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Elezioni USA. La campagna elettorale: solo una questione di soldi?

di Melissa de Teffè

Solo una questione di soldi?

Come disse saggiamente Warren Buffett: “se vuoi sapere la verità, segui la scia dei soldi”, e anche in questa corsa presidenziale, i soldi parlano. Per Trump, abbiamo visto che, dopo il supporto di Elon Musk con la promessa di donare 45 milioni di dollari al mese, di Stephen Schwarzman, CEO di Blackstone, e di Jamie Dimon, CEO di JP Morgan, si è aggiunto anche quello recente di Nicole Shanahan, (ex moglie del co-fondatore di Google, Sergey Brin, e sostenitrice più ricca di RFK Jr. – Robert Kennedy Jr., figlio di Bobby, settimo figlio della famiglia Kennedy e Procuratore Generale durante la breve presidenza del fratello John, anch’egli assassinato a Los Angeles), dopo che Kennedy Jr. ha deciso di ritirarsi dalla corsa per supportare Trump.

Infatti, è di questi giorni la notizia che RFK Jr., dopo aver trovato, sin dall’inizio della campagna elettorale, la porta chiusa dei democratici (infatti il DNC, l’organismo che gestisce il Partito Democratico, aveva rifiutato di inserire RFK Jr. nella lista dei candidati – non ne sappiamo il motivo – costringendolo a correre come indipendente), ha deciso di unirsi alla campagna di Trump, scoprendo di avere molte più sinergie con il suo programma rispetto a quello del ticket Harris-Walz.

Trump, quindi, vedrà aumentare il suo già ricco bottino di finanziamenti.

Ma torniamo alla scia dei soldi. Perché è stata nominata la Harris e nessun altro? Il motivo principale risiede nel regolamento che governa il Partito Democratico, che stabilisce chi prende cosa, come e quando.

Perché Kamala Harris è divenuta quasi automaticamente la candidata democratica? Inizialmente, Biden, nonostante la sua malattia degenerativa, si ricandida e inizia a ricevere il supporto finanziario dai “donors” per sostenere le spese della campagna elettorale, ma dopo il disastroso confronto televisivo con Trump, Biden appare, di fronte alle telecamere di tutto il mondo, inadatto. È quindi imperativo trovare un sostituto. Qui apro una parentesi sul passato della Harris.

Quando Biden decise di nominare la Harris come Vicepresidente, non fece altro che seguire la tradizione americana di scegliere qualcuno che non creasse problemi e che eseguisse quei compiti che il Presidente considerava secondari, ma comunque necessari. Harris non ha mai raccolto molto sostegno durante la sua corsa presidenziale nel 2020 e, durante questi tre anni, è stata lasciata nell’ombra a causa della sua incapacità di parlare a braccio e di sviluppare una qualsiasi oratoria politica.

Nella storia americana recente, il paragone perfetto è il Vicepresidente Quayle, secondo a Bush Sr., senatore dell’Indiana, di bell’aspetto, che divenne la barzelletta nazionale durante l’unico dibattito tra Vicepresidenti, dal quale non riuscì mai più a risollevarsi. Questa è la vicenda: nonostante i suoi consiglieri gli avessero fermamente suggerito di non paragonarsi a John F. Kennedy per giustificare la sua giovane età, e dove Kennedy, alla stessa età, era già un eroe di guerra, aveva vinto un Premio Pulitzer e godeva di una reputazione nazionale incredibile quando si candidò alla presidenza, il 5 ottobre 1988, quando il moderatore Tom Brokaw chiese se fosse qualificato per essere vicepresidente, Quayle rispose: “Ho tanta esperienza quanta ne aveva Jack Kennedy quando si candidò alla presidenza.” Bentsen, astuto politico texano di lunga data e controparte democratica, senza esitazione rispose: “Senatore, io ho servito con Jack Kennedy. Conoscevo Jack Kennedy. Jack Kennedy era un mio amico. Senatore, lei non è Jack Kennedy.” (qui il breve video)

L’espressione mortificata di Quayle è rimasta impressa nel tempo, al punto che questo dibattito è un capitolo di uno dei libri guida delle “cose da non dire e da non fare in politica”: The Art of the Political Putdown*.

Se da un lato mantenere la manovrabilità di Biden, a causa della sua malattia, rende la scelta della Harris perfetta, dall’altro ci sono le regole gestionali delle finanze della campagna. Mi spiego: dal momento in cui Biden si ritira alla selezione della Harris trascorrono due settimane in cui i dirigenti di partito decidono come procedere. I fondi accumulati fino ai primi giorni di agosto sono all’incirca 240 milioni di dollari, che però appartengono al ticket Biden-Harris. Può Harris avvalersi di questi soldi? Può un altro candidato usarli in caso di nomina? Di candidati più che autorevoli e papabili ce ne sono, come i governatori Shapiro o Pritzker. Gli esperti di finanza elettorale affermano che Harris può accedere a parte di quel denaro senza troppi ostacoli, ma nessun altro candidato. Infatti, se fosse consacrato qualcun altro, con molta probabilità, il denaro dovrebbe essere restituito ai singoli donatori. Ecco perché la scelta ricade sulla Harris che, essendo la candidata iniziale, può usufruire di 91 milioni di dollari dei 240 raccolti per la rielezione, afferma Kenneth Gross, un consulente senior di diritto politico ed ex Consigliere Generale Associato della Commissione Elettorale Federale, dell’Associated Press. Anche un altro guru del campo, Saurav Ghosh, avvocato del Campaign Legal Center, ci dice che Harris ha diritto a usare i fondi per la sua campagna se rimane nel ticket come compagna di un altro candidato. Sappiamo già com’è andata, e quindi il DNC ha messo a disposizione il tesoretto.

Torniamo quindi a oggi. La decisione di Kennedy di attraversare il Rubicone democratico, causando peraltro una tempesta familiare non indifferente, porta con sé non solo soldi ma anche quel 5% di voti che, in una gara ravvicinata, può significare tutto. Secondo indiscrezioni da parte di un consulente di Trump, sappiamo che a Kennedy è stato promesso, in caso di vittoria, o la sedia di Attorney General (Procuratore Generale, come suo padre) o la sedia di Burns, capo della CIA. Ovviamente, la notizia che si crede abbia fatto rivoltare in tomba i già non più Kennedy, è una bomba, ma per il direttivo democratico è atomica, perché darebbe a RFK jr, la possibilità di cercare, sperando di trovare, i motivi dei due assassinii forse i più famosi al mondo.

Per ovviare a questa e ad altre chance di vittoria, i democratici hanno deciso di lasciare il nome Kennedy nelle schede elettorali, soprattutto in quelle degli Stati chiave, o swing States, che potrebbero portare probabilmente la vittoria al campo avverso, quali il Michigan, Wisconsin e il Colorado, con l’idea di causare confusione e disperdere voti.
I colpi di scena non mancano e ieri, per intrecciare maggiormente questa fitta trama elettorale, Zuckerberg ha scritto una lettera aperta al Dipartimento di Giustizia, in un atto quasi di contrizione cattolica, un mea culpa per aver ceduto alle pressioni sia dell’amministrazione Biden-Harris prima, sia dell’FBI dopo, per cancellare dalle sue piattaforme informazioni o messaggi che ledevano l’immagine politica presidenziale (vedasi il caso Hunter Biden e i legami con società ucraine che hanno beneficiato finanziariamente la famiglia) o le scelte di Fauci sulle vaccinazioni, incluse satire e gag. Zuckerberg conclude informando che queste richieste non verranno più né ascoltate né soddisfatte, indipendentemente da chi le faccia, e che da questa campagna in poi non ci saranno più contributi finanziari viste le polemiche nate dai contributi bipartisan di quattro anni fa. Insomma, i colpi di scena sono tanti, quasi una telenovela in diretta. Aspettiamo senza ansia la prossima puntata, augurandoci dimostrazioni più alte che basse.


Chi è l’ultra radicale Yahya Sinwar, nuovo capo di Hamas: archiviato l’impossibile negoziato?

di Claudio Bertolotti

Estratto dal volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.

Hamas è organizzata in una serie di organi direttivi che gestiscono diverse funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità principale, che si occupa dell’agenda politica e strategica del movimento, è rappresentata dal consiglio della shura di Hamas, il vertice della leadership organizzativa, che opera in esilio. Tuttavia, le attività quotidiane del gruppo sono gestite dal bureau politico, mentre le operazioni militari sono sotto la responsabilità delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio militare del gruppo, che gode di un’ampia autonomia operativa. I comitati locali gestiscono le questioni di base nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Se fino ad oggi Hamas è stato caratterizzato da una dualità che ha visto contrapporsi l’anima politica esterna alla Striscia di Gaza a quella politico-militare a Gaza in un rapporto di sempre più accesa competizione, la nomina di Yahya Sinwar alla guida del movimento potrebbe aver di fatto archiviato l’opzione di un gruppo pragmatico – al netto delle posizioni radicali e violente – per lasciar posto in via esclusiva all’anima movimentista radicale, razionalmente violenta di orientamento jihadista votata alla causa massimalista: la distruzione di Israele, come premessa a qualunque opzione politica.

Chi è il nuovo capo di Hamas?

Fino al momento della sua morte, Ismail Haniyeh ha ricoperto il ruolo di capo politico mentre Yahya Sinwar ha gestito le questioni ordinarie a Gaza.

Conosciuto anche come Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, dal 2017 è il capo di Hamas nella Striscia di Gaza e uno dei primi architetti del braccio armato di Hamas: è sospettato di essere una delle menti dietro gli attacchi del 7 ottobre 2023.[1]

Nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Younis, Striscia di Gaza, da genitori sfollati da Ashkelon durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo aver frequentato le scuole primarie grazie al sostegno dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa), all’inizio degli anni Ottanta si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove lo studio della lingua araba contribuì a plasmare la sua carismatica autopresentazione. Entrò all’università in un momento in cui molti giovani palestinesi della Striscia di Gaza guardavano all’islamismo come strumento di soluzione al conflitto israelo-palestinese, dopo decenni di panarabismo rivelatosi fallimentare. Nel 1982 fu arrestato per la sua partecipazione alle prime organizzazioni islamiste anti-israeliane.

Nel 1985, ancor prima della formazione di Hamas, Sinwar contribuì all’organizzazione di “al-Majd” (in arabo “gloria”, ma anche acronimo di Munazzamat al-Jihad wa al-Da’wah, “Organizzazione per il jihad e da’wah”). Al-Majd era una rete di giovani islamisti con il compito di smascherare il crescente numero di informatori palestinesi reclutati da Israele. Quando Hamas venne fondata nel 1987, al-Majd fu inglobata nei suoi quadri di sicurezza. Nel 1988 si scoprì che la rete era in possesso di armi e Sinwar fu detenuto da Israele per diverse settimane. L’anno successivo venne condannato a quattro ergastoli per l’omicidio di palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele.

Durante la sua lunga incarcerazione, Sinwar mantenne una forte influenza sui suoi compagni di prigionia, usando tattiche di abuso e manipolazione e godendo del supporto dei suoi contatti al di fuori del carcere. Si impegnò a punire i compagni di prigionia che sospettava di essere informatori e una volta costrinse circa 1.600 prigionieri a intraprendere uno sciopero della fame. Trascorse anche gran parte del suo tempo libero studiando ciò che poteva sui suoi nemici israeliani, leggendo giornali israeliani e imparando l’ebraico.

Il rilascio di Sinwar avvenne nell’ambito dello scambio di prigionieri di alto profilo con Gilad Shalit, il soldato israeliano che era stato rapito da Hamas nel 2006 mentre era di stanza a un valico di frontiera. Dopo diversi tentativi falliti di mediare la libertà di Shalit, l’Egitto e la Germania si prodigarono per il suo rilascio nell’ottobre 2011. Il fratello di Sinwar, Mohammed, che era stato assegnato a sorvegliare Shalit, insistette affinché Sinwar fosse incluso nello scambio. Lo stesso giorno in cui Shalit venne rilasciato in Israele, Sinwar fu tra i primi prigionieri palestinesi a essere rimpatriati nella Striscia di Gaza.

Nell’aprile 2012, pochi mesi dopo il suo rilascio, Sinwar fu eletto membro dell’ufficio politico di Hamas nella Striscia di Gaza. Mise a frutto la sua esperienza come leader carcerario e si guadagnò velocemente un’ottima reputazione all’interno di Hamas per aver riunito le sue fazioni attraverso un compromesso. La retorica infuocata di Sinwar conquistò da subito gli elementi più oltranzisti del movimento; in tale cornice dinamica, pur prospettando l’avvio di un’era guidata dall’ala militante, nei suoi primi anni da leader Sinwar tenne un basso profilo e mostrò un lato pragmatico che gli consentì di alleggerire lo stato di isolamento di Hamas. Mesi dopo la sua ascesa come leader del movimento, Hamas strinse un accordo di riconciliazione con l’Anp e, per la prima volta dal 2007, cedette il controllo di gran parte della Striscia di Gaza all’Autorità Palestinese, seppur per un breve periodo. Anche le relazioni con l’Egitto tesero a migliorare, tanto da portare Il Cairo ad allentare le restrizioni al valico di frontiera.

Al contempo, a conferma di una visione estremamente razionale e pragmatica, il gruppo avviò una politica di dialogo e avvicinamento all’Iran che portò in breve al reinserimento di Hamas nella rete di alleati di Teheran e al conseguente sostegno militare e finanziario.

Sebbene alla fine del 2018, con l’avvio degli “Accordi di Abramo” sostenuti dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, si prospettasse un periodo di calma frutto del possibile processo di reciproco riconoscimento tra Israele e uno stato palestinese, nel maggio 2021 ci fu un ritorno all’ostilità aperta di Hamas nei confronti di Gerusalemme. La popolarità di Sinwar aumentò con il conflitto, e la sua autorevolezza si rafforzò in maniera significativa.

L’operazione battezzata “alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, mostra i segni distintivi delle tattiche di Sinwar, e la presa di ostaggi rimanda all’importanza da lui data agli scambi di prigionieri. Sinwar, le cui immagini diffuse dalle Idf a febbraio 2024 confermano che si sia nascosto nella rete dei tunnel sotterranei di Gaza utilizzando la propria famiglia come “scudo umano”, è stato classificato come obiettivo primario di Israele e definito, secondo un portavoce militare israeliano, come “un morto che cammina”.


[1] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.


Ucciso Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas. Chi sarà il suo sostituto?

di Claudio Bertolotti

Estratto dal volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.

La struttura politica di Hamas

Hamas è strutturata su una serie di organi direttivi che svolgono varie funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità in capo, responsabile dell’agenda politica e strategica del movimento, appartiene al consiglio della shura di Hamas, l’organo di leadership al vertice della catena organizzativa di comando,[1] che opera in esilio.  Tuttavia, le operazioni quotidiane del gruppo rientrano nell’ambito del bureau politico, così come le operazioni militari fanno capo più specificamente al braccio militare del gruppo, le brigate Izz ad-Din al-Qassam, organo che gode di un alto grado di autonomia operativa.[2] I comitati locali gestiscono le questioni di base a Gaza e in Cisgiordania.

Quali sono i leader più importanti di Hamas a cui Israele dà la caccia? Tre i soggetti chiave del movimento: Khaled Meshaal, ex capo politico del movimento e ora capo ufficio politico estero, Yahya Sinwar, capo dell’ala militare di Hamas e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico del gruppo a Gaza, ucciso da Israele il 30 luglio 2024 in Iran, nella sua residenza di Teheran, a seguito di un probabile raid aereo con droni.

Storia, pregresso e ruolo politico di Ismail Haniyeh

Ismail Haniyeh[3], conosciuto anche come Isma’il Haniyyah e Ismail Haniya, assurse al ruolo di primo ministro dell’Anp in seguito alla vittoria elettorale di Hamas del 2006; dopo i violenti scontri tra fazioni con la rivale Fatah, che portarono alla dissoluzione del governo e all’istituzione di un’amministrazione autonoma guidata da Hamas nella Striscia di Gaza, Haniyeh assunse il ruolo di leader del governo de facto nella Striscia (2007-14) e, nel 2017, fu scelto per sostituire Khaled Meshaal come capo dell’ufficio politico.

Figlio di genitori arabi palestinesi sfollati dal loro villaggio vicino ad Ashqelon (in quello che oggi è Israele) nel 1948, Haniyeh nacque nel 1962 nel campo profughi di Al-Shati’, Striscia di Gaza, dove trascorse i primi anni della sua vita. Come per la maggior parte dei minori rifugiati, Haniyeh fu educato nelle scuole gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa). Nel 1981 si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove studiò letteratura araba e iniziò l’attivismo politico studentesco, guidando un’associazione islamista affiliata ai Fratelli Musulmani. Quando Hamas si formò, nel 1988 Haniyeh era tra i suoi membri fondatori più giovani, avendo sviluppato stretti legami con il leader spirituale del gruppo, lo sceicco Ahmed Yassin. Haniyeh fu arrestato dalle autorità israeliane nel 1988 e imprigionato per sei mesi per la sua partecipazione alla Prima intifada. Arrestato di nuovo nel 1989, rimase in prigione fino a quando Israele lo deportò nel sud del Libano nel 1992 insieme a circa quattrocento altri islamisti. Tornò poi a Gaza nel 1993, in seguito agli accordi di Oslo, e fu nominato decano dell’Università islamica.

Il ruolo di leadership di Haniyeh in Hamas si radicò nel 1997, quando fu nominato segretario personale di Yassin, divenendone uno stretto confidente. I due furono bersaglio di un primo fallito tentativo di assassinio da parte di Israele nel 2003; una seconda operazione mirata israeliana portò alla morte di Yassin pochi mesi dopo. Nel 2006 Hamas partecipò alle elezioni legislative palestinesi, con Haniyeh in testa alla lista. Il gruppo ottenne la maggioranza dei seggi in parlamento e Haniyeh divenne primo ministro dell’Anp. La comunità internazionale reagì alla leadership di Hamas congelando gli aiuti all’Autorità Palestinese, con ciò mettendo a dura prova l’organo di governo. Nel giugno 2007, dopo mesi di tensione e un violento conflitto armato tra le fazioni, il presidente Mahmoud Abbas del partito Fatah destituì Haniyeh e ne sciolse il governo. La conseguenza fu l’istituzione di un governo autonomo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza, con Haniyeh a capo della compagine governativa. Poco dopo, Israele attuò un pacchetto di sanzioni e restrizioni alla Striscia di Gaza, con il supporto e la collaborazione dell’Egitto.

Nel gennaio 2008 un attacco con decine di razzi venne lanciato dalla Striscia di Gaza verso Israele; come pronta risposta Israele intensificò il suo blocco. Ciononostante, Hamas mantenne il controllo della Striscia di Gaza e il suo governo oscillò tra occasionali successi politici e battute d’arresto. Per quanto riguarda l’ottenimento di concessioni da Israele, Hamas ottenne il rilascio di oltre mille prigionieri palestinesi detenuti da Israele in cambio del soldato israeliano rapito Gilad Shalit. Un altro successo presentato all’opinione pubblica palestinese fu la performance di Hamas nella guerra contro Israele nell’estate del 2014 sebbene, a causa del blocco, le condizioni di vita all’interno della Striscia stessero progressivamente peggiorando. Nel frattempo, ci furono una serie di tentativi di riconciliazione tra Hamas nella Striscia di Gaza e l’Autorità Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania. In uno di questi tentativi, nel 2014, il governo di Hamas si dimise formalmente per far posto a un governo di unità nazionale con Fatah. Così facendo, Haniyeh rinunciò al suo incarico di primo ministro pur mantenendo quello di capo politico locale, fino a quando non venne sostituito da Yahya Sinwar nel 2017. Dopo pochi mesi, Haniyeh venne eletto capo dell’ufficio politico di Hamas, in sostituzione di Khaled Meshaal.

Nel dicembre 2019 Haniyeh lasciò la Striscia di Gaza, trasferendosi all’estero, tra Turchia e Qatar, facilitando la sua capacità di rappresentare Hamas all’estero. Tra le sue visite più importanti si citano il funerale di Qassem Soleimani, un alto comandante del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche iraniane (Irgc) ucciso da un attacco di droni statunitensi nel gennaio 2020, l’insediamento del presidente iraniano Ebrahim Raisi nell’agosto 2021 e il suo funerale il 23 maggio 2024. Nello stesso anno, mentre le truppe statunitensi si ritiravano dall’Afghanistan, Haniyeh chiamò il capo dell’ufficio politico e negoziatore dei talebani, Abdul Ghani Baradar, per congratularsi con lui per il successo nell’aver posto termine all’occupazione statunitense nel Paese. Nell’ottobre 2022 Haniyeh incontrò il presidente siriano Bashar al-Assad; quello fu il primo incontro tra i leader di Hamas e della Siria dalla rottura all’inizio della guerra civile nel 2011. In un raid israeliano a Gaza, il 10 aprile 2024, morirono tre dei suoi figli; un altro era morto in un precedente attacco israeliano il 17 ottobre 2023.

Mahmoud Zahar: il possibile sostituto di Ismail Haniyeh

La decisione di nominare il nuovo capo politico di Hamas spetta al consiglio della shura del movimento. Molto dipenderà dai nuovi equilibri politici determinati dal peso della rinforzata leadership militare che guida le brigate di HamasIzz ad-Din al-Qassam nella Striscia di Gaza.

Mahmoud Zahar è considerato uno dei leader più importanti di Hamas e membro della leadership politica del movimento: è uno dei principali candidati a sostituire Ismail Haniyeh. Frequentò la scuola a Gaza e l’università al Cairo, per poi lavorare come medico a Gaza e Khan Younis, fino a quando le autorità israeliane lo licenziarono in relazione al suo ruolo politico. Detenuto nelle carceri israeliane nel 1988, nel 1992 fu tra i deportati da Israele nella terra di nessuno, in Libano, dove vi trascorse un anno. Con la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, Zahar entrò a far parte del Ministero degli Affari Esteri nel nuovo governo del primo ministro Ismail Haniyeh.[4] Israele tentò di eliminarlo nel 2003, quando un aereo bombardò la sua casa nella città di Gaza. Sopravvisse all’attacco, nel quale però morì il figlio maggiore, Khaled. Il suo secondo figlio, Hossam, che era un membro delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, venne ucciso in un successivo attacco aereo a Gaza nel 2008.

Per la lettura completa dell’analisi, vai al volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.


[1] Berti B. (2013), Armed Political Organizations: From Conflict to Integration, Johns Hopkins University Press.

[2] Hroub K. (2010), Hamas: A Beginner’s Guide, London: Pluto Press.

[3] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, pp. 40-44.

[4] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, p. 40-44.


Gaza underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas (dal libro di C. Bertolotti)

di Claudio Bertolotti

Articolo tratto dal libro: C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight Lugano (Link)

Abstract (Italian)

L’uso dei tunnel nelle guerre non è nuovo. La ricerca di vantaggi attraverso l’utilizzo di spazi naturali o artificiali nel sottosuolo è antica quanto la guerra stessa: dalle storie di tunnel utilizzati per vincere enormi battaglie nella Bibbia, alla guerra “di caverna” della Grande Guerra, agli spazi sotterranei che diventano fattori chiave per le battaglie urbane contemporanee, come Mariupol e Bakhmut nella guerra in Ucraina. Le nazioni moderne, tra cui gli Stati Uniti, la Cina e la Corea del Nord, investono miliardi in bunker militari e complessi di tunnel sepolti in profondità. E, infatti, si valuta che la Cina abbia tremila miglia di tunnel e bunker in grado di resistere agli attacchi nucleari in una rete che è stata chiamata la “Grande Muraglia sotterranea”; alcune stime confermano che la Corea del Nord avrebbe oltre cinquemila tunnel e infrastrutture che includono più basi aeree sotterranee con piste, siti radar e porti sottomarini all’interno delle montagne costiere. Ma ciò che Israele ha affrontato a Gaza rappresenta una novità unica nella guerra, vale a dire, un caso in cui i tunnel costituiscono uno dei due pilastri, insieme al tempo, della strategia politico-militare di un combattente. Un complesso che per vastità, struttura, complessità e “potere impeditivo intrinseco” rappresenta un qualcosa che un esercito moderno non ha mai affrontato nella storia

Keywords: Israele, Hamas.

La svolta urbana negli affari militari e strategici


Le città rappresentano il contesto più impegnativo per le forze militari, e la guerra urbana è la forma di conflitto più devastante. Tuttavia, le forze armate spesso si trovano impreparate ad affrontare le sfide poste dai teatri di battaglia con alta densità di popolazione e finiscono inevitabilmente coinvolte in scontri urbani estremamente brutali. Nel libro Understanding Urban Warfare, gli autori Liam Collins e John Spencer analizzano la guerra urbana, evidenziandone le sfide uniche: dai limiti imposti dal terreno tridimensionale che condiziona l’uso di molti sistemi d’arma, alla presenza di numerosi punti di fuoco nemici all’interno delle infrastrutture urbane (come strade e vicoli), fino alla necessità cruciale di ridurre al minimo le vittime civili e di proteggere le infrastrutture critiche e il patrimonio culturale. .[1] Le città, considerate come teatro di conflitto, presentano opzioni di manovra diverse – e spesso difficili da prevedere – a seconda del tipo di area urbana, che può variare tra megalopoli, città metropolitane, periferiche, conurbazioni o persino smart city. Le caratteristiche specifiche di ciascuna di queste aree possono avere un impatto significativo sulle operazioni militari nel loro insieme.

Numerose battaglie urbane recenti – dalla Battaglia di Mogadiscio nel 1993 alla Seconda Battaglia di Falluja in Iraq nel 2004, passando per la Battaglia di Shusha nel 2020 durante la Seconda Guerra del Nagorno-Karabakh, fino a Mariupol nel 2022 e Bakhmut nel 2023 nel contesto della guerra russo-ucraina – offrono tendenze e lezioni preziose per una migliore comprensione della guerra urbana. In un mondo sempre più urbanizzato, è probabile che i futuri conflitti assumano un carattere sempre più orientato verso scenari urbani.

Negli ultimi anni, con l’evoluzione dei più recenti conflitti, è emerso un vivace dibattito all’interno delle comunità accademica e militare riguardo alla cosiddetta “svolta urbana negli affari militari e strategici”. Tuttavia, esistono diverse interpretazioni su ciò che sta accadendo, sui motivi di questi cambiamenti e sul loro possibile impatto sul quadro complessivo della sicurezza. Una delle tendenze più consolidate in questa discussione è la teoria di una “nuova urbanistica militare”. [2] descritta da Stephen Graham nel suo saggio intitolato Cities under siege: the new military urbanism. Nel libro, l’autore argomenta che i principali eserciti mondiali stanno mostrando un rinnovato interesse per il combattimento in ambienti urbani. Inoltre, sottolinea lo sviluppo di nuove tecnologie e tecniche specifiche per la guerra nei centri abitati. Un aspetto particolarmente significativo evidenziato dall’autore è che queste tecnologie, insieme a nuove tattiche, tecniche e procedure, stanno già iniziando a essere adottate non solo dalle forze armate, ma anche dalle forze di sicurezza interna, dopo essere state testate in recenti teatri operativi come Siria, Afghanistan e Iraq. .[3]

Città sotto assedio

La letteratura accademica in tale ambito, non scevra da rilevanti critiche, tende ad identificare in tre Paesi in particolare –  Israele, Stati Uniti e Regno Unito – gli attori principali di un progetto di acquisizione di capacità militari in ambito urbano. Il geografo Stephen Graham, a cui abbiamo fatto accenno, nel suo libro Cities under siege ha descritto quello che sarebbe un processo di rapida implementazione di un «sistema ombra di ricerca urbana militare»[4] volta ad acquisire competenze nella gestione e nel controllo delle aree ad alta densità di popolazione e delle crisi che in esse dovessero emergere.

Le più recenti preoccupazioni per la sicurezza delle città, in particolare quelle associate alle minacce asimmetriche emergenti, evidenziano l’adattamento delle tecniche militari agli ambienti urbani. Nel 2015, Londra fu teatro di una massiccia esercitazione antiterrorismo che simulava attacchi simili a quelli di Mumbai o Parigi, riconoscendo la gravità della minaccia in contesti urbani. Nonostante le critiche, la condivisione di strategie e ammaestramenti tra forze militari internazionali si è progressivamente estesa e aperta, coerentemente con una visione improntata alla realpolitik, coinvolgendo anche accademici in seminari e wargame.

Ma la “nuova urbanistica militare” rimane un concetto ancora sfuggente; esperti e militari concordano sulla mancanza di una visione chiara in questo ambito. I wargame e le simulazioni, pur tentando di affrontare il combattimento urbano, spesso si rivelano inefficaci, mentre il timore e il tentativo di evitare la guerriglia urbana sono aspetti storicamente consolidati e ben radicati negli staff degli stati maggiori militari, riecheggiati da Sun Tzu, che consigliava di «combattere in città solo come ultima risorsa».[5]

I dilemmi della guerra urbana sono numerosi e complessi, spaziando dalla gestione del comando in un ambiente frammentato, alla manovra sicura delle forze, fino al mantenimento della capacità intelligence in aree densamente popolate. La sfida è bilanciare la necessità tattica con l’obiettivo strategico generale, evitando danni ai civili e alle infrastrutture. Con le città che diven­tano sempre più interconnesse, ignorare gli ambienti urbani non è una strategia sostenibile a lungo termine: un fattore dinamico che solleva questioni rilevanti su capacità di controllo, rischio di crisi umanitarie e gestione della comunicazione.

La rivoluzione dell’intelligenza artificiale.

In relazione alla necessità di identificare la posizione di elementi nemici, un contributo sempre più significativo è dato dall’uso crescente dell’intelligenza artificiale (AI, Artificial Intelligence) che ha il potere di trasformare le operazioni militari, specialmente nelle complesse aree urbane, migliorando il targeting e riducendo i danni collaterali tramite algoritmi avanzati che processano dati da diverse fonti. Innovazioni come il riconoscimento facciale e l’analisi comportamentale predittiva consentono di identificare minacce specifiche, mentre l’AI facilita la distinzione tra obiettivi civili e militari. Ma nonostante il suo potenziale, l’uso dell’AI in ambito militare solleva però questioni etiche, sottolineando l’importanza della supervisione umana per assicurare che le operazioni rispettino i principi etici e umanitari. La guerra Israele-Hamas a Gaza lo ha dimostrato con violenta evidenza, come avremo modo di descrivere nel libro, così come ha dimostrato di essere, da un punto di vista militare, il primo evento di una “nuova epoca” in termini di strategie, tecniche di combattimento e tecnologie applicate al campo di battaglia, in particolare in relazione all’impiego massiccio dell’intelligenza artificiale attraverso il software Lavender, dove la macchina ha imparato a combattere grazie all’uomo, che con un algoritmo l’ha addestrata a discernere quale sia un obiettivo nemico da quelli che non lo sono. L’operazione Iron Swords, avviata da Israele in conseguenza dei tragici eventi del 7 ottobre 2023, ha plasmato un pezzo di questa nuova epoca, definendo un nuovo “anno zero” dei conflitti armati. Sebbene l’AI non abbia ancora innescato una rivoluzione negli affari militari (Rma, Revolution in Military Affairs), ha indubbiamente portato cambiamenti significativi: dall’abilitazione di capacità multidominio e sistemi di sistemi alla riduzione di spazio e tempo, l’AI detiene un potenziale immenso.

I conflitti e le guerre propriamente dette si stanno dunque trasformando ed è difficile dare un contorno definito e chiaro di ciò che ci aspetterà in futuro, sul come e dove si svilupperanno le guerre, quali saranno i campi di battaglia primari e, ancora, quali saranno le dinamiche di spazio e tempo che determineranno la condotta delle operazioni militari. Eppure, dalle montagne dell’Afghanistan al deserto della Siria passando per le pianure ucraine, la direzione sembra essere quella di un significativo prevalere degli scontri all’interno delle aree urbane ad alta densità di popolazione, con particolare riferimento alle metropoli che si stanno formando in conseguenza di tendenze sociali e demografiche ormai ben definite: l’aumento della popolazione, la crescente urbanizzazione, lo sviluppo costiero e la sempre più rilevante connettività globale.

È in tale tipologia di scenario che i conflitti del futuro prenderanno forma, con attenzione alle metropoli costiere, alle periferie urbane sempre più fuori dal controllo statale, in particolare nel continente africano, in Medioriente, America Latina e Asia. Le città, più che le nazioni, costituiranno l’elemento centrale per l’analisi dei futuri conflitti e la resilienza, anziché la stabilità, sarà il fine primario da perseguire. In tali realtà assumeranno un ruolo sempre più forte e determinante i Non-State Armed Groups (NSAGs) in una competizione sempre più accesa con lo Stato e con altri gruppi non statali per il controllo del territorio, delle popolazioni e delle risorse spesso illegali. Tra questi attori si imporranno i cartelli della droga, le bande e i signori della guerra, sfruttando il supporto delle comunità locali, offrendo opportunisticamente sicurezza e servizi, anche sociali, così da rispondere alle istanze delle popolazioni target e affini creando un rapporto di fiducia e dipendenza.[6]

Le città sono dunque in procinto di divenire oggetto primario della dottrina militare come nuovo campo di battaglia in un mondo sempre più urbano: dalle baraccopoli del Sud globale alle aree ad alta densità del Medioriente, ai ricchi centri finanziari dell’Occidente. Un quadro, in fase di definizione, in cui le forze armate e di sicurezza occidentali tendono sempre più a percepire il terreno urbano come una zona di conflitto abitata da nemici ombra pronti a colpire. Gli abitanti delle città si trasformano così in bersagli che devono essere tracciati, scansionati e controllati. In questo senso alcuni tra i più lungimiranti eserciti occidentali hanno iniziato un processo di tra­sformazione in forze urbane di contro-insurrezione ad alta tecnologia, coerentemente con gli obiettivi e le ambizioni dei rispettivi governi.

Oggi stiamo osservando i prodromi di ciò che sarà. La guerra Israele-Hamas sta ponendo all’attenzione di analisti e militari le numerose sfide che una guerra in un contesto urbano imporrà in maniera sempre più rilevante agli eserciti impegnati in guerra. E la dimensione sotterranea – l’altro fronte urbano – è forse quella più pericolosa poiché, a fronte delle criticità nel riuscire a identificare la presenza di tunnel, vie di accesso occultate, depositi e bunker sotterranei, si impone la difficoltà nel riuscire a decifrare la possibile azione del nemico, la direzione dell’attacco e la sua dimensione.

L’uso dei tunnel nelle guerre non è nuovo. La ricerca di vantaggi attraverso l’utilizzo di spazi naturali o artificiali nel sottosuolo è antica quanto la guerra stessa: dalle storie di tunnel utilizzati per vincere enormi battaglie nella Bibbia, alla guerra “di caverna” della Grande Guerra, agli spazi sotterranei che diventano fattori chiave per le battaglie urbane contemporanee, come Mariupol e Bakhmut nella guerra in Ucraina. Le nazioni moderne, tra cui gli Stati Uniti, la Cina e la Corea del Nord, investono miliardi in bunker militari e complessi di tunnel sepolti in profondità. E, infatti, si valuta che la Cina abbia tremila miglia di tunnel e bunker in grado di resistere agli attacchi nucleari in una rete che è stata chiamata la “Grande Muraglia sotterranea”; alcune stime confermano che la Corea del Nord avrebbe oltre cinquemila tunnel e infrastrutture che includono più basi aeree sotterranee con piste, siti radar e porti sottomarini all’interno delle montagne costiere.[7]

Ma ciò che Israele ha affrontato a Gaza rappresenta una novità unica nella guerra, vale a dire, un caso in cui i tunnel costituiscono uno dei due pilastri, insieme al tempo, della strategia politico-militare di un combattente. Un complesso che per vastità, struttura, complessità e “potere impeditivo intrin­seco” rappresenta un qualcosa che un esercito moderno non ha mai affrontato nella storia. Ma più che per le dimensioni dei tunnel, la guerra tra Israele e Hamas è la prima guerra in cui un combattente ha fatto della vasta rete sotterranea un fulcro della propria strategia politico-militare complessiva.[8] Tutti aspetti, e minacce, che le Israel Defense Forces (Idf, Forze di difesa di Israele) hanno dovuto affrontare nella condotta delle operazioni terrestri nella Striscia di Gaza, con maggiore intensità a partire dall’ottobre 2023.

Parallelamente, e in maniera inestricabilmente associata, si sono imposti e si imporranno sempre più gli effetti mediatici, comunicativi e di propaganda associati alla presenza di civili sul campo di battaglia e ai pericoli ai quali sono soggetti. Pericoli che sono indubbiamente concreti, ma che vengono sfruttati dalla parte in difficoltà per additare all’opinione pubblica globale la condotta di azioni non rispettose del diritto umanitario.

La guerra che ha travolto la Striscia di Gaza e, in particolare, l’area urbana ad alta densità di popolazione della città di Gaza, è paragonabile ai combattimenti osservati nella guerra russo-ucraina iniziata nel 2022, in particolare nella città di Mariupol, nel sud dell’Ucraina, o nella battaglia per Mosul tra le forze irachene e il cosiddetto Stato islamico nel 2016 e 2017. Un parallelismo che ovviamente non si limita all’osservazione dei combattimenti veri e propri, ma che si estende alla sfera della comunicazione e dell’informazione dove la capacità militare di muovere unità sul terreno e di conquistare capisaldi difensivi passa in secondo piano rispetto agli effetti della propaganda e delle false informazioni diffuse in maniera virale attraverso il Web.[9]

Sul fatto che Israele abbia dimostrato di avere la capacità di vincere sul piano tattico la guerra ci sono pochi dubbi: almeno sul piano convenzionale la conquista di Gaza ha anticipato la sconfitta militare di Hamas, nonostante le difficoltà intrinseche della dimensione sotterranea della guerra urbana.[10] Ma fino a che punto Israele è stato in grado di limitare gli effetti collaterali di una guerra concentrata in una città ad altissima densità di popolazione, e caratterizzata da una minaccia intrinseca nella dimensione sotterranea, dove la stessa popolazione è stata indotta o obbligata da Hamas a rimanere in fun­zione di “scudo umano” in prossimità di obiettivi militari spesso coincidenti con infrastrutture sanitarie, scolastiche e religiose? E ancora, in quanto tempo e a fronte di quali sacrifici Israele ha raggiunto l’obiettivo di eliminare, ancorché solo parzialmente, la minaccia di Hamas attraverso la condotta di un’operazione militare molto impegnativa e onerosa? Quali gli insegnamenti storici e le lezioni apprese che condizioneranno la revisione della dottrina militare per la guerra urbana e sotterranea?

Queste sono le domande alle quali daremo risposta nel libro, scritto utilizzando fonti di archivio, in particolare gli studi del genio statunitense relativi alla guerra dei tunnel in Viet Nam, e di pubblicazioni tecniche di esperti e funzionari del Ministero della Difesa israeliano, testimonianze dirette e la, seppur non ampia, specifica letteratura scientifica, con particolare attenzione alle dinamiche e ai fattori rilevanti a livello tattico, operativo e strategico.


[1] Collins L, Spencer J. (2022), Understanding Urban Warfare, Howgate Publishing Limited, pp. 392.

[2] Graham S. (2011), Cities Under Siege: The New Military Urbanism, Paperback, Verso Books, pp. 432.

[3] Betz D., Peering into the past and future of urban warfare in Israel, Commentary War on the Rocks, 17 dicembre 2015, in https://warontherocks.com/2015/12/peering-into-the-past-and-future-of-urban-warfare-in-israel/.

[4] Graham S. (2011), Cities Under Siege, cit.

[5] Sun Tzu, L’arte della guerra, (a cura di) Jialin H., J., Luraghi R (1995), Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1995, p. 43.

[6] Kilcullen D. (2015), Out of the Mountains: The Coming Age of the Urban Guerrilla, Oxford University Press, pp.‎ 352.

[7] Spencer J., Gaza’s underground: Hamas’s entire politico-military strategy rests on its tunnels, Modern War Institute at West Point, 18 gennaio 2024, in: https://mwi.westpoint.edu/gazas-underground-hamass-entire-politico-military-strategy-rests-on-its-tunnels/.

[8] Ibidem.

[9] Hofmann F., How Israel is training for urban warfare, Deutsche Welle, 18 ottobre 2023, in https://www.dw.com/en/how-israel-is-training-for-urban-warfare/a-67134424.

[10] Ibidem.


Terrorismo: lo Stato islamico e i campionati di calcio.

di Claudio Bertolotti. Dall’intervista di Giampaolo Musumeci per Radio 24 – Nessun Luogo è Lontano del 9 aprile 2024.

Il Cairo, 9 apr. (Adnkronos) – Il sedicente Stato Islamico, tornato a spaventare l’Europa dopo l’attentato a Mosca, ha minacciato di lanciare un attacco contro i quattro stadi in cui da stasera si disputeranno i quarti di finale di Champions League. Al-Azaim, uno degli organi di propaganda dell’Isis, ha confermato queste intenzioni pubblicando l’immagine dei quattro stadi in cui si disputeranno le partite di andata – il Parco dei Principi di Parigi, il Santiago Bernabeu di Madrid, il Metropolitan sempre di Madrid e l’Emirates di Londra – accompagnata dalla didascalia “Uccideteli tutti”.

Una necessaria premessa: l’esperienza dell’ISIS, così come l’abbiamo conosciuta in Iraq e Siria si è conclusa nel giugno 2014 con la proclamazione del Califfato da parte di al-Baghdadi e l’istituzione dello Stato islamico. L’ISIS non esiste più, al suo posto lo Stato islamico dunque. Non è una precisazione da poco, perché segna l’avvio dell’epoca post-territoriale del movimento, quella che stiamo osservando e subendo oggi, sia in Occidente, sia in Medioriente come dimostra la forza sempre più manifesta di questo gruppo in particolare in Siria e Afghanistan.

Quanto seria è questa minaccia? Ricordiamo una allerta simile il 30 marzo in Germania.

Un primo aspetto. In questo caso, come nella maggior parte degli episodi, non è lo Stato islamico ma i suoi gruppi affiliati a chiamare alla lotta. E quella attuale sembra non tanto una avvisaglia quanto un appello a colpire, e dunque non una minaccia diretta. Anche perchè, come ci ha dimostrato la storia recente dello Stato islamico e dei suoi affiliati in franchise, quando il gruppo colpisce lo fa senza preavvertire – di fatto sfruttando l’effetto sorpresa per ottenere il massimo dei risultati. Quanto accaduto in Russia ne è una conferma. Però, e questo è il secondo aspetto, coerentemente con gli attacchi degli ultimi anni, attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico, è l’appello a colpire che viene colto da singoli soggetti, o più raramente da parte di piccoli gruppi, spesso disorganizzati o scarsamente organizzati, che costituisce la forza propulsiva del gruppo che, di norma e per evidente opportunità, rivendica solamente quelli di successo, una minima parte, non citando quelli invece più numerosi che si concludono con un risultato fallimentare.

Dopo l’attentato a Mosca, queste minacce e l’arresto ieri a Roma di un tajiko ex miliziano Isis, ci sono a tuo parere le condizioni per capire quale sia la strategia dell’Isis? Sta rialzando la testa? Riacquisendo forza?

Lo Stato islamico sta rialzando la testa, e lo sta facendo in maniera dirompente ed efficace, riportandoci sul piano emotivo e del terrore ai terribili anni 2015-2017 quando l’Europa fu travolta da una serie di eventi dirompenti, a loro volta in grado di riportare le emozioni agli attacchi di al-Qa’ida in Europa del 2004, a Madrid e a Londra. Oggi è sufficiente guardare alla Siria, dove si pensava – complici anche i riflettori mediatici rivolti altrove – che lo Stato islamico fosse stato sconfitto: non è così. Al contrario, l’aumento progressivo di attacchi dello Stato islamico, gli assalti continui e ripetuti alle carceri per liberare i combattenti detenuti dal regime siriano, la capacità di colpire sostanzialmente ovunque. È un campanello d’allarme che suona molto forte e che anticipa una nuova ondata che si autoalimenta: dalla retorica della vittoria talebana in Afghanistan, alla competizione con i talebani, all’aumentare degli affiliati, singoli e gruppi dal Medioriente al Sud-Est asiatico, fino all’Europa. Non uno Stato islamico ex-novo, ma è un fenomeno che si sta risvegliando.


Biden: lo stato dell’Unione.

di Melissa de Teffé

Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione al Congresso, il Presidente Joe Biden ha sorpreso tutti per il tono combattivo e aggressivo, in netto contrasto con le sue consuete apparizioni sempre pacate.

Come noto il secondo articolo della Costituzione americana richiede al capo dell’esecutivo di presentare un rapporto scritto, letto a camere unite,  sullo Stato dell’Unione, non solo raccontando i successi ottenuti, ma elencando quali misure adottare  per risolvere sfide e problematiche nazionali. Biden invece ha fatto una scelta comunicativa insolita, mirata a dissipare i dubbi sulla sua idoneità al ruolo, dati i suoi 81 anni, è  attualmente il presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti. Una delle battute più divertenti seppur sarcastica, dei media americani è stata: “Qualunque cosa abbiano dato a Biden, ogni uomo, donna e qualsiasi altra persona americana dovrebbe essere autorizzato a prender-lo,” insomma un po’ di pesante ironia nei confronti di 68 “intensi” minuti di discorso, ma che in realtà sono stati più un’ accalorata arringa contro l’amministrazione precedente che la consueta, storica presentazione a cui siamo abituati.

Biden ha aperto il suo discorso paragonando l’attuale periodo storico sia a quello di Lincoln durante la guerra civile che al discorso di  Delano Roosevelt del 1941, in piena seconda guerra mondiale. Questa audace dichiarazione, che sembra quasi un j’accuse contro i repubblicani, parrebbe voler  definirsi come l’unico vero paladino, difensore supremo, della “vera” democrazia.

Tra i temi principali affrontati, spicca in primis, la richiesta d’inviare il prima possibile i finanziamenti all’Ucraina, (60 miliardi di $) che erano inclusi nella legge sull’immigrazione e l’asilo politico, bocciata il mese scorso; proseguendo,  altro punto molto antipatico e scottante è stata la critica ai giudici della Corte Suprema, per altro presenti come gesto di rispetto e cortesia, e seduti in prima fila, per aver ribaltato il famosissimo caso Roe vs Wade sull’aborto, promettendo che, se rieletto, sarebbe certamente riuscito a influenzare la Corte Costituzionale e a capovolgere la loro decisione. Sicuramente” non solo un affronto ma una manifestazione arrogante da parte di un presidente”, dice il noto commentatore politico Ben Shapiro. 

Altro punto chiave riguarda la lotta contro l’inflazione, dove Biden certo del prossimo abbassamento dei tassi di interesse incentiverebbe il settore immobiliare con una regalia mensile di $400 per due anni consecutivi sugli acquisti di nuove proprietà. Inoltre Biden non si fa sfuggire l’opportunità di attribuire il problema dell’inflazione al suo predecessore.  Pure il Wall Street Journal non ne è convinto, infatti la “shrinkinflation” ossia l’inflazione ristretta, così definita da Biden, che porta come esempio la riduzione dei quantitativi di patatine o pezzetti di dolcetti da parte dei produttori di merendine e patatine, senza però aver cambiato la grandezza del sacchetto, viene denigrata da questo titolo:  “Il Presidente non sa nulla su come funzioni l’economia privata”.  

Sul fronte dell’immigrazione, il Presidente afferma che gli immigrati sono anch’essi cittadini americani e ancora una volta attribuisce la crisi al confine alla precedente amministrazione. Durante l’amministrazione del presidente Joe Biden, oltre 7,2 milioni di migranti sono entrati illegalmente negli Stati Uniti. Questa cifra supera la popolazione di 36 stati degli Stati Uniti. (fonte CBP- Customs and Border Protection, Factcheck.org ecc.)

Il numero di 7,3 milioni rappresenta una parte significativa della popolazione di diversi stati di grandi dimensioni: 18,7% della popolazione della California (39 milioni di abitanti); 23,9%  della popolazione del Texas (circa 31 milioni di residenti), 32,3% della popolazione della Florida, 37,3% della popolazione di New York. È importante notare che questa cifra totale di 7,3 mill. non include un ulteriore (stimato) 1,6 milioni di immigrati indocumentati che sono entrati negli Stati Uniti da altre località, né 1,8 milioni di “fuggitivi” noti, sfuggiti alle forze dell’ordine. Considerando questi numeri aggiuntivi, il totale sarebbe persino superiore alla popolazione di New York.

I critici dell’amministrazione Biden sostengono che questo aumento senza precedenti dell’immigrazione illegale non sia casuale, ma piuttosto il risultato di scelte politiche deliberate . Oltre ai vari applausi che hanno visto il vicepresidente alzarsi quasi ad ogni frase per applaudire, la prima interrompere al discorso è stata della rappresentante Marjorie Taylor Greene (R-Ga.) che ha gridato: “e l’omicidio di Laken Raley?”, che Biden forse già stanco, la ribattezza Lincoln Riley, un noto allenatore di football recentemente su  tutti i giornali per i recenti successi sportivi.

Non poteva mancare un accenno alle politiche transgender che stanno da mesi infiammando gli animi di questa nazione per la partecipazione di maschi transgender fra le fila sportive femminili Anche qui, Biden le supporta facendo uno specifico accenno anche alle politiche di “trasformazione, o cambio di sesso”, dedicate ai più giovani. La broche di chiusura al discorso è ovviamente una ennesima critica al suo rivale politico,  su quanto avvenuto il 6 gennaio di tre anni fa, prima del giuramento presidenziale, paragonando l’insurrezione  all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.

Da giovedì tutte le affermazioni di Biden sono oggetto di dubbi e controversie, specialmente in relazione alle dichiarazioni sulla diminuzione della criminalità. Questa posizione è stata messa in discussione da fatti evidenti, come la decisione da parte del governatore dello Stato di New York insieme al sindaco di New York, Adams, di aumentare il numero delle forze dell’ordine soprattutto lungo i diversi percorsi della metropolitana, oggi soggetti a rapine e illeciti di ogni tipo. Il governatore  in concerto con il sindaco, oltre aver aumentato il numero degli agenti di polizia, ha  aggiunto 1000 soldati della guardia nazionale. Inoltre tutte le forze dell’ordine sono state autorizzare a perquisire qualsiasi borsa o valigia. Queste misure di sicurezza sono in risposta all’ aumento del 45% dei reati registrati questo gennaio rispetto all’anno precedente. 

Ultimo a intervenire dal pubblico interrompendo il discorso del presidente urlando: “ Si ricordi di Abbey Gate”, è stato il padre di uno dei 13 marines uccisi durante la tragica evacuazione dall’Afghanistan). Allontanato subito dall’aula e arrestato, il grido è caduto nel vuoto. Più fortunati invece alcune decine di manifestanti che hanno tentato di bloccare l’accesso al Capitol in difesa dei palestinesi. Nessuno è stato ammonito o ammanettato. 

L’infelice stato dell’Unione, definito così da molti è purtroppo facile da constatare, basti guardare la quantità di senza tetto, drogati e malati mentali in diverse città dell’unione, da Los Angeles, a Philadelphia, da Portland a San Francisco, da Chicago a Austin; l’assenza di una politica migratoria, le dimostrazioni anti-semite nei più prestigiosi campus universitari, che hanno visto il licenziamento dei rispettivi presidenti; ancora le feroci sparatorie su innocenti durante festeggiamenti, l’inflazione alta e un mercato immobiliare fermo.

Analizzando i sondaggi a ridosso del discorso presidenziale, secondo Hanson, classicista, storico militare e opinionista politico, Trump è in testa, soprattutto considerando quelle fasce di elettori che storicamente hanno sempre votato democratico. Questi risultati positivi per Trump tra gli afroamericani, i latinos e le donne delle zone rurali o suburbane sono una reazione alle insufficienze di questa amministrazione. Nel paese si percepisce un’atmosfera di malessere e dolore che politicamente si riflette sul presidente, da sempre individuato come il colpevole principale.


Migrazioni: conflitti e soluzioni. Giornata di studio a Roma

Segnaliamo la
quinta edizione de “La Comunicazione su migranti e rifugiati tra solidarietà e paura” promossa dall’Associazione ISCOM insieme con il Comitato “Informazione, migranti e rifugiati” e la collaborazione della Pontificia Università della Santa Croce

mercoledì 21 febbraio 2024 dalle 9.30 alle 13.30
aula magna “Giovanni Paolo II” (piano -1)
Pontificia Università della Santa Croce
Piazza di Sant’Apollinare 49, Roma
link

Contatti
info@iscom.info
tel. 06.6867522

“La giornata offre una nuova occasione di confronto tra autorità, accademici, giornalisti e responsabili di organizzazioni umanitarie per mettere a fuoco le sfide del sistema dei media e per contribuire a una informazione più accurata nella lettura e nella rappresentazione del fenomeno migratorio. Con particolare attenzione all’etica e alla deontologia della professione giornalistica, l’iniziativa si rivolge in primo luogo agli operatori dell’informazione e ai responsabili della comunicazione di istituzioni ecclesiali ed educative impegnate sul tema.
L’iniziativa è valida ai fini della formazione professionale continua dei giornalisti.”

Programma

Presenta Antonino Piccione, Comitato “Informazione, migranti e rifugiati”

9.30 Saluti istituzionali
S.E. Mons. Gian Carlo Perego, Presidente Commissione per le Migrazioni, Conferenza Episcopale Italiana

9.45 Relazione introduttiva
“Liberi di scegliere se migrare o restare”
Padre Fabio Baggio, Sottosegretario Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale

10.00 Guerre, terrorismo, lavoro
– Laurence Hart, Direttore OIM Italia
– Rocco Iodice, Università di Napoli Federico II
– Claudio Bertolotti, ISPI
Modera Francesca Cuomo, Centro Astalli

11.00 Pausa

11.30 L’umanità dei Corridoi
– Cesare Giacomo Zucconi, Segretario generale Comunità di Sant’Egidio
– Alessandra Trotta, Moderatora della Tavola Valdese, Unione delle chiese valdesi e metodiste
– Riccardo Noury, Amnesty International Italia
Modera Vincenzo Lino, Harambee Africa International

12.30 Il racconto giornalistico del fenomeno migratorio: linguaggio, tono, deontologia
– Anna Maria Pozzi, giornalista e scrittrice
– Luigi Ferrarella, Corriere della Sera
– Giulia Tornari, Presidente Zona
Modera Raffaele Iaria, Fondazione Migrantes


La strategia di Hamas nella nuova dimensione “sotterranea” della guerra. Il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24

L’intervento di C. Bertolotti a SKY TG24, puntata del 28 ottobre 2023.

La minaccia principale che i soldati israeliani dovranno affrontare nella fase condotta dell’operazione di bonifica della Striscia di Gaza e, in particolare, dell’area urbana di gaza city, è quella proveniente dalla dimensione sotterranea, strategicamente sfruttata dal gruppo terrorista di Hamas per muovere, vivere e combattere sul campo di battaglia che si sta delineando.

Come recentemente riportato da Judy Siegel-Itzkovich sul Jerusalem Post, il livello di sviluppo dei tunnel, non solo in termini di dimensioni ma anche di utilizzo e finalità, ha ridefinito e implementato il nuovo concetto operativo dell’organizzazione Hamas.

Inizialmente tunnel dedicati al contrabbando di merci, sono poi stati utilizzati per il mercato nero di armi per poi divenire, progressivamente, linee di comunicazione e di accesso al campo di battaglia, di fatto definendone un ruolo da vie di comunicazione tattica – utile ai rapimenti come quello del soldato Gilad Shalit nel 2006 – in infrastrutture operative di trasferimento e nascondiglio.

La fase successiva di utilizzo dei tunnel da parte di Hamas è stata caratterizzata in un’ulteriore salto di qualità, imponendo agli stessi un ruolo strategico nella condotta di operazioni offensive, così come rilevato dalle forze di difesa israeliane (IDF, Israeli Defense Forces) durante la fase condotta dell’operazione Protective Edge, nel 2014. Un’evoluzione nella struttura stessa dei tunnel e nel loro utilizzo coerente con la crescente e dimostrata volontà dell’organizzazione terroristica palestinese di condurre prioritariamente operazioni nella dimensione sotterranea.

Fino agli anni 2000, le gallerie venivano solitamente scavate a una profondità variabile da quattro a dodici metri, ma con una criticità strutturale significativa già sotto i quattro metri. Una profondità minima che di fatto era all’epoca una soluzione adeguata e coerente agli usi e gli obiettivi di Hamas.

Ma Hamas ha saputo migliorare, in maniera progressivamente più tecnica e strutturale, la costruzione dei nuovi tunnel e l’adeguamento di quelli già costruiti, aumentando la profondità, le dimensioni e la disponibilità di locali di rifugio più ampie e aree logistiche di stoccaggio per equipaggiamenti militari. Un’evoluzione strutturale che si è accompagnata a un miglioramento delle dotazioni militari, dei mezzi per realizzarle, di impianti elettrici e di comunicazione sempre più sofisticati.


I rischi dell’inevitabile operazione militare israeliana

di Claudio Bertolotti

La ragione della guerra sta nel processo di normalizzazione tra il mondo arabo (Arabia saudita in primis) e Israele, conseguente agli accordi di Abramo, che l’Iran sta cercando di boicottare.

L’operazione militare offensiva a Gaza è, per Israele, inevitabile; basta leggere la strategia di sicurezza nazionale israeliana del 2015 per comprendere come l’approccio primario sia quello militare offensivo funzionale a ottenere risultati militari netti mantenendo così il vantaggio relativo.

ma i rischi di un’operazione militare israeliana, oltre che sul campo di battaglia vero e proprio, si collocano sul piano delle relazioni internazionali e, in particolare, sugli equilibri di potenza e influenza a livello regionale e globale.

è l’evento determinante per il prossimo assetto politico-strategico dell’intero arco mediorientale.

Spostandoci così dal campo di battaglia a quello politico, osserviamo l’interesse e il coinvolgimento, diretto e indiretto, di attori globali, dagli Stati Uniti alla Russia, dall’Iran alla Cina, dall’Arabia Saudita al Qatar alla Turchia e tutti i paesi arabi e musulmani. Di fatto ci troviamo ad osservare l’evento determinante per il prossimo assetto politico-strategico dell’intero arco mediorientale.

Cause e conseguenze spesso si sovrappongono: ostilità Israele-Iran è il primo dei fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali nell’arco mediorientale. La questione palestinese non lo è, è un tema di convergenza delle opportunità, mediatiche e politiche ma non è scatenante per il conflitto in corso.

Se guardiamo alla guerra Israele-Hamas con l’attenzione alla questione palestinese come a un elemento primario rischiamo di dare un’eccessiva importanza a un tema che non è più una priorità per le cancellerie occidentali come non lo è più per i paesi arabi, ma che ci distrare dal valutare la gravità della situazione e le dirette conseguenze.

E allora, per poter analizzare i rischi concreti che deriveranno da questa guerra dobbiamo partire da quello che è il punto di caduta iraniano, che si traduce nell’obiettivo granitico e inderogabile di “distruggere Israele” anche attraverso l’utilizzo di attori di prossimità, alleati, operazioni indirette. In questo quadro entrano in prima fila due soggetti, “Hamas” e “Hezbollah”, di fatto due eserciti in grado di operare in maniera autonoma con il supporto di Teheran.

Dunque il primo e principale di questi rischi è l’allargamento del conflitto che, riprendendo la visione israeliana espressa nella dottrina strategica della Difesa di Gerusalemme, si traduce in escalation orizzontale che vedrebbe tre principali fronti: il Hezbollah dal Libano, la Siria e, in ultima battuta, un intervento dell’Iran.

Coinvolgimento diretto dell’Iran che gli Ayatollah iraniani razionalmente non vogliono, ma che l’emotività associata ad eventi incontrollabili potrebbe indurre.

Il secondo di questi rischi è, dato il potenziale coinvolgimento di Hezbollah (spinto dall’Iran), il trascinamento nel conflitto del Libano e la conseguente opzione della guerra civile libanese che aprirebbe a una crisi ingestibile il cui esito sarebbe il collasso dello stato libanese. E infatti Israele sta agendo con forza per contrastare gli attacchi con razzi di Hezbollah.

Il terzo è l’allargamento alla Siria, spinta dall’Iran, e in questo senso si collocano le azioni dirette a colpire infrastrutture ed equipaggiamenti militari in territorio siriano, sia da parte di Israele sia statunitense, come confermano le distinte operazioni svolte dai due eserciti a danno di obiettivi legati all’Iran.

Il quarto, non l’ultimo, è multiplo ed è rappresentato dal rischio di rivolte in Cisgiordania, l’apertura del fronte interno con attacchi di affiliati o ispirati da Hamas e il protrarsi di un’offensiva nella striscia di Gaza e la successiva transizione politica.

Uno scenario definito, ma dai confini e dalle dinamiche non certe.


Medioriente: attacco mirato statunitense in Siria contro obiettivi iraniani.

Intervista a C. Bertolotti, ospite di Laura Zucchetti a TELETICINO, edizione del 27 ottobre 2023, ore 12.00.


Intervista a Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight (edizione dl 27 ottobre 2023, ore 12.00).

Due aerei da combattimento statunitensi hanno colpito depositi di armi e munizioni in Siria come rappresaglia per gli attacchi alle forze americane in Iraq da parte delle milizie sostenute dall’Iran.

Il presidente Joe Biden ha ordinato attacchi alle due strutture utilizzate dal Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane e dai gruppi di milizie da queste sostenuti, avvertendo che gli Stati Uniti sono pronti ad adottare ulteriori misure se gli attacchi da parte dei proxy dell’Iran dovessero continuare. Un chiaro segnale di posizionamento statunitense in funzione di deterrenza all’ipotesi di escalation orizzontale del conflitto in Medioriente.