Polveriera Mediterraneo. Dall’Afghanistan all’Algeria, le nuove sfide per l’ordine mondiale. Presentazione del libro.
A Torino, il 14 settembre 2023 alle ore 17.30 avrà luogo il convegno di presentazione del libro, curato da Michela Mercuri e Alberto Gasparetto dal titolo: “Polveriera Mediterraneo. Dall’Afghanistan all’Algeria, le nuove sfide per l’ordine mondiale“
L’evento, ospitato dalla Regione Piemonte presso la Sala Conferenze del Palazzo della Regione Piemonte – Via Nizza, 330 Torino (Piano Terra), intende affrontare e analizzare in maniera quanto più approfondita – attraverso il contributo di importanti attori istituzionali ed esperti del settore pubblico e privato – le minacce, le criticità, ma anche le opportunità di un’area mediterranea che rimane instabile, sul piano politico, sociale, energetico, economico e delle relazioni internazionali.
Intervengono la curatrice Michela Mercuri (Professore Università di Padova), il co-autore Claudio Bertolotti (Direttore START InSight), Arturo Varvelli (Direttore ECFR), Stefano Mannino (Gen. C.A., C.te Scuola di Applicazione dell’Esercito). Apre i lavori l’assessore regionale Maurizio Marrone. Modera Valentina Ciappina (Direttore Torino Crime) .
Il contenuto del libro: dalla guerra d’Ucraina alla crisi del Mediterraneo
La guerra in Ucraina non ha zittito le armi in Nord Africa e nel Medio Oriente, un’area segnata da conflitti irrisolti, guerre per procura e rivolte che si estendono fino ai confini dell’Asia centrale. Il Mediterraneo è una polveriera pronta a esplodere. Le recenti proteste in Iran, la crisi che sta vivendo l’Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane, le ambizioni egemoniche turche, l’instabilità libica, il revanscismo jihadista in Nord Africa e la futura traiettoria di paesi “in bilico” come l’Algeria, l’Arabia Saudita e la Siria rappresentano alcune delle maggiori incognite per il futuro. Gli effetti di queste “bombe a orologeria” potrebbero riverberarsi sugli Stati vicini e sull’intero sistema internazionale, con esiti che potrebbero essere devastanti. Gli autori affrontano questi temi descrivendo realtà differenti ma interconnesse, riunendo i pezzi di quel grande puzzle che è la “polveriera Mediterraneo”.
Indice del volume e degli autori
Vittorio Emanuele Parsi, Prefazione Alberto Gasparetto,Michela Mercuri, Introduzione Claudio Bertolotti, La lezione afghana. Dalla “guerra più lunga” al nuovo terrorismo insurrezionale Giuseppe Acconcia, “Donna, vita, libertà”. I movimenti sociali in Iran e il revival nazionalista degli ayatollah Jessica Pulsone, Dall’identità religiosa all’identità nazionale: la rivoluzione nazionalista della “nuova” Arabia Saudita Mauro Primavera, La presidenza di Bashar al-Assad tra riformismo, ideologia e geopolitica Alberto Gasparetto, Il populismo nella politica estera dell’AK Parti. Fra autoritarismo, islamismo e nazionalismo Sara Senno, Il revival islamista nel panorama delle post-primavere arabe in Nord Africa Michela Mercuri, Lo stallo libico tra nazionalismo e tribalismo. Un’analisi alla luce dell’attuale crisi politica Caterina Roggero, La nuova Algeria nella rivista El Djeich (2020-2022)
Droni di Kiev su Mosca: una pressione sugli USA? Il commento al TG RSI.
Claudio Bertolotti (StartInsight) al TG della Radio e Televisione Svizzera Italiana, intervistato da Gianmaria Giulini
Colpire la capitale russa con i droni non cambia il bilanciamento militare, ma ha un impatto psicologico e diplomatico
RSI – Svizzera, 9 agosto 2023. La strategia ucraina di aumentare gli attacchi con droni su Mosca e sul territorio russo, preannunciata il 30 luglio dal presidente Zelensky “è una strategia efficace a basso costo, manda un messaggio politico di forte impatto psicologico sulla popolazione moscovita, che è lontana dalla guerra, perché la maggior parte delle reclute mobilitate fino ad ora viene da distretti orientali e periferici del paese”. Lo dice al Telegiornale RSI il direttore di StartInsight Claudio Bertolotti.
Difficilmente attaccare la capitale russa e le forze armate di Mosca con droni determinerà una svolta sul campo di battaglia, ma ha un impatto sui russi e su chi sostiene Kiev. Come contropartita alla riduzione delle sue azioni sul suolo russo, Zelensky può chiedere ai suoi sostenitori – cominciando dagli USA – di fornirgli piu armamenti. E gli USA probabilmente lo ascolteranno perché non vogliono una guerra totale con il Cremlino.
Quanti
sono stati gli attacchi dell’Ucraina sul suolo russo?
L’Ucraina celebra gli attacchi su suolo russo, ma non
ne conferma mai la paternità, cioè non
rivendica ufficialmente le azioni. Questo per ovvie ragioni di opportunità: l’obiettivo
è non garantire alla Russia l’escamotage formale di dirsi attaccata sul proprio
suolo, il che le potrebbe anche consentire di sdoganare l’opzione atomica.
Possiamo
contare alcune decine di attacchi diretti in territorio russo, prevalentemente
attacchi con droni, che hanno colpito obiettivi, da un lato simbolici, nel
cuore di Mosca, che si contrappongono agli obiettivi militari propriamente
detti: infrastrutture, ponti, depositi di carburante, linee ferroviarie e aeroporti.
Tra i principali attacchi ricordiamo l’azione
condotta con elicotteri da combattimento, nell’aprile del 2022, contro un
deposito di carburanti russo vicino al confine con l’Ucraina; l’attacco
missilistico sulla nave ammiraglia russa del Mar Nero, sempre ad aprile; l’attacco
partigiano alla base aerea russa in Crimea, nell’agosto dello stesso anno; l’autobomba vicino a Mosca, in cui ha
trovato la morte la figlia dell’ideologo Dugin, vicino a Putin; e ancora, ad
ottobre, l’esplosione del ponte di Crimea; e poi, gli attacchi con droni
marittimi, aerei contro infrastrutture logistiche, depositi di carburanti, ecc…
La guerra sta tornando sul territorio russo, questo è un processo inevitabile?
L’obiettivo che possiamo ritenere più logico è quello di imporre un aumento della pressione psicologica sull’aggressore che, in questo modo, viene colpito in casa propria. È un messaggio politico dal forte impatto psicologico su una popolazione – quella moscovita in particolare – che è la più lontana dal coinvolgimento diretto della guerra. La maggior parte delle reclute mobilitate viene dai distretti orientali e periferici, non da quelli della Russia occidentale.
Cosa cambia
con questi attacchi per l’Occidente? Cosa si rischia?
Potremmo dire che non cambia lo stato delle cose,
almeno in Europa. Quello che pesa, in primo luogo, è lo sviluppo della campagna
elettorale per l’elezione del presidente degli Stati Uniti. Biden si trova in
una scomoda situazione: è sotto il fuoco incrociato di chi vuole sostenere
l’Ucraina e di chi invece vorrebbe ridurre il coinvolgimento di Washington in
una guerra europea. Comunque si muova le critiche nei suoi confronti non
mancheranno. È per questo motivo che il tema “guerra in Ucraina” sarà per
quanto possibile evitato, o limitato al minimo indispensabile, nei vari comizi
e incontri pubblici.
Attaccare il
territorio russo significa oltrepassare una linea rossa?
È una linea rossa, un cambio di equilibri e di
postura, ma difficilmente determinerà una svolta sul campo di battaglia. L’effetto
è sul piano psicologico, di chi viene colpito, dunque i russi, ma anche di chi
sostiene Kiev, in primis gli Stati Uniti, che saranno spinti, nelle intenzioni
di Zelenski, ad aumentare il sostegno militare come contropartita alla
riduzione di azioni di questo tipo su suolo Russo. Washington non vuole un’escalation,
come non vuole un cambio di regime in Russia, che potrebbe aprire a uno
scenario politico peggiore di quello attuale.
Competizione NATO e Cina-Russia nel Mar del Giappone
di Andrea Molle
La reazione sino-russa
alla diplomazia NATO nell’indo-pacifico, che include anche i recenti sforzi
italiani, non si fa attendere. Dopo la conferma delle indiscrezioni di una
futura apertura di un liaison office dell’Alleanza in Giappone, ipotesi
peraltro volutamente omessa dalle dichiarazioni ufficiali dell’incontro di
Vilnius, i due paesi annunciano un’esercitazione navale comune nel Mar del
Giappone.
Il Mar del Giappone è un fondamentale
teatro strategico sia per la Cina che per la Russia. In particolare gli stretti
di Soya, di Tsushima e Tsugaru hanno importanti implicazioni per la sicurezza
nazionale di Beijin e Mosca. Sabato, il Ministro della Difesa cinese ha
dichiarato che forze navali e aeree russe prenderanno parte alle esercitazioni
militari “Northern/Interaction”, organizzate dal comando del teatro
settentrionale dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). Va precisato che le
relazioni militari tra i due paesi non sono una novità; basti ricordare, ad esempio,
che a partire dal 2018, la Cina ha partecipato regolarmente alle principali
esercitazioni annuali russe tra cui “Vostok 2018”, “Tsentr-2019” e “Kavkaz-2020”.
Nell’agosto 2021, la Russia ha anche preso parte all’esercitazione “Western/Interaction”,
condotta nella regione autonoma dello Ningxia Hui, nella Cina nord-occidentale,
la prima in cui la Cina ha invitato a partecipare forze armate straniere.
Successivamente, nel 2022, Beijin ha inviato componenti delle sue forze
terrestri, navali e aeree in Russia per partecipare alle esercitazioni “Vostok
2022” le cui attività si sono svolte in ben 13 siti addestrativi russi
e in diverse aree di interesse del Mar del Giappone.
Tuttavia, quest’ultima campagna
addestrativa comune, che si aggiunge all’attività di pattugliamento congiunto del Mar del Giappone
e del Mar Cinese Orientale da parte delle due Forze Armate iniziata lo scorso
giugno, sembra rappresentare un salto di qualità verso un vero e
proprio partenariato strategico. Il Ministero
della Difesa ha infatti sottolineato come questa esercitazione congiunta abbia
sì uno scopo
prettamente operativo, cioè di acquisire le capacità necessarie al mantenimento della
sicurezza delle rotte marittime strategiche, ma ha anche aggiunto che, tramite
lo sviluppo di più
strette relazioni militari, Cina e Russia intendono affermarsi politicamente
come i reali garanti della pace e della stabilità nella regione.
Diversi esperti militari prevedono
anche che queste attività addestrative andranno ad aumentare in futuro,
anche grazie alla probabile rotazione tra tutti e cinque i comandi del PLA che
potranno interessare diversi teatri strategici e scenari di conflitto tra i
quali naturalmente spicca l’isola di Taiwan.
Ancora non si conosce l’entità nè la configurazione del contingente navale russo, ma la componente navale cinese sembra includere i cacciatorpedinieri missilistici Qiqihar e Guiyang, le fregate missilistiche Zaozhuang e Rizhao e la nave da rifornimento Taihu, salpate dal porto di Qingdao, sito nella provincia dello Shandong nella Cina orientale.
Fotografia di Michael Afonso
La gestione di crisi nel XXI secolo
di Quentin Ladetto, Patrick Trancu, Alessandro Rappazzo, Luca Tenzi
L’articolo tratta della complessità dei processi decisionali nel contesto interconnesso e interdipendente odierno, evidenziando le sfide che politici, manager ed imprenditori devono affrontare. In particolare, viene evidenziata la presenza di un gran numero di variabili, la loro velocità di cambiamento e la loro interconnessione, che rendono difficile la previsione. Viene poi sottolineato il passaggio dalle crisi tradizionali a quelle sistemiche, che coinvolgono diverse aree e la necessità per le organizzazioni di sviluppare una capacità di previsione strategica per anticipare tali crisi. Sono citati la pandemia COVID-19 e la guerra in Ucraina come esempi di crisi sistemiche, e viene evidenziata l’importanza delle emozioni umane e della sensibilità nella comprensione di contesti complessi. Il testo inoltre discute l’importanza di adeguare l’organizzazione di gestione delle crisi al XXI secolo, evidenziando il ruolo del nuovo ufficio federale per la gestione di crisi e uno Stato Maggiore di Crisi di base permanente al suo interno, con il compito di armonizzare la comprensione del processo di gestione delle crisi, diventare un centro di competenza aperto ad esperti, esercitare il coordinamento tra le diverse strutture, ospitare un’unità di anticipazione strategica e creare cellule di riflessione rapida. Ciò permetterebbe di integrare in un unico sistema Comuni, Cantoni e la Confederazione svizzera e di affrontare le sfide contemporanee con un approccio flessibile, creativo e pronto all’azione.
Keywords: decision-making, crises
La complessità Nel nuovo contesto interdipendente e interconnesso di questo millennio “essere politici, manager o imprenditori, prendere decisioni che avranno un impatto profondo sul presente e sul futuro di intere comunità è sempre meno un’attività banale o per la quale basta un guizzo di creatività alla faccia della competenza. (…) In sintesi, decidere nel nuovo millennio è diventata un’attività complessa”. “La complessità è descritta dall’aneddoto meteorologico della farfalla, che, alzandosi in volo da un fiore nelle Filippine, con il suo battito di ali scatena, tanto paradossalmente quanto realmente, un uragano in Florida. La complessità sottende uno stato di ampia varietà nella numerosità delle variabili in gioco (troppe), di variabilità della dinamica con cui cambiano i rispettivi valori (troppo veloci), e della loro più o meno stretta e a volte indecifrabile interdipendenza (troppo connessi, anche in modo labile). Assieme, queste tre condizioni rendono difficile la possibilità di previsione, anche a una macchina con potenza di calcolo significativa quale può essere un supercomputer. Ed è qui che subentra l’importanza dell’essere umano rispetto alla tecnologia. Perché l’essere umano è dotato, oltreché delle competenze, di quelle emozioni e sensibilità che gli permettono, con il supporto della tecnologia, di comprendere meglio il contesto di riferimento. La complessità richiede uno sforzo di immersione per comprenderla e per affrontarla” (Verona, 2022). Siamo di fatto immersi in contesti operativi sempre più connessi tra loro, in cui gli schemi di comportamento interagiscono non solo all’interno di ciascuna singola organizzazione, ma anche tra le diverse organizzazioni, in un ambiente sempre più interdipendente (Allison, 1999).
Tra crisi sistemiche e policrisi Le crisi non sono più quelle di una volta. A differenza di quelle del XX secolo dove il contesto era chiaro e il perimetro ben definito, pensiamo ad esempio ad eventi di natura industriale/ambientale (Seveso, Exxon Valdez, ecc.) o a quelli associati alla sicurezza alimentare o dei farmaci (Tylenol), le crisi sistemiche del 21° secolo tendono a proiettarci in scenari ipercomplessi dove “l’evento non rappresenta più il fulcro del problema. Il problema è rappresentato dalla fragilità delle strutture fondamentali del nostro sistema”. Queste crisi, transfrontaliere per natura, tendono a sfociare “nel caotico, spaziano territori sempre più ampi e complessi, sono difficilmente inquadrabili in categorie predefinite. (…) Ci spingono in un universo caratterizzato dalla perdita di orientamento e di punti di riferimento.” (Trancu P. et al. Lagadec P. 2021). L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, prima vera crisi sistemica del nuovo secolo, rappresenta il momento di frattura tra l’era della stabilità e quella dell’instabilità. Ma è la concatenazione di due crisi sistemiche, pandemia e guerra in Ucraina, che determina il passaggio all’era dell’incertezza costante e da origine al termine «policrisi». In questo scenario già estremamente complesso non possiamo ignorare ulteriori fattori sotterranei quali la guerra ibrida permanente o il potenziale emergere di nuove minacce terroristiche caratterizzate dall’uso di nuovi arsenali di armi facilmente accessibili, a basso costo e ad alto impatto.
L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, prima vera crisi sistemica del nuovo secolo, rappresenta il momento di frattura tra l’era della stabilità e quella dell’instabilità.
I limiti della gestione delle crisi L’esperienza pandemica ha messo in evidenza quello che numerosi esperti di risk management e crisis management hanno compreso da tempo: la maggior parte delle organizzazioni e delle società intese come nazioni, non sono cablate per ricercare e apprezzare scenari negativi. Il periodo di incubazione della pandemia (e della guerra in Ucraina), illustra la sfida che è dinanzi a noi: la necessità di sviluppare una propensione e una capacità di esaminare l’ambiente con un’antenna dedicata alle potenziali crisi (Boin, 2021). Si tratta di introdurre nelle organizzazioni, siano esse aziende o Stati, meccanismi di anticipazione strategica (strategic foresight). Unità nelle quali si concentrano le informazioni provenienti da diversi sistemi di sensori e in grado quindi di monitorare costantemente l’orizzonte per identificare in una logica di anticipazione possibili scenari critici. La realtà è che nella maggioranza dei Paesi abbiamo assistito ad una cecità organizzativa: incapacità di immaginare; sistemi organizzati a silos (Scharte, 2021) e incapaci di collegare i puntini; il dilemma di confrontarsi con eventi di bassa probabilità ma alto impatto; l’illusione del controllo e l’incapacità di confrontarsi con la dura realtà di scenari “what if”; la tendenza a trincerarsi in contesti familiari – i known knowns – in fase di analisi del rischio e preparazione; l’esercitarsi su scenari “soft” (Boin et al., 2021); una comunicazione difficilmente comprensibile (Trancu et al., Grandi, 2021) e mirante a fornire rassicurazioni non supportate dalla realtà della situazione. Vi sono problemi culturali, di architettura organizzativa, di coordinamento, di leadership, di comando e controllo, di trasparenza e comunicazione, che richiedono pressante attenzione. Nel caso degli Stati a questi spesso legislazioni inadeguate per fronteggiare eventi critici e queste rappresentano un ulteriore ostacolo alla gestione di tali eventi. 5 le aree di intervento urgenti: 1) superare la cecità organizzativa 2) instaurare processi decisionali solidi e multidisciplinari; 3) gestire la frammentazione; 4) articolare narrazioni credibili; 5) gestire lo stress collettivo (Boin et al., 2021). La nostra impostazione alla gestione del rischio si è basata fino ad oggi sui “known unknowns”: i rischi dei quali abbiamo consapevolezza. Li abbiamo identificati, mappati e compresi. Ma il tema che si pone oggi è quello dei rischi che sono fuori dal nostro “radar” e che non siamo in grado di identificare: gli “unknown unknowns”. Il perimetro si è quindi drammaticamente ampliato a dismisura. Vi è urgenza di trasformazione mentale e organizzativa. Bisogna essere in grado di cogliere tempestivamente i potenziali campanelli d’allarme (foresight) che possono permetterci di anticipare la riflessione e l’azione. I decisori hanno più che mai necessità di poter contare più che mai su squadre di sostegno, unità di anticipazione strategica e cellule di riflessione rapida (Lagadec, 1991), squadre operative che li aiutino a governare con la necessaria competenza il caos. Bisogna abbandonare l’idea dell’uomo solo al comando e privilegiare la leadership diffusa; rifiutare il “group think” e valorizzare individui che mostrano ingegno, creatività, capacità di affrontare l’imprevisto e l’anomalo. E’ più che mai necessario imparare a “pensare fuori dagli schemi”, e ad agire, in un contesto in cui gli schemi non esistono più (Grannatt, 2004).
Vi è urgenza di trasformazione mentale e organizzativa.
In conclusione, la cassetta degli attrezzi della gestione di crisi che abbiamo ereditato dall’era industriale è obsoleta. Così come sono obsolete le organizzazioni e gli stili di leadership in essa contenuti. E’ quindi necessario ripensare le organizzazioni e i processi di preparazione e gestione di crisi delle istituzioni e delle aziende alla luce degli elementi di complessità introdotti dalle crisi sistemiche del XXI secolo. Dobbiamo ragionare sulla collaborazione pubblico privato quale elemento fondamentale del processo, ripensare i processi comunicativi e superare la logica dei silos per giungere ad una visione olistica degli eventi critici.
Il ruolo delle idee Essere pronti a pensare l’inimmaginabile (Taleb, 2009) è una capacità che è sempre più richiesta per affrontare i possibili futuri (Li & Qiufan, 2021). Il tempo come lo conosciamo perde la sua determinatezza in quanto non è un “quando” arriva, ma piuttosto una sfida di “cosa” arriva. I futuri al plurale sono quindi diventati il vero fulcro dell’interesse per la preparazione alle crisi (Ladetto, 2022). Essere preparati alle crisi significa anche sviluppare, seminare e raccogliere nuove conoscenze, nuove idee, e questo per cercare la flessibilità intellettuale necessaria a vedere oltre l’inimmaginabile (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Grazie a Prometeo, che per ordine di Zeus diede all’uomo la capacità di pensare (Eschilo, 2018), abbiamo lo strumento necessario per prepararci. Ma le idee sono come i semi, cioè devono essere seminate, raccolte, mangiate o mescolate con altri semi, e questo all’infinito. Dalla conoscenza e dalle analogie nascono le idee, le idee combinate creano altra conoscenza, e con la conoscenza l’esperienza dell’uomo diventa sempre più grande. Per riassumere con le parole di Pascal, l’uomo inizia la sua vita nell’ignoranza, ma continua a imparare e a crescere costantemente. Beneficia della propria esperienza e delle conoscenze acquisite da quanti lo hanno preceduto. L’esperienza genera conoscenza; conoscenza, memoria e confronto generano idee; le idee vengono messe in relazione; le relazioni ci permettono di immaginare. La capacità di immaginare diventa l’elemento cardine della gestione di crisi del XXI secolo.
Per una moderna gestione di crisi La globalizzazione nel senso olistico da un lato e la pervasività tecnologica dall’altro, hanno messo sotto processo l’affidabilità del sistema ereditato dalla prima Rivoluzione Industriale, cioè un modello gerarchico con chiare responsabilità improntate principalmente sul controllo e sull’esecuzione, cioè chi comandava e chi eseguiva. Per affrontare le sfide contemporanee è necessario un moderno quadro strutturale e concettuale per la gestione delle crisi (Henrizi & Müller-Gauss, 22. November 2022), quindi avere una mentalità adatta alle circostanze (Watson et al., 2021) e possedere uno strumento adeguato, o per dirla con Urner Maren (2019) un maggiordomo mentale, per gestire la crisi. Il modello 5+2, cioè le attività di condotta dell’Esercito Svizzero (Führung und Stabsorganisation der Armee 17 : (FSO 17), 2019) offre un processo semplice, scalabile e adatto a tutte le crisi, qualunque esse siano. Il principio non è quello di esercitarsi su quello che avverrà, perché come sappiamo non sarà mai il caso, bensì, prima di tutto, di interiorizzare il processo e questo anche perché l’unica costante nella situazione di crisi è la parola stessa crisi (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Ogni crisi anche se porta lo stesso nome, non è mai uguale alla precedente.
Le organizzazioni che si chiudono in loro stesse, cioè che diventano una monocultura, hanno meno probabilità di evolversi e quindi diventano più vulnerabili nel tempo e corrono il rischio di estinguersi.
Quali sono dunque i limiti del sistema attuale di gestione di crisi della Confederazione Elvetica e come è ipotizzabile superarli? I limiti non sono certo nella capacità di pianificare ma piuttosto nel monitoraggio (inteso come capacità di individuare e anticipare), nella supervisione e nella conduzione dell’operazione. Queste rappresentano le vere sfide. La capacità di reagire rapidamente ed efficacemente ai cambiamenti è fondamentale per il successo. I decisori devono essere in grado di seguire da vicino l’operazione e di prendere rapidamente decisioni per mantenere il controllo della situazione. Il rischio di gestire una crisi secondo il concetto della gestione per misure d’urgenza, oppure anche con il nome di micromanagement (Rappazzo, 2015), è un pericolo reale da non sottovalutare. Si tratta di una situazione in cui il decisore cerca di controllare ogni aspetto della crisi, invece di affidarsi alle competenze e alla professionalità delle persone che lo circondano. Il rischio è di soffocare la creatività e l’iniziativa, oltre che di alimentare il clima di sfiducia e paura che già caratterizza la crisi. Democrazia, regionalismo, partner diversi, strutture troppo gerarchiche e processi troppo rigidi rallentano l’agilità e la capacità di gestire proattivamente una crisi. L’agenda politica e la resilienza non vanno d’accordo. Non si tratta di cattiva volontà, ma la politica ha tempi e modi propri. Il voto, ad esempio, è un elemento che non può essere ignorato: significa consenso, e senza consenso non c’è rielezione. Senza un metodo o un processo chiaro per risolvere i problemi, la crisi può creare incomprensioni compromettendo la comprensione reciproca. Le organizzazioni che si chiudono in loro stesse, cioè che diventano una monocultura, hanno meno probabilità di evolversi e quindi diventano più vulnerabili nel tempo e corrono il rischio di estinguersi. Un altro pericolo è rappresentato dal pregiudizio di conferma, che è la madre di tutti gli errori del ragionamento umano. Si manifesta come l’inclinazione a considerare le nuove informazioni in modo da confermare le teorie, le visioni del mondo e le credenze esistenti. Ciò significa che viene applicato alle novità per deviare i pensieri verso lo statusquo (Dobelli, 2013). Ciò è particolarmente vero in un mondo in cui i cambiamenti sono sempre più rapidi e le sfide sempre più complesse. Per sopravvivere e prosperare, le organizzazioni devono quindi essere in grado di evolversi e adattarsi rapidamente ai cambiamenti. Le complessità delle strutture di condotta e dei processi ben funzionanti in una situazione normale sono insufficienti durante un periodo eccezionale. In questi momenti, l’eccezione richiede un approccio più flessibile, creativo e pronto all’azione. Riducendo il personale e comprimendo i costi, cioè massimizzando ogni minuto libero, si è persa la capacità di pensare a lungo termine. Sviluppare e riflettere in modo critico richiede tempo, ma è economicamente costoso e dovrebbe essere inteso come un investimento. Inoltre, la capacità di sviluppare un pensiero critico (Urner, 2019) è la chiave per affrontare un mondo che da VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguos) è, secondo alcuni, diventato BANI (Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensible).
Sviluppare e riflettere in modo critico richiede tempo, ma è economicamente costoso e dovrebbe essere inteso come un investimento.
Immaginazione e anticipazione strategica quale elemento di innovazione Per fare fronte alle profonde trasformazioni in atto dobbiamo innovare. Dobbiamo spingere la riflessione un passo oltre. L’anticipazione strategica è definita come “l’esplorazione strutturata ed esplicita di molteplici futuri al fine di informare il processo decisionale” (OECD, 2019). Questa comporta tipicamente la scansione dell’orizzonte alla ricerca di segnali di cambiamento emergenti, lo sviluppo e l’esplorazione di una varietà di possibili scenari futuri e l’identificazione delle potenziali implicazioni per le strategie e le politiche sviluppate nel presente. L’anticipazione strategica può fornire una base potente per lo sviluppo di politiche pubbliche lungimiranti e contribuire a garantire l’adeguatezza al futuro delle politiche esistenti, in particolare nel contesto di “ambienti complessi e incerti ” (Greenblott J.M. et al. 2017). Questa anticipazione del futuro, l’essere attenti ai segnali deboli e agli elementi presenti che preannunciano un cambiamento prossimo è soprattutto un’attitudine intellettuale. Che si tratti di proteggersi dalle crisi o di cercare opportunità, è un’attività permanente, un processo continuo in cui interagiscono tempi brevi e lunghi. Le varie azioni intraprese mirano a mantenere vigili le nostre certezze e a metterle costantemente alla prova in virtù di ipotesi o idee ispirate da un presente in continua evoluzione. In quest’ottica, il Dipartimento federale della difesa, della protezione civile e dello sport, attraverso il suo centro tecnologico armasuisse scienza e tecnologia, ha creato nel 2013 un programma di anticipazione strategica. Il suo obiettivo è anticipare l’uso di tecnologie che potrebbero avere un impatto dirompente sul modo in cui la Svizzera difende e preserva la propria sicurezza. Il programma, noto come deftech, acronimo di defence future technologies, fa una chiara separazione fra foresight e forecast (Ladetto, 2022) e cerca, tramite progetti e sinergie nazionali ed internazionali di anticipare usi dirompenti di campi tecnologici e delle loro convergenze.
L’anticipazione strategica può fornire una base potente per lo sviluppo di politiche pubbliche lungimiranti e contribuire a garantire l’adeguatezza al futuro delle politiche esistenti
Nonostante l’incertezza del contesto, il foresight ci aiuta a vedere quali sono i possibili stati del futuro (Foresight Serie, 2021). Il pensiero futuristico ci aiuta a capire come questi stati potrebbero evolversi e, di conseguenza, come dovremmo mettere in discussione i nostri pregiudizi, punti ciechi e mentalità. Dobbiamo poi tradurre sistematicamente queste intuizioni in strategie e politiche, per prendere i provvedimenti necessari ora per essere preparati al futuro. Il domani si costruisce interamente a partire da oggi. In mezzo non c’è nulla. C’è un vuoto che si può anche chiamare divenire. Questo vuoto è in attesa di essere colmato da un numero infinito di innovazioni, sviluppi e opportunità. Questa posizione intellettuale è importante perché dà piena rilevanza alle azioni presenti. Poiché queste azioni e interazioni sono potenzialmente infinite, ciò giustifica la presa in considerazione non di uno, non di due, non di tre, ma di una moltitudine di futuri. Questi futuri non sono considerati in relazione agli orizzonti temporali, ma in relazione alle differenze e agli impatti che presentano rispetto al presente, o in relazione ai presenti, se consideriamo i nostri diversi modelli mentali. Rendere visibile questa moltitudine di possibilità e ispirare i decisori nelle loro azioni è l’obiettivo di un dispositivo di anticipazione strategica oggi più che mai fondamentale per poter gestire con maggiore efficacia le crisi sistemiche del 21° secolo. Ma è anche necessario pensare anche in termini di governance anticipatoria ovvero “l’incorporazione e l’applicazione sistematica dell’anticipazione strategica nell’intera architettura di governance, compresa l’analisi delle politiche, l’impegno e il processo decisionale” (OECD 2019). La governance anticipatoria e l’istituzionalizzazione della previsione strategica deve comprendere la creazione di istituzioni e strutture dedicate alla previsione (ad esempio unità, comitati, reti, legislazione e pratiche) e la costruzione di una cultura della previsione all’interno delle strutture istituzionali esistenti (OECD 2022). Incluse le unità preposte alla gestione di crisi.
Adeguare l’organizzazione di gestione di crisi al XXI Secolo Partendo da queste considerazioni è urgente confrontarsi su una diversa organizzazione per la gestione di crisi e avviare processi formativi finalizzati a creare un “fitness mentale” che permetta di confrontarsi con scenari inediti piuttosto che esercitare quelli ben conosciuti. Come quindi rafforzare l’attuale sistema in vigore nella Confederazione Elvetica e potenzialmente anche quelli di altri Paesi? Partendo innanzitutto dal presupposto che per fronteggiare la complessità esterna a un sistema occorre aumentarne la complessità interna (De Simone, 2020). Dobbiamo quindi ripensare l’organizzazione. Non a caso si tratta di una delle 13 raccomandazioni contenute nel rapporto post mortem Covid-19 elaborato dalla Cancelleria federale (2022). Dal rapporto emerge inoltre un altro importante tema trasversale: a livello strategico deve essere migliorata la capacità di anticipare possibili crisi e i relativi sviluppi della situazione. Per rispondere alle numerose sfide, sulla scorta delle lezioni apprese dopo la pandemia e delle raccomandazioni sopra citate, nel marzo 2023 il Consiglio federale ha deciso di “rafforzare l’organizzazione dell’Amministrazione federale per le crisi future”. Tre i pilastri della futura organizzazione: 1. la costituzione di uno stato maggiore di crisi permanente incaricato di fornire supporto nella gestione di crisi a livello sopradipartimentale. Si tratta di fatto di una struttura orizzontale che mira a superare la problematica dei silos verticali, assicurando continuità, una procedura di gestione di crisi uniforme e una conservazione delle conoscenze nel tempo; 2. la costituzione, su indicazione del Consiglio federale, di uno stato maggiore di crisi a livello politicostrategico (SMCPS) sotto la direzione del dipartimento responsabile per la crisi in questione. Compito del nuovo organismo formulare per il Consiglio federale le risposte politiche e assicurare il coordinamento della gestione di crisi a livello sopradipartimentale; 3. la possibilità di costituire in seno al dipartimento responsabile della gestione uno Stato maggiore di crisi operativo (SMCOp) che ha di fatto il compito di elaborare la documentazione di base necessario per lo SMCPS oltre a garantire il coordinamento tra le unità amministrative. La riorganizzazione prevede inoltre un coinvolgimento dei Cantoni, della comunità scientifica e di eventuali altri attori rilevanti nei lavori del SMPCS e del SMCOp. Infine, Il Consiglio federale ha dato mandato agli organismi competenti di elaborare le basi legali della nuova organizzazione. Si tratta a nostro giudizio di un importante passo in avanti nella costruzione di un diverso sistema organizzativo, più idoneo per raccogliere la sfida delle crisi sistemiche del 21° secolo. Anche se i dettagli non sono ancora disponibili, dal nostro punto di vista il nuovo Stato maggiore di crisi permanente dovrebbe assolvere alcuni compiti primari che vanno oltre quanto ad oggi comunicato: 1) armonizzare la comprensione del processo di gestione delle crisi per l’intera confederazione, per le altre istituzioni, così come per il settore privato attraverso processi formativi; 2) divenire un “centro di competenza” aperto anche ad esperti stranieri in grado di dare vita ad una cultura comune integrando anche campagne informative a tutti gli stakeholder e ai cittadini. Il processo di gestione armonizzato dovrebbe ispirarsi al modello 5+2, cioè le attività di condotta dell’Esercito svizzero che grazie alla sua semplicità e scalabilità si è dimostrato per anni uno strumento affidabile; 3) esercitare non solo il coordinamento tra le diverse strutture integrandole orizzontalmente come effettivamente previsto ma assicurarsi anche che i processi di ascolto siano attivi; 4) ospitare al suo interno un’unità di anticipazione strategica con il compito di stimolare e sfidare di continuo le ipotesi di crisi, immaginando nuovi scenari e confrontandole al presente e ai segnali deboli monitorati costantemente. In relazione con gli impatti potenziali in vari settori identificati, un orizzonte temporale di breve, medio e lungo termine per le possibili azioni da svolgere. Un esempio concreto può essere quello di Singapore e del “Centre for Strategic Future” il quale è entrato a far parte del nuovo Strategy Group dell’Ufficio del Primo Ministro dal 2015. Fu istituito per concentrarsi sulla pianificazione strategica e la definizione delle priorità dell’intero governo, sul coordinamento e lo sviluppo di iniziative e per incubare e catalizzare nuove capacità nel servizio pubblico nazionale; 5) creare, formare e preparare “cellule di riflessione rapida” incaricate di lavorare in parallelo durante un evento critico con l’obiettivo di porre le domande giuste al momento giusto; 6) individuare le cellule di contatto e coordinamento interfederali, interdipartimentali e con gli stakeholder esterni e stabilire un “modus operandi”; 7) dare vita ad un’unità interdisciplinare dedicata alI’Intelligenza Artificiale per esplorare e implementare applicazioni nel campo dell’emergenza e della crisi. La riorganizzazione promossa costituisce sicuramente un importante punto di partenza che dovrebbe tuttavia essere perseguito con un occhio già rivolto al futuro. Il tema dell’anticipazione delle crisi, seppure evocato dal Consiglio federale, deve partire da un approfondimento più puntuale circa l’anticipazione strategica così come si impone una riflessione sull’integrazione di sistemi di intelligenza artificiale, tema quest’ultimo che implica anche valutazioni di natura etica. Gli elementi che ci sembrano assenti sono un chiaro riferimento alla multidisciplinarietà, elemento oggi fondamentale nella gestione delle crisi sistemiche, e un’attenzione al ruolo centrale della formazione di quanti saranno chiamati a diverso titolo a pilotare le crisi future.
E’ necessario valutare nuovi approcci organizzativi, acquisire una migliore comprensione dei possibili futuri e soprattutto concentrarsi su come selezionare e formare donne e uomini capaci di orientarsi in universi ipercomplessi, sconosciuti e caotici.
In conclusione, abbiamo visto l’importanza dell’anticipazione, della padronanza dei processi e del ruolo delle idee. Non si tratta solo di riorganizzare ma soprattutto di istituire in seno alla nuova organizzazione una cultura che favorisca una semina costante dei campi, e allo stesso tempo l’alternanza o l’innesto di nuove semine per garantire anche la cultura dell’allenamento e del cambiamento. Ogni organizzazione porta in sé i germi dei problemi correnti. Invece di investire ore ma anche anni in preparazione di esercizi fittizi (che comunque di per sé è già positivo), si tratta semplicemente di esercitarsi su problemi reali. Successivamente dare più ampio respiro alle simulazioni, che necessitano di molta preparazione. Per fare questo però è necessario possedere una buona padronanza dei processi di base. E’ bene ricordare che gli obiettivi della gestione di crisi sono tre: porre fine alla crisi in tempi brevi, limitare i danni e ripristinare la credibilità (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Ciò significa anche non ostacolare o rallentare il normale svolgimento dei compiti dei vari dipartimenti o istituzioni coinvolti. Significa avere un elemento di risoluzione dei problemi libero dai vincoli della gestione della continuità operativa (BCM), in grado di ripristinare autonomamente, con le risorse e le competenze necessarie e disponibili, la situazione normale o desiderata nel più breve tempo possibile. Le peculiarità delle crisi sistemiche e transfrontaliere del 21° secolo caratterizzate da elevati elementi di complessità e sempre più spesso destinate a diventare policrisi impone un ripensamento di come queste vengono affrontate e gestite. E’ necessario valutare nuovi approcci organizzativi, acquisire una migliore comprensione dei possibili futuri e soprattutto concentrarsi su come selezionare e formare donne e uomini capaci di orientarsi in universi ipercomplessi, sconosciuti e caotici.
Gli Autori Quentin Ladetto Ideatore e direttore del programma di foresight di armasuisse scienza e tecnologia – https://deftech.ch. L’obiettivo del programma è di identificare le tendenze tecnologiche e casi d’uso dirompenti e di valutare le loro implicazioni in un contesto militare. Scrive di foresight su atelierdesfuturs.org Patrick Trancu Consulente di gestione di crisi che lavora da oltre 20 anni con il settore privato, pubblico e con le istituzioni focalizzandosi principalmente sul tema della preparazione. Ha curato ed è uno dei 35 co-autori del libro “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro” (2021). Scrive di gestione di crisi su www.tta-advisors.com Alessandro Rappazzo Ufficiale professionista dell’esercito svizzero. Ha conseguito un EMBA ed è dottorando presso l’Università di Gloucestershire. Attualmente è attivo presso il comando MIKA (Comando per la formazione in materia di gestione, informazione, e comunicazione), dove ha l’opportunità di lavorare con un’ampia gamma di aziende private e dipartimenti federali e cantonali. Scrive anche su Opinione67 Luca Tenzi Esperto di sicurezza, resilienza e crisi con oltre 20 anni di esperienza aziendale abbracciando molteplici settori di attività in aziende Fortune 100 e 500 e consulenza per alcune agenzie specializzate delle Nazioni Unite – guidando operazioni e definendo strategie di sicurezza in diversi ambienti geopolitici
Guardando alla situazione attuale, non abbiamo conferme ma i numeri delle truppe sul terreno e l’intensità del fuoco suggeriscono che ci si possa trovare di fronte a ciò che anticipa una possibile controffensiva e non ancora l’offensiva stessa. Quello che possiamo osservare potrebbero dunque essere azioni con un duplice scopo: il primo è saggiare la consistenza del sistema difensivo russo; il secondo è avviare una serie di azioni di inganno, come parte di un piano ben strutturato che ha per scopo quello di confondere i russi, obbligandoli a trasferire truppe e a indebolire i settori del fronte dove potrebbe poi concentrarsi la maggiore pressione ucraina. Dunque potremmo davvero iniziare a fare i conti sui risultati di una possibile controffensiva quando quei numeri cambieranno, passando da alcuni battaglioni, come oggi sembrerebbe il livello delle unità impegnate in azioni di contatto al fronte, con le brigate schierate in ordine di battaglia e impegnate in grandi manovre offensive.
Perché l’annuncio arriva da Mosca e perché
Kiev nega?
Questo è un aspetto che rientra nella capacità di governare
la comunicazione e la narrazione della guerra. Da una parte Kiev tiene il
segreto sulle proprie operazioni, e questo è ben comprensibile, per una ragione
di sicurezza delle unità sul terreno e perché sulla sorpresa si basa il
successo di qualunque operazione militare. Dall’altra parte, Mosca nell’annunciare
un’offensiva ucraina in realtà enfatizza la capacità russa di contenerne la
spinta, presentando così all’opinione pubblica russa l’incapacità di Kiev di
scardinare la tenuta delle posizioni delle stesse forze armate russe. Insomma,
una strategia comunicativa in cui la Russia è soggetto attivo e passivo al
tempo stesso.
Qual è l’obiettivo della controffensiva?
Isolare la Crimea?
La questione non è quale sia l’obiettivo della
controffensiva in sé, perché non è operativa la questione, bensì strategica.
Dunque non tanto quante città, o porzioni di territorio verranno conquistate,
bensì quanto l’operazione militare sarà in grado di scardinare il ben
consolidato sistema difensivo russo e quanto, nel caso di successo, questo dovesse
avere ripercussioni politiche sull’impegno militare russo in Ucraina. La
controffensiva non deve necessariamente riconquistare i territori perduti, ma
deve fiaccare il morale, scardinare il sistema militare russo in Ucraina,
condizionare le scelte politiche di Mosca. E questo potrebbe avvenire colpendo
in maniera rilevante la logistica, dunque l’autostrada M-14, cruciale asse
stradale per la logistica russa, potrebbe essere un obiettivo primario, e la
costa del Mar d’Azov tra le città di Berdyansk e Melitopol sarebbero probabili
obiettivi in caso di una grande offensiva ucraina verso sud, questo al fine di
isolare la Crimea e, di fatto, dividere lo sforzo russo, moltiplicandone i
costi e gli sforzi logistici e operativi e colpendo, al tempo stesso, quello
che è il simbolo principale della presenza russa in Ucraina, la Crimea.
Unità partigiane russe a supporto di Kiev?
Parliamo di elementi del Corpo dei volontari russi filo-ucraini (RDK) e della Legione della Libertà di Russia (LSR) che hanno condotto raid limitati nell’Oblast di Belgorod il 4 giugno e, secondo quanto riferito, continuerebbero a operare in un’area di confine all’interno del territorio russo usando le basi di partenza ucraine.
Non imbarazzano Kiev?
Oltre a ciò che accade sul campo di battaglia, siamo nel bel
mezzo di una guerra cognitiva. Occorre dunque essere molto prudenti nel
valutare le dichiarazioni di due parti in guerra. Certo, potrebbe essere
imbarazzante, ma di fatto le unità partigiane non sono inserite organicamente
nelle forze armate convenzionali. E questo fa di loro un jolly su cui, sul
piano formale, la capacità di comando e controllo potrebbe essere limitata. Ma è
davvero così? Difficile dirlo, certo è che fa comodo a tutti (governo ucraino
in primo luogo) dichiarare di non averne il diretto controllo, per poi godere
del vantaggio strategico che queste unità posso dare: in particolare il non
diretto coinvolgimento di soldati ucraini in Russia, a fronte di un risultato
dal forte impatto morale sull’opinione pubblica russa e d’immagine a danno
della leadership russa che appare incapace di garantire la sicurezza all’interno
dei propri confini.
Due scenari possibili: cosa
accadrà?
L’offensiva ucraina che nelle prossime ore e giorni si potrebbe sviluppare sul fronte è la migliore ma anche l’unica chance che Kiev ha per dare una svolta alla guerra. Kiev dovrà ottenere con questa operazione un risultato straordinario, l’alternativa, in caso di insuccesso o successo parziale, è quella di mantenere la guerra nello stato attuale, dove attaccanti e difensori non saranno in grado di imporre la propria volontà sull’altro, ma con un vantaggio strategico da parte di Mosca che ha e continua ad avere una predominanza quantitativa di mezzi e materiali, sebbene abbia perso anch’essa la possibilità di imporre una svolta decisiva. Ma è ben chiaro, e non può essere diversamente, che una controffensiva non produrrà un risultato militarmente decisivo e che nessuna delle due parti ha la capacità, anche con l’aiuto esterno, di ottenere una vittoria militare decisiva sull’altra.
Ora, a fronte di questa occasione unica che
ha Kiev, e che non potrà essere ripetuta, ci troviamo di fronte a due scenari
possibili.
Primo scenario: il successo ucraino. Il
primo è quello di un’Ucraina in grado di imporre una un risultato soddisfacente
a livello operativo, con la rottura del fronte, l’arretramento dei russi e la
fine del sogno di gloria da parte di Mosca. E questo risultato sarebbe, sul
piano strategico, la premessa per indurre Stati Uniti e Cina a spingere i loro
alleati verso un tavolo negoziale che, da qualunque parte lo si guardi, sembra
essere sempre svantaggioso per Kiev.
Secondo scenario: Kiev fallisce. Il
secondo scenario, quello non auspicabile per l’Ucraina, è lo scenario peggiore,
ossia quello del fallimento della controffensiva da cui deriverebbe di fatto la
perdita di capacità offensiva e darebbe a Mosca la possibilità di tentare a sua
volta una spallata risolutiva: Mosca ha i numeri per poterlo fare, pur a fronte
dell’enorme e ulteriore sacrificio che dovrà accettare.
Ma in entrambi i casi, non si verrebbe fuori dallo stato cronico di guerra di attrito e logoramento in essere dallo scorso anno.
#ReaCT2023, n. 4: Pubblicato il rapporto annuale sui radicalismi e i terrorismi in Europa
Il rapporto rappresenta la combinazione unica di rivista scientifica e volume collettivo, con contributi di vari autori, ricercatori e collaboratori che hanno dedicato il loro tempo, la loro esperienza e le loro conoscenze. Vorrei esprimere la mia gratitudine a tutti loro per il prezioso contributo e i loro sforzi instancabili. Voglio, altresì, ringraziare il Ministero della Difesa italiano per aver confermato la stima e la fiducia nell’Osservatorio che dirigo concedendo il patrocinio all’evento di presentazione del rapporto, e il prestigioso Centro Alti Studi per la Difesa per la disponibilità dimostrata. Gratitudine che si estende al Ministero dell’Interno italiano che, attraverso il contributo della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, ha permesso di completare il nostro sforzo per la comprensione e la definizione della contemporanea minaccia rappresentata dai radicalismi ideologici e dai terrorismi violenti.
Quali risultati ci consegna la ricerca dell’Osservatorio?
Negli ultimi tre anni, dal punto di vista quantitativo, la frequenza degli attacchi terroristici è rimasta lineare. L’Europa è classificata come la terza regione maggiormente colpita dai terrorismi, seguendo la Russia e l’Eurasia, e l’America centrale e i Caraibi. I Paesi dell’Unione europea, il Regno Unito e la Svizzera sono stati afflitti nel 2022 da 50 attacchi terroristici di varia natura, una significativa flessione rispetto ai 73 del 2021. Sul piano qualitativo, guardando in particolare al mai sopito dell’islamismo violento, il rapporto evidenzia la natura in continua evoluzione del jihadismo, che ha subito molteplici trasformazioni fin dalle sue origini in Afghanistan negli anni ’80, diffondendosi e radicalizzandosi. Al Qa’ida è stata l’incarnazione del movimento globalizzato e radicalizzato fino a quando il gruppo terroristico Stato islamico è emerso nel 2014, proponendo un approccio ancora più estremo. La sconfitta dello Stato islamico in Iraq e Siria nel 2017-18 ha segnato la prima sconfitta tangibile del movimento jihadista. I movimenti jihadisti nazionali, per lo più nutriti dai soggetti globali, sono ora di nuovo di moda, e la regione del Sahel il centro del jihadismo riemergente. Da Sud a Est, il rapporto evidenzia il pericolo del terrorismo jihadista nella regione balcanica, che rimane una minaccia per la sicurezza italiana ed europea. L’Italia ha attuato e confermato varie iniziative per contrastare questa minaccia, in particolare confermando il proprio impegno a livello di missioni internazionali di mantenimento della pace.
Il rapporto approfondisce poi il tema della minaccia dell’estremismo di destra, della disinformazione, delle teorie del complotto, del suprematismo bianco e del crescente fenomeno dell’anarco-insurrezionalismo.
Alla luce del mondo in continua evoluzione e del conflitto che ora ha raggiunto l’Europa, è essenziale adattare i nostri paradigmi interpretativi della minaccia e mettere in discussione la definizione di terrorismo, l’approccio al contrasto al processo di radicalizzazione e la ricollocazione del terrorismo stesso nel nuovo scenario di conflitto.
Inoltre, in un quadro sempre più complesso e dinamico, la gestione delle crisi nel XXI secolo presenta sfide uniche a causa del contesto interconnesso e interdipendente, rendendo difficile la previsione. Il rapporto #ReaCT2023 ha dato ampio spazio anche a questo aspetto.
Infine, abbiamo voluto porre l’attenzione sulla recente pubblicazione del progetto di ricerca spagnolo sul contrasto al terrorismo internazionale all’interno delle fonti criminali multilivello e sull’analisi critica delle questioni di diritto penitenziario, giurisprudenza e pratica applicata alle sentenze per gli autori di atti terroristici. Il progetto di ricerca qui illustrato offre proposte costruttive per combinare le sfide poste da questo fenomeno criminale con la garanzia dei diritti umani fondamentali ed esplora il potenziale della giustizia riparativa.
In conclusione, il contributo di quest’anno è una testimonianza della forza e della dedizione della nostra comunità di studiosi e operatori nella lotta in corso contro i radicalismi e i terrorismi. Auspico che le idee contenute in questo rapporto contribuiscano a una migliore comprensione dell’evoluzione della minaccia dei terrorismi in Europa e servano come appello all’azione per tutti i soggetti interessati a lavorare insieme per prevenire e contrastare l’estremismo violento.
Grazie a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2023. Un ringraziamento speciale per il sostegno va anche alla Chapman University con sede ad Orange, California,all’Università della Svizzera Italiana – USI a Lugano e alla Piattaforma cantonale di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento (Repubblica e Cantone Ticino). Infine, come sempre, a START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale.
Xi incontra Putin a Mosca: il peso della parola “amicizia”
di Claudio Bertolotti
Vladimir Putin ha incontrato il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping
Il messaggio di questa visita: Xi “caro amico di Putin” o più Xi “negoziatore”?
L’evento è la testimonianza concreta di un’amicizia
illimitata tra Pechino e Mosca, per la Cina, in particolare, è un passo avanti
nell’arena internazionale all’interno della quale intende imporsi come antagonista
agli Stati Uniti partendo dal Pacifico, che Washington ritiene essere il
pilastro primario della supremazia statunitense, all’Africa e all’Europa dove
oggi si sta combattendo una guerra convenzionale.
Vi è poi un aspetto interessante in cui alla visione strategica della Cina si sommano alcuni fattori personali. Interessante notare come il presidente Xi Jinping abbia definito Putin “caro amico”, il che significa dal punto di vista cinese, comunanza di visione politica del mondo, e non certo amicizia personale con Putin; a questo elemento dobbiamo aggiungere il radicato legame famigliare e affettivo di Xi Jinping con una Russia che ha avuto modo di conoscere grazie all’esperienza politica del padre e sua personale. Un risultato che fa del presidente cinese un leader con una visione strategica di lungo periodo.
La Cina sostiene sempre una politica estera indipendente. Consolidare e sviluppare bene le relazioni Cina-Russia è una scelta strategica che la Cina ha fatto sulla base dei propri interessi fondamentali e delle tendenze prevalenti del mondo.
Xi Jinping
Rischio o opportunità per gli Usa e per l’Ucraina?
La Cina sta tentando, in parte riuscendoci, di giocare con la Russia il ruolo che Washington gioca a favore dell’Ucraina senza però esporsi perchè non vuole essere coinvolta in uno scontro diretto, ma al tempo stesso non può permettere che la leadership di Putin venga danneggiata o peggio sostituita da una nuova classe politica che potrebbe avvicinare Mosca all’Occidente. Questo sarebbe lo scenario peggiore per la Cina, che perderebbe un alleato fondamentale.
La Cina ha pubblicato un documento sulla sua posizione sulla crisi ucraina, sostenendo la soluzione politica della crisi e rifiutando la mentalità della Guerra Fredda e le sanzioni unilaterali.
Xi Jinping
Al contempo la Cina continua a mantenere un atteggiamento ambiguo a fronte del quale si colloca la necessaria opportunità del presidente Joe Biden di concludere in qualche modo il conflitto prima dell’avvio della campagna elettorale che, negli Stati Uniti, si rivolge a quei contribuenti-elettori che mal volentieri guardano agli importanti aiuti dell’ordine di 40miliardi stanziati da Washington per l’Ucraina.
la Russia apprezza la Cina per aver costantemente sostenuto una posizione imparziale, obiettiva ed equilibrata e per aver sostenuto equità e giustizia sulle principali questioni internazionali. La Russia ha studiato attentamente il documento di posizione della Cina sulla soluzione politica della questione ucraina ed è aperta ai colloqui per la pace. La Russia accoglie con favore la Cina per svolgere un ruolo costruttivo in questo senso.
Vladimir Putin
La visita di Xi Jinping a Mosca ha innervosito Washington, e
questo è già un risultato importante. La dimostrazione è nell’immediata
risposta politica statunitense che non si è fatta attendere poichè concomitantemente
con l’arrivo del presidente cinese a Mosca, la Casa Bianca ha annunciato un
nuovo e importante pacchetto di aiuti militari.
E in tutto questo, Mosca e Kiev sembrano dipendere sempre
più da quelle che saranno le decisioni politiche dei loro rispettivi alleati.
Bakhmut: perché i russi la vogliono a tutti i costi?
di Claudio Bertolotti
Dalle interviste a Radio Capital del 28 febbraio – 1 marzo 2023
La conquista di Bakhmut ha due obiettivi: uno primario, sul piano strategico e comunicativo, l’altro secondario, sul piano operativo e logistico.
Bakhmut ha un valore militarmente limitato ma strategicamente, è importante sia tenerla sia occuparla. Rientra tra gli obiettivi simbolici di Mosca, perché una vittoria darebbe un’ulteriore spinta alla sua narrazione, più degli effetti sul piano militare. I russi otterrebbero poi un vantaggio operativo in termini di capacità di manovra e la conquista consentirebbe loro di consolidare la linea del fronte. Se la conquista di Soledar, piccola cittadina del Donetsk, è stata presentata da Mosca come conferma di importanti progressi militari (pur a fronte di perdite elevatissime), la cattura di Bakhmut segnerebbe una vittoria che la propaganda amplificherebbe in maniera strumentale.
Una vittoria che garantirebbe un sostegno popolare maggiore
di quanto non lo sia ora, che già non è basso poichè la propaganda sta
lavorando molto bene. Ma una conquista della città rappresenterebbe un
caposaldo forte a cui aggrapparsi. Da lì, potrebbe essere presentato uno scenario
di uscita dignitosa, quasi gloriosa, in virtù di una vittoria.
Dal punto di vista operativo
e logistico l’obiettivo militare della Russia è quello di creare le condizioni
per ulteriori progressi, almeno fino ai confini della regione di Donetsk. Bakhmut
si trova su un’autostrada strategicamente importante ed è vicina ad alcuni
importanti collegamenti ferroviari, e prenderla potrebbe garantire alle forze
russe importanti basi di partenza per la conquista delle più grandi città
vicine a Donetsk come Slovyansk e Kramatorsk.
Per l’Ucraina, la battaglia è diventata una lotta simbolica e politicamente significativa, prova della volontà del paese di fare enormi sacrifici per difendere il suo territorio e rappresenta, inoltre, un’opportunità di consumare le truppe russe, mandate al massacro contro le posizioni ucraine, e per concentrare il massimo sforzo alleggerendo gli altri settori del fronte. Nonché è una conferma dell’incapacità di Putin di raggiungere i suoi obiettivi di vittoria. Un vantaggio rilevante è dato dalla concentrazione dei rifornimenti e del fuoco di artiglieria che, rivolto principalmente all’obiettivo Bakhmut, ha imposto una riduzione del 75% dei bombardamenti di artiglieria nei restanti settori del fronte. Ma in questo gioco di logoramento va ricordato che la Russia parte sempre avvantaggiata, potendo disporre di numeri ben più rilevanti in termini di uomini e materiali.
Guardando in prospettiva, e in particolare dal punto di
vista russo, l’incapacità delle forze armate
ucraine di tenere Bakhmut di fatto sancisce l’impossibilità per Kiev di
condurre operazioni contro-offensive nel breve-medio periodo. E questo per
la limitata capacità militare dovuta a numeri di uomini ed armi decisamente
inferiori a quelli messi in campo dalla Russia.
Va infine rilevato che Bakhmut, da un punto di vista dottrinale,
entrerà nei manuali di storia militare
come esempio di sovrapposizione tra applicazione delle tecnologie avanzate della
guerra moderna nei centri urbani, associata alla guerra comunicativa, con le brutalità
delle guerre di logoramento novecentesche. Un aspetto che sarà uno stimolo
nella revisione delle dottrine militari che per forza di cose la guerra
russo-ucraina è riuscita a imporre.
Nuovi aiuti militari dell’Italia all’Ucraina: quali armi, costi e premesse politiche?
di Redazione
Dall’intervista di C. Bertolotti a Tagadà, La7 (puntata del 22 febbraio 2023)
Carri armati, artigliera pesante, mezzi per la difesa aerea e non solo. Da Europa e Stati Uniti la promessa di potenziare gli aiuti militari all’Ucraina. Anche l’Italia farà la sua parte; in che termini, quali i numeri, i costi e le premesse politiche?
L’Italia, in generale, quali armi sta mandando in Ucraina?
Stiamo mandando molto del poco che abbiamo. E questo a causa delle risorse limitate destinate alla difesa negli ultimi decenni, e in particolare dal 2012. In termini operativi il contributo principale è in funzione di uno strumento militare ucraino con una forte componente di “arma base”, ossia la fanteria. Dunque equipaggiamenti e armi individuali e di reparto, sistemi controcarro, veicoli da trasporto truppa, e così via. A cui si è progressivamente aggiunto il contributo della componente di “supporto al combattimento” dell’artiglieria e, in ultimo, di difesa aerea.
Mentre gli Stati Uniti hanno inviato in maniera massiccia,
razionale e coerente, i propri aiuti a Kiev, i paesi europei lo hanno fatto in
maniera meno strutturata, cominciando con aiuti prima poco rilevanti per
procedere a tappe forzate verso un contributo via via più di rilievo. Ci sono
poi varie sensibilità: i paesi del fianco est, appartenenti all’ex blocco
sovietico, hanno spinto fin da subito per l’invio di armamenti pesanti, come i
carri armati. L’Italia ha cominciato con i sistemi d’arma di reparto, dalle
mitragliatrici ai sistemi contro-carro, per poi inviare i veicoli da trasporto
truppe, prevalentemente di vecchia generazione, come gli M113. Per poi inviare
sistemi di artiglieria pesante campale e semovente di vecchia e nuova
generazione, nei limiti delle riserve disponibili.
Il contributo complessivo è rilevante, sia in termini
politici che militari. Adeguato a fermare l’avanzata russa, e dunque mantenendo
uno stato di guerra di attrito, ma non sufficienti per fornire all’Ucraina gli
strumenti per una vittoria decisiva.
Sono noti questi
elenchi? Periodicamente si polemizza sulla mancanza di trasparenza sul tema.
Funziona diversamente negli altri paesi?
Ogni paese ha la propria policy. La differenza di approccio in termini di pubblicità delle decisioni prese è culturale. La politica in Italia si rivolge con estrema cautela al cittadino-elettore, preferendo omettere alcune informazioni per ragioni di opportunità di elettorale e anche perché, da parte dell’opinione pubblica italiana, vi è uno scarso interesse nella politica estera. Negli Stati Uniti il governo si rivolge al cittadino-contribuente, al quale deve rendere conto di come spende i suoi soldi. Questo è il motivo per cui conosciamo l’elenco dettagliato delle armi fornite da Washington ma non dall’Italia, i cui governi, di qualunque colore, appongono la classifica di sicurezza agli aiuti dati. Una scelta politica, certamente non dettata dalle esigenze di carattere operativo. Anche la Francia, va detto, ha reso noti i numeri degli equipaggiamenti d’artiglieria, il contributo più significativo dato da Parigi. E così la Germania, che ha pubblicato ufficialmente la lista di equipaggiamenti forniti.
Sono cambiate le armi
che abbiamo inviato? Sono diventate gradualmente più “offensive”?
Non direi che siano “più offensive”, direi piuttosto gradualmente
più rispondenti alle necessità imposte dalle dinamiche sul campo di battaglia e
all’approccio statunitense al conflitto. Quanto più aumenta il contributo
statunitense, tanto più rilevanti sono le richieste (e le pressioni) ai Paesi
dell’Unione europea. La risposta è dunque in termini di efficacia; un’efficacia
che dipende dalla qualità, più che dalla quantità di armi fornite.
In una fase iniziale,
quando c’era ancora il M5s nella maggioranza a sostegno del governo Draghi, si
è a lungo parlato di armi “difensive” e “offensive”. Aveva senso questa
distinzione? È superata?
La distinzione tra armi offensive e difensive ha un valore
politico, non operativo. Le armi servono per combattere, sia una guerra
offensiva che difensiva. Nel caso ucraino potremmo affermare a ragion veduta che
tutte le armi sono “difensive” poiché utilizzate per contrastare l’avanzata di
un esercito invasore. Perché questo è il punto: il sostegno è dato all’Ucraina
che si difende da un’invasione territoriale avviata dalla Russia. Dunque
lascerei da parte questa distinzione, preferendo la formula del “sostegno
militare all’Ucraina”.
Quanto ci costa
mandare queste armi?
Possiamo fare alcune speculazioni, ma non abbiamo dati certi, almeno per quanto riguarda l’Italia. Potremmo valutare il contributo italiano in una cifra approssimativa di 800milioni di euro, di cui più di 400milioni di aiuti militari. Tanto o poco?
Va fatto un distinguo tra quanto dato dagli Stati Uniti e
quanto invece fornito dai Paesi dell’Unione europea presi singolarmente.
Washington ha stanziato al momento oltre 45 miliardi di dollari in aiuti
militari, compresi equipaggiamenti di pregio come i sistemi missilistici a
medio raggio, sistemi radar, sistemi di difesa contraerea, oltre a migliaia di
veicoli di differente tipologia. Poi hanno promesso l’invio di carri armati
pesanti, gli Abrams. I singoli paesi europei hanno invece dato un contributo
eterogeneo, in alcuni settori poco più che formale, ma nel complesso è un aiuto
concreto e utile. Si può valutare in circa 30 miliardi di euro l’aiuto europeo
dato a Kiev, dunque in linea con quello statunitense.
Quant’è significativo
il nostro apporto rispetto a quello degli altri paesi europei?
Va detto che, a fronte delle sempre più limitate risorse
destinate alla Difesa nel corso degli ultimi 20 anni, il contributo è stato
certamente rilevante considerata la penuria di armi ed equipaggiamenti. Il nostro
sforzo e contributo è così, sì importante, ma non decisivo. Certo, è coerente
con quello della maggior parte degli alleati, ad esclusione dei principali
sostenitori – Stati Uniti e Regno Unito – ma inferiore a quello della Germania
che, da sola avrebbe fornito aiuti complessivi (dunque umanitari, finanziari e
militari) di oltre 5 miliardi di euro, contro gli 800milioni dell’Italia.
Conferenza sulla sicurezza di Monaco: la questione (irrisolta) dell’Afghanistan
Traduzione dell’articolo originale pubblicato su Deutsche Welle del 18 febbraio 2023 (vai all’articolo originale)
I leader internazionali concordano sul fatto che i talebani stiano violando i diritti umani fondamentali dei cittadini afghani. Le ragazze non possono andare a scuola, la povertà è in aumento e le persone stanno soffrendo. Più a lungo i talebani rimarranno al potere, più stretta sarà la loro presa.
Ma cosa si può fare al riguardo? I relatori di “Talibanned: Prospects for Afghanistan”, un panel alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di quest’anno, non hanno una risposta a questa domanda.
Si è scatenato l’inferno quando i talebani hanno preso il potere in Afghanistan nell’agosto 2021. I leader mondiali si sono affrettati a condannare la presa del potere e c’era una preoccupazione genuina e diffusa per la difficile situazione del popolo afghano sotto il dominio talebano. Ma un anno e mezzo dopo, nel febbraio 2023, l’attenzione globale sull’Afghanistan è assai scarsa.
L’approccio
degli Stati Uniti
I leader mondiali hanno spostato la loro attenzione su altri conflitti e questioni interne. E anche gli attori internazionali che avevano avuto un’inclinazione iniziale a rispondere alla presa dei talebani non sono chiari su come gestirla ora.
“In questo momento, stiamo esaminando
l’assistenza umanitaria”, ha detto Michael McCaul, presidente della
commissione per gli affari esteri della Camera degli Stati Uniti, durante il
panel del Consiglio di sicurezza di Monaco. “Metà della popolazione afghana sta
morendo di fame. Abbiamo queste organizzazioni non governative sul
campo e gli Stati Uniti stanno fornendo loro assistenza”.
Ora che gli Stati Uniti hanno ritirato le truppe dall’Afghanistan, ha detto McCaul, non c’è molto che gli Stati Uniti possano fare per il paese a parte aiutare la gente. Tuttavia, la possibile minaccia alla sicurezza posta dal controllo talebano dell’Afghanistan rimane motivo di preoccupazione per gli Stati Uniti. In breve, gli Stati Uniti non intendono fornire assistenza finanziaria all’Afghanistan come paese in quanto ciò rafforzerebbe il governo talebano.
“Governo
più inclusivo”
Il ministro degli Esteri pakistano Bilawal
Bhutto-Zardari ha detto al panel che l’Afghanistan avrebbe bisogno di sostegno
come stato. “Vogliamo tutti vedere le donne ricevere istruzione in
Afghanistan”, ha detto Bhutto-Zardari. “Vogliamo tutti vedere un
governo più inclusivo in Afghanistan. La minaccia terroristica proveniente
dall’Afghanistan è preoccupante”. Il governo talebano deve essere disposto
ad affrontare questi problemi, ha aggiunto.
“Se il governo ad interim in Afghanistan dimostra la volontà di farlo, dovremo trovare un modo per costruire la sua capacità in modo che possa farlo”, ha detto Bhutto-Zardari. “Non hanno un esercito permanente, non hanno una forza antiterrorismo, non hanno nemmeno un’adeguata sicurezza delle frontiere”.
I commenti di Bhutto-Zardari e McCaul illustrano gli
approcci contrastanti e contraddittori nei confronti dell’Afghanistan e dei
talebani. Sebbene il ministro degli Esteri pakistano voglia che il mondo si
impegni di più con i talebani, i leader al di fuori della regione stanno
mantenendo una distanza diplomatica dal gruppo.
Mahbouba Seraj, attivista e giornalista afghano, chiede una posizione unita per aiutare il popolo afghano. “Ci sono due governi in Afghanistan in questo momento”, ha detto Seraj, esprimendo il suo fastidio per la politica regionale e internazionale che circonda il suo paese. “Uno è quello delle Nazioni Unite e i suoi affiliati e l’altro è quello dei talebani. La gente sta morendo in Afghanistan, quindi non mi interessa quello che dice il mondo. Aiutate l’Afghanistan in ogni modo e rendeteci possibile uscire da questa situazione”.
I talebani
consolidano il potere
Mentre i leader regionali e mondiali discutono su come
affrontare l’Afghanistan, i talebani rafforzano il loro dominio nel paese
devastato dalla guerra. Ci sono notizie di lotte intestine
talebane, ma il gruppo è rimasto finora in gran parte unito.
I governanti afghani hanno il sostegno di Cina e Russia, due potenze mondiali che al momento si stanno scontrando con l’Occidente su più fronti. McCaul ha espresso la sua preoccupazione per gli investimenti cinesi nella Belt and Road initiative in Afghanistan e per i potenziali benefici per i talebani.
Il Pakistan, un attore regionale che storicamente ha avuto un’influenza sui talebani, sembra essere in difficoltà. Il ministro degli Esteri Bhutto-Zardari vuole che i talebani agiscano contro il gruppo terroristico “Stato islamico” e altri gruppi militanti che operano in Afghanistan. La situazione della sicurezza in Pakistan è solo peggiorata da quando i talebani hanno preso il potere.
Il Tehreek-e-Taliban Pakistan, un gruppo militante pachistano legato ai talebani afghani, ha lanciato due massicci attacchi terroristici all’interno del Pakistan nell’arco di tre settimane. Solamente venerdì 18 febbraio, i militanti del TTP hanno attaccato e assediato una stazione centrale di polizia a Karachi, il centro economico del paese. Le forze di sicurezza pakistane sono riuscite a sventare l’assalto e hanno ucciso diversi militanti, ma molte persone, compresi i funzionari di polizia, sono state uccise durante l’attacco.
“A Peshawar, i terroristi ci sono costati
oltre 100 vite e proprio di recente hanno attaccato un ufficio di polizia a
Karachi”, ha detto Bhutto-Zardari. “Lo scenario realistico per noi è
che chiunque sia al comando in Afghanistan deve combattere queste organizzazioni”.
“Non si possono risolvere i problemi umanitari solo con gli aiuti umanitari”, ha detto Bhutto-Zardari. “L’economia dell’Afghanistan non funziona, i suoi fondi sono congelati, i suoi canali bancari non sono attivi, e poi ci sono le sanzioni internazionali. Fino a quando questi problemi non saranno risolti, sarà molto difficile per l’Afghanistan uscire dalla crisi”.
Ma c’è un respingimento contro questo.
Rimuovere le sanzioni e sbloccare i fondi significherebbe rafforzare il regime
talebano, che non è sicuramente un’opzione per l’Occidente, anche se nel
frattempo la popolazione afghana sta soffrendo.
Sono gli afghani ad avere meno voce in capitolo nel loro futuro a breve termine.
La dichiarazione congiunta delle donne ministro degli esteri partecipanti alla Conferenza di Monaco
Insieme, noi, donne ministro degli Esteri alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco 2023, condanniamo fermamente la spinta dei talebani ad escludere le donne da tutta la vita pubblica: alle donne viene impedito di passeggiare nei parchi, non si vedono più sugli schermi televisivi, sono private del loro diritto di frequentare scuole e università e ora sono anche tenute a lavorare nell’assistenza umanitaria. Escludendo metà della popolazione afghana dalla società, i talebani stanno commettendo le più gravi violazioni dei diritti umani. E i talebani stanno mettendo a repentaglio il futuro dell’intero paese. Siamo uniti nel nostro appello a revocare queste restrizioni sulle donne, in particolare quando si tratta del loro ruolo essenziale nella fornitura di assistenza umanitaria. Ciò ripristinerà le basi per fornire l’aiuto di cui le donne, i bambini e gli uomini dell’Afghanistan hanno così urgente bisogno. Siamo al fianco delle donne e degli uomini coraggiosi dell’Iran nella loro lotta quotidiana per i loro diritti e la loro libertà. La loro lotta dimostra che solo dove le donne sono al sicuro tutti sono al sicuro. Non solo in Iran, non solo in Afghanistan, ma in tutto il mondo.
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