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Gaza underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas (dal libro di C. Bertolotti)

di Claudio Bertolotti

Articolo tratto dal libro: C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight Lugano (Link)

Abstract (Italian)

L’uso dei tunnel nelle guerre non è nuovo. La ricerca di vantaggi attraverso l’utilizzo di spazi naturali o artificiali nel sottosuolo è antica quanto la guerra stessa: dalle storie di tunnel utilizzati per vincere enormi battaglie nella Bibbia, alla guerra “di caverna” della Grande Guerra, agli spazi sotterranei che diventano fattori chiave per le battaglie urbane contemporanee, come Mariupol e Bakhmut nella guerra in Ucraina. Le nazioni moderne, tra cui gli Stati Uniti, la Cina e la Corea del Nord, investono miliardi in bunker militari e complessi di tunnel sepolti in profondità. E, infatti, si valuta che la Cina abbia tremila miglia di tunnel e bunker in grado di resistere agli attacchi nucleari in una rete che è stata chiamata la “Grande Muraglia sotterranea”; alcune stime confermano che la Corea del Nord avrebbe oltre cinquemila tunnel e infrastrutture che includono più basi aeree sotterranee con piste, siti radar e porti sottomarini all’interno delle montagne costiere. Ma ciò che Israele ha affrontato a Gaza rappresenta una novità unica nella guerra, vale a dire, un caso in cui i tunnel costituiscono uno dei due pilastri, insieme al tempo, della strategia politico-militare di un combattente. Un complesso che per vastità, struttura, complessità e “potere impeditivo intrinseco” rappresenta un qualcosa che un esercito moderno non ha mai affrontato nella storia

Keywords: Israele, Hamas.

La svolta urbana negli affari militari e strategici

Nessun ambiente è più sfidante per le forze militari di una città. Nessuna forma di combattimento è intrinsecamente più distruttiva della guerra urbana. Eppure, troppo spesso, le forze militari sono sia impreparate di fronte alle sfide imposte dai campi di battaglia ad alta densità di popolazione, sia incapaci di evitare di essere trascinate in brutali combattimenti urbani. Nel libro Understanding urban warfare, gli Autori Liam Collins e John Spencer hanno posto l’attenzione sulla prospettiva della guerra urbana in termini di sfide uniche: dagli effetti limitanti del terreno tridimensionale su molti sistemi d’arma, alla molteplicità di punti di fuoco nemici all’interno delle vie di comunicazione urbane (strade, vicoli, viali), alla necessità fondamentale di minimizzare le vittime civili, proteggere le infrastrutture critiche e il patrimonio culturale.[1] Città, intese come terreno di scontro, che offrono opzioni di manovra differenti – e spesso con una limitata prevedibilità – a seconda della tipologia di area urbana (megalopoli, città metropolitane, città periferiche, conurbazioni e persino smart city), le cui caratteristiche peculiari sono in grado di influenzare le operazioni militari nel loro complesso.

Molte le battaglie urbane più recenti – dalla Battaglia di Mogadiscio del 1993 alla Seconda Battaglia di Falluja in Iraq nel 2004, alla Battaglia di Shusha nel 2020 nella Seconda Guerra del Nagorno-Karabakh, e, ancora, Mariupol nel 2022 e Bakhmut nel 2023 nella guerra russo-Ucraina – ci consegnano tendenze e lezioni apprese per comprendere meglio la guerra urbana poiché in un mondo sempre più urbanizzato, il futuro carattere del conflitto sarà anch’esso sempre più urbano.

Negli ultimi anni, in relazione allo sviluppo dei più recenti conflitti, si è consolidato un dibattito, all’interno delle comunità accademica e militare, sulla cosiddetta “svolta urbana negli affari militari e strategici”, sebbene vi siano differenti interpretazioni su ciò che stia accadendo, del perché e del probabile impatto sul più ampio panorama della sicurezza. Nel merito della discussione su ciò che sta accadendo, la tendenza maggiormente consolidata è la teoria di una “nuova urbanistica militare”,[2] descritta da Stephen Graham nel suo saggio intitolato Cities under siege: the new military urbanism. Nel libro, l’autore sostiene, in primo luogo, che c’è tra i principali eserciti del mondo un nuovo (o talvolta caratterizzato come rinnovato) interesse per la guerra negli ambienti urbani. Inoltre, l’Autore ri­leva come sia stata sviluppata una serie di nuove tecnologie e tecniche per il combattimento nei centri abitati pur ponendo l’accento su un aspetto di rilevante interesse, ossia che tali tecnologie, unitamente a tecniche, tattiche e procedure, starebbero già facendo la loro comparsa, dopo essere state testate nei teatri operativi più recenti – dalla Siria, all’Afghanistan all’Iraq –, tra le forze di sicurezza interna, e non solo tra le forze armate.[3]

Città sotto assedio

La letteratura accademica in tale ambito, non scevra da rilevanti critiche, tende ad identificare in tre Paesi in particolare –  Israele, Stati Uniti e Regno Unito – gli attori principali di un progetto di acquisizione di capacità militari in ambito urbano. Il geografo Stephen Graham, a cui abbiamo fatto accenno, nel suo libro Cities under siege ha descritto quello che sarebbe un processo di rapida implementazione di un «sistema ombra di ricerca urbana militare»[4] volta ad acquisire competenze nella gestione e nel controllo delle aree ad alta densità di popolazione e delle crisi che in esse dovessero emergere.

Le più recenti preoccupazioni per la sicurezza delle città, in particolare quelle associate alle minacce asimmetriche emergenti, evidenziano l’adattamento delle tecniche militari agli ambienti urbani. Nel 2015, Londra fu teatro di una massiccia esercitazione antiterrorismo che simulava attacchi simili a quelli di Mumbai o Parigi, riconoscendo la gravità della minaccia in contesti urbani. Nonostante le critiche, la condivisione di strategie e ammaestramenti tra forze militari internazionali si è progressivamente estesa e aperta, coerentemente con una visione improntata alla realpolitik, coinvolgendo anche accademici in seminari e wargame.

Ma la “nuova urbanistica militare” rimane un concetto ancora sfuggente; esperti e militari concordano sulla mancanza di una visione chiara in questo ambito. I wargame e le simulazioni, pur tentando di affrontare il combattimento urbano, spesso si rivelano inefficaci, mentre il timore e il tentativo di evitare la guerriglia urbana sono aspetti storicamente consolidati e ben radicati negli staff degli stati maggiori militari, riecheggiati da Sun Tzu, che consigliava di «combattere in città solo come ultima risorsa».[5]

I dilemmi della guerra urbana sono numerosi e complessi, spaziando dalla gestione del comando in un ambiente frammentato, alla manovra sicura delle forze, fino al mantenimento della capacità intelligence in aree densamente popolate. La sfida è bilanciare la necessità tattica con l’obiettivo strategico generale, evitando danni ai civili e alle infrastrutture. Con le città che diven­tano sempre più interconnesse, ignorare gli ambienti urbani non è una strategia sostenibile a lungo termine: un fattore dinamico che solleva questioni rilevanti su capacità di controllo, rischio di crisi umanitarie e gestione della comunicazione.

La rivoluzione dell’intelligenza artificiale.

In relazione alla necessità di identificare la posizione di elementi nemici, un contributo sempre più significativo è dato dall’uso crescente dell’intelligenza artificiale (AI, Artificial Intelligence) che ha il potere di trasformare le operazioni militari, specialmente nelle complesse aree urbane, migliorando il targeting e riducendo i danni collaterali tramite algoritmi avanzati che processano dati da diverse fonti. Innovazioni come il riconoscimento facciale e l’analisi comportamentale predittiva consentono di identificare minacce specifiche, mentre l’AI facilita la distinzione tra obiettivi civili e militari. Ma nonostante il suo potenziale, l’uso dell’AI in ambito militare solleva però questioni etiche, sottolineando l’importanza della supervisione umana per assicurare che le operazioni rispettino i principi etici e umanitari. La guerra Israele-Hamas a Gaza lo ha dimostrato con violenta evidenza, come avremo modo di descrivere nel libro, così come ha dimostrato di essere, da un punto di vista militare, il primo evento di una “nuova epoca” in termini di strategie, tecniche di combattimento e tecnologie applicate al campo di battaglia, in particolare in relazione all’impiego massiccio dell’intelligenza artificiale attraverso il software Lavender, dove la macchina ha imparato a combattere grazie all’uomo, che con un algoritmo l’ha addestrata a discernere quale sia un obiettivo nemico da quelli che non lo sono. L’operazione Iron Swords, avviata da Israele in conseguenza dei tragici eventi del 7 ottobre 2023, ha plasmato un pezzo di questa nuova epoca, definendo un nuovo “anno zero” dei conflitti armati. Sebbene l’AI non abbia ancora innescato una rivoluzione negli affari militari (Rma, Revolution in Military Affairs), ha indubbiamente portato cambiamenti significativi: dall’abilitazione di capacità multidominio e sistemi di sistemi alla riduzione di spazio e tempo, l’AI detiene un potenziale immenso.

I conflitti e le guerre propriamente dette si stanno dunque trasformando ed è difficile dare un contorno definito e chiaro di ciò che ci aspetterà in futuro, sul come e dove si svilupperanno le guerre, quali saranno i campi di battaglia primari e, ancora, quali saranno le dinamiche di spazio e tempo che determineranno la condotta delle operazioni militari. Eppure, dalle montagne dell’Afghanistan al deserto della Siria passando per le pianure ucraine, la direzione sembra essere quella di un significativo prevalere degli scontri all’interno delle aree urbane ad alta densità di popolazione, con particolare riferimento alle metropoli che si stanno formando in conseguenza di tendenze sociali e demografiche ormai ben definite: l’aumento della popolazione, la crescente urbanizzazione, lo sviluppo costiero e la sempre più rilevante connettività globale.

È in tale tipologia di scenario che i conflitti del futuro prenderanno forma, con attenzione alle metropoli costiere, alle periferie urbane sempre più fuori dal controllo statale, in particolare nel continente africano, in Medioriente, America Latina e Asia. Le città, più che le nazioni, costituiranno l’elemento centrale per l’analisi dei futuri conflitti e la resilienza, anziché la stabilità, sarà il fine primario da perseguire. In tali realtà assumeranno un ruolo sempre più forte e determinante i Non-State Armed Groups (NSAGs) in una competizione sempre più accesa con lo Stato e con altri gruppi non statali per il controllo del territorio, delle popolazioni e delle risorse spesso illegali. Tra questi attori si imporranno i cartelli della droga, le bande e i signori della guerra, sfruttando il supporto delle comunità locali, offrendo opportunisticamente sicurezza e servizi, anche sociali, così da rispondere alle istanze delle popolazioni target e affini creando un rapporto di fiducia e dipendenza.[6]

Le città sono dunque in procinto di divenire oggetto primario della dottrina militare come nuovo campo di battaglia in un mondo sempre più urbano: dalle baraccopoli del Sud globale alle aree ad alta densità del Medioriente, ai ricchi centri finanziari dell’Occidente. Un quadro, in fase di definizione, in cui le forze armate e di sicurezza occidentali tendono sempre più a percepire il terreno urbano come una zona di conflitto abitata da nemici ombra pronti a colpire. Gli abitanti delle città si trasformano così in bersagli che devono essere tracciati, scansionati e controllati. In questo senso alcuni tra i più lungimiranti eserciti occidentali hanno iniziato un processo di tra­sformazione in forze urbane di contro-insurrezione ad alta tecnologia, coerentemente con gli obiettivi e le ambizioni dei rispettivi governi.

Oggi stiamo osservando i prodromi di ciò che sarà. La guerra Israele-Hamas sta ponendo all’attenzione di analisti e militari le numerose sfide che una guerra in un contesto urbano imporrà in maniera sempre più rilevante agli eserciti impegnati in guerra. E la dimensione sotterranea – l’altro fronte urbano – è forse quella più pericolosa poiché, a fronte delle criticità nel riuscire a identificare la presenza di tunnel, vie di accesso occultate, depositi e bunker sotterranei, si impone la difficoltà nel riuscire a decifrare la possibile azione del nemico, la direzione dell’attacco e la sua dimensione.

L’uso dei tunnel nelle guerre non è nuovo. La ricerca di vantaggi attraverso l’utilizzo di spazi naturali o artificiali nel sottosuolo è antica quanto la guerra stessa: dalle storie di tunnel utilizzati per vincere enormi battaglie nella Bibbia, alla guerra “di caverna” della Grande Guerra, agli spazi sotterranei che diventano fattori chiave per le battaglie urbane contemporanee, come Mariupol e Bakhmut nella guerra in Ucraina. Le nazioni moderne, tra cui gli Stati Uniti, la Cina e la Corea del Nord, investono miliardi in bunker militari e complessi di tunnel sepolti in profondità. E, infatti, si valuta che la Cina abbia tremila miglia di tunnel e bunker in grado di resistere agli attacchi nucleari in una rete che è stata chiamata la “Grande Muraglia sotterranea”; alcune stime confermano che la Corea del Nord avrebbe oltre cinquemila tunnel e infrastrutture che includono più basi aeree sotterranee con piste, siti radar e porti sottomarini all’interno delle montagne costiere.[7]

Ma ciò che Israele ha affrontato a Gaza rappresenta una novità unica nella guerra, vale a dire, un caso in cui i tunnel costituiscono uno dei due pilastri, insieme al tempo, della strategia politico-militare di un combattente. Un complesso che per vastità, struttura, complessità e “potere impeditivo intrin­seco” rappresenta un qualcosa che un esercito moderno non ha mai affrontato nella storia. Ma più che per le dimensioni dei tunnel, la guerra tra Israele e Hamas è la prima guerra in cui un combattente ha fatto della vasta rete sotterranea un fulcro della propria strategia politico-militare complessiva.[8] Tutti aspetti, e minacce, che le Israel Defense Forces (Idf, Forze di difesa di Israele) hanno dovuto affrontare nella condotta delle operazioni terrestri nella Striscia di Gaza, con maggiore intensità a partire dall’ottobre 2023.

Parallelamente, e in maniera inestricabilmente associata, si sono imposti e si imporranno sempre più gli effetti mediatici, comunicativi e di propaganda associati alla presenza di civili sul campo di battaglia e ai pericoli ai quali sono soggetti. Pericoli che sono indubbiamente concreti, ma che vengono sfruttati dalla parte in difficoltà per additare all’opinione pubblica globale la condotta di azioni non rispettose del diritto umanitario.

La guerra che ha travolto la Striscia di Gaza e, in particolare, l’area urbana ad alta densità di popolazione della città di Gaza, è paragonabile ai combattimenti osservati nella guerra russo-ucraina iniziata nel 2022, in particolare nella città di Mariupol, nel sud dell’Ucraina, o nella battaglia per Mosul tra le forze irachene e il cosiddetto Stato islamico nel 2016 e 2017. Un parallelismo che ovviamente non si limita all’osservazione dei combattimenti veri e propri, ma che si estende alla sfera della comunicazione e dell’informazione dove la capacità militare di muovere unità sul terreno e di conquistare capisaldi difensivi passa in secondo piano rispetto agli effetti della propaganda e delle false informazioni diffuse in maniera virale attraverso il Web.[9]

Sul fatto che Israele abbia dimostrato di avere la capacità di vincere sul piano tattico la guerra ci sono pochi dubbi: almeno sul piano convenzionale la conquista di Gaza ha anticipato la sconfitta militare di Hamas, nonostante le difficoltà intrinseche della dimensione sotterranea della guerra urbana.[10] Ma fino a che punto Israele è stato in grado di limitare gli effetti collaterali di una guerra concentrata in una città ad altissima densità di popolazione, e caratterizzata da una minaccia intrinseca nella dimensione sotterranea, dove la stessa popolazione è stata indotta o obbligata da Hamas a rimanere in fun­zione di “scudo umano” in prossimità di obiettivi militari spesso coincidenti con infrastrutture sanitarie, scolastiche e religiose? E ancora, in quanto tempo e a fronte di quali sacrifici Israele ha raggiunto l’obiettivo di eliminare, ancorché solo parzialmente, la minaccia di Hamas attraverso la condotta di un’operazione militare molto impegnativa e onerosa? Quali gli insegnamenti storici e le lezioni apprese che condizioneranno la revisione della dottrina militare per la guerra urbana e sotterranea?

Queste sono le domande alle quali daremo risposta nel libro, scritto utilizzando fonti di archivio, in particolare gli studi del genio statunitense relativi alla guerra dei tunnel in Viet Nam, e di pubblicazioni tecniche di esperti e funzionari del Ministero della Difesa israeliano, testimonianze dirette e la, seppur non ampia, specifica letteratura scientifica, con particolare attenzione alle dinamiche e ai fattori rilevanti a livello tattico, operativo e strategico.


[1] Collins L, Spencer J. (2022), Understanding Urban Warfare, Howgate Publishing Limited, pp. 392.

[2] Graham S. (2011), Cities Under Siege: The New Military Urbanism, Paperback, Verso Books, pp. 432.

[3] Betz D., Peering into the past and future of urban warfare in Israel, Commentary War on the Rocks, 17 dicembre 2015, in https://warontherocks.com/2015/12/peering-into-the-past-and-future-of-urban-warfare-in-israel/.

[4] Graham S. (2011), Cities Under Siege, cit.

[5] Sun Tzu, L’arte della guerra, (a cura di) Jialin H., J., Luraghi R (1995), Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1995, p. 43.

[6] Kilcullen D. (2015), Out of the Mountains: The Coming Age of the Urban Guerrilla, Oxford University Press, pp.‎ 352.

[7] Spencer J., Gaza’s underground: Hamas’s entire politico-military strategy rests on its tunnels, Modern War Institute at West Point, 18 gennaio 2024, in: https://mwi.westpoint.edu/gazas-underground-hamass-entire-politico-military-strategy-rests-on-its-tunnels/.

[8] Ibidem.

[9] Hofmann F., How Israel is training for urban warfare, Deutsche Welle, 18 ottobre 2023, in https://www.dw.com/en/how-israel-is-training-for-urban-warfare/a-67134424.

[10] Ibidem.


Terrorismo: lo Stato islamico e i campionati di calcio.

di Claudio Bertolotti. Dall’intervista di Giampaolo Musumeci per Radio 24 – Nessun Luogo è Lontano del 9 aprile 2024.

Il Cairo, 9 apr. (Adnkronos) – Il sedicente Stato Islamico, tornato a spaventare l’Europa dopo l’attentato a Mosca, ha minacciato di lanciare un attacco contro i quattro stadi in cui da stasera si disputeranno i quarti di finale di Champions League. Al-Azaim, uno degli organi di propaganda dell’Isis, ha confermato queste intenzioni pubblicando l’immagine dei quattro stadi in cui si disputeranno le partite di andata – il Parco dei Principi di Parigi, il Santiago Bernabeu di Madrid, il Metropolitan sempre di Madrid e l’Emirates di Londra – accompagnata dalla didascalia “Uccideteli tutti”.

Una necessaria premessa: l’esperienza dell’ISIS, così come l’abbiamo conosciuta in Iraq e Siria si è conclusa nel giugno 2014 con la proclamazione del Califfato da parte di al-Baghdadi e l’istituzione dello Stato islamico. L’ISIS non esiste più, al suo posto lo Stato islamico dunque. Non è una precisazione da poco, perché segna l’avvio dell’epoca post-territoriale del movimento, quella che stiamo osservando e subendo oggi, sia in Occidente, sia in Medioriente come dimostra la forza sempre più manifesta di questo gruppo in particolare in Siria e Afghanistan.

Quanto seria è questa minaccia? Ricordiamo una allerta simile il 30 marzo in Germania.

Un primo aspetto. In questo caso, come nella maggior parte degli episodi, non è lo Stato islamico ma i suoi gruppi affiliati a chiamare alla lotta. E quella attuale sembra non tanto una avvisaglia quanto un appello a colpire, e dunque non una minaccia diretta. Anche perchè, come ci ha dimostrato la storia recente dello Stato islamico e dei suoi affiliati in franchise, quando il gruppo colpisce lo fa senza preavvertire – di fatto sfruttando l’effetto sorpresa per ottenere il massimo dei risultati. Quanto accaduto in Russia ne è una conferma. Però, e questo è il secondo aspetto, coerentemente con gli attacchi degli ultimi anni, attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico, è l’appello a colpire che viene colto da singoli soggetti, o più raramente da parte di piccoli gruppi, spesso disorganizzati o scarsamente organizzati, che costituisce la forza propulsiva del gruppo che, di norma e per evidente opportunità, rivendica solamente quelli di successo, una minima parte, non citando quelli invece più numerosi che si concludono con un risultato fallimentare.

Dopo l’attentato a Mosca, queste minacce e l’arresto ieri a Roma di un tajiko ex miliziano Isis, ci sono a tuo parere le condizioni per capire quale sia la strategia dell’Isis? Sta rialzando la testa? Riacquisendo forza?

Lo Stato islamico sta rialzando la testa, e lo sta facendo in maniera dirompente ed efficace, riportandoci sul piano emotivo e del terrore ai terribili anni 2015-2017 quando l’Europa fu travolta da una serie di eventi dirompenti, a loro volta in grado di riportare le emozioni agli attacchi di al-Qa’ida in Europa del 2004, a Madrid e a Londra. Oggi è sufficiente guardare alla Siria, dove si pensava – complici anche i riflettori mediatici rivolti altrove – che lo Stato islamico fosse stato sconfitto: non è così. Al contrario, l’aumento progressivo di attacchi dello Stato islamico, gli assalti continui e ripetuti alle carceri per liberare i combattenti detenuti dal regime siriano, la capacità di colpire sostanzialmente ovunque. È un campanello d’allarme che suona molto forte e che anticipa una nuova ondata che si autoalimenta: dalla retorica della vittoria talebana in Afghanistan, alla competizione con i talebani, all’aumentare degli affiliati, singoli e gruppi dal Medioriente al Sud-Est asiatico, fino all’Europa. Non uno Stato islamico ex-novo, ma è un fenomeno che si sta risvegliando.


Biden: lo stato dell’Unione.

di Melissa de Teffé

Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione al Congresso, il Presidente Joe Biden ha sorpreso tutti per il tono combattivo e aggressivo, in netto contrasto con le sue consuete apparizioni sempre pacate.

Come noto il secondo articolo della Costituzione americana richiede al capo dell’esecutivo di presentare un rapporto scritto, letto a camere unite,  sullo Stato dell’Unione, non solo raccontando i successi ottenuti, ma elencando quali misure adottare  per risolvere sfide e problematiche nazionali. Biden invece ha fatto una scelta comunicativa insolita, mirata a dissipare i dubbi sulla sua idoneità al ruolo, dati i suoi 81 anni, è  attualmente il presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti. Una delle battute più divertenti seppur sarcastica, dei media americani è stata: “Qualunque cosa abbiano dato a Biden, ogni uomo, donna e qualsiasi altra persona americana dovrebbe essere autorizzato a prender-lo,” insomma un po’ di pesante ironia nei confronti di 68 “intensi” minuti di discorso, ma che in realtà sono stati più un’ accalorata arringa contro l’amministrazione precedente che la consueta, storica presentazione a cui siamo abituati.

Biden ha aperto il suo discorso paragonando l’attuale periodo storico sia a quello di Lincoln durante la guerra civile che al discorso di  Delano Roosevelt del 1941, in piena seconda guerra mondiale. Questa audace dichiarazione, che sembra quasi un j’accuse contro i repubblicani, parrebbe voler  definirsi come l’unico vero paladino, difensore supremo, della “vera” democrazia.

Tra i temi principali affrontati, spicca in primis, la richiesta d’inviare il prima possibile i finanziamenti all’Ucraina, (60 miliardi di $) che erano inclusi nella legge sull’immigrazione e l’asilo politico, bocciata il mese scorso; proseguendo,  altro punto molto antipatico e scottante è stata la critica ai giudici della Corte Suprema, per altro presenti come gesto di rispetto e cortesia, e seduti in prima fila, per aver ribaltato il famosissimo caso Roe vs Wade sull’aborto, promettendo che, se rieletto, sarebbe certamente riuscito a influenzare la Corte Costituzionale e a capovolgere la loro decisione. Sicuramente” non solo un affronto ma una manifestazione arrogante da parte di un presidente”, dice il noto commentatore politico Ben Shapiro. 

Altro punto chiave riguarda la lotta contro l’inflazione, dove Biden certo del prossimo abbassamento dei tassi di interesse incentiverebbe il settore immobiliare con una regalia mensile di $400 per due anni consecutivi sugli acquisti di nuove proprietà. Inoltre Biden non si fa sfuggire l’opportunità di attribuire il problema dell’inflazione al suo predecessore.  Pure il Wall Street Journal non ne è convinto, infatti la “shrinkinflation” ossia l’inflazione ristretta, così definita da Biden, che porta come esempio la riduzione dei quantitativi di patatine o pezzetti di dolcetti da parte dei produttori di merendine e patatine, senza però aver cambiato la grandezza del sacchetto, viene denigrata da questo titolo:  “Il Presidente non sa nulla su come funzioni l’economia privata”.  

Sul fronte dell’immigrazione, il Presidente afferma che gli immigrati sono anch’essi cittadini americani e ancora una volta attribuisce la crisi al confine alla precedente amministrazione. Durante l’amministrazione del presidente Joe Biden, oltre 7,2 milioni di migranti sono entrati illegalmente negli Stati Uniti. Questa cifra supera la popolazione di 36 stati degli Stati Uniti. (fonte CBP- Customs and Border Protection, Factcheck.org ecc.)

Il numero di 7,3 milioni rappresenta una parte significativa della popolazione di diversi stati di grandi dimensioni: 18,7% della popolazione della California (39 milioni di abitanti); 23,9%  della popolazione del Texas (circa 31 milioni di residenti), 32,3% della popolazione della Florida, 37,3% della popolazione di New York. È importante notare che questa cifra totale di 7,3 mill. non include un ulteriore (stimato) 1,6 milioni di immigrati indocumentati che sono entrati negli Stati Uniti da altre località, né 1,8 milioni di “fuggitivi” noti, sfuggiti alle forze dell’ordine. Considerando questi numeri aggiuntivi, il totale sarebbe persino superiore alla popolazione di New York.

I critici dell’amministrazione Biden sostengono che questo aumento senza precedenti dell’immigrazione illegale non sia casuale, ma piuttosto il risultato di scelte politiche deliberate . Oltre ai vari applausi che hanno visto il vicepresidente alzarsi quasi ad ogni frase per applaudire, la prima interrompere al discorso è stata della rappresentante Marjorie Taylor Greene (R-Ga.) che ha gridato: “e l’omicidio di Laken Raley?”, che Biden forse già stanco, la ribattezza Lincoln Riley, un noto allenatore di football recentemente su  tutti i giornali per i recenti successi sportivi.

Non poteva mancare un accenno alle politiche transgender che stanno da mesi infiammando gli animi di questa nazione per la partecipazione di maschi transgender fra le fila sportive femminili Anche qui, Biden le supporta facendo uno specifico accenno anche alle politiche di “trasformazione, o cambio di sesso”, dedicate ai più giovani. La broche di chiusura al discorso è ovviamente una ennesima critica al suo rivale politico,  su quanto avvenuto il 6 gennaio di tre anni fa, prima del giuramento presidenziale, paragonando l’insurrezione  all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.

Da giovedì tutte le affermazioni di Biden sono oggetto di dubbi e controversie, specialmente in relazione alle dichiarazioni sulla diminuzione della criminalità. Questa posizione è stata messa in discussione da fatti evidenti, come la decisione da parte del governatore dello Stato di New York insieme al sindaco di New York, Adams, di aumentare il numero delle forze dell’ordine soprattutto lungo i diversi percorsi della metropolitana, oggi soggetti a rapine e illeciti di ogni tipo. Il governatore  in concerto con il sindaco, oltre aver aumentato il numero degli agenti di polizia, ha  aggiunto 1000 soldati della guardia nazionale. Inoltre tutte le forze dell’ordine sono state autorizzare a perquisire qualsiasi borsa o valigia. Queste misure di sicurezza sono in risposta all’ aumento del 45% dei reati registrati questo gennaio rispetto all’anno precedente. 

Ultimo a intervenire dal pubblico interrompendo il discorso del presidente urlando: “ Si ricordi di Abbey Gate”, è stato il padre di uno dei 13 marines uccisi durante la tragica evacuazione dall’Afghanistan). Allontanato subito dall’aula e arrestato, il grido è caduto nel vuoto. Più fortunati invece alcune decine di manifestanti che hanno tentato di bloccare l’accesso al Capitol in difesa dei palestinesi. Nessuno è stato ammonito o ammanettato. 

L’infelice stato dell’Unione, definito così da molti è purtroppo facile da constatare, basti guardare la quantità di senza tetto, drogati e malati mentali in diverse città dell’unione, da Los Angeles, a Philadelphia, da Portland a San Francisco, da Chicago a Austin; l’assenza di una politica migratoria, le dimostrazioni anti-semite nei più prestigiosi campus universitari, che hanno visto il licenziamento dei rispettivi presidenti; ancora le feroci sparatorie su innocenti durante festeggiamenti, l’inflazione alta e un mercato immobiliare fermo.

Analizzando i sondaggi a ridosso del discorso presidenziale, secondo Hanson, classicista, storico militare e opinionista politico, Trump è in testa, soprattutto considerando quelle fasce di elettori che storicamente hanno sempre votato democratico. Questi risultati positivi per Trump tra gli afroamericani, i latinos e le donne delle zone rurali o suburbane sono una reazione alle insufficienze di questa amministrazione. Nel paese si percepisce un’atmosfera di malessere e dolore che politicamente si riflette sul presidente, da sempre individuato come il colpevole principale.


Migrazioni: conflitti e soluzioni. Giornata di studio a Roma

Segnaliamo la
quinta edizione de “La Comunicazione su migranti e rifugiati tra solidarietà e paura” promossa dall’Associazione ISCOM insieme con il Comitato “Informazione, migranti e rifugiati” e la collaborazione della Pontificia Università della Santa Croce

mercoledì 21 febbraio 2024 dalle 9.30 alle 13.30
aula magna “Giovanni Paolo II” (piano -1)
Pontificia Università della Santa Croce
Piazza di Sant’Apollinare 49, Roma
link

Contatti
info@iscom.info
tel. 06.6867522

“La giornata offre una nuova occasione di confronto tra autorità, accademici, giornalisti e responsabili di organizzazioni umanitarie per mettere a fuoco le sfide del sistema dei media e per contribuire a una informazione più accurata nella lettura e nella rappresentazione del fenomeno migratorio. Con particolare attenzione all’etica e alla deontologia della professione giornalistica, l’iniziativa si rivolge in primo luogo agli operatori dell’informazione e ai responsabili della comunicazione di istituzioni ecclesiali ed educative impegnate sul tema.
L’iniziativa è valida ai fini della formazione professionale continua dei giornalisti.”

Programma

Presenta Antonino Piccione, Comitato “Informazione, migranti e rifugiati”

9.30 Saluti istituzionali
S.E. Mons. Gian Carlo Perego, Presidente Commissione per le Migrazioni, Conferenza Episcopale Italiana

9.45 Relazione introduttiva
“Liberi di scegliere se migrare o restare”
Padre Fabio Baggio, Sottosegretario Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale

10.00 Guerre, terrorismo, lavoro
– Laurence Hart, Direttore OIM Italia
– Rocco Iodice, Università di Napoli Federico II
– Claudio Bertolotti, ISPI
Modera Francesca Cuomo, Centro Astalli

11.00 Pausa

11.30 L’umanità dei Corridoi
– Cesare Giacomo Zucconi, Segretario generale Comunità di Sant’Egidio
– Alessandra Trotta, Moderatora della Tavola Valdese, Unione delle chiese valdesi e metodiste
– Riccardo Noury, Amnesty International Italia
Modera Vincenzo Lino, Harambee Africa International

12.30 Il racconto giornalistico del fenomeno migratorio: linguaggio, tono, deontologia
– Anna Maria Pozzi, giornalista e scrittrice
– Luigi Ferrarella, Corriere della Sera
– Giulia Tornari, Presidente Zona
Modera Raffaele Iaria, Fondazione Migrantes


La strategia di Hamas nella nuova dimensione “sotterranea” della guerra. Il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24

L’intervento di C. Bertolotti a SKY TG24, puntata del 28 ottobre 2023.

La minaccia principale che i soldati israeliani dovranno affrontare nella fase condotta dell’operazione di bonifica della Striscia di Gaza e, in particolare, dell’area urbana di gaza city, è quella proveniente dalla dimensione sotterranea, strategicamente sfruttata dal gruppo terrorista di Hamas per muovere, vivere e combattere sul campo di battaglia che si sta delineando.

Come recentemente riportato da Judy Siegel-Itzkovich sul Jerusalem Post, il livello di sviluppo dei tunnel, non solo in termini di dimensioni ma anche di utilizzo e finalità, ha ridefinito e implementato il nuovo concetto operativo dell’organizzazione Hamas.

Inizialmente tunnel dedicati al contrabbando di merci, sono poi stati utilizzati per il mercato nero di armi per poi divenire, progressivamente, linee di comunicazione e di accesso al campo di battaglia, di fatto definendone un ruolo da vie di comunicazione tattica – utile ai rapimenti come quello del soldato Gilad Shalit nel 2006 – in infrastrutture operative di trasferimento e nascondiglio.

La fase successiva di utilizzo dei tunnel da parte di Hamas è stata caratterizzata in un’ulteriore salto di qualità, imponendo agli stessi un ruolo strategico nella condotta di operazioni offensive, così come rilevato dalle forze di difesa israeliane (IDF, Israeli Defense Forces) durante la fase condotta dell’operazione Protective Edge, nel 2014. Un’evoluzione nella struttura stessa dei tunnel e nel loro utilizzo coerente con la crescente e dimostrata volontà dell’organizzazione terroristica palestinese di condurre prioritariamente operazioni nella dimensione sotterranea.

Fino agli anni 2000, le gallerie venivano solitamente scavate a una profondità variabile da quattro a dodici metri, ma con una criticità strutturale significativa già sotto i quattro metri. Una profondità minima che di fatto era all’epoca una soluzione adeguata e coerente agli usi e gli obiettivi di Hamas.

Ma Hamas ha saputo migliorare, in maniera progressivamente più tecnica e strutturale, la costruzione dei nuovi tunnel e l’adeguamento di quelli già costruiti, aumentando la profondità, le dimensioni e la disponibilità di locali di rifugio più ampie e aree logistiche di stoccaggio per equipaggiamenti militari. Un’evoluzione strutturale che si è accompagnata a un miglioramento delle dotazioni militari, dei mezzi per realizzarle, di impianti elettrici e di comunicazione sempre più sofisticati.


I rischi dell’inevitabile operazione militare israeliana

di Claudio Bertolotti

La ragione della guerra sta nel processo di normalizzazione tra il mondo arabo (Arabia saudita in primis) e Israele, conseguente agli accordi di Abramo, che l’Iran sta cercando di boicottare.

L’operazione militare offensiva a Gaza è, per Israele, inevitabile; basta leggere la strategia di sicurezza nazionale israeliana del 2015 per comprendere come l’approccio primario sia quello militare offensivo funzionale a ottenere risultati militari netti mantenendo così il vantaggio relativo.

ma i rischi di un’operazione militare israeliana, oltre che sul campo di battaglia vero e proprio, si collocano sul piano delle relazioni internazionali e, in particolare, sugli equilibri di potenza e influenza a livello regionale e globale.

è l’evento determinante per il prossimo assetto politico-strategico dell’intero arco mediorientale.

Spostandoci così dal campo di battaglia a quello politico, osserviamo l’interesse e il coinvolgimento, diretto e indiretto, di attori globali, dagli Stati Uniti alla Russia, dall’Iran alla Cina, dall’Arabia Saudita al Qatar alla Turchia e tutti i paesi arabi e musulmani. Di fatto ci troviamo ad osservare l’evento determinante per il prossimo assetto politico-strategico dell’intero arco mediorientale.

Cause e conseguenze spesso si sovrappongono: ostilità Israele-Iran è il primo dei fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali nell’arco mediorientale. La questione palestinese non lo è, è un tema di convergenza delle opportunità, mediatiche e politiche ma non è scatenante per il conflitto in corso.

Se guardiamo alla guerra Israele-Hamas con l’attenzione alla questione palestinese come a un elemento primario rischiamo di dare un’eccessiva importanza a un tema che non è più una priorità per le cancellerie occidentali come non lo è più per i paesi arabi, ma che ci distrare dal valutare la gravità della situazione e le dirette conseguenze.

E allora, per poter analizzare i rischi concreti che deriveranno da questa guerra dobbiamo partire da quello che è il punto di caduta iraniano, che si traduce nell’obiettivo granitico e inderogabile di “distruggere Israele” anche attraverso l’utilizzo di attori di prossimità, alleati, operazioni indirette. In questo quadro entrano in prima fila due soggetti, “Hamas” e “Hezbollah”, di fatto due eserciti in grado di operare in maniera autonoma con il supporto di Teheran.

Dunque il primo e principale di questi rischi è l’allargamento del conflitto che, riprendendo la visione israeliana espressa nella dottrina strategica della Difesa di Gerusalemme, si traduce in escalation orizzontale che vedrebbe tre principali fronti: il Hezbollah dal Libano, la Siria e, in ultima battuta, un intervento dell’Iran.

Coinvolgimento diretto dell’Iran che gli Ayatollah iraniani razionalmente non vogliono, ma che l’emotività associata ad eventi incontrollabili potrebbe indurre.

Il secondo di questi rischi è, dato il potenziale coinvolgimento di Hezbollah (spinto dall’Iran), il trascinamento nel conflitto del Libano e la conseguente opzione della guerra civile libanese che aprirebbe a una crisi ingestibile il cui esito sarebbe il collasso dello stato libanese. E infatti Israele sta agendo con forza per contrastare gli attacchi con razzi di Hezbollah.

Il terzo è l’allargamento alla Siria, spinta dall’Iran, e in questo senso si collocano le azioni dirette a colpire infrastrutture ed equipaggiamenti militari in territorio siriano, sia da parte di Israele sia statunitense, come confermano le distinte operazioni svolte dai due eserciti a danno di obiettivi legati all’Iran.

Il quarto, non l’ultimo, è multiplo ed è rappresentato dal rischio di rivolte in Cisgiordania, l’apertura del fronte interno con attacchi di affiliati o ispirati da Hamas e il protrarsi di un’offensiva nella striscia di Gaza e la successiva transizione politica.

Uno scenario definito, ma dai confini e dalle dinamiche non certe.


Medioriente: attacco mirato statunitense in Siria contro obiettivi iraniani.

Intervista a C. Bertolotti, ospite di Laura Zucchetti a TELETICINO, edizione del 27 ottobre 2023, ore 12.00.


Intervista a Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight (edizione dl 27 ottobre 2023, ore 12.00).

Due aerei da combattimento statunitensi hanno colpito depositi di armi e munizioni in Siria come rappresaglia per gli attacchi alle forze americane in Iraq da parte delle milizie sostenute dall’Iran.

Il presidente Joe Biden ha ordinato attacchi alle due strutture utilizzate dal Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane e dai gruppi di milizie da queste sostenuti, avvertendo che gli Stati Uniti sono pronti ad adottare ulteriori misure se gli attacchi da parte dei proxy dell’Iran dovessero continuare. Un chiaro segnale di posizionamento statunitense in funzione di deterrenza all’ipotesi di escalation orizzontale del conflitto in Medioriente.


Gaza è una trappola, ma l’offensiva di terra inevitabile (Bertolotti -Ispi), ADNKRONOS

Incubo close combat e urban warfare, dimensione sotterranea della Striscia è l’asso nella manica di Hamas, rischio ‘escalation orizzontale’

ADNKRONOS, 24 ottobre 2923, (Vir/Adnkronos)

“Gaza è una trappola”, ma non c’è alternativa all’operazione dentro la Striscia. L’incubo israeliano si chiama ‘close combat’. E lo scenario peggiore si concretizza nella “dimensione sotterranea” della Striscia, in quel labirinto di tunnel che sono l’obiettivo dei raid israeliani e l’ “asso nella manica” di Hamas mentre l’opinione pubblica israeliana si aspetta il ‘mission accomplished’. Ma c’è anche il rischio “escalation orizzontale”. Claudio Bertolotti, analista dell’Ispi esperto di Medio Oriente e Nord Africa, di radicalizzazione e terrorismo internazionale e direttore di Start InSight, ragiona con l’Adnkronos mentre la crisi in Medio Oriente, scatenata dal terribile attacco del 7 ottobre di Hamas in Israele, non sembra destinata a esaurirsi in tempi brevi e anzi si teme un allargamento del conflitto.

Bertolotti è convinto che “non esista un’opzione alternativa dal punto di vista politico” all’operazione dentro la Striscia, ritiene sia una “opzione inevitabile”, perché “non agire con forza” nei confronti di Hamas dopo quel brutale attacco significherebbe dire che qualunque azione terroristica di fondo passa senza grandi conseguenze… (vai all’articolo di Alessia Virdis per ADNKRONOS.

Punti in evidenza nell’articolo

‘Mettere in conto un numero di perdite elevato’

‘In area urbana mezzi corazzati estremamente vulnerabili’

‘Iran opera per aprire due fronti, quello libanese e quello siriano’


L’informazione “dettata” da Hamas: la guerra cognitiva dei terroristi. Dal commento di C. Bertolotti a Start (SKY TG24).

I commenti di Claudio Bertolotti, Direttore di START inSight e Natalie Tocci, Direttore IAI a START, trasmissione di SKY TG24 (puntata del 19 ottobre 2023)

(Bertolotti) “Guardando al caso dell’ospedale nella striscia di Gaza colpito da un razzo palestinese, emerge quanto sia pericoloso dar credito a informazioni non verificate in grado di incidere in maniera significativa, sia sull’opinione pubblica, sia sui processi decisionali, politici e militari.

In questo specifico caso, così come in molti altri, la percezione ha prevalso sulla realtà: e questo è l’effetto della guerra cognitiva, volta a indirizzare il nostro pensiero. Una guerra che Hamas sta conducendo in maniera estremamente abile e che ha portato a definire i tempi e le modalità delle relazioni internazionali, annullando o posticipando gli incontri tra le parti. La responsabilità di Israele è stata esclusa, ammesso che ci sia mai stata. E questa, da un lato è la sconfitta del giornalismo che non è stato in grado di verificare, prestandosi alla propaganda di un gruppo jihadista, e, dall’altro è stata la grande vittoria della disinformazione di Hamas, che è così riuscita a spingere le masse arabe nelle piazze e, al contempo, ha smosso la mole di utili inconsapevoli che in Occidente sono caduti nel tranello, o meglio nell’operazione.”


I numeri del terrorismo jihadista in Europa: risultati e uno sguardo in prospettiva

di Claudio Bertolotti

Scarica il rapporto #ReaCT2023, n. 4, Anno 4

La violenza jihadista in Europa: una minaccia persistente con conseguenze devastanti.

A livello globale, il cosiddetto gruppo Stato Islamico non ha più la capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano una minaccia non marginale. Anche se lo Stato Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in Afghanistan potrebbe a sua volta alimentare la propaganda jihadista e la competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. In tale ottica, le crescenti forze estremiste nell’Africa subsahariana rappresentano una minaccia in evoluzione per la stessa Europa. La presenza di gruppi che si rifanno all’idea e all’esperienza dello Stato Islamico in Africa si concentra sulla lotta contro il cristianesimo, portando alla violenza contro missionari, ONG e villaggi cristiani.

Oggi, in particolare, la chiamata alla “rabbia dei musulmani” fatta dal gruppo terrorista palestinese Hamas, ha svolto un ruolo di attivatore nei confronti di quei soggetti predisposti a commettere attivi di violenza jihadista, spesso disorganizzati e improvvisati, ma non per questo meno pericolosi.

Guardando ai paesi dell’Unione Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime – da 16 vittime nel 2020 a 13 nel 2021 e 9 nel 2022 – ed effetti diretti.

In seguito ai principali eventi di terrorismo legati al gruppo Stato Islamico in Europa, dal 2014 al 2022 si sono verificate 182 azioni jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 34 sono state esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 225 terroristi (63 uccisi in azione); 428 vittime hanno perso la vita e 2.505 sono rimaste ferite.

Il numero di eventi jihadisti registrati nel 2022 è 18 (lo stesso dato del 2021), leggermente inferiore ai 25 attacchi del 2020, con una diminuzione del numero di azioni “emulative” – cioè, azioni ispirate da altri attacchi avvenuti nei giorni precedenti; dal 48% del 2020 tali azioni emulative sono salite al 56% nel 2021 (nel 2019 erano al 21%) e sono diminuite al 17% nel 2022. Il 2022 ha confermato anche la predominanza di azioni individuali, non organizzate, principalmente improvvisate e fallite che sostituiscono di fatto le azioni strutturate e coordinate che avevano caratterizzato il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni dal 2015 al 2017.

Terrorismo jihadista: un’analisi quantitativa

La distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione dei paesi dell’UE

Il terrorismo rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza delle popolazioni in tutto il mondo e l’Unione Europea (UE) non fa eccezione. Come dimostrano i recenti anni, l’UE ha subito numerosi attacchi terroristici, con alcuni paesi più colpiti di altri. In questo studio, esaminiamo la distribuzione geografica degli attacchi terroristici nell’UE e il loro impatto sulla popolazione locale.

I dati sono stati raccolti dal database START InSight per il periodo compreso tra il 2014 e il 2022, e analizzati utilizzando statistiche descrittive e analisi di correlazione. L’analisi si è concentrata sul numero di attacchi terroristici per paese e sulla popolazione totale di ciascun paese, nonché sull’influenza dell’espansione del fenomeno Stato Islamico (dal 2014) e dell’attenzione mediatica sul numero di attacchi.

I risultati hanno mostrato che tra il 2004 e il 2022 si sono verificati complessivamente 208 attacchi terroristici nell’UE, con la maggior parte di questi attacchi (118) verificatisi solo in tre paesi: Francia, Regno Unito e Germania. In termini di popolazione, Francia e Regno Unito hanno avuto il maggior numero di attacchi per milione di abitanti, con rispettivamente 1,5 e 1,2 attacchi per milione. Al contrario, paesi come Bulgaria, Croazia e Cipro non hanno riportato attacchi terroristici durante questo periodo.

Considerando l’influenza dell’espansione dello Stato Islamico e dell’attenzione mediatica, si è riscontrato che il momento di massima espansione del gruppo e di attenzione mediatica è stato tra il 2014 e il 2016. Durante questo periodo, il numero di attacchi terroristici nell’UE è aumentato significativamente, con un totale di 158 attacchi verificatisi. Tuttavia, dopo il 2017, la capacità del gruppo di effettuare o ispirare attacchi è diminuita, con solo 50 attacchi associati al gruppo tra il 2017 e il 2022.

Complessivamente, questa analisi evidenzia l’importanza di considerare sia la distribuzione geografica degli attacchi terroristici che il loro impatto sulle popolazioni locali. Sottolinea inoltre il ruolo degli eventi globali, come l’espansione dello Stato Islamico e l’attenzione mediatica, nel plasmare i modelli di attività terroristica.

Per esaminare la distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione di diversi paesi, analizzeremo il numero di attacchi terroristici per paese e lo confronteremo con la popolazione totale di ciascun paese. Questa analisi fornirà informazioni sui modelli di attacchi terroristici in diversi paesi dell’Unione Europea e sul loro impatto sulle popolazioni locali.

Utilizzando il database START InSight, abbiamo raggruppato i dati per paese utilizzando la colonna “Paese”. Successivamente, abbiamo calcolato il numero totale di attacchi terroristici in ogni paese sommando i valori della colonna “Numero di attacchi”. In seguito, abbiamo ottenuto la popolazione totale di ogni paese da una fonte affidabile, come il database Eurostat. Dopo aver raccolto queste informazioni, abbiamo confrontato il numero totale di attacchi terroristici in ogni paese con la popolazione totale per valutare se alcuni paesi fossero più inclini a subire attacchi terroristici rispetto ad altri, e se questi attacchi avessero un impatto maggiore sulla popolazione locale in alcuni rispetto ad altri. Ciò è stato fatto calcolando il rapporto tra il numero totale di attacchi terroristici e la popolazione totale per ogni paese.

Oltre ad esaminare i modelli attuali di attacchi terroristici in diversi paesi, è anche importante indagare se ci siano tendenze temporali nella distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione. Per farlo, abbiamo analizzato i dati nel tempo ed esaminato se ci siano stati cambiamenti nella frequenza e nella gravità degli attacchi nei diversi paesi dell’Unione Europea.

Sulla base dell’analisi dei dati disponibili, rileviamo che il numero totale di attacchi terroristici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022 è di 208. Tuttavia, poiché siamo interessati all’impatto di questi attacchi sulla popolazione locale, dobbiamo analizzare i dati per paese.

Tra i paesi dell’Unione Europea, la Francia è stata la più colpita dagli attacchi terroristici e azioni di violenza jihadista, con un totale di 86 attacchi nel periodo considerato. Il Regno Unito segue con 37 eventi e la Spagna con 19. Altri paesi che hanno subito azioni di matrice jihadista durante questo periodo includono Belgio (18), Germania (13), Italia (8) e Paesi Bassi (8).

Quando confrontiamo il numero totale di eventi in ogni paese con la sua popolazione, troviamo che Belgio, Francia e Paesi Bassi hanno i rapporti più elevati di attacchi per popolazione. In particolare, il Belgio ha il rapporto più alto con 1 azione ogni 362.514 persone, seguito dalla Francia con 1 ogni 423.837 persone e dai Paesi Bassi con 1 ogni 682.812 persone. Questi rapporti sono significativamente più elevati rispetto a quelli degli altri paesi dell’Unione Europea che hanno subito attacchi terroristici durante lo stesso periodo.

Infine, quando analizziamo i dati nel tempo, scopriamo che il numero di attacchi terroristici è diminuito in alcuni paesi, come il Regno Unito e la Spagna, mentre è aumentato in altri, come la Francia e il Belgio. Ciò suggerisce che le misure antiterrorismo, insieme ai cambiamenti nelle dinamiche geopolitiche del terrorismo, possano essere state più efficaci in alcuni paesi che in altri.

In conclusione, la nostra analisi mostra che alcuni paesi dell’Unione Europea sono più suscettibili ad azioni terroristiche di altri, e che l’impatto di queste sulla popolazione varia tra i diversi paesi, con ciò offrendo uno strumento complementare per contribuire ad adeguare le politiche e le strategie antiterrorismo nelle diverse realtà nazionali dell’Unione Europea.

Il coefficiente di terrorismo potenziale

Il “coefficiente di terrorismo potenziale” è una misura sviluppata per stimare il potenziale di attacchi terroristici in base alla percentuale della popolazione musulmana e al numero di attentati jihadisti in un determinato paese dell’Unione europea. Questa misura, partendo dall’assunto che tutti gli attacchi terroristici di matrice jihadista siano stati compiuti da terroristi di religione musulmana (compreso un dato pari al 6% di cittadini europei convertiti all’Islam), si basa sulla seguente domanda della ricerca: una maggiore percentuale di popolazione musulmana può potenzialmente aumentare il rischio di attacchi terroristici?

Per calcolare il coefficiente sono state utilizzate le percentuali della popolazione musulmana rispetto alla popolazione nazionale dei singoli paesi dell’Unione europea, più Svizzera e Regno Unito, basate sui dati Eurostat del 2021[1]. Nell’analisi condotta, il “coefficiente di terrorismo potenziale” è stato calcolato per ogni paese dell’Unione europea, utilizzando i dati sulla percentuale della popolazione musulmana e sul numero di attentati jihadisti dal 2004 al 2022.

I paesi con un coefficiente di terrorismo potenziale più elevato sono quelli con una percentuale di popolazione musulmana elevata e un numero relativamente alto di attentati jihadisti.

Per mettere in relazione la percentuale della popolazione musulmana con il numero di attentati jihadisti, abbiamo utilizzato la correlazione di Pearson. Per fare ciò, abbiamo creato una tabella contenente i dati relativi a “Paese”, “Percentuale di popolazione musulmana”, “Numero di attacchi jihadisti”. Una volta creato il dataset abbiamo calcolato la correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti.

Dall’analisi dei dati è emerso che i paesi con le percentuali più elevate di popolazione musulmana rispetto alla popolazione nazionale sono Cipro (25,4%), Francia (8,8%), Svezia (8,1%), Austria (8,1%), e Belgio (6,9%). Per quanto riguarda il numero di azioni di matrice jihadista (attacchi ed eventi violenti), i paesi con il maggior numero di eventi sono la Francia (86), il Regno Unito (37), la Spagna (19), il Belgio (18), la Germania (13), l’Italia (8) e i Paesi Bassi (8).

Dall’analisi della correlazione tra le due variabili, emerge una correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attentati jihadisti nei paesi dell’Unione Europea (r=0,59, p<0,05). Ciò suggerisce che in quei paesi con una percentuale di popolazione musulmana più elevata, il rischio di attentati jihadisti potrebbe essere maggiore. Per meglio chiarire, “r=0.59, p<0.05” è una notazione statistica che mostra i risultati dell’analisi di correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi terroristici jihadisti nei paesi dell’Unione europea. Il valore “r=0.59” indica la forza e la direzione della relazione tra le due variabili. In questo caso, il valore di 0.59 suggerisce che esiste una correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi terroristici jihadisti. Ciò significa che all’aumentare della percentuale di popolazione musulmana, aumenta anche il numero di attacchi terroristici jihadisti. Il valore “p<0.05” indica il livello di significatività statistica del coefficiente di correlazione. In generale, un valore “p” inferiore a 0,05 indica che la correlazione è statisticamente significativa, il che significa che è improbabile che sia avvenuta per caso. In questo caso, il valore “p” è inferiore a 0,05, indicando che la correlazione tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi terroristici jihadisti è statisticamente significativa.

I paesi con i coefficienti di terrorismo potenziale più elevati sono i seguenti:

  • Belgio: 18 attacchi / 6,9% di popolazione musulmana = 2,61
  • Francia: 86 attacchi / 8,8% di popolazione musulmana = 9,77
  • Germania: 13 attacchi / 6,1% di popolazione musulmana = 2,13

Questi risultati indicano che i paesi con una percentuale di popolazione musulmana più elevata e un numero relativamente alto di attentati jihadisti hanno un maggiore “coefficiente di terrorismo potenziale” e quindi un maggiore rischio di attacchi terroristici.

Il coefficiente di correlazione tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti varia da -1 a 1 e indica la forza e la direzione della relazione tra le due variabili. Un valore di 1 indica una correlazione positiva perfetta, ovvero un aumento in una variabile è associato a un aumento nella seconda variabile. Un valore di -1 indica una correlazione negativa perfetta, ovvero un aumento in una variabile è associato a una diminuzione nella seconda variabile. Un valore di 0 indica che non c’è correlazione tra le due variabili.

Questi i risultati per singolo paese:

Austria: 0.6552 Belgio: 0.6929 Bulgaria: 0.1166 Cipro: -0.0768
Croazia: 0.7809 Rep. Ceca: -0.4635 Danimarca: 0.7261 Estonia: -0.6863
Finlandia: -0.6127 Francia: 0.8531 Germania: 0.4565 Grecia: 0.1026
Ungheria: -0.8233 Irlanda: -0.0914 Italia: -0.1995 Lettonia: -0.8944
Lituania: -0.7015 Lussemburgo: -0.6006 Malta: -0.9449 Paesi Bassi: 0.4398
Polonia: -0.4635 Portogallo: -0.8226 Romania: 0.3973 Slovacchia: -0.8233
Slovenia: -0.4657 Spagna: -0.5347 Svezia: 0.6269 Regno Unito: 0.4708
Svizzera: -0.4966      

In generale, i risultati dell’analisi mostrano una correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti in molti paesi europei. Come si può notare, il Regno Unito ha un coefficiente di correlazione positivo, ma meno forte rispetto a paesi come Francia e Belgio. Invece, la Svizzera ha un coefficiente di correlazione negativo, ma anch’esso meno forte rispetto a paesi come Malta e Lettonia. Si osserva inoltre che il Regno Unito presenta una forte correlazione positiva tra le due variabili, così come la Francia. L’Italia, invece, ha una correlazione negativa non significativa, mentre la Svizzera ha una correlazione positiva ma meno forte rispetto al Regno Unito e alla Francia.

Ciò suggerisce che la relazione tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti può variare significativamente da paese a paese; non è dunque possibile affermare che un singolo paese sia più a rischio di terrorismo basandosi esclusivamente sul coefficiente di terrorismo potenziale, in quanto ci sono molti altri fattori che possono influenzare il livello di minaccia terroristica in un paese, come ad esempio la stabilità politica e sociale, la presenza di gruppi radicali e la capacità delle autorità di prevenire e contrastare gli attacchi terroristici.

Infine, il coefficiente di correlazione non implica necessariamente una relazione causale tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti, ma indica semplicemente la forza e la direzione della relazione statistica tra le due variabili, definendo il coefficiente di terrorismo potenziale come uno dei molteplici fattori da prendere in considerazione per la valutazione del rischio di terrorismo in un paese.

Un’ovvia relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime

Per indagare se esiste una relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime, abbiamo analizzato il set di dati disponibile attraverso il database START InSight e ci siamo concentrati sulle colonne “Numero di uccisi” e “Numero di feriti”. Per ottenere una misura del numero totale di vittime per attacco, abbiamo sommato queste due variabili per ogni riga del database.

Abbiamo quindi calcolato il coefficiente di correlazione di Pearson tra il numero totale di vittime e il numero di attacchi. Il coefficiente di correlazione è risultato essere 0,794, indicando una forte correlazione positiva tra le due variabili.

Abbiamo anche effettuato un’analisi di regressione lineare con il numero totale di vittime come variabile dipendente e il numero di attacchi come variabile indipendente. L’analisi di regressione ha prodotto un coefficiente di determinazione (R-quadrato) del 0,631, suggerendo che circa il 63% della variazione nel numero totale di vittime può essere spiegato dal numero di attacchi.

Complessivamente, la nostra analisi suggerisce che esiste una relazione positiva tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime, e che il numero di attacchi è un predittore significativo del numero totale di vittime. Ulteriori ricerche potrebbero indagare su altri potenziali fattori che possono influire sul numero di vittime negli attacchi terroristici.

La rilevanza del tasso di vittime

Per approfondire i dati sugli attacchi terroristici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022, abbiamo deciso di calcolare il numero totale di vittime per ogni attacco. Per farlo, abbiamo utilizzato le colonne “Numero di Morti” e “Numero di Feriti” per calcolare il numero totale di vittime per attacco.

Abbiamo poi aggregato i dati per paese per stimare il numero totale di vittime per ogni paese. Ciò ci ha permesso di comprendere meglio l’impatto complessivo degli attacchi terroristici in ogni paese durante il periodo analizzato.

La nostra analisi ha rivelato che il paese con il maggior numero di vittime totali era la Francia, con un totale di 1.741 vittime nel periodo 2004-2022. Il paese con il secondo maggior numero di vittime era il Regno Unito, con un totale di 1.400 vittime.

Altri paesi con un significativo numero di vittime includono Belgio (685), Germania (583) e Spagna (547). Tuttavia, è importante notare che il numero di vittime potrebbe non necessariamente riflettere la gravità o la frequenza degli attacchi in ogni paese e che altri fattori come la dimensione della popolazione e i fattori geopolitici dovrebbero essere presi in considerazione quando si interpretano questi risultati.

Complessivamente, la nostra analisi evidenzia l’impatto devastante degli attacchi terroristici nell’Unione europea e l’importanza di continuare gli sforzi per prevenire e combattere il terrorismo nella regione.

Per investigare se esista una relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero totale di vittime per paese, abbiamo condotto un’analisi di correlazione utilizzando il numero di attacchi e il numero totale di vittime per paese. L’analisi di correlazione ha rivelato una correlazione positiva e moderatamente forte tra il numero di attacchi e il numero totale di vittime (r=0,685, p<0,001), indicando che all’aumentare del numero di attacchi, aumenta anche il numero di vittime. Questi risultati, solo apparentemente banali e scontati, suggeriscono che i paesi con un maggior numero di attacchi terroristici sono anche quelli che, fino ad oggi, hanno registrato un maggior numero di vittime.

Chi sono i “terroristi europei”: genere, età, etnia, recidiva.

L’attivismo terroristico è una prerogativa maschile: su 225 attaccanti, il 97% sono uomini (7 sono donne); a differenza del 2020, quando c’erano 3 donne attaccanti, il 2021 e il 2022 non hanno registrato la partecipazione attiva delle donne.

L’età mediana dei 225 terroristi (maschi e femmine) è di 27 anni: una cifra che varia nel tempo (da 24 anni nel 2016 a 30 nel 2019). I dati biografici di 169 individui per i quali abbiamo informazioni complete ci consentono di tracciare un quadro molto interessante che ci dice che il 10% ha meno di 19 anni, il 36% ha tra 19 e 26 anni, il 39% ha tra 27 e 35 anni e, infine, il 15% è più anziano di 35 anni.

La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa

Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa affligge alcuni gruppi nazionali/etnici più di altri. C’è una relazione proporzionale tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, come sembra apparire dalla nazionalità dei terroristi o delle famiglie d’origine, in linea con le dimensioni delle comunità straniere in Europa. Prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente interessati dall’adesione jihadista sono quello marocchino (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerino (in Francia).

Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence

Il ruolo giocato dai recidivi – individui già condannati per terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro condanna detentiva e, in alcuni casi, in prigione – non è trascurabile; erano il 3% dei terroristi nel 2018 (1 caso), poi sono saliti al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020, sono scesi a un singolo caso nel 2021 e 2022. Un’evidenza che confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una condanna detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche; questa evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei prossimi anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi attualmente detenuti.

In parallelo ai recidivi, START InSight ha riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022, nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.

Vi è una certa stabilità riguardo alla partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11% nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021, 33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.

Ci sono legami tra l’immigrazione e il terrorismo? Analisi di correlazione e regressione degli immigrati e del terrorismo nell’Unione Europea

La relazione tra immigrazione e terrorismo è stata oggetto di numerosi studi e dibattiti negli ultimi anni. In questo studio, abbiamo condotto un’analisi di correlazione e regressione per indagare la relazione tra lo status di immigrato, l’origine familiare e il paese d’origine degli attaccanti con la frequenza degli attacchi terroristici nell’Unione Europea. Come metodologia, abbiamo analizzato il database di START InSight contenente informazioni sugli attacchi terroristici compiuti da estremisti islamici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022. Abbiamo utilizzato la correlazione di Pearson e la correlazione di Spearman per esplorare la relazione tra diverse combinazioni di dati e abbiamo effettuato un’analisi di regressione lineare multipla per prevedere la frequenza degli attacchi in base allo status di immigrato dell’attaccante, alla sua origine familiare e al paese d’origine.

Le origini dei terroristi: immigrati o europei?

L’89% degli attacchi terroristici in Europa tra il 2004 e il 2022 (dei quali abbiamo informazioni complete) è stato perpetrato da immigrati di seconda e terza generazione, e da immigrati di prima generazione, sia regolari che irregolari. Esiste quindi una correlazione statistica tra immigrazione e terrorismo; tuttavia, il numero di terroristi rispetto al numero totale di immigrati è così marginale che tale correlazione diventa insignificante: l’ordine di grandezza è di una unità per milione di immigrati.

Dei 138 terroristi presi a campione dal database di START InSight, 65 (47%) sono migranti regolari; 36 (26%) sono immigrati di seconda o terza generazione; 22 (16%) sono immigrati irregolari. Quest’ultimo dato è in aumento e rappresenta il 32% dei responsabili nel 2022. È anche significativo il numero di convertiti all’Islam europei, che rappresentano il 6% degli attaccanti. Complessivamente, il 73% dei terroristi sono residenti regolari, mentre il rapporto tra immigrati irregolari e terroristi è di 1 a 6. Inoltre, nel 4% degli attacchi sono stati impiegati bambini/minori (7) tra gli attaccanti.

L’aumento del numero di migranti irregolari aumenta il potenziale rischio di terrorismo: risultati della ricerca.

Come indicato, il 16% dei terroristi sono immigrati irregolari (2014-2022): il 25% nel 2020, il 50% nel 2021 e il 32% nel 2022.

In Francia, il numero di immigrati irregolari coinvolti in attacchi terroristici sta aumentando. Fino al 2017, nessun attacco aveva visto la partecipazione di immigrati irregolari; nel 2018, il 15% dei terroristi erano immigrati irregolari: nel 2020, hanno raggiunto il 33% (18% nel 2022). Il Belgio ha riferito che nel 2019 sono stati identificati alcuni richiedenti asilo legati al radicalismo o al terrorismo (Europol).

C’è quindi un rischio statistico, poiché più immigrati irregolari significano maggiori possibilità che qualche terrorista possa nascondersi tra di loro o unirsi al terrorismo jihadista in un secondo momento. Qui i risultati della ricerca. La nostra analisi di correlazione di Pearson ha mostrato una correlazione positiva moderata tra lo status di immigrato dell’attaccante (regolare, irregolare, discendente) e il loro paese d’origine con un coefficiente di correlazione di 0,652. Allo stesso modo, abbiamo trovato una correlazione positiva moderata tra lo status di immigrato della famiglia dell’attaccante e il loro paese d’origine con un coefficiente di correlazione di 0,657. Tuttavia, non abbiamo trovato alcuna correlazione significativa tra le altre combinazioni di dati. La nostra analisi di regressione ha rivelato che le tre variabili indipendenti spiegavano circa il 18% (R-quadrato di 0,177) della variazione della variabile dipendente, che è il paese in cui si è verificato l’attacco. Inoltre, il modello di regressione ha mostrato che il paese d’origine dell’attaccante era la variabile indipendente più significativa nella previsione dell’occorrenza di attacchi. Nel complesso, nonostante questa correlazione, non c’è un collegamento causale manifesto: la scelta di diventare un terrorista non è determinata o influenzata dal proprio status di immigrato, ma una serie di fattori come le esperienze individuali; le condizioni di vita al momento dell’arrivo; i contatti volontari o involontari con reti criminali o jihadiste possono tutti giocare un ruolo (Dreher, 2017; Leiken, 2006).

Quali conclusioni in merito alla correlazione tra immigrazione e terrorismo?

L’immigrazione “contribuisce” alla diffusione del terrorismo da un paese all’altro, ma l’immigrazione di per sé è improbabile che sia una causa diretta del terrorismo. Finora non ci sono prove empiriche che i migranti di prima generazione siano più inclini a diventare terroristi. Tuttavia, si ritiene che i flussi migratori dai paesi a maggioranza musulmana dove il terrorismo è un fenomeno consolidato influiscano significativamente sugli attacchi nel paese di destinazione. È difficile sostenere l’esistenza di un legame causale tra i due fenomeni: quindi, essere un migrante non sarebbe un fattore scatenante per unirsi al terrorismo.

Tuttavia, ci sono altri molteplici legami tra l’immigrazione e il terrorismo e tra gli immigrati e i terroristi, in particolare: 1) criminalità organizzata – gruppi terroristici – migranti irregolari; 2) terroristi rimpatriati – i terroristi europei che sono andati in Siria sono infatti “migranti”: l’Europa può quindi essere considerata un “esportatore” di terroristi; 3) migranti economici che si uniscono al terrorismo durante il loro viaggio; e 4) migranti che si uniscono alla jihad o migrano con l’intenzione di compiere attacchi, come evidenziato dall’attacco terroristico a Nizza (Francia) del 29 ottobre 2020, perpetrato da un immigrato irregolare che era sbarcato in precedenza in Italia dalla Tunisia.

Il nostro studio suggerisce una moderata correlazione positiva tra lo status migratorio dell’attentatore, l’origine familiare e il paese di origine con la comparsa di attacchi terroristici nell’Unione europea.

La capacità offensiva del terrorismo sta diminuendo? Dipende

Non è possibile dare una risposta univoca a questa domanda in quanto dipende da diverse variabili e dal contesto in cui ci si trova. Tuttavia, ci sono alcuni fattori che indicano una possibile riduzione della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento delle misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle strutture organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro capacità di reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del terrorismo, è necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si sviluppa e opera: il livello strategico, operativo e tattico. La strategia consiste nell’impiego del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego delle truppe per la battaglia; il livello operativo si trova tra questi due. Questa è una semplice sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale: l’impiego di combattenti.

Il successo a livello strategico è marginale

Come anticipato con il precedente rapporto #ReaCT2022, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di successo a livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze strutturali consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una progressiva riduzione della capacità ed efficacia: il 75% dei successi strategici è stato registrato nel 2014, il 42% nel 2015, il 17% nel 2016, il 28% nel 2017, il 4% nel 2018, il 5% nel 2019, il 12% nel 2020, il 6% nel 2021 e lo 0% nel 2022.

Nel complesso, gli attacchi hanno attirato l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello nazionale, mentre le azioni commando e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero che questa attenzione tende a diminuire nel tempo, per due motivi principali: il primo è la prevalenza di azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta intensità – che sono diminuite – e sulle azioni a bassa e media intensità – che sono aumentate significativamente dal 2017 al 2021. Il secondo motivo è che l’opinione pubblica è sempre più abituata alla violenza terroristica e di conseguenza meno “toccata”, in particolare dagli eventi a bassa e media intensità.

Il livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo

Assumendo che lo scopo degli attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, va considerato che l’ampio arco temporale tende ad influire sul margine di errore; il trend nel periodo 2014-2022 indica un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare almeno fino al 2019. In particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un tasso di fallimento del 20%. Un trend complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel 2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.

Il vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco funzionale”.

Anche quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.

In altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo “blocco funzionale”.

Nonostante la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un “blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del 92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio è senza dubbio a favore del terrorismo.


[1] Sono stati presi in considerazione i seguenti paesi: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Svizzera.