi, sterile. Nel peggiore, profondamente controproducente. È ormai un dato consolidato: il sistema sanzionatorio occidentale, per quanto articolato e pervasivo, non ha prodotto gli effetti strategici attesi. La Russia non ha subito un reale depotenziamento della propria capacità militare, né si è ritrovata isolata sul piano internazionale.

Mosca ha saputo dimostrarsi resiliente, ricalibrando le proprie linee di approvvigionamento e proiettandosi verso mercati alternativi, dalla Cina all’Iran, fino a partner africani e latinoamericani. Sul piano politico-diplomatico, la narrazione russa non solo non si è indebolita, ma ha saputo trovare nuove sponde, mantenendo margini di manovra significativi nei principali teatri internazionali. E anche sul fronte militare-industriale, nonostante le restrizioni, il sistema ha retto: adattamento, riconversione e triangolazioni commerciali hanno garantito continuità operativa. Il danno d’immagine, pur presente, non ha intaccato in modo decisivo la postura strategica del Cremlino.

In questo contesto, la minaccia di nuove sanzioni, soprattutto se lanciata mentre si tenta di aprire un canale diplomatico, rischia di generare l’effetto opposto: irrigidire le posizioni, rafforzare la retorica interna russa dell’accerchiamento, e offrire pretesti utili alla propaganda. Si tratta di un’iniziativa che – anche qualora non intenzionale – riduce lo spazio negoziale. Quando si parla di diplomazia, il tempismo è parte della strategia: e in questo caso, la dichiarazione arriva fuori tempo massimo.

A ottobre ci sarà un vertice russo con la Lega araba. Putin si è  detto fiducioso  che l’incontro contribuirà a  “garantire la pace, la sicurezza e la stabilità nelle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa”. Una contromossa in risposta all’avvicinamento di Trump ai Paesi sunniti del Golfo?

L’annuncio del vertice tra Russia e Lega araba previsto per ottobre, accompagnato dalle dichiarazioni di Vladimir Putin sull’obiettivo di rafforzare “pace, sicurezza e stabilità” in Medio Oriente e Nord Africa, va letto attraverso una lente strategica che tiene conto del posizionamento russo nella regione e delle dinamiche competitive in atto – su tutte, quelle con gli Stati Uniti e la Turchia.

Più che una semplice iniziativa diplomatica, si tratta di una contromossa calibrata, in risposta al rinnovato attivismo americano sotto la guida di Donald Trump, che ha ripreso l’opera di ricompattamento con le monarchie sunnite del Golfo. In questo contesto, la Russia intende riaffermare il proprio ruolo di potenza extraregionale capace di interloquire con tutti gli attori – inclusi quelli arabi – senza vincoli ideologici o storici, come ha già dimostrato in Siria dove la competizione con la Turchia ha dato ragione a quest’ultima, con cui Mosca ora deve scendere a compromessi. Con Ankara, infatti, la relazione è ambivalente: cooperazione tattica in alcuni ambiti (come Astana), ma competizione strategica sul controllo delle leve di influenza regionali, dalla Libia al Caucaso, fino al Sahel.

Il vertice con la Lega araba è dunque un’operazione a doppio livello: da un lato, consolidare l’immagine di Mosca come attore di equilibrio in uno scenario mediorientale frammentato; dall’altro, sottrarre spazio all’influenza turca e americana, proponendosi come partner credibile in ambito sicurezza, energia e gestione delle crisi. Non è un progetto nuovo, ma oggi si rafforza nella consapevolezza che l’assenza di un chiaro ordine regionale postamericano apre margini d’azione a chi, come la Russia, ha saputo investire in modo opportunistico ma costante.

In definitiva, più che un vertice, quello di ottobre è un atto di posizionamento. Un segnale, indirizzato a Washington e Ankara, che il vuoto di potere nel mondo arabo è uno spazio ancora contendibile – e che Mosca non ha alcuna intenzione di lasciarlo agli altri.

Erdogan non resterà a guardare…

Il rapporto tra Erdogan e Putin è un esempio di realismo politico applicato: una relazione ibrida, fatta di cooperazione tattica e competizione strategica. Ankara e Mosca si trovano spesso su fronti opposti – dalla Siria al Caucaso – ma sanno riconoscere, e talvolta sfruttare, convergenze di breve periodo funzionali ai rispettivi interessi.

In Siria, la Turchia ha sostenuto l’opposizione armata, mentre la Russia ha salvaguardato la sopravvivenza del regime di Assad. Eppure, attraverso i processi di Astana e Soči, i due Paesi hanno costruito una coesistenza operativa: Ankara ha ottenuto libertà d’azione contro le milizie curde nel nord della Siria, mentre Mosca ha preservato l’integrità del proprio alleato a Damasco. Una logica di scambio, fondata sul rispetto delle rispettive aree di influenza, ma priva di una reale fiducia reciproca.

Sul piano energetico, il partenariato è più strutturato: gas, nucleare e infrastrutture rafforzano l’interdipendenza, ma non eliminano la volontà turca di affermarsi come attore autonomo, capace di giocare su più tavoli, compreso quello occidentale. Erdogan persegue una strategia multilivello che lo posiziona al centro delle dinamiche regionali, senza mai vincolarsi del tutto a un solo partner.

In questo senso, il rapporto con la Russia non è né alleanza né ostilità, ma una forma di equilibrio instabile e adattivo, dove Ankara si muove con audace lucidità, trasformando le ambiguità in leva politica.

Il presidente americano ha dichiarato che Usa  e Iran si stanno avvicinando a un’intesa sul nucleare.  Scenario plausibile, al di là delle dichiarazioni?

Tra calcolo tattico e sfiducia strategica, l’intesa nucleare USA-Iran resta possibile, ma sarà fragile, temporanea e priva di solide basi.

Dal punto di vista strategico, un riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran sul tema del nucleare non può essere escluso, ma va inquadrato con attenzione. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca costituisce un elemento chiave: è stato proprio lui, nel 2018, a ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare (JCPOA), firmato tre anni prima dall’amministrazione Obama. Se oggi si aprisse un nuovo negoziato sotto la sua presidenza, difficilmente si tratterebbe di un ritorno a quell’intesa. Più probabilmente, si punterebbe su un accordo parziale o temporaneo, finalizzato a obiettivi tattici – come porre limiti provvisori all’arricchimento dell’uranio o favorire scambi umanitari – piuttosto che su un’intesa strutturata e duratura.

Poi, ci sono motivazioni contingenti che potrebbero spingere entrambi i Paesi verso una forma di dialogo. Da un lato, l’Iran è sempre più sotto pressione a causa della crisi economica interna e del crescente malcontento popolare, e potrebbe considerare un’intesa come una boccata d’ossigeno, anche solo momentanea. Dall’altro lato, gli Stati Uniti potrebbero essere interessati a ridurre le tensioni in Medio Oriente per concentrare risorse e attenzione sul quadrante indo-pacifico, dove la sfida strategica con la Cina continua ad ampliarsi.

Rimangono però ostacoli concreti. La sfiducia reciproca è ancora elevata, il programma nucleare iraniano ha fatto notevoli progressi ed è oggi molto più vicino alla soglia militare rispetto al passato, e l’establishment conservatore di Teheran appare poco incline a fare concessioni che potrebbero essere percepite come un segno di debolezza interna.

Pertanto, ritengo che l’ipotesi di una “de-escalation negoziata” non sia fuori dalla realtà, ma più che un accordo organico e stabile, si tratterebbe verosimilmente di una soluzione limitata, fragile e potenzialmente reversibile.

E con che conseguenze per i rapporti tra Stati Uniti e Israele?

Ogni passo verso Teheran rischia di allontanare Washington da Gerusalemme, riaprendo una frattura strategica che Israele potrebbe colmare con azioni unilaterali. Perché giungo a questa conclusione?

Perché un possibile riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran sul nucleare rischierebbe di inasprire le tensioni con Israele, che considera Teheran una minaccia esistenziale. Anche un’intesa limitata verrebbe vista da Gerusalemme come una pericolosa concessione, capace di rafforzare l’Iran e le sue milizie alleate nella regione. Un allentamento della pressione americana potrebbe inoltre compromettere la capacità deterrente israeliana e incrinare ulteriormente la fiducia tra Washington e Gerusalemme. Già in passato, la relazione privilegiata tra Trump e Israele ha mostrato crepe ogni volta che si è affacciata l’ipotesi di un dialogo con l’Iran. Oggi, un’intesa – verosimilmente fragile e circoscritta – avrebbe conseguenze profonde, spingendo Israele verso un approccio sempre più autonomo, anche sul piano militare.


La diplomazia pubblica russa nella guerra cognitiva: attori, narrazioni e strumenti digitali.

di Claudio Bertolotti.

Introduzione

Nel contesto della competizione geopolitica contemporanea, la guerra cognitiva si configura come una dimensione emergente della conflittualità ibrida, in cui l’informazione, la percezione e l’influenza culturale assumono un ruolo strategico. In questo ambito, la Federazione Russa ha sviluppato una complessa architettura di diplomazia pubblica orientata non solo alla promozione dell’immagine nazionale, ma alla produzione intenzionale di narrazioni che favoriscano i propri interessi strategici e delegittimino quelli dei competitor internazionali. Analizziamo qui i principali strumenti e attori della diplomazia pubblica russa, con particolare attenzione al ruolo svolto dal concetto di “Mondo Russo”, dagli istituti statali di proiezione culturale e dall’impiego della diplomazia digitale nel contesto pandemico. Particolare attenzione sarà dedicata al caso italiano, con riferimento all’operazione “Dalla Russia con amore”, emblematica per comprendere la sovrapposizione tra assistenza umanitaria e strumenti di guerra informativa.

1. Il “Mondo Russo” come dispositivo ideologico

Il concetto di Russkij Mir (Mondo Russo) rappresenta un pilastro fondamentale nella strategia comunicativa e geopolitica della Federazione Russa. Questa ideologia combina elementi di identità linguistica, memoria storica e solidarietà diasporica per consolidare l’influenza di Mosca sulle comunità russofone nel mondo. Non si tratta solo di un collante culturale, ma di un paradigma geopolitico che giustifica l’intervento e la presenza russa nei Paesi ex sovietici e oltre. 

Origini e Sviluppo del Concetto di Russkij Mir

Il termine Russkij Mir ha radici storiche profonde, ma è stato rilanciato nel discorso politico russo contemporaneo a partire dagli anni 2000. Nel 2007, il presidente Vladimir Putin ha istituito la Fondazione Russkij Mir con l’obiettivo di promuovere la lingua e la cultura russa all’estero. Questo concetto è stato ulteriormente sviluppato per includere una visione del mondo in cui la Russia si presenta come protettrice dei russofoni ovunque essi si trovino, giustificando così interventi politici e militari in nome della difesa dei “compatrioti”. 

Strumenti di Promozione del Russkij Mir

La promozione del Russkij Mir avviene attraverso una serie di strumenti istituzionali e narrativi:

  • Fondazione Russkij Mir: organizzazione che finanzia progetti culturali e educativi per diffondere la lingua e la cultura russa.
  • Rossotrudničestvo: agenzia governativa che coordina la cooperazione umanitaria internazionale e sostiene le comunità russofone all’estero.
  • Chiesa Ortodossa Russa: istituzione che svolge un ruolo chiave nel rafforzare l’identità spirituale e culturale russa, spesso in sinergia con le politiche statali.
  • Media e Diplomazia Pubblica: utilizzo di media statali e social media per diffondere narrazioni favorevoli alla Russia e per influenzare l’opinione pubblica internazionale.

Implicazioni Geopolitiche

Il Russkij Mir funge da giustificazione ideologica per le politiche espansionistiche della Russia. È stato utilizzato per legittimare l’annessione della Crimea nel 2014 e il sostegno ai separatisti nelle regioni orientali dell’Ucraina. La narrativa del Russkij Mir sostiene che la Russia ha il diritto e il dovere di proteggere i russofoni ovunque si trovino, anche attraverso l’intervento militare .

Critiche e Controversie

Il concetto di Russkij Mir è stato oggetto di critiche sia interne che internazionali. Molti lo vedono come una forma di neo-imperialismo che mina la sovranità degli Stati vicini. Inoltre, l’uso della lingua e della cultura come strumenti di influenza politica solleva preoccupazioni riguardo alla manipolazione dell’identità culturale per fini geopolitici.

2. Gli attori istituzionali: Gorchakov Fund e Rossotrudnichestvo

Due istituzioni svolgono un ruolo cardinale nella diplomazia pubblica russa: il “Gorchakov Fund for Public Diplomacy” e Rossotrudnichestvo.

Il Gorchakov Fund for Public Diplomacy

Istituito nel 2010 su iniziativa del Ministero degli Affari Esteri russo, il Gorchakov Fund ha l’obiettivo di promuovere la visione geopolitica del Cremlino nel contesto internazionale. Finanzia progetti, conferenze e programmi accademici mirati a consolidare l’influenza russa all’estero, in particolare nei Paesi dell’ex Unione Sovietica. Il Fondo sostiene organizzazioni non profit russe e straniere, nonché centri di ricerca orientati alla politica estera, attraverso l’erogazione di sovvenzioni. Inoltre, implementa programmi scientifici ed educativi per giovani esperti, figure pubbliche e giornalisti, come il “Dialogue for the Future” e il “Diplomatic Seminar of Young Specialists”

Rossotrudnichestvo

Fondata nel 2008, Rossotrudnichestvo è l’agenzia federale russa incaricata di gestire le relazioni con la diaspora e sviluppare iniziative di cooperazione umanitaria, educazione e promozione linguistica. Opera in oltre 80 Paesi attraverso i Centri Russi di Scienza e Cultura, promuovendo la lingua e la cultura russa, e organizzando programmi educativi e culturali. Tra le sue attività principali vi sono il programma “New Generation”, che offre viaggi di studio in Russia per giovani leader stranieri, e “Hello, Russia!”, rivolto ai giovani compatrioti all’estero. Rossotrudnichestvo svolge un ruolo attivo nella politica estera russa, consolidando le attività dei sostenitori pro-Russia nella regione post-sovietica e diffondendo la narrativa del Cremlino.

Entrambe le istituzioni sono strumenti chiave della strategia di soft power russa, mirata a rafforzare l’influenza culturale e politica di Mosca a livello globale.

3. Diplomazia digitale, disinformazione e il caso italiano

Uno degli elementi più innovativi della strategia russa è l’adozione della diplomazia digitale, intesa come utilizzo sistematico delle tecnologie informatiche per finalità di influenza politica e manipolazione dell’informazione. Le piattaforme digitali, i social media e i portali informativi alternativi vengono impiegati per veicolare narrazioni filo-russe, alimentare il dubbio e polarizzare le opinioni pubbliche, sfruttando spesso il meccanismo della disinformazione e delle fake news.

Durante la pandemia da Covid-19, la Russia ha intensificato tali operazioni, presentandosi come attore responsabile e solidale (si pensi agli aiuti medici inviati in Italia), mentre diffondeva contenuti che screditavano i sistemi sanitari e politici dei Paesi occidentali. Questo approccio ha trovato espressione nell’operazione “Dalla Russia con amore”, che ha visto il dispiegamento di personale militare russo in Lombardia nel 2020, ufficialmente per attività di sanificazione. Tuttavia, numerose fonti italiane ed europee hanno sollevato preoccupazioni in merito al potenziale utilizzo di tale missione come strumento di spionaggio e raccolta informativa su infrastrutture sensibili. Come ho avuto modo di approfondire in un mio precedente articolo, tale operazione rappresenta un esempio concreto di applicazione della guerra ibrida russa, in cui propaganda, disinformazione e attività di intelligence convergono nel contesto di una crisi umanitaria.

Conclusioni

La diplomazia pubblica russa si configura come uno strumento strutturato e deliberatamente orientato alla proiezione di influenza, parte integrante di una più ampia strategia di guerra cognitiva. Essa si fonda su una combinazione di dispositivi simbolici (come il “Mondo Russo”), istituzioni statali operative (come il Gorchakov Fund e Rossotrudnichestvo), e tecnologie comunicative digitali sofisticate. Il caso dell’operazione “Dalla Russia con amore” dimostra come, in contesti di emergenza, la cooperazione umanitaria possa trasformarsi in un’occasione di penetrazione informativa e di influenza strategica. Comprendere tali dinamiche è oggi essenziale per proteggere la resilienza cognitiva delle democrazie e prevenire l’erosione della fiducia pubblica nelle istituzioni.

Bibliografia

  • Bertolotti, C. (2025). Dalla Russia con amore: le nuove minacce per l’Italia e il ruolo della Russia tra cyberspazio, salute pubblica, disinformazione e spionaggio. START InSight.
  • EUvsDisinfo. (2020). Coronavirus: Disinformation Can Kill. European External Action Service.
  • Kuznetsova, I., & Mikhelidze, N. (2020). Russian Public Diplomacy: Instruments and Narratives. Istituto Affari Internazionali.
  • Laruelle, M. (2015). Russian World: Russia’s Soft Power and Geopolitical Imagination. Center on Global Interests.
  • Pomerantsev, P. (2019). This Is Not Propaganda: Adventures in the War Against Reality. Faber & Faber.

La telefonata Trump-Zelensky sulla pace in Ucraina: leggiamo tra le righe

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervista a “Effetto Notte” – Radio24, ospite di Roberta Giordano (puntata del 19 marzo 2025).

La dichiarazione al termine della conversazione telefonica è stata concordata e allineata, una copia l’una dell’altra. Dalla convergenza sulla riconosciuta importanza degli incontri negoziali di Gedda alla decisione di accettare un cessate il fuoco incondizionato, il che equivale a cedere alla Russia. Quello di un’Ucraina provata dei territori conquistati da Mosca è lo scenario che prospettiamo da almeno due anni ma di cui si è preferito non parlare prediligendo una narrazione ideale e non realistica volta alla liberazione dell’Ucraina tout court. Purtroppo.

C’è una differenza sottile però nelle dichiarazioni di Washington e Kiev: Zelensky ha ribadito la necessità di rinforzare la difesa contraerea. Trump ha concordato su questa necessità, evidenziando però che farà il possibile per trovare in Europa la risposta a tale necessità. Dunque passando la palla agli europei, o quantomeno richiamando l’UE a un ruolo che, a parole, pretende ma che nella pratica ha giocato Washington fo dal principio. Forse non in termini economici, ma certamente in termini di forniture materiali di armi ed equipaggiamenti. Inoltre, Zelensky non l’ha fatto, Trump si, è stata ventilata l’ipotesi di un passaggio di proprietà del settore energetico ucraino a favore di aziende statunitensi. Interessante, poiché questo potrebbe essere un limite all’eventuale aggressiva pretesa futura da parte di Mosca.

Di fatto l’Ucraina ha incassato il colpo piegandosi alla volontà statunitense, non potendo fare altrimenti e non essendoci una reale alternativa.

Dunque l’opzione che si prospetta all’orizzonte è quella di un’Ucraina ridimensionata, territorialmente, in termini di risorse naturali, e privata di un eventuale possibilità di inclusione all’interno dell’Alleanza atlantica, ma non dell’Unione europea: un’opzione che, però, sarebbe molto vantaggiosa per la Russia che, nell’Europa, non intravede un baluardo invalicabile.


Stop degli USA al sostegno all’Ucraina. E adesso?

di Claudio Bertolotti.

Donald Trump ha ordinato una pausa negli aiuti militari statunitensi all’Ucrainatre giorni dopo lo scontro alla Casa Bianca con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky

Il commento di C. Bertolotti a Officina geopolitica di START inSight.

La scelta di Trump di spingere verso una conclusione del conflitto, anche a discapito dell’Ucraina, è razionale e coerente con la sua promessa elettorale, cioè quello per cui è stato eletto. Ed è, soprattutto, “una leva con cui fare forza nei confronti di Zelensky affinché il presidente possa rispondere al proprio elettorato, al quale aveva promesso di porre termine alla guerra russo-ucraina. È quindi una scelta di politica interna rispetto a un costo che viene imposto ai contribuenti statunitensi”. “Detto questo quello dell’amministrazione Trump è un passo certamente importante e significativo in quello che sarà lo sviluppo della guerra, perché andando a ridurre o a congelare gli aiuti l’Ucraina di fatto passerà da un livello di sufficienza minima (garantito dall’amministrazione Biden) al non avere più le risorse per condurre una guerra. Oltretutto, verrebbe a mancare anche la spinta morale, cioè l’assenza di un sostegno statunitense farebbe venir meno la volontà dei soldati stessi di combattere e degli stati maggiori di gestire la condotta sul campo di battaglia”.

Nulla da eccepire sul piano razionale: se la precedente amministrazione Biden non ha voluto porre l’Ucraina nelle condizioni di vincere la guerra, perché dovrebbe farlo l’amministrazione Trump? È semplicemente la chiusura di un dossier che Washington non reputa più conveniente sostenere.

È un game over? “È sicuramente l’avvio di un processo di conclusione di una guerra che sarà sfavorevole all’Ucraina, in termini di cessione di territori a favore della Russia, ma lo sarà ancora di più a livello strategico, proiettato nel lungo periodo”, commenta Bertolotti. “La Russia utilizzerebbe – così come ha già fatto con la Crimea – la base territoriale conquistata come punto di partenza per la successiva possibile fase offensiva. Non avverrà domani né dopodomani, ma nei prossimi 5-10 anni, indipendentemente da quella che sarà la leadership russa”.

Negli ultimi giorni si sono fatte sempre più insistenti le richieste, da parte di stretti collaboratori di Trump, di un passo indietro di  Zelensky, la cui presenza viene descritta come ormai “insostenibile”. Ipotesi, quella delle dimissioni di Zelensky che si pone come plausibile: “È un’opportunità per lui di uscire a testa alta, come l’uomo che non si è piegato alla volontà di Trump e che piuttosto lascia la guida del Paese. Se arriviamo alla scadenza naturale del suo mandato, e quindi all’ipotesi di nuove elezioni, produrrà una narrazione interna di volontà di concludere la guerra a qualunque costo, che quindi poterà la sigla di un’intesa commerciale con gli Stati Uniti a cui seguirà un sostegno statunitense all’accordo negoziale con la Russia. Soltanto a quel punto Zelensky potrebbe riproporsi come voce politica, e quindi come competitor al successivo appuntamento elettorale, come colui che non ha firmato e non avrebbe firmato, fiero della sua postura europea e occidentale e non filorussa”.


Ucraina: l’imposizione di Trump e l’opposizione di Macron.

di Claudio Bertolotti.

L’analisi del quarto anno di guerra.

Tre anni di guerra conclusi, un nuovo anno di guerra appena iniziato. Questo lo stato delle cose della guerra russo-ucraina, iniziata con l’invasione di Mosca il 24 febbraio 2022. Quali gli elementi di analisi per definire in maniera quanto più concreto lo scenario che si sta definendo?

Il commento di C. Bertolotti per Officina Geopolitica di START inSight.

Occorre guardare a quanto è successo negli ultimi tre anni, con particolare attenzione alle responsabilità dell’amministrazione di Joe Biden.

In primis dobbiamo tenere conto della condotta della guerra: cambio degli obiettivi primari (caduta del governo) e perseguimento dell’obiettivo secondario (occupazione porzione territoriale). La Russia ha sempre mantenuto il vantaggio tattico.

Secondo aspetto: la scelta dell’amministrazione Biden di non concedere all’Ucraina gli strumenti per vincere la guerra, ma solo di potersi ben difendere.

Terzo: il ruolo dell’Europa. Secondario e marginale.

Quarto: la volontà di Trump di concludere la guerra per ragioni politiche interne (coerenza con il mandato elettorale).

Scenario più probabile? Ucraina monca. Russia indebolita economicamente, ma vittoriosa sul piano comunicativo (interno ed esterno): in più Mosca ha archiviato due successi consecutivi (Crimea, Donbass). Il primo funzionale al perseguimento del secondo. E questo, il Donbass, funzionale alla possibile ulteriore pretesa territoriale in futuro.


Gruppo Wagner oggi – l’evoluzione

di Andrea Molle
(immagine di copertina generata con AI)

A febbraio 2025, il Gruppo Wagner, la più famosa compagnia militare privata russa (PMC), continua a svolgere un ruolo significativo nelle operazioni estere di Mosca, in particolare in Africa e in alcune aree del Medio Oriente. Le attività del gruppo si sono evolute notevolmente dopo la morte del suo fondatore, Yevgeny Prigozhin, in un sospetto incidente aereo nell’agosto 2023. La sua morte ha segnato la fine della relativa autonomia di Wagner e l’inizio di una nuova fase in cui il governo russo ha esercitato un controllo molto più stretto sulle sue operazioni.

Subito dopo la morte di Prigozhin, il Cremlino si è mosso rapidamente per riorganizzare la struttura di Wagner e portare la sua leadership sotto la diretta supervisione del Ministero della Difesa russo (MoD) e della Direzione principale dello Stato Maggiore delle Forze Armate (GRU). Molti dei principali comandanti di Wagner sono stati rimossi o riassegnati, mentre altri, che hanno giurato fedeltà al Cremlino, sono stati integrati nelle strutture statali ufficiali. Questo processo ha incluso l’obbligo per i combattenti di Wagner di firmare contratti con il MoD, trasformando di fatto l’ex forza mercenaria indipendente in un’estensione paramilitare dello stato russo.

Nonostante questi cambiamenti, Wagner ha mantenuto la sua presenza operativa, in particolare in Africa, dove il gruppo è considerato strategicamente vitale per le ambizioni geopolitiche della Russia. È ancora attivo in paesi come la Repubblica Centrafricana (CAR), il Mali e la Libia, fornendo servizi di sicurezza, addestramento militare e operazioni di estrazione di risorse che generano entrate sia per sé stesso che per lo stato russo. Tuttavia, secondo i rapporti, il modello operativo di Wagner è cambiato, facendo maggiore affidamento sui finanziamenti e sul supporto logistico statale, riducendo così la sua precedente indipendenza finanziaria.

Anche le attività del gruppo in Ucraina sono cambiate. Mentre Wagner ha svolto un ruolo chiave in importanti battaglie, tra cui la conquista di Bakhmut, il suo coinvolgimento diretto sul fronte è diminuito dopo la ristrutturazione. Molti combattenti di Wagner sono stati assorbiti nelle unità regolari dell’esercito russo o riassegnati ad altri teatri operativi, specialmente quelli considerati cruciali da Mosca per esercitare la sua influenza. Di fatto, l’era post-Prigozhin ha trasformato Wagner da una forza semi-autonoma in un’entità paramilitare più centralizzata e controllata dallo stato, assicurando che le sue operazioni restino allineate con gli interessi strategici più ampi del Cremlino.

Rapporto con il governo russo
Il rapporto tra il Gruppo Wagner e il governo russo ha subito una drastica trasformazione, evolvendosi da una forza paramilitare ombra con plausibile negabilità a un’entità completamente riconosciuta e controllata dallo stato. Inizialmente, il Cremlino ha cercato di oscurare i suoi legami con Wagner, negando qualsiasi connessione ufficiale e presentando il gruppo come una compagnia militare privata (PMC) operante di propria iniziativa. Questa ambiguità ha permesso alla Russia di proiettare il proprio potere all’estero evitando la responsabilità diretta per le azioni di Wagner, specialmente in regioni sensibili come l’Ucraina, la Siria e l’Africa. Tuttavia, questa distanza strategica si è progressivamente ridotta man mano che il ruolo di Wagner nelle operazioni militari russe si espandeva e la sua dipendenza dalle risorse statali diventava innegabile.

Il punto di svolta in questa relazione è arrivato nel giugno 2023, quando il presidente Vladimir Putin ha ammesso pubblicamente che Wagner era interamente finanziato dal governo russo. Ha rivelato che lo stato aveva stanziato circa 1 miliardo di dollari per Wagner tra maggio 2022 e maggio 2023, con 858 milioni destinati direttamente a stipendi e costi operativi, mentre altri 162 milioni erano stati pagati alla società Concord di Prigozhin, che gestiva la logistica e il catering di Wagner. Questa ammissione ha distrutto qualsiasi illusione di indipendenza di Wagner, rafforzando l’idea che il gruppo avesse sempre funzionato come un braccio non ufficiale della strategia militare russa.

Questa rivelazione ha avuto conseguenze ambivalenti. Da un lato, ha legittimato il contributo di Wagner alle campagne militari russe, in particolare nella brutale battaglia per Bakhmut in Ucraina. Dall’altro, ha posto le basi per un controllo governativo più stretto, poiché il Cremlino non poteva più giustificare l’esistenza di una forza militare privata al di fuori dell’autorità statale. La lotta di potere tra Wagner e il Ministero della Difesa russo (MoD), che si protraeva da anni, ha raggiunto il suo apice nel giugno 2023, quando Prigozhin ha lanciato la sua fallimentare ribellione contro l’alto comando russo.

La ribellione di Prigozhin, durata poche ore e che ha visto le forze di Wagner occupare temporaneamente Rostov sul Don e marciare verso Mosca, è stata il catalizzatore per la presa di controllo totale del Cremlino sulle operazioni di Wagner. Sebbene il tentativo di ammutinamento si sia concluso con un accordo negoziato—presumibilmente mediato dal presidente bielorusso Alexander Lukashenko—le sue conseguenze sono state profonde. Il governo russo ha rapidamente smantellato la struttura di comando indipendente di Wagner, costringendo i suoi combattenti a firmare contratti con il MoD o a sciogliersi. Mentre alcuni membri di Wagner hanno scelto di integrarsi nelle forze armate regolari, altri si sono trasferiti in Bielorussia, dove è stata temporaneamente stabilita una presenza di Wagner sotto supervisione statale.

Tuttavia, è presto diventato chiaro che il Cremlino non aveva alcuna intenzione di permettere a Wagner di rimanere un’entità autonoma. Dopo la misteriosa morte di Prigozhin in un incidente aereo nell’agosto 2023—ampiamente ritenuto un assassinio orchestrato dai servizi di sicurezza russi—il Cremlino ha completato l’assorbimento di Wagner nell’apparato statale. I comandanti di alto rango rimasti fedeli a Prigozhin sono stati epurati, mentre coloro che erano disposti a collaborare con il MoD hanno ricevuto incarichi all’interno della gerarchia militare russa. Questa ristrutturazione ha garantito che Wagner, un tempo una forza imprevedibile e semi-indipendente, fosse ora completamente subordinata al governo russo.

Wagner non opera più come una PMC indipendente, ma come un’estensione dell’esercito russo, con un focus sul supporto alle ambizioni geopolitiche di Mosca all’estero.

Come accennato, con Wagner ora sotto il controllo diretto del Cremlino, le sue operazioni sono state ufficialmente integrate nel MoD russo e nelle agenzie di intelligence come il GRU (il servizio segreto militare russo). La nuova struttura di comando ha posto Wagner sotto ufficiali militari russi esperti e fedeli allo stato, assicurando che le sue azioni fossero allineate agli obiettivi di sicurezza nazionale. Anche il quadro finanziario di Wagner è stato ristrutturato, con i fondi statali destinati a sostenere le sue operazioni estere e l’eliminazione delle entrate private che in passato garantivano la sua autonomia finanziaria.

In termini pratici, ciò significa che Wagner non opera più come una PMC indipendente, ma come un’estensione dell’esercito russo, con un focus sul supporto alle ambizioni geopolitiche di Mosca all’estero. In Africa, ad esempio, Wagner continua a funzionare come principale contractor per la sicurezza della Russia, garantendo il controllo di territori ricchi di risorse e sostenendo regimi alleati. Tuttavia, tutti i contratti, la logistica e i processi decisionali sono ora strettamente monitorati dal Cremlino, garantendo che le attività di Wagner servano gli interessi dello stato russo piuttosto che quelli di singoli comandanti.

La trasformazione del Gruppo Wagner da una forza mercenaria semi-autonoma a un’entità controllata dallo Stato ha consolidato il suo ruolo di strumento chiave della politica estera russa. Sebbene il marchio di “PMC” (Private Military Company) rimanga utile per manovre diplomatiche e legali, Wagner opera ora con il pieno sostegno dello Stato russo, consentendo a Mosca di espandere la sua influenza in regioni strategiche senza dispiegare direttamente le forze militari ufficiali.

In Africa, Wagner ha continuato le sue operazioni di sicurezza nella Repubblica Centrafricana, in Mali, in Sudan e in Libia, spesso ottenendo concessioni minerarie redditizie e accordi militari strategici in cambio dei suoi servizi. Queste operazioni non solo forniscono alla Russia l’accesso a risorse preziose come l’oro e i minerali rari, ma rafforzano anche le sue alleanze politiche con governi autoritari in cerca di un’alternativa all’assistenza militare occidentale.

Nel frattempo, in Medio Oriente, l’eredità di Wagner in Siria—dove ha svolto un ruolo cruciale nel sostenere il regime di Bashar al-Assad—rimane intatta nonostante il cambiamento di leadership, con rapporti che suggeriscono che il personale Wagner continui ad assistere le forze siriane nel mantenere il controllo su regioni chiave, fornendo anche un corridoio di rifornimento per altre operazioni russe in Africa.

In Ucraina, tuttavia, il ruolo diretto di Wagner nei combattimenti si è ridotto a seguito della sua integrazione nel Ministero della Difesa russo. Sebbene alcuni combattenti Wagner siano rimasti attivi in prima linea, in particolare in ruoli specialistici come la ricognizione e le operazioni di sabotaggio, la loro presenza complessiva si è significativamente ridotta rispetto al picco dell’offensiva di Bakhmut.

Operazioni attuali
Il Gruppo Wagner rimane attivo in diverse nazioni africane, in particolare nella Repubblica Centrafricana (CAR) e in Mali, dove continua a essere un importante strumento di influenza russa. Le sue operazioni in questi paesi sono strettamente intrecciate con i governi locali, l’estrazione di risorse e le partnership militari che offrono vantaggi sia finanziari che strategici a Mosca.

Nella Repubblica Centrafricana, gli operativi di Wagner si sono radicati come la principale forza di sicurezza a sostegno del governo del presidente Faustin-Archange Touadéra. Il loro coinvolgimento è iniziato nel 2018 come consiglieri militari e addestratori per le forze armate locali, ma si è poi ampliato fino a includere operazioni di combattimento contro gruppi ribelli. Wagner è stata direttamente coinvolta nei combattimenti contro varie fazioni insurrezionali, tra cui la Coalizione dei Patrioti per il Cambiamento (CPC), un’alleanza di ribelli che mira a rovesciare Touadéra.

Oltre alle operazioni militari, Wagner ha stabilito il controllo su settori economici chiave, in particolare l’industria mineraria dell’oro e dei diamanti. Il gruppo ha ottenuto diritti esclusivi per la gestione di diverse miniere, con i ricavi presumibilmente convogliati verso aziende russe che finanziano le operazioni globali di Wagner. Queste attività economiche non solo rendono Wagner autosufficiente nella regione, ma rafforzano anche l’influenza russa sul governo della CAR. Secondo alcuni rapporti, gli operativi di Wagner proteggono funzionari governativi, controllano la sicurezza delle frontiere e gestiscono parti dell’infrastruttura della difesa del paese.

L’influenza di Wagner si estende anche alla propaganda, con campagne mediatiche che promuovono narrazioni filo-russe e screditano il coinvolgimento occidentale nel paese. Messaggi pro-Russia sono diffusi in tutta la Repubblica Centrafricana, con gruppi affiliati a Wagner che distribuiscono materiali che presentano Mosca come un alleato affidabile in contrasto con le ex potenze coloniali, come la Francia.

In modo simile, in Mali la presenza di Wagner è cresciuta significativamente dopo il ritiro delle forze francesi nel 2022, segnando un importante cambiamento nelle alleanze regionali. Dopo il colpo di stato militare del 2021, la giunta al potere ha cercato alternative di sicurezza, e la Russia, attraverso Wagner, è emersa come un attore chiave. I mercenari Wagner sono stati schierati con il pretesto di assistere le forze armate maliane nelle operazioni antiterrorismo contro i gruppi jihadisti affiliati ad al-Qaeda e all’ISIS nella regione del Sahel. Tuttavia, la loro presenza è stata controversa, con numerose accuse di violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali, torture e massacri di civili.


Foto di James Wiseman su Unsplash

Nonostante queste preoccupazioni, la giunta militare del Mali continua a fare affidamento sul sostegno di Wagner, considerandolo un’alternativa affidabile all’assistenza militare occidentale. In cambio dei loro servizi, Wagner avrebbe ottenuto accesso alle risorse naturali del Mali, in particolare alle miniere d’oro, in modo simile alla CAR. Inoltre, Wagner ha avuto un ruolo nel rimodellare la politica estera del Mali, rafforzando i legami con Mosca e allontanando il paese dagli alleati occidentali tradizionali. Questo potrebbe rappresentare una seria minaccia per l’Italia, l’unico paese europeo con una presenza significativa nella regione sub-sahariana.

Le operazioni di Wagner in CAR e Mali fanno parte di una strategia più ampia della Russia per espandere la propria influenza geopolitica in Africa, spesso riempiendo i vuoti lasciati dalle potenze occidentali. Posizionandosi come garante della sicurezza per i regimi sotto assedio, la Russia ha ottenuto posizioni economiche e politiche strategiche nel continente. L’impegno di Wagner in Africa è in linea con gli obiettivi di Mosca di sfidare l’influenza occidentale, garantire l’accesso a risorse critiche e coltivare partnership strategiche utili in arene diplomatiche internazionali, come le Nazioni Unite.

Oltre alla Repubblica Centrafricana e al Mali, Wagner è segnalato anche in altri paesi africani, tra cui Sudan, Libia e Burkina Faso, dove continua a operare sotto vari livelli di controllo statale russo. Sebbene il suo futuro rimanga incerto dopo la morte del fondatore Yevgeny Prigozhin, il ruolo di Wagner come strumento di influenza russa in Africa rimane intatto, con le sue operazioni sempre più sotto la supervisione diretta del governo russo.

Leadership e struttura di comando
Dopo la morte di Prigozhin, il Cremlino si è mosso rapidamente per integrare le operazioni di Wagner sotto il controllo statale, trasformando il gruppo da entità semi-autonoma a una diretta emanazione della strategia militare e geopolitica russa. Nell’agosto 2023, il presidente Vladimir Putin ha firmato un decreto che obbliga tutti i combattenti di Wagner a giurare fedeltà allo Stato russo, sancendo la fine della sua indipendenza operativa e la sua assimilazione nella struttura militare ufficiale russa.

La riorganizzazione ha comportato il trasferimento del comando a individui fedeli all’establishment militare russo. Molti leader originari di Wagner, in particolare quelli legati a Prigozhin, sono stati rimossi, riassegnati o eliminati in circostanze sospette. Al loro posto, ufficiali della difesa russa e agenti del GRU hanno assunto il controllo, garantendo che le operazioni di Wagner siano pienamente allineate con gli interessi strategici di Mosca.

Forza numerica e consistenza delle truppe
La riorganizzazione di Wagner ha comportato anche una revisione della sua forza numerica. Prima della morte di Prigozhin, si stimava che Wagner contasse tra i 25.000 e i 50.000 combattenti, con una parte significativa costituita da ex detenuti russi reclutati attraverso un controverso programma di arruolamento carcerario. Dopo la scomparsa di Prigozhin, molti di questi combattenti sono stati assorbiti nelle unità regolari dell’esercito russo o congedati, causando un temporaneo calo della forza operativa di Wagner. Tuttavia, gli sforzi di reclutamento sono proseguiti sotto la nuova leadership allineata al Cremlino, e si stima che il nucleo combattente di Wagner conti ora tra i 15.000 e i 25.000 effettivi. Una parte significativa di queste truppe è stata ridistribuita in Africa, dove Wagner è attiva in paesi come la Repubblica Centrafricana, il Mali e la Libia.

Per rimpinguare le proprie fila, Wagner ha apparentemente modificato il proprio approccio al reclutamento, puntando su ex militari, veterani delle forze speciali e mercenari con esperienza di combattimento in Ucraina, Siria e Africa. Anche i programmi di addestramento sono stati ampliati, con i combattenti di Wagner che ricevono istruzione militare avanzata presso strutture controllate dal Ministero della Difesa russo prima di essere dispiegati all’estero.

Armamenti ed equipaggiamento
Nonostante la sua formale integrazione nell’apparato statale russo, Wagner continua a operare con un alto grado di autonomia per quanto riguarda il proprio arsenale e la logistica. Il gruppo mantiene l’accesso a un’ampia gamma di armamenti, provenienti principalmente dai depositi militari russi. Tra questi figurano armi leggere come i fucili d’assalto AK-74 e AK-12, le mitragliatrici PKM e Pecheneg, le armi anticarro RPG-7 e RPG-29, oltre a fucili di precisione avanzati come il Dragunov SVD e l’Orsis T-5000.

Per quanto riguarda le armi pesanti, Wagner continua a impiegare veicoli corazzati per il trasporto truppe (APC) e veicoli da combattimento della fanteria, tra cui BTR-80 e BMP-2, garantendo mobilità e potenza di fuoco nelle operazioni in Africa e Medio Oriente. Inoltre, unità di Wagner sono state osservate in passato con carri armati T-72 e T-90, in particolare nelle zone di combattimento più intense, come in Ucraina prima della loro ridistribuzione.

L’artiglieria continua a essere un elemento chiave della strategia di Wagner, con l’accesso a sistemi lanciarazzi multipli (MRLS) come il BM-21 Grad e a pezzi di artiglieria semovente più pesanti, tra cui il 2S19 Msta-S. Questi mezzi garantiscono una capacità di fuoco significativa in contesti di guerra asimmetrica. Vi sono anche segnalazioni sull’uso di droni da combattimento, tra cui UAV da ricognizione Orlan-10, impiegati per sorveglianza sul campo di battaglia e attacchi di precisione.

Sotto il controllo del Cremlino, il gruppo continuerà a fungere da principale strumento di proiezione di potenza in aree dove un coinvolgimento diretto delle forze armate russe sarebbe politicamente o diplomaticamente costoso.

In Africa, dove il supporto aereo è cruciale per la logistica e le operazioni di combattimento, Wagner ha mantenuto una piccola flotta di elicotteri, tra cui Mi-8 e Mi-24 da combattimento, utilizzati sia per il trasporto delle truppe che per il supporto aereo ravvicinato. Questi velivoli sarebbero forniti direttamente dal Ministero della Difesa russo, garantendo che le capacità aeree di Wagner rimangano operative nonostante la riorganizzazione.


Mosca, foto di jacqueline macou da Pixabay

Prospettive strategiche
Con la perdita della sua autonomia, il futuro di Wagner è ormai legato alle priorità strategiche dello stato russo. Sotto il controllo del Cremlino, il gruppo continuerà a fungere da principale strumento di proiezione di potenza in aree dove un coinvolgimento diretto delle forze armate russe sarebbe politicamente o diplomaticamente costoso. Tuttavia, la perdita della sua indipendenza operativa potrebbe ridurre l’efficacia del gruppo in alcuni scenari, soprattutto laddove la sua flessibilità e adattabilità erano stati fattori chiave di successo.

Inoltre, vi sono indiscrezioni secondo cui Mosca starebbe valutando la possibilità di ristrutturare Wagner in più compagnie militari private (PMC) più piccole, operanti con diversi livelli di controllo statale. Questa strategia permetterebbe alla Russia di mantenere una parvenza di negabilità plausibile, pur continuando a beneficiare delle competenze di Wagner nella guerra irregolare e nelle operazioni di sicurezza.

Indipendentemente dalla forma che assumerà in futuro, la trasformazione di Wagner da PMC semi-autonoma a un’organizzazione paramilitare completamente controllata dallo stato segna un cambiamento significativo nella dottrina militare russa. Il Cremlino ha, di fatto, nazionalizzato il più noto gruppo mercenario del mondo, assicurandosi che le sue operazioni rimangano pienamente allineate con le ambizioni geopolitiche russe.

Grazie alla nuova leadership, agli sforzi di reclutamento sostenuti e all’accesso continuo ad armamenti avanzati, Wagner rimane una forza formidabile nonostante la perdita della sua autonomia. Ora che è sotto il controllo diretto del Cremlino, Wagner non è più solo una PMC fuori dagli schemi, ma un elemento integrante della strategia militare e geopolitica russa. Il suo ruolo di moltiplicatore di forze in Africa e in altre aree di influenza russa si è rafforzato, con Mosca che sfrutta le capacità di Wagner per garantire interessi strategici ed economici chiave.

Nei prossimi mesi, Wagner continuerà probabilmente a espandere la propria influenza in Africa, mantenendo una presenza limitata in Ucraina e Medio Oriente. La sua integrazione nell’apparato militare russo assicura la continuità operativa, con una forte enfasi sull’allineamento delle missioni con la strategia globale del Cremlino.

Conclusione: il ruolo di Wagner nella strategia globale russa
In sintesi, il Gruppo Wagner continua a essere un elemento critico per la proiezione di potenza russa, in particolare in regioni di rilevanza geopolitica come l’Africa, il Medio Oriente e alcune parti dell’Europa orientale. La trasformazione del gruppo nell’era post-Prigozhin rappresenta un cambiamento decisivo nella gestione russa delle operazioni paramilitari, passando da una forza privata altamente influente ma informale a un’estensione più controllata dello stato russo. Questa evoluzione riflette le priorità strategiche del Cremlino: consolidare presenze economiche e militari all’estero, contrastare l’influenza occidentale e impiegare tattiche di guerra non convenzionale per raggiungere obiettivi geopolitici senza un coinvolgimento ufficiale dello stato.

La ristrutturazione di Wagner sotto il Ministero della Difesa e le agenzie di intelligence russe dimostra la determinazione del Cremlino a consolidare il controllo sulle forze militari irregolari. L’epoca in cui Wagner operava con una certa indipendenza—seguendo a volte anche interessi propri oltre a quelli del governo russo—è ormai terminata. La subordinazione diretta di Wagner alle autorità statali garantisce che le sue missioni siano strettamente allineate con gli obiettivi della politica estera di Mosca, eliminando il rischio di azioni autonome, come il tentato ammutinamento di Prigozhin, che avrebbero potuto mettere in discussione la leadership russa.

L’impiego di Wagner in Africa evidenzia il suo ruolo chiave nella strategia globale russa. Assumendo il ruolo di garante della sicurezza per regimi come quello della Repubblica Centrafricana e del Mali, Wagner ha contribuito ad ampliare l’influenza politica ed economica della Russia nella regione, in particolare garantendo l’accesso a risorse naturali di valore strategico.

Guardando al futuro, il modello operativo di Wagner potrebbe subire ulteriori evoluzioni sotto il controllo del Cremlino. La Russia potrebbe frammentare Wagner in più entità paramilitari minori, mantenendo così la flessibilità e la capacità di operare con discrezione, senza perdere il vantaggio strategico derivante dall’impiego di forze mercenarie.

Il ruolo di Wagner come elemento essenziale della strategia di guerra ibrida della Russia garantisce che rimarrà una forza formidabile sulla scena globale.

Questo approccio permetterebbe a Mosca di mantenere i vantaggi strategici dell’utilizzo di forze mercenarie—come la flessibilità, le conseguenze diplomatiche ridotte e la negabilità—mentre si previene l’emergere di un’entità potente e indipendente come il Gruppo Wagner dell’era Prigozhin. Mantenendo più unità paramilitari sotto il controllo centralizzato, la Russia può continuare a sfruttare le tattiche di guerra irregolare per raggiungere i suoi obiettivi in modo economico e politicamente gestibile.

In definitiva, la trasformazione di Wagner in uno strumento diretto del potere statale russo segna una nuova fase nell’approccio della Russia agli impegni militari globali. Il gruppo rimane una componente cruciale dell’arsenale della politica estera di Mosca, permettendo al Cremlino di esercitare influenza, garantire risorse e sfidare gli interessi occidentali in regioni di importanza strategica. Nonostante abbia perso la sua indipendenza, il ruolo di Wagner come elemento essenziale della strategia di guerra ibrida della Russia garantisce che rimarrà una forza formidabile sulla scena globale.


Ucraina: l’incontro di Riad è una trappola per l’Europa?

di Claudio Bertolotti.

Il vertice di Parigi sull’Ucraina e l’incontro di Riad tra Stati Uniti e Russia segnano due momenti cruciali nella partita geopolitica in corso, rivelando la fragilità dell’unità europea e la volontà delle grandi potenze di ridisegnare il futuro del conflitto al di fuori dei canali ufficiali.

Il commento di Claudio Bertolotti a Ticino News – Puntata del 17 febbraio 2025.

Parigi: un’Europa che si spezza

Nella capitale francese si è consumato un dramma politico che va oltre le dichiarazioni di facciata. L’incontro tra otto leader europei, convocato con l’obiettivo di rafforzare il sostegno a Kiev, ha invece messo in scena una frattura profonda tra gli Stati membri. Da un lato, la Francia di Macron e il Regno Unito si sono detti pronti, almeno teoricamente, a prendere in considerazione l’invio di truppe in Ucraina. Dall’altro, Germania, Italia, Spagna e Polonia hanno manifestato una netta opposizione, mettendo in discussione la fattibilità di un coinvolgimento militare diretto.

Giorgia Meloni ha insistito sulla necessità di un pieno coinvolgimento degli Stati Uniti in qualsiasi decisione strategica, suggerendo che l’Europa da sola non può permettersi di giocare alla guerra senza la copertura di Washington. La tensione si è fatta palpabile: se da una parte c’è la volontà di mostrare determinazione di fronte all’avanzata russa, dall’altra permane il timore che un passo falso possa trascinare il continente in un’escalation senza ritorno.

Riad: negoziati in penombra

Mentre a Parigi si consumava il confronto tra alleati divisi, a Riad si teneva un incontro ben più enigmatico. Stati Uniti e Russia si sono seduti al tavolo per discutere della guerra, ma senza la presenza dell’Ucraina e senza alcun coinvolgimento dell’Unione Europea. Il messaggio è chiaro: le grandi potenze preferiscono trattare tra loro, lasciando ai margini coloro che più di tutti subiscono le conseguenze del conflitto.

A Kiev, la notizia è stata accolta con un misto di preoccupazione e rabbia. Zelensky sa bene cosa significhi essere escluso da discussioni che potrebbero decidere il destino del suo paese. Il fatto che questi negoziati si svolgano lontano dai riflettori, in un luogo come l’Arabia Saudita, sottolinea il ruolo sempre più attivo di Riyad come mediatore globale e, allo stesso tempo, il desiderio di Washington di mantenere una certa opacità sulle reali intenzioni americane.

Uno scenario inquietante

Il quadro che emerge è quello di un’Europa politicamente fragile, divisa tra chi vorrebbe proiettare forza e chi teme il rischio di una guerra aperta. Nel frattempo, Stati Uniti e Russia trattano senza il consenso di Kiev, dimostrando che la vera partita si gioca altrove.

Il rischio è che l’Ucraina diventi moneta di scambio in un accordo che rispecchia più gli interessi strategici di Washington e Mosca che il diritto di Kiev a esistere come Stato sovrano. Se l’Europa non riuscirà a trovare una posizione unitaria e a imporsi come attore indipendente, il suo ruolo nella crisi ucraina sarà sempre più marginale.

Ci troviamo di fronte a un bivio: continuare a inseguire illusioni di compattezza o accettare che, senza una strategia comune e credibile, il destino dell’Europa verrà deciso altrove.

Russia, Ucraina e la frattura tra UE e NATO: una mossa calcolata?

Le recenti dichiarazioni del Cremlino sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea segnano un passaggio diplomatico significativo. Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha affermato che l’ingresso di Kiev nell’UE rappresenta un “diritto sovrano”, poiché si tratta di un’unificazione economica e non militare. Tuttavia, ha subito precisato che la posizione russa è completamente diversa su temi legati alla sicurezza e alla difesa. Questa apparente apertura sembra contenere un sottotesto ben più complesso, inserendosi nel quadro più ampio della strategia russa di ridefinizione dei rapporti di forza in Europa.

Una trappola diplomatica?

Se da un lato la Russia sembra accettare, almeno a parole, l’integrazione economica dell’Ucraina con l’Europa, dall’altro pone un confine netto quando si tratta di sicurezza e alleanze militari. Questo solleva una domanda cruciale: si tratta di una reale concessione diplomatica o di una manovra per dividere l’Europa dalla NATO?

Mosca sa bene che la NATO e l’UE non coincidono perfettamente: molti membri dell’Unione non fanno parte dell’Alleanza Atlantica e viceversa. Accettare il percorso europeo dell’Ucraina potrebbe quindi rappresentare un modo per mettere alla prova le divergenze interne all’Europa, spingendo alcuni Paesi a considerare un rapporto con Kiev separato dal sostegno militare della NATO. Il Cremlino potrebbe così cercare di indebolire il fronte occidentale, sfruttando le differenze tra gli Stati membri e rallentando il sostegno militare a Kiev.

Il fattore USA e il timore del disimpegno atlantico

Un altro elemento da considerare è il ruolo degli Stati Uniti. La Russia potrebbe ritenere che Washington sia sempre meno coinvolta nella difesa dell’Europa, sia per ragioni politiche interne sia per la necessità di concentrare risorse su altre aree di crisi, come il Pacifico. Se gli USA riducessero il loro impegno nella sicurezza europea, la NATO stessa potrebbe indebolirsi, lasciando l’Unione Europea a dover gestire in autonomia la propria sicurezza.

Questa ipotesi renderebbe più credibile la tattica russa: accettare un’Ucraina più vicina economicamente all’Europa, ma allo stesso tempo lavorare per impedire che diventi un avamposto militare dell’Occidente. Se gli Stati Uniti si disimpegnassero, Mosca potrebbe sperare in una UE meno incline al confronto e più propensa a negoziare un equilibrio con la Russia.

UE e NATO: un destino comune?

Tuttavia, questo ragionamento presenta un problema di fondo: nella realtà dei fatti, l’UE e la NATO sono oggi più allineate che mai. L’aiuto militare all’Ucraina non è una prerogativa esclusiva dell’Alleanza Atlantica, ma coinvolge anche Paesi europei in maniera autonoma. Inoltre, la guerra in Ucraina ha spinto molti governi europei a rafforzare la propria difesa, accelerando processi di cooperazione militare intra-UE che fino a pochi anni fa sembravano impensabili.

Se la Russia spera di sfruttare la separazione tra UE e NATO per ridurre il supporto a Kiev, potrebbe trovarsi di fronte a una realtà ben diversa: più la guerra si prolunga, più l’Europa tende a rafforzare la propria posizione, anche militarmente. Anzi, paradossalmente, accettando il percorso europeo dell’Ucraina, Mosca potrebbe finire per legittimare un’integrazione ancora più stretta tra sicurezza europea e atlantica.

Le parole di Peskov: coerenti con la strategia russa

Le dichiarazioni di Peskov incarnano quella che ormai è una costante nella strategia diplomatica russa: un equilibrio sottile tra concessioni apparenti e fermezza sui temi della sicurezza. Da un lato, il Cremlino si mostra aperto al dialogo per accreditarsi come attore razionale e pragmatico; dall’altro, traccia confini invalicabili in ambito militare, mantenendo alta la pressione sugli avversari.

La vera questione, però, è un’altra: Mosca ritiene che gli Stati Uniti siano destinati a ridurre il loro impegno in Europa? Se il Cremlino è convinto di questo scenario, allora l’accettazione dell’ingresso dell’Ucraina nell’UE potrebbe essere una mossa studiata per sfruttare le fragilità europee e ricalibrare l’ordine geopolitico a proprio vantaggio.

Se invece Washington continuerà a sostenere Kiev in modo deciso, la strategia russa potrebbe rivelarsi un boomerang: un’Unione Europea più coesa e allineata alla NATO potrebbe vanificare ogni tentativo di divisione, rafforzando ancora di più il legame tra il blocco occidentale e l’Ucraina.


Il vertice di Parigi e le incognite europee. Il commento.

OFFICINA GEOPOLITICA di START InSight: il commento di Claudio Bertolotti sullo scenario internazionale.

Il vertice di #Parigi e le ambizioni francesi. La visione europea e le sue effettive capacità di incidere in un processo negoziale che sembra ormai definito, almeno nei giocatori: Stati Uniti e Russia, alias Donald Trump e Vladimir Putin. Come leggere la mossa di Emmanuel Macron? Non dovrebbe essere Ursula Von der Leyen a muoversi? Sull’Ucraina, l’Europa riuscirà a ritagliarsi un ruolo oppure no? È un vertice da cui potrebbe emergere qualcosa di concreto? L’Unione Europea conta sempre meno. È un problema di struttura dell’UE o di un’assenza di leader? Trump riuscirà ad arrivare ad un accordo con Putin? Quale sarà il prezzo per l’Ucraina? Per la Russia sarà una vittoria?

Claudio Bertolotti risponde a queste domande ponendo particolare attenzione al ruolo dell’Unione europea e alla sua debole posizione nell’arena internazionale.

Il vertice di Parigi del 17 febbraio 2025, convocato dal presidente francese Emmanuel Macron, ha riunito i leader di 8 paesi Europei, Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Polonia, Spagna, Paesi Bassi, Danimarca, insieme al presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il segretario generale della Nato Mark Rutte, per discutere della situazione in Ucraina e della sicurezza europea. Questa iniziativa europea nasce in risposta ai negoziati tra Stati Uniti e Russia in corso a Riad, dai quali l’Europa e l’Ucraina sono state inizialmente escluse.

La presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha partecipato al vertice nonostante alcune riserve iniziali, sottolineando l’importanza di ascoltare i partner europei e di mantenere una posizione unitaria. L’Italia ha evidenziato la necessità di far leva sulle sanzioni imposte alla Russia come strumento per ottenere un ruolo nei negoziati e ha espresso preoccupazione per l’esclusione dell’Europa dalle trattative tra Washington e Mosca.

Tuttavia, non tutti i Paesi europei hanno sostenuto l’iniziativa di Macron. L’Ungheria, ad esempio, ha criticato il vertice, affermando che potrebbe ostacolare gli sforzi di pace in Ucraina e accusando i leader europei di alimentare l’escalation del conflitto.

In parallelo, il presidente Macron ha avuto una conversazione telefonica con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, prima dell’inizio del vertice, nel tentativo di coordinare le posizioni e ribadire l’importanza di un approccio concertato tra Europa e Stati Uniti nella ricerca di una soluzione al conflitto ucraino.

Questo vertice rappresenta un tentativo dell’Europa di riaffermare il proprio ruolo centrale nei negoziati di pace e di garantire che gli interessi europei e ucraini siano adeguatamente rappresentati nelle future discussioni internazionali.


Il valore dell’azione ucraina a Kursk: ma la Russia mantiene il vantaggio sul campo

di Claudio Bertolotti

Quella ucraina a Kursk non è un’offensiva né una controffensiva. È un atto tattico che ha permesso alle forze ucraine di prendere temporaneamente l’iniziativa sul campo di battaglia ma che, non potendo essere determinante ai fini della guerra, ha un duplice scopo: il primo alleggerire il fronte sud imponendo alla Russia di spostare e impegnare le proprie riserve altrimenti disponibili sul fronte di Zaporizhzhia– come fatto mesi fa dalla Russia aprendo il fronte di Karkiv –, mentre il secondo scopo è consentire a Zaleski di insistere sul piano politico in un momento di grande difficoltà, tenuto conto della prospettiva presidenziale statunitense del 2025 e del concomitante sostegno di Washington a Israele.

Questo però non significa che sia un atto improduttivo o inutile, al contrario, la Russia è stata così costretta a ripensare lo schieramento delle riserve e ad avviare un processo di pianificazione operativa che preveda la difesa dei confini russi da possibili ulteriori puntate offensive ucraine.

Detto in altri termini: l’operazione di Kursk, per quanto politicamente e mediaticamente rilevante, non cambia gli equilibri al fronte e ci ricorda ancora una volta che in termini di mezzi, uomini e materiali l’Ucraina non ha la capacità di condurre operazioni offensive su larga scala o comunque determinanti ai fini del conflitto.

Perché questo? In primo luogo cominciano a mancare gli uomini al fronte, e l’ipotesi di mobilitazione generale è un dilemma che sta assillando il presidente Zelensky poiché potrebbe rivelare una partecipazione inferiore alle aspettative. In secondo luogo l’aiuto occidentale, in primis statunitense e poi quello europeo, è sempre stato strutturato in modo tale da dare a Kiev lo stretto necessario per difendersi e sostenere il peso della guerra di logoramento russa ma non per cambiarne gli equilibri e dunque non per imporre una sconfitta a Mosca (la cui tenuta statale rimane un punto saldo nel sostegno occidentale all’Ucraina).


Iran, Israele, Hamas, Russia, NATO: il commento di C. Bertolotti a SKY TG24

La presentazione di Gaza Underground – il libro, a SKY TG24: le incognite e le difficoltà nella guerra urbana e sotterranea. E ancora: la morte del presidente di Raisi e la sua successione: quali ripercussioni a livello interno ed esterno? La Russia minaccia di ridefinire i confini marittimi: provocazione o atto deliberato?

Il commento di Claudio Bertolotti a TIMELINE, SKY TG24 (puntata del 22 maggio 2024).