di Melissa de Tefféda Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).
Siamo tutti
testimoni di un sisma politico globale, dove è evidente che il sistema politico
che abbiamo inventato e messo in atto rappresenta a fatica la volontà dei
popoli.
Negli Stati
Uniti lo scontento per questa prima democrazia rappresentativa si è manifestato
nei decenni con candidature indipendenti come quella di Ross Perot, imprenditore
texano divenuto celebre anche per aver organizzato una rischiosa missione
privata per liberare due suoi dipendenti detenuti a Teheran nel 1978, alla
vigilia della rivoluzione iraniana.
Persino
l’attuale Segretario per la Salute Robert Kennedy Jr, rifiutato dai democratici
si è poi candidato per le ultime presidenziali come indipendente prima di
venire fagocitato da Trump.
Oggi a distanza di qualche giorno dal 4 di luglio Musk ha registrato un terzo partito come risposta a Trump per aver compilato una finanziaria con tanti difetti gravi. Infatti, come ho già scritto precedentemente, questa legge non solo ha raggiunto il consenso minimo, direi risicato, ma ha troppe pecche che hanno creato maggiori divisioni sia nel partito repubblicano che in generale nel paese. Seppure Musk abbia avuto un’ennesima idea balzana ( “The very fact that our electoral system is a winner‑take‑all system discourages third parties… The big parties are like amoebas trying to go around the fringe groups and fold them in.” – Prof. Barbara Perry University of Virginia) di protesta, (d’altra parte come non biasimarlo, dopo essersi impegnato a trovare sprechi statali, solo una piccola parte è stata inserita nella legge), è stata già boicottata dagli stessi democratici.
La spaccatura
all’interno del partito repubblicano per una finanziaria che, come al solito,
protegge i più ricchi e toglie
sussidi necessari a una fascia assai debole di americani che dal Covid ad oggi
si trova in totale povertà.
Alternativamente
Trump visti i legami con imprenditori favolosamente ricchi, poteva benissimo
chiedere di “regalare” qualche miliardo per aiutare le fasce deboli,
esattamente come fece Truman con il piano Marshall, aiutando la nostra ed altre
nazioni in totale miseria a ricostruirsi.
Il Piano Marshall (1948–1952)
mobilitò circa 12,4 miliardi di dollari dell’epoca (circa
~250 mld USD attuali), con lo scopo di ricostruire l’Europa dopo la
guerra e combattere povertà e disordini interni
Contrariamente, Trump ha scelto di tagliare
spese sociali e assistenziali, destinando i risparmi (e l’aumento del
debito di oltre 2,4 trilioni USD sino al 2034) a favore dei redditi più
alti, anziché utilizzarli per rafforzare il welfare delle fasce più povere.
Contemporaneamente Tucker Carlson, giornalista indipendente conservatore, intervista il Presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, e qui di seguito un riassunto del perchè di questa intervista: “Abbiamo appena concluso un’intervista con Masoud Pezeshkian , il presidente dell’Iran, il cardiochirurgo settantenne che guida il paese con cui eravamo in guerra circa una settimana e mezza fa. Sappiamo che saremo criticati per aver fatto questa intervista.
Perché
l’abbiamo fatta comunque? L’abbiamo fatta
perché eravamo in guerra con l’Iran dieci giorni fa, e potremmo tornarci di
nuovo. E quindi il nostro punto di vista
— che è sempre rimasto coerente nel tempo — è che i cittadini americani hanno il
diritto costituzionale e naturale di raccogliere tutte le informazioni
possibili su questioni che li riguardano.
Se il loro
paese sta facendo qualcosa con i loro soldi e in loro nome, hanno il diritto
assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade. E questo include ascoltare le persone con
cui stanno combattendo. Ora, si può credere a tutto ciò che dice il
presidente dell’Iran?
Probabilmente
no. Ma non è questo
il punto. Il punto è che dovreste
poter decidere da soli se credergli o meno.
E ricordate che chiunque cerchi di negarvi questo diritto non è un
vostro alleato, ma un vostro nemico.
A proposito,
abbiamo anche inviato — per la terza volta negli ultimi mesi — una richiesta
di intervista al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e speriamo
che la accetti.
L’intervista è
stata limitata da un paio di fattori:
Primo, è stata
fatta a distanza, tramite un traduttore, e questo è sempre complicato.
Secondo, non parlo persiano, e ci sono molte
domande che non ho fatto al presidente dell’Iran, in particolare domande
a cui sapevo che non avrei ottenuto una risposta onesta, come:
“Il vostro
programma nucleare è stato completamente disabilitato dalla campagna di
bombardamenti condotta dal governo degli Stati Uniti una settimana e mezzo
fa?”
Non c’era
alcuna possibilità che rispondesse onestamente a questa domanda, quindi, non
ho nemmeno provato a farla. La
risposta, in realtà — dal punto di vista americano, persino da quello della
CIA — è inconoscibile.
Abbiamo evitato
domande simili e ho fatto domande molto semplici, come:
Qual è il vostro obiettivo?; Volete la guerra con gli
Stati Uniti?; Volete la guerra con Israele?
E così via.
Ancora una
volta, lo scopo di questa intervista non era arrivare alla verità assoluta
— cosa impossibile in un’intervista del genere.
Lo scopo era contribuire al patrimonio di conoscenza da cui gli
americani possano trarre una propria opinione. Imparate tutto ciò che
potete, e poi decidete voi. Questo è
ciò che promette l’America.”
Inutile
commentare che questa intervista ha dato molto fastidio a Washington.
Poi c’è la
versione religiosa che lega gli USA a Israele come un cordone ombelicale e che
la maggior parte della gente non ha mai valutato nella sua complessa
profondità. In un’intervista
all’ambasciatore americano in Israele Mike Huckebee viene spiegato
come questo legame sia unico in tutti i sensi. Secondo l’ambasciatore i suoi
stessi connazionali non comprendono come il legame religioso sia fondamentale: “Senza
la fede ebraica non esisterebbe la fede cristiana.” -“Lo dico sempre ai
miei amici ebrei: voi potete essere ebrei, non avere niente a che fare con me,
non avete bisogno di me. Ma io non posso essere cristiano senza l’interezza di
tutta questa storia di Dio nel mondo, che porta fino a ciò in cui credo come
cristiano.”
E come
relazione politica prosegue dicendo: “Mi piace dire alla gente che gli
Stati Uniti hanno amici, hanno alleati, ma hanno un solo partner: Israele è
davvero il loro unico vero partner; con questo intendo dire che il livello di
cooperazione e affinità che abbiamo l’uno con l’altro somiglia molto più a un
matrimonio che a una semplice amicizia fraterna.”
“E lo dico
perché il livello di condivisione di informazioni di intelligence, l’hardware
militare che costruiamo insieme, la tecnologia medica, la trasformazione
economica che è avvenuta da entrambe le parti…”
“Il modo
straordinario in cui siamo legati è tale da non assomigliare a nessun altro
rapporto che abbiamo con qualunque altro Paese al mondo.”
Quindi
l’alleanza con Israele resta il pilastro non negoziabile di questa
architettura, alimentata tanto da una strategia geopolitica quanto da
un’eredità religiosa profonda, che fonda la fede cristiana su quella ebraica.
Chi ignora questa dimensione, fatica a capire perché certi rapporti resistano a
tutto — perfino alla realtà dei numeri o alle urgenze economiche gravi.
La democrazia rappresentativa vacilla, a iniziare proprio
dal paese che per primo al mondo ha costruito una Costituzione moderna e
repubblicana, pensata per garantire equilibrio tra poteri, libertà individuali
e rappresentanza popolare: gli Stati Uniti d’America.
Oggi però questo modello appare logorato. Il sistema
bipartitico ha smesso di rappresentare la pluralità reale della società,
trasformandosi in una macchina autoreferenziale che esclude voci nuove e non
applica i tentativi di riforma promessi perchè il mostro burocratico è più
forte, o forse è più importante la guida del cambiamento.
Le candidature indipendenti, che un tempo erano
espressione di protesta o visione alternativa, oggi vengono cooptate,
screditate o svuotate di senso. Il nuovo candidato per il posto di sindaco di
New York, ZohranMamdani ne è un esempio recentissimo. Percepito
come incongruente perché rompe le categorie tradizionali viene criticato
dalla destra trumpiana come comunista lunatico, mentre per altri è una risorsa: incarnazione di una
nuova politica identitaria e inclusiva. Ne nasce una tensione esplosiva dalla
fusione tra dogmatismi religiosi e ideologia socialista radicata in un momento
storico dove gli equilibri sono delicatissimi.
Il voto, oggi, viene ridotto a una scelta binaria tra due
élite che ha perso parte del suo potere trasformativo. E mentre l’America si
confronta con crescenti diseguaglianze, povertà strutturale, tensioni etniche e
guerre a bassa intensità diplomatica, la promessa originaria della democrazia
rischia di diventare una liturgia vuota.
Eppure, proprio nei margini — nelle voci non allineate,
nei gesti simbolici, nei contrasti tra religione e politica — si intravede la
possibilità di un risveglio. Non sarà forse più il tempo delle grandi
costituzioni, ma quello delle coscienze informate.
Come ci ricorda Tucker Carlson nella sua discussa
intervista: “Se il vostro paese fa qualcosa con i vostri soldi e in vostro
nome, avete il diritto assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade.”
E forse oggi, la vera democrazia, comincia proprio da lì.
Da Kiev al Medioriente: il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24 TIMELINE.
di Claudio Bertolotti.
Da Kiev al Medioriente: il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24 TIMELINE (puntata del 4 luglio 2025).
Dopo la telefonata Trump-Putin
A conversazione conclusa, il presidente statunitense Donal J. Trump ha ammesso
di non aver ottenuto “alcun passo avanti” verso il cessate-il-fuoco, lasciando
trapelare delusione e irritazione. Pochi minuti dopo, dal Cremlino filtrava la
ferma linea di Mosca: “gli obiettivi militari resteranno immutati” e i
negoziati dovranno svolgersi «solo fra Mosca e Kyiv, senza mediatori».
L’ondata di
missili e droni
Le parole hanno trovato immediata conferma nei fatti: fra la notte del 3 e
l’alba del 4 luglio la Russia ha scatenato la più massiccia offensiva aerea
dall’inizio della guerra — circa 550 vettori tra droni Shahed e missili
balistici, diretti soprattutto su Kyiv ma anche su diverse città dell’ovest
ucraino — un segnale assai eloquente di continuità bellica reuters.com.
La chiave
di lettura
Putin sta usando la pressione militare come leva negoziale: più alza la soglia
del dolore ucraino, più indebolisco la loro resilienza politica e la loro
fiducia nelle difese occidentali». Quando lancia centinaia di droni e missili,
il presidente russo Vladimir Putin sa che la contraerea ucraina non potrà
intercettarli tutti. È una dimostrazione pratica del vantaggio tattico e
operativo mantenuto da Mosca in questo conflitto e degli effetti in termini di vulnerabilità
psicologica ucraina.
Non si tratta soltanto di terrorizzare i
civili; la campagna aerea serve a preparare l’offensiva estiva: «la Russia
chiama i coscritti due volte l’anno, in aprile e novembre; dopo due mesi
d’addestramento sono pronti. Siamo esattamente all’apice di quel ciclo: da un
momento all’altro Mosca potrebbe puntare su Odessa per chiudere l’accesso
ucraino al Mar Nero
L’arma-tempo
e il nodo degli aiuti USA
Il fattore decisivo è la pazienza strategica di Mosca: «Più il tempo passa, più
Kiev dipende dagli arsenali occidentali, mentre la Russia rigenera
continuamente le proprie riserve umane». In questo quadro, la decisione di
Washington di sospendere parte delle forniture — in particolare i Patriot e le
munizioni guidate — pesa in modo sproporzionato: «Kyiv non può permettersi
buchi di poche settimane, figuriamoci di mesi».
Trump nega che si tratti di un vero
“congelamento” e insiste sulla necessità di salvaguardare le scorte interne, ma
il messaggio politico che arriva in Ucraina (e in Russia) è chiaro: la
protezione USA non è più illimitata. Ma, a ben guardare i precedenti, è più
probabile che tale scelta sia una concessione indiretta a Putin, con la
clausola non scritta di riprendere la fornitura di equipaggiamenti militari all’Ucraina
nel momento in cui Putin non dovesse aprire a una qualunque ipotesi negoziale.
Che cosa
vedo all’orizzonte
Un’escalation “controllata”: Mosca continuerà a
colpire infrastrutture civili e militari per logorare la rete di difesa aerea e
mostrare l’impotenza di Kyiv.
Pressione su Odessa: il rafforzamento russo a
sud fa pensare a un tentativo di sigillare definitivamente la costa ucraina.
Diplomazia in stallo: finché nell’arco atlantico
non si chiarirà l’entità reale dello stop agli aiuti, qualunque negoziato
resterà intrappolato in un gioco di specchi.
Fragilità europea: l’UE dipende dalla linea di
Washington; senza un piano alternativo, rischia di trovarsi spettatrice di un
accordo imposto dal terreno di battaglia.
Per
concludere
La sequenza telefonata-bombardamenti mostra come Putin utilizzi
sistematicamente l’azione militare per dettare i tempi politici, contando sul
logoramento del sostegno occidentale. Se Washington non riattiverà in fretta la
filiera degli armamenti — o se Mosca non incapperà in un errore strategico — le
prossime settimane potrebbero segnare un ulteriore peggioramento per l’Ucraina,
con un tavolo negoziale sempre più sbilanciato a favore del Cremlino.
Perché è normale che Iron Dome non intercetti tutti i missili iraniani
di Andrea Molle dagli Stati Uniti
In questi giorni di accentuata tensione tra Israele e Iran, diverse analisi superficiali hanno sollevato dubbi sull’efficacia dei sistemi di difesa israeliani – in particolare Iron Dome, David’s Sling e Arrow. Il fatto che alcuni missili iraniani siano riusciti a colpire il territorio israeliano viene interpretato da alcuni come segnale di un cedimento tecnico o strategico. Ma la realtà è più complessa – e molto più razionale.
1. I sistemi di difesa non sono scudi magici Ogni sistema antimissile lavora su principi di probabilità e priorità. Non esiste al mondo una tecnologia in grado di garantire l’intercettazione del 100% delle minacce. Anche i sistemi più avanzati devono operare in condizioni di incertezza e fare i conti con le leggi della statistica, della fisica, della logistica e della guerra elettronica.
2. Le
munizioni intercettanti sono limitate
Ogni batteria ha un numero finito di missili intercettori. Lanciare un
intercettore costa centinaia di migliaia di dollari. Davanti a un attacco a
saturazione – cioè il lancio simultaneo di decine o centinaia di missili – i sistemi
israeliani sono costretti a fare delle scelte: proteggere con priorità gli
obiettivi critici, lasciando che altri vettori meno pericolosi vadano a segno
in aree secondarie o disabitate.
3. Rotazione dei lanciatori e logoramento operativo I sistemi di lancio come quelli di Iron Dome vengono spostati e ruotati con regolarità per evitare l’esaurimento, la vulnerabilità a colpi mirati e la saturazione in un unico settore. Questo significa che in certi momenti, certe zone potrebbero non essere pienamente coperte – per scelta, non per errore.
4. Il fattore
tempo e sorpresa
Molti missili iraniani sono a medio-lungo raggio e partono da grandi distanze,
ma altri possono essere lanciati da proxy più vicini (come Hezbollah). La
varietà delle minacce, unita alla possibilità di attacchi simultanei da nord,
est e sud, rende impossibile una copertura totale e istantanea.
5. La difesa multilivello funziona, ma ha limiti Israele ha costruito una difesa stratificata (Iron Dome per razzi a corto raggio, David’s Sling per missili a medio raggio, Arrow per minacce balistiche). Tuttavia, ogni sistema ha un angolo ottimale di ingaggio, e l’attacco simultaneo da più direzioni può ridurre l’efficacia complessiva.
In sintesi: non è
un fallimento. È esattamente come funziona la guerra moderna. L’efficacia di un
sistema di difesa non si misura con lo zero assoluto di missili entrati, ma con
il rapporto tra danni subiti e quelli evitati. E, finora, i numeri dimostrano
che la rete israeliana, pur sotto pressione, sta reggendo.
L’arsenale militare iraniano: potenza apparente, limiti strutturali, minaccia asimmetrica
di Claudio Bertolotti, dall’intervista a Lorenzo Santucci, per Huffington Post Italia.
Il commento di C. Bertolotti per START InSight e Huffington Post.
Nonostante una narrazione che tende a enfatizzarne la forza, l’arsenale militare iraniano è segnato da forti limiti strutturali, in particolare nel dominio della guerra convenzionale. Il comparto aeronautico, ad esempio, si basa ancora in gran parte su tecnologie risalenti agli anni ’70, risalenti al periodo pre-rivoluzionario e acquisite durante il regno dello Scià. Ne fanno parte aerei da combattimento come gli F-4 Phantom, gli F-5 e alcuni F-14 Tomcat, mantenuti operativi con difficoltà grazie a reverse engineering, cannibalizzazione di pezzi di ricambio e una rete industriale interna che ha cercato di supplire alla mancanza di accesso ai mercati globali per via dell’embargo.
La potenza missilistica: la vera carta strategica
Il vero elemento di deterrenza e di proiezione di forza per Teheran risiede nella componente missilistica. Secondo stime attendibili, l’Iran dispone di oltre 3.000 missili balistici, il che ne fa una delle più imponenti potenze missilistiche del Medio Oriente. Questi vettori includono una gamma diversificata di missili a corto e medio raggio (come i Fateh-110, Zolfaghar, Shahab-3 e Sejjil), capaci di colpire bersagli a distanze comprese tra i 300 e i 2.000 km.
Dal punto di vista tecnico, questi missili sono spesso alimentati nella fase iniziale tramite razzi a propellente solido o liquido, ma non sono dotati di sistemi di guida o propulsione terminale, il che significa che, una volta raggiunto l’apogeo della traiettoria, ricadono “a caduta libera” sull’obiettivo. Questa caratteristica riduce la precisione rispetto ai più sofisticati sistemi occidentali o russi, ma resta comunque efficace se usata su obiettivi di area o in una logica di saturazione.
Tecnologia obsoleta, ma strategia moderna
A dispetto dell’obsolescenza tecnologica in molte componenti convenzionali (carri armati, aerei, difesa antiaerea), l’Iran ha saputo adattarsi a una logica di guerra asimmetrica e ibrida. Il know-how sviluppato sul terreno (soprattutto in Siria, Iraq, Libano e Yemen) e il ricorso a proxy armati ben addestrati e forniti, ha trasformato il potenziale militare iraniano in una minaccia diluita, flessibile e difficilmente neutralizzabile con la sola superiorità aerea.
In particolare, i programmi missilistici sono accompagnati dallo sviluppo di droni d’attacco e di sorveglianza (come i Mohajer e i Shahed), utilizzati sia direttamente sia forniti a forze alleate (Hezbollah, Hamas, milizie sciite irachene, Houthi). Questi strumenti hanno dimostrato una crescente efficacia, sia in termini tattici che simbolici.
Conclusione: una minaccia non convenzionale
L’Iran non può competere direttamente con le potenze regionali o globali sul piano convenzionale, ma ha saputo sviluppare un arsenale che, sebbene basato in larga parte su tecnologia obsoleta, rappresenta una minaccia significativa in chiave asimmetrica e strategica. I suoi missili balistici, in particolare, costituiscono un elemento chiave nella dottrina della deterrenza offensiva, in grado di colpire obiettivi critici in tutta la regione. La crescente interconnessione tra capacità missilistiche, droni e rete di proxy regionali moltiplica il potenziale distruttivo dell’Iran, compensando in parte le lacune della sua forza convenzionale.
Le rivolte a Los Angeles e il nuovo fronte della guerra irregolare
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti
La guerra irregolare
(Irregular Warfare, IW) è comunemente intesa come un conflitto in cui la posta
in gioco non è necessariamente il controllo del territorio o la superiorità
militare convenzionale, bensì la legittimità, l’influenza e il controllo delle
popolazioni. Tradizionalmente associata a insurrezioni, tattiche di guerriglia
e attori non statali, la guerra irregolare si è evoluta in forme sempre più
complesse e ibride, specialmente all’interno delle società democratiche. Se
osservata attraverso questa lente contemporanea, le tensioni che si stanno
sviluppando a Los Angeles tra gli “Angelinos”, le autorità locali e
il governo federale possono essere interpretate come una forma domestica di
guerra irregolare.
Al centro del conflitto
vi è una lotta fondamentale per la legittimità e la sovranità. Los Angeles,
come altre “giurisdizioni santuario”, ha attivamente sfidato l’applicazione
delle leggi federali sull’immigrazione, ha rifiutato di cooperare con alcune direttive
del Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) e si è opposta a iniziative di
controllo del crimine percepite come ingiuste o discriminatorie. Queste azioni
non riflettono semplicemente divergenze politiche, ma una lotta ideologica più
profonda su chi ha il diritto di governare e in che modo. Affermando norme di
governance locali in contrasto con i mandati federali, Los Angeles mette in
discussione la supremazia del governo federale sul proprio territorio—un
comportamento strategico che richiama quello degli attori irregolari intenzionati
a delegittimare l’autorità centrale.
Fondamentale è l’impiego
di metodi asimmetrici. Invece di una resistenza armata, le autorità di Los
Angeles utilizzano strumenti di guerra legale (“lawfare”), resistenza
burocratica e comunicazione pubblica. Causa strategiche, inadempienze
municipali, discrezionalità nell’azione penale e ordinanze a protezione dei
residenti “undocumented” rappresentano strumenti di resistenza analoghi a
quelli con cui le forze irregolari utilizzano il terreno, il tempo e modalità
non convenzionali per eludere forze superiori. Questa insorgenza burocratica
non mira a rovesciare lo Stato, ma a ridefinire i confini dell’autorità
federale dall’interno.
Tuttavia, il conflitto
non è rimasto confinato al piano legale o retorico. Negli ultimi giorni ha
assunto una dimensione cinetica, con scontri fisici tra agenti federali,
manifestanti, organizzazioni comunitarie e persino le forze dell’ordine
municipali durante retate e operazioni di polizia. Questi confronti—che
talvolta degenerano in rivolte, arresti di massa o dispersioni
violente—richiamano le realtà tattiche della guerra irregolare, in cui il
controllo dello spazio urbano diventa un indicatore di legittimità. Il
dispiegamento di unità federali militarizzate nei quartieri cittadini, spesso
senza il consenso o la collaborazione delle autorità locali, intensifica la
percezione di “occupazione”, provocando resistenza spontanea o organizzata da
parte dei civili. Questa escalation nel confronto fisico offusca il confine tra
applicazione della legge e coercizione politica—una dinamica tipica dei
conflitti ibridi in cui lo Stato stesso appare frammentato e contestato.
Ugualmente centrale è la
guerra narrativa. Le autorità federali dipingono Los Angeles come una città
“senza legge”, ostaggio del crimine e del disordine, mentre le
autorità locali si presentano come difensori della dignità umana, dei diritti
civili e della giustizia morale. Queste narrazioni opposte non sono un elemento
accessorio, ma rappresentano il cuore del conflitto, poiché entrambe le parti
cercano di conquistare il sostegno dell’opinione pubblica. Nella guerra
irregolare, la vittoria si misura spesso non sul campo di battaglia, ma nella
capacità di conquistare le menti e i cuori della popolazione. Sotto questo
profilo, il caso di Los Angeles rientra pienamente nelle dimensioni
psicologiche e informative della guerra irregolare.
Inoltre, questo confronto
coinvolge una rete complessa di attori non tradizionali. Organizzazioni della
società civile, reti di attivisti, gruppi di assistenza legale e persino
comunità religiose hanno assunto funzioni quasi politiche e protettive,
occupando ruoli normalmente riservati alle istituzioni statali. I loro sforzi
coordinati per ostacolare l’applicazione delle norme federali e offrire forme alternative
di governance e giustizia sono tratti distintivi del conflitto irregolare, dove
la legittimità è contesa non solo con la forza, ma anche attraverso istituzioni
concorrenti.
In conclusione, pur in
assenza di eserciti convenzionali o milizie, Los Angeles rappresenta un campo
di battaglia contemporaneo della guerra irregolare—uno in cui la legge,
l’identità, la narrativa e, in certi casi, la forza fisica, sono le armi
principali. Con l’evolversi della natura del conflitto nelle democrazie
liberali, diventa sempre più evidente che la guerra irregolare non è più
confinata a insurrezioni lontane o Stati falliti. Essa si sta svolgendo nei
paesaggi politici contesi di città come Los Angeles, dove la posta in gioco non
è solo una politica pubblica, ma la definizione stessa di sovranità,
legittimità e giustizia nel XXI secolo.
TRUMP E IL DISCORSO DI WESTPOINT: lo scudo stellare, il delatore dell’FBI e le accuse a Biden
di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).
Il 24 maggio 2025, durante il
discorso di laurea all’Accademia Militare di West Point, Donald Trump ha suscitato
polemiche politicizzando l’evento, un momento tradizionalmente dedicato a
celebrare i cadetti e il loro impegno nel voler servire il loto paese. Il
presidente non si è fatto sfuggire questa occasione per sottolineare le
politiche sia interne che estere della sua amministrazione, criticando dalle
politiche progressiste e, in particolare, i programmi di diversità, equità e
inclusione (DEI), e riguardo a quelle estere non si è sottratto dal criticare
la Nato e le guerre ancora in atto.
Interessante
invece è stata la sua chiara definizione del ruolo delle Forze Armate,
dichiarando: “Il compito delle forze armate degli Stati Uniti non è quello
di ospitare spettacoli di “drag”, di trasformare culture straniere o diffondere
la democrazia per il mondo con la punta di una pistola. Il compito
dell’esercito è dominare ogni nemico e annientare ogni minaccia per l’America —
ovunque, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo.” Queste parole hanno
ovviamente suscitato reazioni di ogni tipo, sulla “mission” e sul ruolo
dell’esercito. Chi si è offeso per i riferimenti di politica nel quadro della
cerimonia, ritenendo questa scelta di poco buon gusto essendo un evento
dedicato ai cadetti; chi invece lo difende per aver dato all’esercito
connotazioni eguali alle sue origini. Trump, tuttavia, ha ripetutamente
enfatizzato che il compito primario delle forze armate è proteggere gli Stati
Uniti da minacce globali, senza farsi coinvolgere o distrarre da questioni
ideologiche.
I
punti salienti del discorso di Trump:
Trump evita le promozioni per la
diversità, l’inclusione e l’equità
Trump non ha risparmiato critiche
giustificando la sua visione del “America First” in termini di come
l’esercito degli Stati Uniti dovrebbe operare, sia a casa che all’estero. Ha
anche parlato delle “politiche divisive e denigratorie” all’interno
dell’accademia, causate dai programmi di diversità, equità e inclusione (DEI – Diversity, Equality Inclusion) e ha
ordinato l’abolizione di questi corsi,
perchè nocivi all’ambiente accademico. (Non ha fatto altro che reiterare quanto
già ordinato a tutte le università).
Il
“Golden Dome”: Difesa Missilistica Avanzata
Nel voler sottolineare l’importanza
di proteggere gli Stati Uniti da minacce esterne, il presidente ha riproposto
l’implementazione di un sistema di difesa missilistica avanzato chiamato
“Golden Dome”. Progetto
ambizioso, ideato già ai tempi di Reagan, servirebbe per proteggere gli Stati
Uniti da attacchi missilistici, inclusi missili balistici, ipersonici e droni.
Ispirato al sistema israeliano Iron Dome, il “Golden Dome” prevede
l’uso di una rete di satelliti e intercettori spaziali per rilevare e
distruggere le minacce prima che raggiungano il suolo statunitense. Il costo
stimato del progetto è di circa 175 miliardi di dollari, con l’obiettivo di
completarlo entro la fine del mandato di Trump nel 2029.
“Difendiamo la democrazia”
Durante
il suo discorso, Trump ha anche parlato del valore della democrazia, ma ha
enfatizzato che gli Stati Uniti non dovrebbero più diffondere la democrazia a
tutti i costi e che il compito delle forze armate è esclusivamente quello di difendere
il paese da ogni minaccia.
Trump vuole una celebrazione della
vittoria dell’America
Il presidente ha lamentato il fatto che tutte
le nazioni europee hanno inserito nei loro calendari un giorno dove si celebra
la vittoria conseguita nella Seconda Guerra mondiale, mentre gli Stati Uniti
dovrebbero celebrare adeguatamente tutti i loro successi e che vorrebbe
istituire un USA V-Day.
Politiche di difesa e isolamento
Trump ha espresso un approccio
sempre più isolazionista rispetto ai suoi predecessori, dicendo che le missioni
militari degli Stati Uniti non dovrebbero riguardare la costruzione di nazioni
in terre lontane che non ci vogliono. Ha fatto un appello per la pace e la
partnership con altri paesi, ma ha affermato che l’America dovrebbe difendere i
propri interessi prima di tutto.
Un accenno alla guerra
Ucraina-Russia
La guerra tra Ucraina e Russia, è
stata solo brevemente citata. Tasto dolente per Trump che da quando è entrato
alla Casa Bianca ad oggi non ha ottenuto alcun risultato. D’altra parte si sà
che in politica
si promettere solo ciò per cui si è certi di ottenere altrimenti è come
scavarsi la propria fossa. Trump ha parlato brevemente del suo recente
colloquio con Vladimir Putin e ha detto che i colloqui di pace sarebbero
iniziati immediatamente.
Immigrazione
e sicurezza: il Caso di Boulder
Durante
il suo discorso, Trump ha anche affrontato il tema dell’immigrazione,
criticando le politiche migratorie dell’amministrazione precedente e non ha
dovuto aspettare molto dal 24 maggio per rafforzare le sue posizioni visto
l’attacco terroristico avvenuto a Boulder, Colorado, il 1° giugno, in cui Mohamed Sabry Soliman, un cittadino
egiziano che con un visto di soggiorno B2 scaduto, ha lanciato delle bombe “molotov”
auto-costruite e fatto uso di un lanciafiamme durante una tranquilla manifestazione
pro-Israele, ferendo 12 persone, di cui una gravemente. Secondo l’FBI, Soliman
aveva pianificato l’attacco da più di un anno e, ha dichiarato di voler
“uccidere tutti gli ebrei”. Preso l’attentatore,
anche tutta la sua famiglia è stata arrestata con l’intento di espellerla a
breve.
Il
delatore del FBI e il senatore Hawley
Mentre
Trump ha i suoi problemi da risolvere, il senatore Josh Hawley ha recentemente
fatto un’affermazione sensazionale, sostenendo che l’ex presidente Joe Biden,
durante la sua presidenza, a volte “si perdeva nel suo stesso
armadio” all’interno della Casa Bianca. Parlando con Fox News, il senatore
ha affermato che il racconto proveniva da un agente dei servizi segreti non
identificato, assegnato personalmente a Biden. “Mi ha detto che Biden,
la mattina, si perdeva nel suo armadio. Voglio dire, il tipo non riusciva a
uscire dal suo stesso armadio. Questa è una cosa scandalosa. Ci hanno
mentito”. L’accusa di Hawley ha alimentato le indagini in corso al
Congresso sulla capacità mentale di Biden e sull’estensione in cui egli
esercitava personalmente il potere esecutivo durante il suo mandato. I più
stretti collaboratori di Biden hanno respinto tali accuse, affermando che Biden
era pienamente in grado di prendere decisioni importanti. Una delle indagini
principali è guidata dal presidente del Comitato per la Supervisione della
Camera, James Comer, che sta esaminando se lo staff dell’allora
presidente degli Stati Uniti abbia utilizzato la macchina per apporre la firma
del presidente meccanicamente, l’autopen, inclusi gli 8000 perdoni
presidenziali, senza però il coinvolgimento diretto di Biden.
Comer
ha sollevato anche dubbi sul ruolo del dottor Kevin O’Connor, il medico della Casa Bianca durante la presidenza
di Biden. Ha messo in dubbio se i rapporti pubblici seguenti ai controlli di
routine di Biden fossero stati completamente trasparenti o se fossero stati
omessi dettagli cruciali sulla condizione dell’ex presidente. Il Dipartimento
di Giustizia ha avviato un’indagine sulla correttezza nell’esecuzione dei
perdoni presidenziali soprattutto quelli firmati negli ultimi giorni in carica.
La notizia, riportata da Reuters, afferma che l’inchiesta esaminerà se Biden
fosse competente o se altri stessero approfittando di lui tramite l’uso dell’autopen
o altri mezzi, secondo una mail inviata dall’avvocato per i perdoni del
Dipartimento di Giustizia, Ed Martin.
Secondo la Costituzione degli Stati Uniti, il Presidente non
ha l’autorità di annullare i perdoni del suo predecessore, in base al tipo di
firma. Bernadette Meyler,
professoressa di Diritto Costituzionale alla Stanford Law School afferma che:“La
Costituzione non richiede nemmeno che il perdono sia scritto, quindi l’idea che
la firma sia apposta tramite autopen anziché con una firma manoscritta non
sembra rilevante per la costituzionalità, poiché l’Articolo II stabilisce
semplicemente che il Presidente ha il potere di concedere il perdono,”
L’autopen è una firma elettronica
che consente di firmare un documento senza essere fisicamente presenti. La
firma replica quella manoscritta, ma viene eseguita da un computer. Secondo gli
esperti, un numero considerevole di atti legislativi e altri documenti sono
stati firmati tramite autopen. Ad esempio, l’ex Presidente Barack Obama firmò
una misura di sicurezza nazionale tramite autopen mentre si trovava in Francia.
Ma Trump persiste e dice:”Penso che l’autopen diverrà uno degli
scandali più noti di tutti i tempi”.
Biden, fino all’ultimo giorno come
presidente, ha emesso numerosi perdoni, inclusi perdoni preventivi per membri
della sua famiglia come il fratello James e il figlio Hunter, e che risalgono
fino al 2014. Il Dipartimento di Giustizia si concentrerà su questi perdoni e
sulla clemenza concessa ad alcuni detenuti nel braccio della morte.
“Gli
americani hanno visto con i propri occhi un presidente mentalmente incompetente
e vogliono delle risposte”, ha dichiarato la portavoce della
Casa Bianca Karoline Leavitt ai
giornalisti martedì, quando le è stato chiesto dell’indagine.
Influenze straniere nell’America che pensa: dalle università alle Big Tech
di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)
Fondi esteri e antisemitismo nei campus
Negli
Stati Uniti, la crescente ondata di antisemitismo
nei campus universitari ha portato sotto i riflettori la questione dei
finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo, in particolare dal Qatar. A
preoccupare il Congresso e diversi osservatori è il ruolo che tali fondi
potrebbero giocare nel condizionare il clima accademico e la libertà di
espressione nelle università americane.
Secondo un recente rapporto
pubblicato dalla Foundation for Defense of Democracies (FDD), il Qatar
figura tra i cinque maggiori donatori agli atenei statunitensi nel 2024. Il
documento ha riacceso un dibattito già avviato all’inizio
dell’anno, quando il Comitato della Camera per l’Istruzione e la Forza
Lavoro ha approvato una proposta di legge per imporre maggiore trasparenza
ai finanziamenti esteri ricevuti dalle istituzioni accademiche. Il
provvedimento è una risposta diretta alle preoccupazioni sollevate anche al
Senato nel marzo scorso, durante l’audizione del Dr. Charles Asher Small,
direttore dell’Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy
(ISGAP). Secondo i dati presentati, l’università Texas A&M avrebbe
ricevuto oltre un miliardo di dollari dal Qatar, mentre Cornell ne avrebbe
incassati quasi dieci. Columbia University, invece, avrebbe beneficiato di
almeno 7,17 milioni di dollari.
Small ha
denunciato come gran parte di questi fondi non sia stata regolarmente
dichiarata al Dipartimento dell’Istruzione, in presunta violazione della
normativa federale. Ma il punto centrale delle sue accuse riguarda il possibile
impatto di questi finanziamenti sull’ambiente accademico: «Abbiamo osservato un
incremento del 300% degli episodi antisemiti nei campus che hanno ricevuto
fondi stranieri non dichiarati, in particolare da regimi autoritari come il
Qatar», ha affermato.
Nel luglio 2024, lo stesso Small aveva testimoniato
alla Commissione Finanze della Camera, collegando
l’afflusso di fondi esentasse alla crescita di movimenti e dichiarazioni
antisemite tra studenti e docenti.
E nel maggio 2024 durante
un’audizione della Camera sull’antisemitismo, il deputato Burgess Owens
(R-Utah) ha chiesto conto al presidente della Northwestern University,
Michael Schill, di un finanziamento da 600 milioni di dollari destinato al
campus di Doha, in Qatar. La Qatar Foundation, da parte sua, ha sempre
respinto ogni accusa di interferenza nelle scelte accademiche delle università
americane.
Già nel 2023, il Congresso aveva
proposto una legge bipartisan – la DETERRENT Act – per vietare i
finanziamenti alle università americane da parte di paesi accusati di sostenere
il terrorismo.
Se
l’ospitalità data dal Qatar a leader di organizzazioni come i Fratelli
Musulmani o Hamas getta benzina sul fuoco dei critici, una correlazione fra
antisemitismo e investimenti nell’educazione in USA rimane da provare. Gli
interrogativi sono tuttavia legittimi e il tema è altamente divisivo. Se da un lato le università difendono le collaborazioni
internazionali come strumenti di progresso e innovazione, dall’altro cresce la
richiesta di regolamentare i rapporti con i paesi esteri, nel nome della
trasparenza, dell’integrità accademica e del rispetto dei valori democratici.
Come beneficiano le università americane
dagli investimenti arabi
Le università americane ricevono
finanziamenti significativi da paesi arabi come Qatar, Arabia Saudita ed
Emirati Arabi Uniti. Questi investimenti portano diversi vantaggi, ma anche
potenziali rischi. Vediamoli nel dettaglio:
🏫 1. Sostegno finanziario
Donazioni consistenti: Paesi come il Qatar hanno donato
centinaia di milioni di dollari a università di alto livello. Ad esempio, il
Qatar ha finanziato il campus della Texas A&M a Doha e quello di medicina
della Cornell.
Sviluppo infrastrutturale: Le donazioni aiutano a costruire
strutture moderne, laboratori e centri di ricerca.
🎓 2. Sviluppo internazionale
Apertura di campus esteri: Le università statunitensi aprono
sedi in luoghi come “Education City” a Doha, ampliando la loro
visibilità globale.
Nuove iscrizioni: Attirano studenti benestanti dal
Golfo, spesso paganti l’intera retta, migliorando la sostenibilità economica.
🧪 3. Ricerca e collaborazione
accademica
Finanziamento di progetti scientifici: I governi arabi finanziano
ricerche in energia, medicina, tecnologia.
Borse di studio e cattedre: Supportano lo studio dell’Islam,
della lingua araba e della politica mediorientale.
🌍 4. Diplomazia culturale
Scambi interculturali: Collaborazioni e presenze di
studenti stranieri promuovono il dialogo culturale.
Partnership strategiche: Rafforzano i rapporti diplomatici
ed economici tra Stati Uniti e paesi del Golfo.
⚠️ I Rischi
Anche se i benefici sono reali, si possono individuare diversi potenziali problemi:
Influenza sui contenuti accademici: Alcuni donatori potrebbero cercare di indirizzare programmi o ricerche secondo i propri interessi.
Autocensura e pressione politica: Studenti e docenti potrebbero sentirsi limitati nel criticare i paesi finanziatori.
Reputazione e propaganda: I regimi autoritari possono usare questi legami per ripulire la loro immagine internazionale (“reputation laundering”).
Oltre ai paesi arabi, la Cina è l’altro grande investitore.
Università americane e fondi dalla
Cina: tra investimenti, soft power e rischi per la sicurezza nazionale
Dopo anni di crescenti rapporti
accademici e culturali, gli investimenti della Cina nelle università statunitensi
sono oggi al centro di un dibattito sempre più acceso su trasparenza, libertà
accademica e tutela della sicurezza nazionale. Mentre Pechino rafforza la sua
proiezione globale, gli Stati Uniti si interrogano sull’impatto di tali
relazioni sul proprio sistema educativo.
💰 Contratti e finanziamenti
milionari
Secondo un’indagine del Wall Street Journal, tra il
2012 e il 2024 circa 200 università americane hanno sottoscritto accordi con
entità cinesi per un valore complessivo di 2,32 miliardi di dollari. Le
collaborazioni spaziano dalla ricerca congiunta allo sviluppo di campus e
infrastrutture accademiche. L’università più finanziata risulta essere New
York University, grazie alla sua presenza a Shanghai.
A questo si aggiunge un altro canale di sostegno economico
indiretto ma significativo: gli studenti cinesi iscritti negli Stati Uniti. Le
loro rette universitarie rappresentano un flusso annuo di circa 12 miliardi
di dollari, secondo dati del Congresso.
🏫 Gli Istituti Confucio:
cultura o propaganda?
Al centro della controversia anche i Confucius Institutes,
programmi finanziati dal governo cinese per promuovere la lingua e la cultura
cinese all’interno dei campus statunitensi. Se inizialmente accolti come
strumenti di scambio culturale, nel tempo sono stati accusati di veicolare propaganda
politica e di imporre limiti alla libertà accademica, in particolare
su temi sensibili come Tiananmen, Taiwan o il Tibet. Il Congresso americano ha reagito con
decisione, introducendo misure per limitare i fondi federali alle
università che ospitano questi istituti. In molti casi, le università hanno
deciso di chiuderli autonomamente per evitare problemi reputazionali e
politici.
Preoccupazioni per la sicurezza
nazionale
Le autorità statunitensi temono che i rapporti accademici
con la Cina possano fungere da canale per la trasmissione di tecnologie
sensibili e furto di proprietà intellettuale. In diversi casi, la
stampa ha documentato come la ricerca finanziata da fondi pubblici americani
abbia finito per favorire lo sviluppo militare cinese, suscitando
interrogativi sul controllo dei progetti congiunti.
In risposta, il Congresso e alcune agenzie federali hanno
avviato un percorso legislativo volto a rafforzare la trasparenza e il
monitoraggio dei fondi stranieri ricevuti dalle università americane.
Filantropia e ricerca: un terreno
ambiguo
Oltre agli accordi istituzionali, si segnalano anche ingenti
donazioni filantropiche individuali da parte di miliardari cinesi. È il
caso dell’Istituto Tianqiao e Chrissy Chen, che ha stanziato un miliardo
di dollari per progetti di neuroscienze presso il Caltech e altri centri di
ricerca. Se da un lato tali contributi hanno favorito importanti progressi
scientifici, dall’altro pongono interrogativi sulla neutralità della ricerca
e sull’influenza silenziosa del potere economico cinese.
L’intensificarsi della competizione tra Stati Uniti e Cina
ha ormai travolto anche il mondo accademico. In gioco non c’è solo la libertà
di ricerca, ma la capacità delle istituzioni americane di difendere i propri
valori democratici in un contesto sempre più interconnesso e
geopoliticamente instabile.
L’infiltrazione cinese nel mondo accademico statunitense non
rappresenta un caso isolato, ma si inserisce in una strategia più ampia di
Pechino volta a esercitare influenza su settori chiave della società americana. Oltre alle università, anche le
grandi piattaforme tecnologiche sono diventate canali privilegiati di
penetrazione, sia economica che ideologica. È in questo contesto che si
inseriscono le rivelazioni di Sarah Wynn-Williams, ex dirigente di Meta, che ha
denunciato pubblicamente presunti rapporti di cooperazione tra il colosso di
Menlo Park e il governo cinese. L’ex direttrice delle politiche pubbliche
globali di Facebook (ora Meta) è al centro di un acceso dibattito dopo aver
pubblicato il mese scorso le sue memorie:
📘 “Careless
People: A Cautionary
Tale of Power, Greed, and Lost Idealism””: un memoir
esplosivo
L’11 marzo scorso la Wynn-Williams ha pubblicato Careless
People. un libro che offre uno sguardo critico sull’evoluzione di Facebook
in Meta. Nel testo, l’autrice descrive un ambiente aziendale dominato da
ambizione e mancanza di scrupoli, accusando i vertici di aver collaborato con
il Partito Comunista Cinese per sviluppare strumenti di censura e di aver preso
decisioni che potrebbero compromettere la sicurezza nazionale degli Stati
Uniti.
Meta ha cercato di impedirne la promozione, ottenendo un’ingiunzione arbitrale che vietava a Wynn-Williams di discutere pubblicamente del contenuto dell’opera. Nonostante ciò, il libro è in testa a tutte le classifiche di vendita.
🏛️ Testimonianza al
Congresso
In seguito, alcuni giorni fa,
esattamente il 9 aprile 2025, la Wynn-Williams ha testimoniato davanti alla
Sottocommissione per il Crimine e il Controterrorismo del Senato, presieduta
dal senatore Josh Hawley.
Invitata dal senatore quale presidente della
Sottocommissione, Sarah ha dato uno spaccato su Meta e i rapporti della società
con paesi esteri agghiaccianti. Durante le due ore di domande e
risposte, l’ex dirigente di Facebook ha mosso accuse gravi nei confronti del
colosso tecnologico, sostenendo che Meta avrebbe collaborato attivamente con il
governo cinese per sviluppare strumenti di censura destinati al mercato
asiatico. Wynn-Williams ha affermato che l’azienda avrebbe anche trasmesso
dati sensibili a ricercatori legati all’Esercito Popolare di Liberazione
cinese, contribuendo – secondo le sue parole – a progetti potenzialmente
dannosi per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Ha raccontato di episodi
concreti di interferenza straniera, come la cancellazione dell’account di un
dissidente cinese su richiesta delle autorità di Pechino, e ha espresso
forti riserve su un progetto di cavo sottomarino che, se approvato,
avrebbe potuto facilitare l’accesso della Cina ai dati degli utenti americani.
Ha rivelato che Meta avrebbe preso di mira adolescenti vulnerabili con
campagne pubblicitarie studiate in base al loro stato emotivo, sfruttando
momenti di insicurezza per promuovere prodotti o contenuti, una pratica che ha
definito “profondamente immorale” o giovani madri in stato depressivo, sempre
con lo stesso scopo. Queste rivelazioni hanno avuto ampio eco nell’opinione
pubblica e al Congresso, alimentando richieste bipartisan di maggiore
regolamentazione delle Big Tech e di indagini formali sui rapporti
di Meta con regimi autoritari.
La Williams ha definito Zuckerberg un pagliaccio che cambia
di vestito a seconda delle sue personali esigenze, che a parer suo, sono
esclusivamente concentrate nel voler stare accanto al “Potere” – “tutto è disegnato per avere
sempre più potere a livello globale”.
🧾 Reazioni e conseguenze
Meta ha respinto le accuse, definendole infondate e obsolete, e ha sottolineato che Wynn-Williams è stata licenziata nel 2017 per scarso rendimento e comportamento tossico. Tuttavia, la sua testimonianza ha suscitato un intenso dibattito pubblico e lei stessa ha invitato i membri della Commissione di Congresso a chiedere ulteriori indagini sulle pratiche dell’azienda. Nonostante le pressioni legali, Wynn-Williams ha dichiarato di aver deciso di parlare “a rischio personale considerevole” perché ritiene che il pubblico americano abbia il diritto di conoscere la verità sulle operazioni di Meta.
Sarah Wynn-Williams
Dalle università alle piattaforme
digitali, ciò che emerge con chiarezza è una strategia coordinata di
penetrazione da parte di potenze straniere come Cina e Qatar, che cercano di
esercitare influenza sui luoghi in cui si formano il pensiero, il consenso e
l’identità democratica americana.
In questo scenario, i finanziamenti accademici opachi, le
alleanze tecnologiche silenziose e le pratiche di censura travestite da
cooperazione rappresentano un rischio sistemico. Non si tratta solo di
proteggere l’autonomia delle istituzioni – scuole, centri di ricerca, aziende –
ma anche di resistere a un modello alternativo di controllo e conformismo che
avanza con logiche autoritarie e mezzi sottili.
Proteggere significa costruire regole, vigilanza,
trasparenza. La vera posta in gioco non è solo la sovranità tecnologica
o educativa, ma la tenuta stessa della cultura democratica su cui si fondano
gli Stati Uniti.
DO UT DES
Di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)
Parlare di cambiamento agli italiani non è mai semplice Abbiamo alle spalle una storia di trasformazioni annunciate, riforme promesse e rivoluzioni mancate. Sappiamo che il cambiamento, spesso, è servito più a conservare che a innovare. Lo sapeva bene Falconeri nel Gattopardo, quando diceva: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Eppure, oggi ci troviamo davanti a un bivio reale, che tocca il commercio globale, le relazioni internazionali e il nostro stesso modo di produrre e consumare. In questo contesto, l’appello alla calma e alla riflessione lanciato dalla Presidente del Consiglio – “Calma e valutiamo” – appare non solo opportuno, ma necessario, perché il rischio non è solo quello di sbagliare risposta: è quello di non comprendere la domanda: Quale cambiamento vogliamo?
Il protezionismo, nel corso della storia, è stato adottato da molti Paesi
con obiettivi e risultati differenti. In alcuni casi ha difeso industrie
nascenti, in altri ha acuito crisi economiche e isolato i mercati. Non è né uno
strumento neutro, né sempre efficace, ma è sicuramente una leva politica che
riflette un preciso approccio alle sfide economiche globali.
Come ha osservato Lucio Miranda, Presidente di Export USA, in una recente intervista,
l’introduzione di dazi da parte degli Stati Uniti non rappresenta
necessariamente una catastrofe per le imprese italiane. Miranda sottolinea che,
sebbene queste misure possano avere un impatto, non è detto che conducano
inevitabilmente a una recessione. Piuttosto, evidenzia come il vero fattore
destabilizzante sia l’incertezza che tali politiche generano nei mercati e tra
gli operatori economici. È questa sensazione di instabilità, più che le misure
stesse, a poter creare difficoltà. In questo scenario, è fondamentale
analizzare con attenzione le implicazioni delle politiche protezioniste degli
USA, considerando sia le lezioni del passato sia le specificità del contesto
attuale. Solo attraverso una valutazione ponderata e priva di allarmismi si
potranno individuare le strategie più efficaci per tutelare gli interessi
economici italiani e del resto del mondo.
Per comprendere meglio le implicazioni delle politiche protezionistiche
nel presente, è utile volgere lo sguardo al passato. Diversi Paesi, in momenti
storici critici, hanno adottato misure di protezione commerciale — dai dazi
alle barriere non tariffarie — con l’obiettivo di difendere la produzione
interna, rilanciare l’occupazione o rispondere a crisi economiche. Ecco una
panoramica, in ordine cronologico, di alcuni dei casi più rilevanti:
Gran Bretagna (1815–1846) Dopo le guerre napoleoniche, il Regno Unito adottò le famigerate Corn Laws, che imponevano dazi sulle importazioni di grano per proteggere i produttori agricoli interni. Le leggi furono abrogate solo nel 1846, segnando una svolta verso il libero scambio.
Stati Uniti (1861–1934) Per oltre 70 anni, gli Stati Uniti mantennero tariffe doganali molto elevate per proteggere la propria industria manifatturiera. Le tariffe raggiunsero l’apice con lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, che contribuì alla contrazione del commercio mondiale durante la Grande Depressione.
India (1947–1991) Dopo l’indipendenza, l’India adottò un modello autarchico noto come Licenza Raj, basato su dazi elevati, licenze di importazione e pianificazione statale. Questo sistema rallentò la crescita economica fino alla liberalizzazione degli anni ’90.
Giappone (1950–1980) Durante la ricostruzione postbellica e il boom industriale, il Giappone applicò rigide barriere non tariffarie e sussidi selettivi per proteggere settori strategici come l’automotive e l’elettronica, attirandosi critiche dalle economie occidentali.
Unione Europea (dal 1962 a oggi) Con la creazione della Politica Agricola Comune (PAC), l’UE ha adottato dazi e sussidi interni per garantire la stabilità del settore agricolo. Il sistema è stato oggetto di critiche nei negoziati internazionali, ma resta ancora in vigore, seppur riformato.
Cina (1980–oggi) Dopo le riforme di Deng Xiaoping, la Cina ha sviluppato un modello misto di apertura e protezionismo strategico, basato su barriere non tariffarie, requisiti di trasferimento tecnologico e forte sostegno statale all’industria.
Argentina (2003–2015) Sotto i governi di Néstor e Cristina Kirchner, l’Argentina impose forti restrizioni alle importazioni per tutelare la produzione interna e contenere la fuga di capitali, in un contesto di instabilità economica.
Stati Uniti (dal 2018) Con l’amministrazione Trump, Washington ha reintrodotto dazi su acciaio, alluminio e prodotti tecnologici provenienti da Cina, UE e altri Paesi. Le misure hanno innescato una serie di ritorsioni commerciali, con effetti ancora oggi parzialmente in atto.
Ma le borse stanno reagendo male! Secondo Bessent (il Segretario del
Dipartimento del Tesoro), la priorità, è quella di rafforzare i fondamentali
dell’economia. Questo significa garantire tasse stabili, prevedibilità per le
imprese, energia abbondante e a basso costo, un processo di deregolamentazione
e un trattamento equo della forza lavoro. Solo così si potrà contare su un
mercato azionario forte e duraturo.
Riguardo ai dazi la loro funzione è di contrastare modelli economici alternativi come quello cinese ad esempio: “I proventi dei dazi possono essere sostanziosi. Secondo i modelli economici classici, se applichi un dazio del 10%, si stima che il tasso di cambio compensi per circa il 40% di quel valore (cioè un 4%), un altro 4% viene assorbito dal produttore straniero, e il consumatore americano subisce un impatto residuo, forse intorno al 2%. Uno studio recente del MIT, ha mostrato che i primi dazi imposti da Trump alla Cina — circa il 20% — hanno generato un aumento generale dei prezzi di appena dello 0,7%.”
Allora bisogna
chiedersi quale sia la differenza fondamentale tra le azioni
protezionistiche del passato e quelle che stiamo osservando oggi. Mentre un
tempo i dazi servivano quasi esclusivamente a proteggere l’industria
nazionale bloccando o scoraggiando le importazioni, oggi la strategia è
molto più articolata. Oggi il protezionismo non si limita ad innalzare
barriere, ma punta anche ad attrarre investimenti stranieri diretti,
spingendo aziende estere a costruire fabbriche direttamente negli Stati
Uniti. Stiamo guardando a una forma di protezionismo “attivo”, che
non si accontenta di difendere il mercato interno, ma mira a rilocalizzare
la produzione e ricostruire la base industriale americana, svanita negli
ultimi decenni. Un esempio concreto è rappresentato dalle case automobilistiche
asiatiche ed europee che stanno aprendo nuovi stabilimenti in Texas o in
Tennessee, o dai giganti della tecnologia che riorganizzano le loro supply
chain per produrre qui in america.
Secondo Bessent,
le prospettive future delle tariffe commerciali, per uscire da un sistema di
dazi generalizzati non è l’abbattimento arbitrario ma l’incentivare il ritorno
della produzione sul suolo americano: “La soluzione migliore per superare un
muro di dazi è spostare la tua fabbrica: dalla Cina, dal Messico, dal Vietnam —
e portala qui.”
Il piano
prevede una prima fase in cui le entrate da dazi saranno sostanziali, ma nel
tempo con la costruzione di fabbriche negli Stati Uniti, renderanno i
dazi molto meno necessari, e di conseguenza, le entrate fiscali proverranno non
più dalle tariffe, ma dalle imposte sul reddito, dai nuovi posti di lavoro e
dalla crescita economica interna.
“I dazi caleranno perché staremo producendo qui. E di conseguenza calerà anche il nostro deficit commerciale, che, accoppiato con una riduzione della forza lavoro federale, il contenimento dell’indebitamento pubblico, e il rilancio del settore privato, creerà le condizioni per un riequilibrio strutturale dell’economia americana, più solida, autonoma e competitiva nel lungo periodo.”
Questo approccio, si traduce anche in una politica industriale implicita,
che cambia profondamente le dinamiche del commercio e dell’occupazione, con
potenziali effetti a lungo termine sulla competitività del Paese.”
Mr. Bessent, intervenuto
su quello che considera un cambio radicale ma necessario nella direzione
economica degli Stati Uniti, ha dichiarato senza mezzi termini che il
vecchio sistema non stava più funzionando: “Quando un sistema non
funziona, ci vuole coraggio per cambiarlo.”
Il vecchio
sistema era basato su un’economia sostenuta artificialmente da debito
crescente e spesa pubblica, fosse insostenibile nel lungo periodo. “Sarebbe
stato facile entrare e continuare a emettere debito, a creare posti di lavoro
nel governo. Esternamente sarebbe sembrato tutto perfetto, come un culturista
doppato: muscoli visibili, ma organi vitali compromessi. Ecco, stavamo
uccidendo il sistema dall’interno.”
Le più gravi
crisi economiche degli ultimi decenni sono, secondo lui, esempi lampanti di
un’economia apparentemente florida ma profondamente fragile:
“Se guardi al 2007-2008, l’economia sembrava andare a gonfie vele — fino al
crollo. Stessa cosa con la bolla del dot-com, e con i casi di frode come Enron
e WorldCom. Anche lì tutto sembrava stabile… finché improvvisamente non lo è
stato più.”
L’attuale amministrazione sta intervenendo prima che si arrivi a un punto di rottura, mettendo in sicurezza il sistema economico. “È come dopo l’11 settembre, quando si è scoperto che le compagnie aeree non volevano investire nelle porte blindate per la cabina di pilotaggio, perché la FAA non ha insistito abbastanza. Ora quelle porte ci sono. Noi stiamo facendo la stessa cosa: stiamo installando le porte blindate prima dello schianto.”
Come ha risposto la CINA? Quali le possibili ritorsioni?
Pechino non ha
molto margine di ritorsione, per motivi strutturali. “Se guardiamo alla storia economica — che
ho anche insegnato — il Paese con il surplus commerciale, cioè la Cina, è in
realtà nella posizione più debole. Noi siamo i debitori, loro i creditori, ma
sono loro ad avere più da perdere.” Secondo Bessent, l’economia cinese è la
più squilibrata della storia moderna. Il suo modello si basa in modo eccessivo
sull’export, a livelli mai visti se rapportati al PIL e alla popolazione. “La
Cina è oggi in una recessione deflazionistica, o addirittura in una
depressione. Stanno cercando di uscirne esportando, ma noi non possiamo
permetterglielo.”
Eppure,
nonostante queste fragilità interne, Pechino ha reagito con fermezza
alle nuove tariffe statunitensi. Come riportano il New York Post e il Wall
Street Journal, la Cina ha risposto imponendo una tariffa del 34% su
tutte le importazioni dagli Stati Uniti, in vigore dal 10 aprile 2025, e bloccando
le autorizzazioni per nuovi investimenti cinesi in asset americani.
Non solo: sono
state introdotte restrizioni sulle esportazioni di terre rare, materiali
critici per le tecnologie avanzate, e avviata una causa presso
l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) contro la Casa Bianca per
violazione delle regole commerciali internazionali. Queste mosse, pur essendo
simbolicamente forti, potrebbero rivelarsi più dannose per Pechino stessa,
vista la sua dipendenza dalle esportazioni verso il mercato americano. Ma
qual’è il “miglior scenario possibile”: “Penso che il Presidente
Trump abbia infranto il modello economico cinese con questi dazi, noi
produciamo di più e consumiamo meno, loro producono meno e aumentano il consumo
interno. Rrterà una competizione economica, ma almeno livelleremo il campo da
gioco.”
Nei prossimi anni la Cina potrebbe essere costretta a ripensare il proprio
modello, che considera
ormai rotto. Bessent ha anche richiamato una metafora nota nel mondo
finanziario: “Se prendi un piccolo prestito da una banca, è la banca ad
avere il controllo, ma se il prestito è enorme, sei tu ad avere il potere.
Ecco: il deficit commerciale cinese con gli Stati Uniti è così grande che non
possono fare a meno del nostro mercato.”
Invece
dall’altra parte dell’oceano l’Europa dovrà ribilanciare, in quanto si trova
davanti a una sfida simile a quella degli Stati Uniti. Quando Donald Trump,
durante un vertice internazionale, definì “una follia” la decisione
dell’Europa di costruire Nord Stream 2, aumentando la dipendenza energetica
dalla Russia, Trump disse a noi europei: “ma siete pazzi? Già prendete la
maggior parte dell’energia da Mosca e volete pure raddoppiare?” Sappiamo
com’è finita.
IERI E OGGI – DA REAGAN A TRUMP
Nel 1980,
Reagan vinse le elezioni promettendo cambiamento. Due anni dopo, l’America
attraversò una recessione profonda — ma nel 1984 arrivò una delle più grandi
vittorie elettorali della storia. “All’epoca si diceva che stesse
impazzendo, che ‘Star Wars’ era una follia, che stava spendendo troppo, che
avrebbe distrutto il bilancio federale. E invece cosa successe? Il Muro di
Berlino cadde. L’Unione Sovietica crollò.”
Reagan usò la strategia sovietica contro i sovietici stessi: “Escalate
to de-escalate — alzò così tanto la posta in gioco, che Mosca non riuscì a
tenere il passo.”
E proprio come
allora, l’obiettivo oggi non è eliminare il governo, ma renderlo più
efficace: “L’ufficio guidato da Doge non serve a cancellare lo Stato, ma a
renderlo più efficiente. La vera sfida è: possiamo fare meglio, con meno?”
Ma quali sono
allora le differenze tra ieri e oggi? “Io credo che questa strada funzionerà. So che
quello che facevamo prima non funzionava. E ho fiducia — una fiducia
altissima — che questa volta sì, ci riusciremo.” Come prova, ha citato i
risultati della precedente amministrazione Trump, in particolare il fatto
che molte previsioni catastrofiche non si sono avverate: “Dicevano che i
dazi alla Cina avrebbero causato inflazione, che avrebbero danneggiato i
lavoratori. E invece, i lavoratori a cottimo hanno guadagnato più dei
supervisori. Il 50% più povero delle famiglie ha visto la propria ricchezza
crescere più rapidamente del 10% più ricco.”
D’altra parte,
il mestiere del Signor Bessent è quello di vendere il debito americano al mondo
intero, un compito che comporta un senso di responsabilità enorme, perché non
riguarda solo gli Stati Uniti, ma l’intero sistema economico globale. “Gli
Stati Uniti non possono permettersi di fallire. Non possiamo permetterci di
‘andare a gambe all’aria. Quando ha assunto l’incarico, il rendimento dei
titoli di Stato a 10 anni era vicino al 5% — un livello che, può diventare
insostenibile per un’economia che deve rifinanziare enormi volumi di
debito. “Il 5% è una soglia scomoda, sia per i mercati, sia per il Tesoro.”
Sebbene la
situazione si sia parzialmente stabilizzata, Bessent continua a monitorare con
attenzione tre aree di rischio:
Il mancato avanzamento dei tagli alla spesa e la lotta contro sprechi, frodi e inefficienze.
Il pericolo che la riforma fiscale si blocchi, con l’effetto paradossale di portare all’aumento delle tasse più grande della storia.
I rischi geopolitici: Iran, Taiwan, e ogni possibile escalation internazionale che potrebbe mettere tutto a rischio.
Nonostante le
criticità, Bessent si mostra fiducioso: “Abbiamo già risparmiato 100
miliardi di dollari grazie al calo dei rendimenti dal 5% a sotto il 4%. Ogni
punto base vale un miliardo.”
E aggiunge: “Stiamo
impostando le vele per una fase fiscale più stabile. I mercati iniziano a capirlo.
E no, gli Stati Uniti non andranno in default.” Ha anche condiviso
una formula semplificata per spiegare la dinamica fiscale americana:
G = S – T, ovvero spesa meno tasse. (G- Government Deficit; S – Spesa Pubblica,
Spending; T – Taxes entrate fiscali).
“Tutti amano spendere, sia i repubblicani che i democratici. Noi vogliamo tassare meno,….e se la spesa scendesse davvero? Nessuno ci ha mai creduto seriamente. Nemmeno Reagan… ma vogliamo fare meglio, con meno.”
Stati Uniti – Immigrazione: no tu no!
di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti, giornalista esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato
Il 21 marzo 2025 il Segretario di Stato Marco Rubio, ha annunciato l’inclusione nella lista nera americana dell’ex presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner e dell’ex ministro della Pianificazione Julio De Vido per il loro coinvolgimento in gravi episodi di corruzione durante il periodo in cui hanno ricoperto cariche pubbliche.
Rubio ha affermato che Fernández de
Kirchner e De Vido avrebbero sfruttato i rispettivi incarichi «per
organizzare e trarre vantaggio economico da diversi schemi corruttivi legati
agli appalti per opere pubbliche, sottraendo così milioni di dollari alle casse
dello Stato argentino». Diversi tribunali argentini hanno già pronunciato
condanne nei confronti dei due ex funzionari, compromettendo fortemente la
fiducia degli argentini e degli investitori internazionali nelle prospettive
economiche e politiche del Paese, senza però riuscire a incarcerarli per i
crimini commessi.
Il provvedimento adottato impedisce
a Fernández de Kirchner, De Vido e ai loro familiari diretti l’ingresso negli
Stati Uniti. «Queste misure riaffermano il nostro impegno contro la
corruzione globale, specialmente quando coinvolge alti livelli governativi»,
ha sottolineato Rubio, che ha poi aggiunto: «Continueremo a garantire che
chi abusa del potere pubblico per vantaggi personali venga chiamato a
rispondere delle proprie azioni».
Queste designazioni rientrano nelle
misure previste dalla Sezione 7031(c) del “Department of State, Foreign
Operations, and Related Programs Appropriations Act” del 2024,
recentemente confermato anche per il 2025. Questa normativa, approvata dal
Congresso l’anno scorso, obbliga il Segretario di Stato a segnalare
pubblicamente o privatamente funzionari stranieri coinvolti in corruzione
significativa o in gravi violazioni dei diritti umani, sulla base di
informazioni attendibili raccolte dal Dipartimento di Stato. La decisione di
rendere pubblica questa mossa rappresenta un avvertimento ad altri leader
politici, come Maduro presidente del Venezuela e non riconosciuto dagli Stati
Uniti. A seguito delle controverse elezioni presidenziali del luglio 2024, gli
Stati Uniti hanno dichiarato di non riconoscere la legittimità del governo di
Maduro. Il precedente Segretario di Stato, Antony Blinken, aveva già espresso
“serie preoccupazioni” riguardo ai risultati elettorali. Il 10
gennaio 2025, in concomitanza con l’insediamento di Maduro per il suo terzo
mandato gli Stati Uniti, insieme all’Unione Europea, al Regno Unito e al
Canada, hanno imposto nuove sanzioni a funzionari venezuelani, mentre, il
Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, ha aumentato la ricompensa per
l’arresto di Maduro a 25 milioni di dollari. Il 18 marzo 2025, Rubio ha
avvertito il governo venezuelano che, se non avesse accettato i voli di
deportazione dei suoi cittadini dagli Stati Uniti, sarebbero state imposte
“sanzioni severe ed escalation”. Questo avvertimento si inserisce
negli sforzi dell’amministrazione Trump per deportare migranti senza status
legale, colpevoli di crimini in territorio nordamericani e porre fine a un
programma di residenza temporanea per 350.000 venezuelani.
Un dibattito democratico?
Queste azioni che vedono l’applicazione di una politica di frontiera a 360 gradi, dalla quale nemmeno ex presidenti sono esenti, vedi appunto Cristina Kirchner o Maduro, che ha addirittura una taglia sulla testa, coinvolgerà anche cittadini comuni di altri Paesi.
Ma coloro che credono che questa non sia più una democrazia, si mettano il cuore in pace; il sistema giudiziario funziona -bene o male a seconda delle opinioni- ma funziona.
Il giudice federale James Boasberg lunedì 18 marzo, ha convocato un’udienza urgente dopo che l’amministrazione Trump si è rifiutata di far rientrare due aerei carichi di migranti ‘criminali’, già decollati il sabato precedente, nonostante un ordine temporaneo vietasse le espulsioni. Un terzo volo potrebbe essere partito successivamente all’ordine del giudice.
Titolo del New York Times
Il giudice Boasberg aveva emesso il sabato un ordine temporaneo per impedire all’amministrazione Trump di utilizzare la legge ‘Alien Enemies Act’ del 1789 per espellere migranti sospettati di appartenere alla gang criminale venezuelana “Tren de Aragua”. Tuttavia, i legali del Dipartimento di Giustizia hanno informato il giudice che due voli erano già in volo verso Honduras ed El Salvador al momento della decisione. Benché Boasberg avesse verbalmente ordinato ai voli di tornare indietro, tale direttiva non era stata inclusa formalmente nell’ordinanza scritta.
Durante
l’udienza, Boasberg ha contestato al Dipartimento di Giustizia, la carenza di
risposte chiare, definendolo un “gioco di potere”. Ha richiesto
dettagli precisi sui voli, inclusi gli orari di partenza e arrivo, il numero di
persone a bordo e le destinazioni finali. La Casa Bianca, tramite una
dichiarazione ufficiale, sostiene che: «TdA (Tren de Aragua) sta
perpetrando, tentando e minacciando un’invasione o incursione predatoria contro
il territorio degli Stati Uniti. TdA sta conducendo azioni ostili e guerre
irregolari contro gli Stati Uniti, direttamente o indirettamente sotto la
direzione, clandestina o meno, del regime di Maduro in Venezuela».
Questa posizione è stata utilizzata
per giustificare le espulsioni sotto l‘Alien Enemies Act, dichiarando i
membri della TdA – pericolosi per la sicurezza nazionale.
Si aggiunga che questi individui sono comunque entrati negli Stati Uniti illegalmente, e che la posizione del giudice Boasberg appare fragile sotto due profili principali:
Ingresso irregolare. Gli individui in questione non hanno seguito le procedure previste per un ingresso regolare nel paese. Se le loro motivazioni fossero state – ad esempio, una richiesta di asilo o immigrazione per motivi economici – avrebbero potuto presentare domanda attraverso i canali ufficiali o nei punti di ingresso autorizzati.
Costi e carico giudiziario. L’amministrazione Trump ha giustificato l’invocazione dell’Alien Enemies Act anche con motivazioni di efficienza: i tribunali dell’immigrazione sono già sovraccarichi, con tempi d’attesa che superano anche i 18 mesi in diversi stati. In attesa del processo, la prassi corrente prevederebbe che i soggetti venissero rilasciati, con l’obbligo di presentarsi all’udienza fissata. Tuttavia, in molti casi si registra l’assenza all’udienza, cosa che rende difficile il rintracciamento e la successiva espulsione.
In questo contesto, la decisione di procedere con l’espulsione immediata – pur comportando dei costi – è considerata dall’amministrazione come la soluzione meno dannosa e più sicura, sia dal punto di vista economico che della sicurezza pubblica, nonostante vengano espresse critiche sulla legittimità e costituzionalità di queste espulsioni; gli esperti legali e gruppi per i diritti civili, sostengono che l’uso di poteri di emergenza in tempi di pace potrebbe violare i diritti costituzionali degli individui coinvolti. Ecco perché prima delle espulsioni, organizzazioni come Tren de Aragua sono state catalogate come terroristiche.
Su un altro fronte, sempre molto divisivo, ci sono stati diversi casi riguardanti professori universitari associati a posizioni pro-Hamas o pro-Palestina, che hanno portato a sospensioni o licenziamenti. Ecco alcuni esempi:
Katherine Franke: Professoressa di diritto alla
Columbia University, è stata sospesa dopo aver criticato studenti ex membri
delle Forze di Difesa Israeliane, accusandoli di danneggiare altri studenti.
L’università ha ritenuto che i suoi commenti violassero le politiche interne.
Maura Finkelstein: Professoressa associata al
Muhlenberg College, è stata licenziata dopo aver condiviso un post del poeta
palestinese Remi Kanazi, percepito come antisionista. Questo ha portato a
lamentele da parte di studenti e docenti aprendo un’indagine federale.
Russell J. Rickford: Professore alla Cornell
University, ha descritto l’attacco di Hamas del 2023 come “esaltante”
durante una manifestazione. Dopo le critiche ricevute, ha chiesto scusa e ha
preso un congedo.
Zareena Grewal: Professoressa alla Yale
University, ha espresso su Twitter sostegno all’attacco di Hamas del 2023,
affermando che i palestinesi hanno “ogni diritto di resistere con la
lotta armata”. Le sue dichiarazioni hanno suscitato polemiche e hanno
dato vita a una petizione per il suo licenziamento che ha raccolto oltre 55.000
firme.
Jodi Dean: Professoressa al Hobart and
William Smith Colleges, è stata sospesa dopo aver scritto un saggio in cui
descriveva l’attacco di Hamas del 2023 come “esaltante”. La
sospensione è stata revocata nel luglio 2024.
Nonostante queste situazioni
coinvolgano professori con posizioni pro-Palestina o pro-Hamas, non tutti sono
stati espulsi. Le conseguenze variano da sospensioni a licenziamenti, a seconda
dei casi specifici e delle politiche delle rispettive istituzioni.
Recentemente,
negli Stati Uniti, sono state espresse preoccupazioni riguardo
all’indottrinamento di studenti americani verso posizioni filo-Hamas e
antisraeliane. Diversi episodi in scuole e università hanno sollevato allarmi
su possibili influenze ideologiche nelle istituzioni educative.
Ma guardando dall’esterno quanto accade ed è accaduto nelle università americane, l’impressione è che invece di proporre agli studenti momenti di dibattito, approfondimento, e comprensione sembra che ci sia piuttosto stato un vero e proprio indottrinamento.
Un indottrinamento?
Un articolo del New York Post ha evidenziato come l’antisemitismo sia aumentato dove sembra che alcuni programmi educativi e insegnanti stiano diffondendo sentimenti antiebraici tra gli studenti.
In Virginia, una docente, figlia di un imam è stata accusata di aver insegnato odio antisraeliano agli studenti. Questo caso ha sollevato preoccupazioni riguardo all’influenza di attori esterni e attivisti nel settore dell’istruzione.
Shai Davidai è professore associato di psicologia alla Columbia University ed è di origine israeliana ed ebreo. In seguito alle manifestazioni pro-Palestina organizzate nel campus dopo il 7 ottobre 2024, Davidai ha espresso pubblicamente forti critiche verso l’università, accusandola di non condannare adeguatamente ciò che lui definisce episodi di odio e antisemitismo. In un’intervista ha detto chiaramente che “l’odio non scompare da solo” e che “l’estremismo va affrontato, altrimenti rimane”. Dopo aver chiesto spiegazioni a un amministratore universitario sul comportamento dell’ateneo, l’università ha deciso di vietargli temporaneamente l’accesso al campus, sostenendo che il suo atteggiamento rappresentasse una forma di molestia. Davidai, invece, ha giudicato questa decisione come una ritorsione per le sue posizioni pubbliche.
Joe Rogan, il noto conduttore di talk show, ha intervistato Tim Kennedy, Forze Speciali, (fra le mille attività nel 2021, ha aperto una scuola ad Austin, in Texas, chiamata Apogee che enfatizza l’apprendimento guidato dagli studenti attraverso discussioni socratiche e progetti basati su esperienze reali, per sintetizzare), e ambedue hanno evidenziato come la radicalizzazione nelle scuole americane possa portare gli studenti a simpatizzare con i terroristi a Gaza, e sottolineando come i professori abbiano l’opportunità di “radicalizzare” i propri studenti attraverso compiti e attività scolastiche.
Un professore associato ha criticato la leadership della Columbia e del Barnard College per aver permesso ad agitatori antisraeliani di causare disordini nei campus. Ha affermato che “abbiamo indottrinato gli studenti e loro non sono il problema. Il problema sono sempre stati i professori che li hanno indottrinati.”
Le autorità:
Leo Terrell, consulente senior dell’assistente procuratore generale per i diritti civili, ha affermato che l’amministrazione Trump non tollererà l’antisemitismo nelle scuole. Ha sottolineato che il Dipartimento di Giustizia utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione per fermare comportamenti antisemiti.
Questi esempi illustrano le crescenti preoccupazioni riguardo all’influenza di ideologie filo-Hamas e antisraeliane nelle istituzioni educative americane.
Guardando la questione da una prospettiva ampia, a volo d’uccello, ciò che emerge è la profonda polarizzazione politica e spaccatura tra due fronti: da un lato, un presidente e un’amministrazione che proseguono nella direzione che ritengono più opportuna per dare forma a un paese ‘in ordine’, rispettato e apprezzato per quello che può dare, in una convivenza pacifica generale, fra ebrei, musulmani o appartenenti a qualsiasi altra fede – “In God We Trust”; dall’altro lato, un’opposizione che sta reagendo talvolta con violenza e caos per imporre le proprie visioni e le proprie ragioni (vedi le proteste presso gli atenei che non hanno creato né occasioni di dialogo né momenti di apprendimento, o gli sfregi alla Tesla).
In questo senso, poiché le elezioni dopotutto hanno decretato la vittoria di Trump, restano emblematiche le parole dello storico e filosofo Karl Popper: «La democrazia consiste proprio in questo: che non soltanto le opinioni della maggioranza, ma anche quelle delle minoranze siano rispettate. Purché le minoranze, da parte loro, non abusino della democrazia per distruggerla.»
La Cina traccia la sua rotta, USA ed Europa cercano la via
di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti, giornalista esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato.
Mentre l’attenzione internazionale è concentrata sulle scelte strategiche dell’Europa, indecisa tra riarmo e diplomazia, sulle conclusioni del meeting di Jeddah o sull’ennesima dichiarazione provocatoria di Donald Trump che monopolizza titoli e conferenze stampa, in Cina il Congresso Nazionale del Popolo approva silenziosamente il piano del governo, definendo così priorità economiche e obiettivi politici per il prossimo anno.
La Cina oggi
è la seconda economia al mondo ed è l’unica potenza che possa controbilanciare
il terremoto trumpiano. Purtroppo per chiunque voglia scrivere di Cina e capire
come funziona e cosa succede dietro le quinte, è assai complicato, quasi come
risolvere un crimine senza supporto tecnologico contemporaneo. Niente DNA!
Essendo un sistemo politico centralizzato e opaco nelle sue espressioni, leggendo il discorso di Xi Jinping prima e seguendo la conferenza stampa del Ministro Affari Esteri Wang Yi, possiamo quasi tracciare una linea che si andrà per forza a intersecare con gli Stati Uniti in termini favorevoli. Carta canta, e le finanze dello Stato, hanno ancora il predominio nelle scelte politiche.
Partiamo dal Presidente, che nel suo discorso ha enfatizzato la necessità di continuare a “modernizzare in stile cinese” il paese, come punto focale per il rilancio della Cina, e così promuovendo una sperata crescita economica intorno al 5% (la banca svizzera UBS ha dichiarato che invece sarà forse il 4%). “Questa crescita darà stabilità sociale e rinascita culturale, non tanto come sviluppo economico, ma piuttosto come un processo che integri equità sociale e sostenibilità ambientale” – differenziando quindi il percorso cinese dai modelli occidentali. Tuttavia, secondo l’Istituto Chatham House, la Cina affronta ostacoli significativi, dovuti a una crescita economica rallentata, una sfida demografica non indifferente, ossia l’invecchiamento della popolazione accoppiato a un record negativo di nascite oltre a una riduzione non indifferente della forza lavoro. “La triplice pressione della domanda in calo, dello shock dell’offerta e dell’indebolimento delle aspettative, insieme a numerosi rischi e pericoli nascosti che influenzano la stabilità sociale, (…) specialmente riguardo alla costruzione di uno stile di partito pulito e onesto e alla lotta alla corruzione, che continuano a presentare problemi ostinati e frequenti, (qui invece fa riferimento al grave problema di corruzione ai livelli più alti dell’esercito, nda); (…). Rafforzare la guida dell’opinione pubblica, creando un orientamento corretto che valorizzi il lavoro come fonte di ricchezza, l’impegno come base per ottenere risultati e la lotta costruttiva come via per raggiungere la felicità. Contrastare efficacemente idee malsane quali la svalutazione del lavoro, l’arricchirsi senza fatica, il godere passivamente dei risultati altrui e l’atteggiamento passivo di rinuncia e immobilismo, (qui si riferisce al grave problema posto dalla generazione Gen Z, peraltro non dissimile da quello che gli USA stanno vivendo, ossia l’incapacità di inserirsi nel mondo lavorativo di oggi, causato da una non volontà di adeguarsi alla realtà, nda); (…) Stimolare pienamente, così, la vitalità creativa dell’intera società.”
La conferenza stampa di Wang Yi è stata più illuminante, perché più diretta. Il ministro ha risposto in modo esaustivo a diverse domande, ne abbiamo estrapolate tre, che ci riguardano da vicino: la prima riguarda il rapporto della Cina con la Russia segue poi la visione cinese della diplomazia e infine come vedono “America First”.
«Ogni anno mi vengono poste domande
sulle relazioni Cina-Russia, sebbene ogni volta da prospettive diverse. Ciò che
voglio sottolineare è che, indipendentemente da come evolva il panorama
internazionale, la logica storica dell’amicizia tra Cina e Russia non cambierà,
e la sua forza trainante interna non diminuirà. Basandosi su profonde
riflessioni ed esperienze storiche, Cina e Russia hanno deciso di forgiare una
duratura amicizia di buon vicinato, condurre un coordinamento strategico
completo e perseguire una cooperazione reciprocamente vantaggiosa in cui tutti
vincono, poiché questo serve al meglio gli interessi fondamentali dei due
popoli e corrisponde alla tendenza dei nostri tempi. I due paesi hanno
individuato un percorso di non alleanza, non conflitto e non ostilità verso
alcuna terza parte nello sviluppo delle loro relazioni. È uno sforzo
pionieristico nel creare un nuovo modello di relazioni tra grandi potenze e
costituisce un ottimo esempio per i rapporti tra paesi vicini. Una relazione
Cina-Russia matura, resiliente e stabile non sarà influenzata da alcun
cambiamento degli eventi, e men che meno soggetta a interferenze da parte di
terzi; essa rappresenta una costante in un mondo turbolento, non una variabile
nei giochi geopolitici.
Lo scorso anno ha segnato il 75° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Cina e Russia. Il presidente Xi Jinping e il presidente Vladimir Putin si sono incontrati faccia a faccia per tre volte, guidando congiuntamente il partenariato strategico globale Cina-Russia per il coordinamento nella nuova era verso una nuova fase storica. Quest’anno ricorrerà l’80° anniversario della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. All’epoca, Cina e Russia combatterono coraggiosamente rispettivamente nei principali teatri di guerra dell’Asia e dell’Europa. Entrambe le nazioni compirono enormi sacrifici e diedero contributi storici decisivi per la vittoria nella Guerra mondiale antifascista. Le due parti coglieranno l’occasione di questa commemorazione congiunta per promuovere una corretta interpretazione storica della Seconda guerra mondiale, difendere i risultati raggiunti, sostenere il sistema internazionale centrato sulle Nazioni Unite e promuovere un ordine internazionale più giusto ed equo.
Immagine creata con AI
Rispondendo a una domanda sul ruolo diplomatico della Cina:
Yj: “Viviamo in un mondo in continuo
cambiamento e turbolento, dove la certezza sta diventando una risorsa scarsa.
Le scelte dei paesi, in particolare delle grandi potenze, determineranno la
traiettoria dei nostri tempi e daranno forma al futuro del mondo. La diplomazia
cinese sarà sempre dalla parte giusta della storia e dalla parte del progresso
umano. La Cina fornirà certezza a questo mondo incerto e sarà una forza
determinata a difendere i suoi interessi nazionali. Il popolo cinese ha una
gloriosa tradizione di rinnovamento continuo, non provocheremo mai, né ci
lasceremo intimidire dalle provocazioni. Continueremo ad ampliare i nostri
partenariati globali basati sull’uguaglianza, sull’apertura e sulla
cooperazione, affrontando attivamente i problemi globali con un approccio
cinese e scrivendo un nuovo capitolo per il Sud globale nella sua ricerca di
unità e forza.
Dimostreremo con i fatti che la strada dello sviluppo pacifico è luminosa e garantisce un progresso stabile e sostenibile; tale strada dovrebbe essere scelta da tutti i paesi. Saremo una forza progressista per l’equità e la giustizia internazionali, difendendo il vero multilateralismo, avendo ben presente il futuro dell’umanità e il benessere dei popoli, promuovendo una governance globale basata su consultazioni estese, contributi congiunti e benefici condivisi. Rispetteremo gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite e costruiremo un consenso più ampio per un ordine mondiale multipolare, equo e ordinato. La Cina sarà una forza costruttiva per lo sviluppo comune del mondo, continuando ad ampliare l’apertura di alto livello e condividendo con tutti i paesi le vaste opportunità della modernizzazione cinese, tutelando il sistema multilaterale di libero commercio, promuovendo una cooperazione internazionale aperta, inclusiva e non discriminatoria e favorendo una globalizzazione economica inclusiva e vantaggiosa per tutti.
Alla domanda invece riguardo alla politica statunitense di Trump “America First”, Wang Ji ha risposto: “Il presidente Trump ha adottato una politica basata sul principio “America First” dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, a meno di due mesi dall’inizio del suo mandato. Ha parlato di ritirarsi da organizzazioni e trattati internazionali, di sospendere gli aiuti (USAID) degli Stati Uniti a paesi esteri e ha minacciato alleati tradizionali. Pensate che ciò sia vantaggioso per lo sviluppo della Cina? Queste scelte rappresentano un’opportunità strategica per la Cina per assumere un ruolo più rilevante negli affari internazionali e rimodellare lo scenario globale? – (si chiede lui ad alta voce) – Questa è una domanda molto pungente, ma sono pronto a condividere il mio punto di vista. Ci sono oltre 190 paesi nel mondo. Se tutti ponessero il proprio paese al primo posto e fossero ossessionati dalla ricerca di una posizione di forza, il mondo tornerebbe sotto il dominio della legge della giungla. I paesi più piccoli e più deboli ne soffrirebbero per primi, e le norme e l’ordine internazionale subirebbero un duro colpo. Alla conferenza di Parigi oltre cento anni fa, i cinesi posero una domanda che rimbomba nei secoli: è il giusto a prevalere sulla forza, o è la forza a determinare ciò che è giusto?
La Nuova Cina rimane fermamente
dalla parte della giustizia internazionale e si oppone risolutamente alla
politica della forza e all’egemonia. La storia della Germania dovrebbe andare
avanti, non indietro. Una grande nazione deve onorare i propri obblighi
internazionali e adempiere alle proprie responsabilità, senza mettere gli
interessi egoistici prima dei principi, e ancor meno usare il proprio potere
per intimidire i più deboli. In Occidente si dice che “non esistono amici
eterni, ma solo interessi permanenti”. Tuttavia, in Cina crediamo che gli
amici debbano essere permanenti e che dobbiamo perseguire interessi comuni.
Con una profonda comprensione delle
tendenze storiche della nostra epoca, il presidente Xi Jinping ha proposto la
costruzione di una comunità dal futuro condiviso per l’umanità, invitando tutti
i paesi a superare divergenze e differenze, proteggere insieme il nostro unico
pianeta e sviluppare insieme il villaggio globale come nostra casa comune.
Questa grande visione riflette non solo la nobile tradizione della civiltà
cinese secondo cui il mondo appartiene a tutti, ma anche l’impegno
internazionalista dei comunisti cinesi. Ci permette di considerare il benessere
dell’intera umanità, proprio come avere una visione d’insieme delle montagne
che sembrano piccole quando siamo in cima a una vetta, come descritto in un
antico poema cinese.
Siamo lieti di vedere che sempre più paesi si sono uniti alla causa della costruzione di una comunità dal futuro condiviso per l’umanità. Oltre 100 paesi sostengono le iniziative globali di sviluppo, sicurezza e civiltà proposte dalla Cina, e più di tre quarti dei paesi nel mondo hanno aderito alla famiglia della cooperazione “Belt and Road”. La storia dimostrerà che il vero vincitore è colui che tiene conto degli interessi di tutti, e che una comunità con un futuro condiviso per l’umanità garantirà che il mondo appartenga a tutti e che ognuno possa avere un futuro luminoso.”
Conclusioni:
La Cina emerge chiaramente come un interlocutore strategico inevitabile, capace di influenzare profondamente gli equilibri globali, specialmente in un momento in cui le scelte statunitensi sembrano orientarsi verso un ritorno all’isolazionismo. L’Europa, mentre cerca di definire una propria identità e autonomia strategica, non può permettersi di sottovalutare la complessità della realtà cinese, che unisce ambiziosi obiettivi economici distanti dalle tradizioni europee di qualità e bellezza. La visione cinese di uno sviluppo “in stile cinese”, orientato all’equità sociale e (forse) alla sostenibilità ambientale, (non dimentichiamo le 100 città cinesi vuote), rappresenta sempre un interlocutore interessante e danaroso anche se un concorrente nella definizione di modelli economici e sociali assai lontani. La Cina, nonostante gli ambiziosi piani di crescita e modernizzazione, deve confrontarsi con ostacoli significativi come il rallentamento economico, l’invecchiamento della popolazione, la diminuzione della forza lavoro e il difficile equilibrio tra controllo statale e dinamiche di mercato. Gli Stati Uniti, d’altra parte, si trovano di fronte a sfide interne di diversa natura, tra cui un elevato indebitamento pubblico, un’inflazione con rischio di recessione e l’incertezza sulla riuscita e sostenibilità del nuovo modello economico.
Per l’Europa, questo scenario
rappresenta un’occasione per rafforzare la propria autonomia strategica,
evitando di dipendere troppo da queste due superpotenze. Dunque, la sfida è
duplice: collaborare con la Cina per affrontare sfide comuni di ordine globale,
mantenendo però ferme le proprie posizioni su valori e diritti umani, e al
contempo evitare che il vuoto strategico lasciato da un’America più
isolazionista venga colmato unilateralmente da una Cina determinata ad
affermare il suo modello. In sintesi, per l’Europa è fondamentale costruire una
strategia coerente, capace di dialogare con Pechino senza rinunciare alle
proprie prerogative politiche, economiche e culturali.
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