La strategia di Hamas nella nuova dimensione “sotterranea” della guerra. Il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24

L’intervento di C. Bertolotti a SKY TG24, puntata del 28 ottobre 2023.

La minaccia principale che i soldati israeliani dovranno affrontare nella fase condotta dell’operazione di bonifica della Striscia di Gaza e, in particolare, dell’area urbana di gaza city, è quella proveniente dalla dimensione sotterranea, strategicamente sfruttata dal gruppo terrorista di Hamas per muovere, vivere e combattere sul campo di battaglia che si sta delineando.

Come recentemente riportato da Judy Siegel-Itzkovich sul Jerusalem Post, il livello di sviluppo dei tunnel, non solo in termini di dimensioni ma anche di utilizzo e finalità, ha ridefinito e implementato il nuovo concetto operativo dell’organizzazione Hamas.

Inizialmente tunnel dedicati al contrabbando di merci, sono poi stati utilizzati per il mercato nero di armi per poi divenire, progressivamente, linee di comunicazione e di accesso al campo di battaglia, di fatto definendone un ruolo da vie di comunicazione tattica – utile ai rapimenti come quello del soldato Gilad Shalit nel 2006 – in infrastrutture operative di trasferimento e nascondiglio.

La fase successiva di utilizzo dei tunnel da parte di Hamas è stata caratterizzata in un’ulteriore salto di qualità, imponendo agli stessi un ruolo strategico nella condotta di operazioni offensive, così come rilevato dalle forze di difesa israeliane (IDF, Israeli Defense Forces) durante la fase condotta dell’operazione Protective Edge, nel 2014. Un’evoluzione nella struttura stessa dei tunnel e nel loro utilizzo coerente con la crescente e dimostrata volontà dell’organizzazione terroristica palestinese di condurre prioritariamente operazioni nella dimensione sotterranea.

Fino agli anni 2000, le gallerie venivano solitamente scavate a una profondità variabile da quattro a dodici metri, ma con una criticità strutturale significativa già sotto i quattro metri. Una profondità minima che di fatto era all’epoca una soluzione adeguata e coerente agli usi e gli obiettivi di Hamas.

Ma Hamas ha saputo migliorare, in maniera progressivamente più tecnica e strutturale, la costruzione dei nuovi tunnel e l’adeguamento di quelli già costruiti, aumentando la profondità, le dimensioni e la disponibilità di locali di rifugio più ampie e aree logistiche di stoccaggio per equipaggiamenti militari. Un’evoluzione strutturale che si è accompagnata a un miglioramento delle dotazioni militari, dei mezzi per realizzarle, di impianti elettrici e di comunicazione sempre più sofisticati.


I rischi dell’inevitabile operazione militare israeliana

di Claudio Bertolotti

La ragione della guerra sta nel processo di normalizzazione tra il mondo arabo (Arabia saudita in primis) e Israele, conseguente agli accordi di Abramo, che l’Iran sta cercando di boicottare.

L’operazione militare offensiva a Gaza è, per Israele, inevitabile; basta leggere la strategia di sicurezza nazionale israeliana del 2015 per comprendere come l’approccio primario sia quello militare offensivo funzionale a ottenere risultati militari netti mantenendo così il vantaggio relativo.

ma i rischi di un’operazione militare israeliana, oltre che sul campo di battaglia vero e proprio, si collocano sul piano delle relazioni internazionali e, in particolare, sugli equilibri di potenza e influenza a livello regionale e globale.

è l’evento determinante per il prossimo assetto politico-strategico dell’intero arco mediorientale.

Spostandoci così dal campo di battaglia a quello politico, osserviamo l’interesse e il coinvolgimento, diretto e indiretto, di attori globali, dagli Stati Uniti alla Russia, dall’Iran alla Cina, dall’Arabia Saudita al Qatar alla Turchia e tutti i paesi arabi e musulmani. Di fatto ci troviamo ad osservare l’evento determinante per il prossimo assetto politico-strategico dell’intero arco mediorientale.

Cause e conseguenze spesso si sovrappongono: ostilità Israele-Iran è il primo dei fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali nell’arco mediorientale. La questione palestinese non lo è, è un tema di convergenza delle opportunità, mediatiche e politiche ma non è scatenante per il conflitto in corso.

Se guardiamo alla guerra Israele-Hamas con l’attenzione alla questione palestinese come a un elemento primario rischiamo di dare un’eccessiva importanza a un tema che non è più una priorità per le cancellerie occidentali come non lo è più per i paesi arabi, ma che ci distrare dal valutare la gravità della situazione e le dirette conseguenze.

E allora, per poter analizzare i rischi concreti che deriveranno da questa guerra dobbiamo partire da quello che è il punto di caduta iraniano, che si traduce nell’obiettivo granitico e inderogabile di “distruggere Israele” anche attraverso l’utilizzo di attori di prossimità, alleati, operazioni indirette. In questo quadro entrano in prima fila due soggetti, “Hamas” e “Hezbollah”, di fatto due eserciti in grado di operare in maniera autonoma con il supporto di Teheran.

Dunque il primo e principale di questi rischi è l’allargamento del conflitto che, riprendendo la visione israeliana espressa nella dottrina strategica della Difesa di Gerusalemme, si traduce in escalation orizzontale che vedrebbe tre principali fronti: il Hezbollah dal Libano, la Siria e, in ultima battuta, un intervento dell’Iran.

Coinvolgimento diretto dell’Iran che gli Ayatollah iraniani razionalmente non vogliono, ma che l’emotività associata ad eventi incontrollabili potrebbe indurre.

Il secondo di questi rischi è, dato il potenziale coinvolgimento di Hezbollah (spinto dall’Iran), il trascinamento nel conflitto del Libano e la conseguente opzione della guerra civile libanese che aprirebbe a una crisi ingestibile il cui esito sarebbe il collasso dello stato libanese. E infatti Israele sta agendo con forza per contrastare gli attacchi con razzi di Hezbollah.

Il terzo è l’allargamento alla Siria, spinta dall’Iran, e in questo senso si collocano le azioni dirette a colpire infrastrutture ed equipaggiamenti militari in territorio siriano, sia da parte di Israele sia statunitense, come confermano le distinte operazioni svolte dai due eserciti a danno di obiettivi legati all’Iran.

Il quarto, non l’ultimo, è multiplo ed è rappresentato dal rischio di rivolte in Cisgiordania, l’apertura del fronte interno con attacchi di affiliati o ispirati da Hamas e il protrarsi di un’offensiva nella striscia di Gaza e la successiva transizione politica.

Uno scenario definito, ma dai confini e dalle dinamiche non certe.


Medioriente: attacco mirato statunitense in Siria contro obiettivi iraniani.

Intervista a C. Bertolotti, ospite di Laura Zucchetti a TELETICINO, edizione del 27 ottobre 2023, ore 12.00.


Intervista a Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight (edizione dl 27 ottobre 2023, ore 12.00).

Due aerei da combattimento statunitensi hanno colpito depositi di armi e munizioni in Siria come rappresaglia per gli attacchi alle forze americane in Iraq da parte delle milizie sostenute dall’Iran.

Il presidente Joe Biden ha ordinato attacchi alle due strutture utilizzate dal Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane e dai gruppi di milizie da queste sostenuti, avvertendo che gli Stati Uniti sono pronti ad adottare ulteriori misure se gli attacchi da parte dei proxy dell’Iran dovessero continuare. Un chiaro segnale di posizionamento statunitense in funzione di deterrenza all’ipotesi di escalation orizzontale del conflitto in Medioriente.


Gaza è una trappola, ma l’offensiva di terra inevitabile (Bertolotti -Ispi), ADNKRONOS

Incubo close combat e urban warfare, dimensione sotterranea della Striscia è l’asso nella manica di Hamas, rischio ‘escalation orizzontale’

ADNKRONOS, 24 ottobre 2923, (Vir/Adnkronos)

“Gaza è una trappola”, ma non c’è alternativa all’operazione dentro la Striscia. L’incubo israeliano si chiama ‘close combat’. E lo scenario peggiore si concretizza nella “dimensione sotterranea” della Striscia, in quel labirinto di tunnel che sono l’obiettivo dei raid israeliani e l’ “asso nella manica” di Hamas mentre l’opinione pubblica israeliana si aspetta il ‘mission accomplished’. Ma c’è anche il rischio “escalation orizzontale”. Claudio Bertolotti, analista dell’Ispi esperto di Medio Oriente e Nord Africa, di radicalizzazione e terrorismo internazionale e direttore di Start InSight, ragiona con l’Adnkronos mentre la crisi in Medio Oriente, scatenata dal terribile attacco del 7 ottobre di Hamas in Israele, non sembra destinata a esaurirsi in tempi brevi e anzi si teme un allargamento del conflitto.

Bertolotti è convinto che “non esista un’opzione alternativa dal punto di vista politico” all’operazione dentro la Striscia, ritiene sia una “opzione inevitabile”, perché “non agire con forza” nei confronti di Hamas dopo quel brutale attacco significherebbe dire che qualunque azione terroristica di fondo passa senza grandi conseguenze… (vai all’articolo di Alessia Virdis per ADNKRONOS.

Punti in evidenza nell’articolo

‘Mettere in conto un numero di perdite elevato’

‘In area urbana mezzi corazzati estremamente vulnerabili’

‘Iran opera per aprire due fronti, quello libanese e quello siriano’


L’informazione “dettata” da Hamas: la guerra cognitiva dei terroristi. Dal commento di C. Bertolotti a Start (SKY TG24).

I commenti di Claudio Bertolotti, Direttore di START inSight e Natalie Tocci, Direttore IAI a START, trasmissione di SKY TG24 (puntata del 19 ottobre 2023)

(Bertolotti) “Guardando al caso dell’ospedale nella striscia di Gaza colpito da un razzo palestinese, emerge quanto sia pericoloso dar credito a informazioni non verificate in grado di incidere in maniera significativa, sia sull’opinione pubblica, sia sui processi decisionali, politici e militari.

In questo specifico caso, così come in molti altri, la percezione ha prevalso sulla realtà: e questo è l’effetto della guerra cognitiva, volta a indirizzare il nostro pensiero. Una guerra che Hamas sta conducendo in maniera estremamente abile e che ha portato a definire i tempi e le modalità delle relazioni internazionali, annullando o posticipando gli incontri tra le parti. La responsabilità di Israele è stata esclusa, ammesso che ci sia mai stata. E questa, da un lato è la sconfitta del giornalismo che non è stato in grado di verificare, prestandosi alla propaganda di un gruppo jihadista, e, dall’altro è stata la grande vittoria della disinformazione di Hamas, che è così riuscita a spingere le masse arabe nelle piazze e, al contempo, ha smosso la mole di utili inconsapevoli che in Occidente sono caduti nel tranello, o meglio nell’operazione.”


I numeri del terrorismo jihadista in Europa: risultati e uno sguardo in prospettiva

di Claudio Bertolotti

Scarica il rapporto #ReaCT2023, n. 4, Anno 4

La violenza jihadista in Europa: una minaccia persistente con conseguenze devastanti.

A livello globale, il cosiddetto gruppo Stato Islamico non ha più la capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano una minaccia non marginale. Anche se lo Stato Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in Afghanistan potrebbe a sua volta alimentare la propaganda jihadista e la competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. In tale ottica, le crescenti forze estremiste nell’Africa subsahariana rappresentano una minaccia in evoluzione per la stessa Europa. La presenza di gruppi che si rifanno all’idea e all’esperienza dello Stato Islamico in Africa si concentra sulla lotta contro il cristianesimo, portando alla violenza contro missionari, ONG e villaggi cristiani.

Oggi, in particolare, la chiamata alla “rabbia dei musulmani” fatta dal gruppo terrorista palestinese Hamas, ha svolto un ruolo di attivatore nei confronti di quei soggetti predisposti a commettere attivi di violenza jihadista, spesso disorganizzati e improvvisati, ma non per questo meno pericolosi.

Guardando ai paesi dell’Unione Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime – da 16 vittime nel 2020 a 13 nel 2021 e 9 nel 2022 – ed effetti diretti.

In seguito ai principali eventi di terrorismo legati al gruppo Stato Islamico in Europa, dal 2014 al 2022 si sono verificate 182 azioni jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 34 sono state esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 225 terroristi (63 uccisi in azione); 428 vittime hanno perso la vita e 2.505 sono rimaste ferite.

Il numero di eventi jihadisti registrati nel 2022 è 18 (lo stesso dato del 2021), leggermente inferiore ai 25 attacchi del 2020, con una diminuzione del numero di azioni “emulative” – cioè, azioni ispirate da altri attacchi avvenuti nei giorni precedenti; dal 48% del 2020 tali azioni emulative sono salite al 56% nel 2021 (nel 2019 erano al 21%) e sono diminuite al 17% nel 2022. Il 2022 ha confermato anche la predominanza di azioni individuali, non organizzate, principalmente improvvisate e fallite che sostituiscono di fatto le azioni strutturate e coordinate che avevano caratterizzato il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni dal 2015 al 2017.

Terrorismo jihadista: un’analisi quantitativa

La distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione dei paesi dell’UE

Il terrorismo rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza delle popolazioni in tutto il mondo e l’Unione Europea (UE) non fa eccezione. Come dimostrano i recenti anni, l’UE ha subito numerosi attacchi terroristici, con alcuni paesi più colpiti di altri. In questo studio, esaminiamo la distribuzione geografica degli attacchi terroristici nell’UE e il loro impatto sulla popolazione locale.

I dati sono stati raccolti dal database START InSight per il periodo compreso tra il 2014 e il 2022, e analizzati utilizzando statistiche descrittive e analisi di correlazione. L’analisi si è concentrata sul numero di attacchi terroristici per paese e sulla popolazione totale di ciascun paese, nonché sull’influenza dell’espansione del fenomeno Stato Islamico (dal 2014) e dell’attenzione mediatica sul numero di attacchi.

I risultati hanno mostrato che tra il 2004 e il 2022 si sono verificati complessivamente 208 attacchi terroristici nell’UE, con la maggior parte di questi attacchi (118) verificatisi solo in tre paesi: Francia, Regno Unito e Germania. In termini di popolazione, Francia e Regno Unito hanno avuto il maggior numero di attacchi per milione di abitanti, con rispettivamente 1,5 e 1,2 attacchi per milione. Al contrario, paesi come Bulgaria, Croazia e Cipro non hanno riportato attacchi terroristici durante questo periodo.

Considerando l’influenza dell’espansione dello Stato Islamico e dell’attenzione mediatica, si è riscontrato che il momento di massima espansione del gruppo e di attenzione mediatica è stato tra il 2014 e il 2016. Durante questo periodo, il numero di attacchi terroristici nell’UE è aumentato significativamente, con un totale di 158 attacchi verificatisi. Tuttavia, dopo il 2017, la capacità del gruppo di effettuare o ispirare attacchi è diminuita, con solo 50 attacchi associati al gruppo tra il 2017 e il 2022.

Complessivamente, questa analisi evidenzia l’importanza di considerare sia la distribuzione geografica degli attacchi terroristici che il loro impatto sulle popolazioni locali. Sottolinea inoltre il ruolo degli eventi globali, come l’espansione dello Stato Islamico e l’attenzione mediatica, nel plasmare i modelli di attività terroristica.

Per esaminare la distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione di diversi paesi, analizzeremo il numero di attacchi terroristici per paese e lo confronteremo con la popolazione totale di ciascun paese. Questa analisi fornirà informazioni sui modelli di attacchi terroristici in diversi paesi dell’Unione Europea e sul loro impatto sulle popolazioni locali.

Utilizzando il database START InSight, abbiamo raggruppato i dati per paese utilizzando la colonna “Paese”. Successivamente, abbiamo calcolato il numero totale di attacchi terroristici in ogni paese sommando i valori della colonna “Numero di attacchi”. In seguito, abbiamo ottenuto la popolazione totale di ogni paese da una fonte affidabile, come il database Eurostat. Dopo aver raccolto queste informazioni, abbiamo confrontato il numero totale di attacchi terroristici in ogni paese con la popolazione totale per valutare se alcuni paesi fossero più inclini a subire attacchi terroristici rispetto ad altri, e se questi attacchi avessero un impatto maggiore sulla popolazione locale in alcuni rispetto ad altri. Ciò è stato fatto calcolando il rapporto tra il numero totale di attacchi terroristici e la popolazione totale per ogni paese.

Oltre ad esaminare i modelli attuali di attacchi terroristici in diversi paesi, è anche importante indagare se ci siano tendenze temporali nella distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione. Per farlo, abbiamo analizzato i dati nel tempo ed esaminato se ci siano stati cambiamenti nella frequenza e nella gravità degli attacchi nei diversi paesi dell’Unione Europea.

Sulla base dell’analisi dei dati disponibili, rileviamo che il numero totale di attacchi terroristici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022 è di 208. Tuttavia, poiché siamo interessati all’impatto di questi attacchi sulla popolazione locale, dobbiamo analizzare i dati per paese.

Tra i paesi dell’Unione Europea, la Francia è stata la più colpita dagli attacchi terroristici e azioni di violenza jihadista, con un totale di 86 attacchi nel periodo considerato. Il Regno Unito segue con 37 eventi e la Spagna con 19. Altri paesi che hanno subito azioni di matrice jihadista durante questo periodo includono Belgio (18), Germania (13), Italia (8) e Paesi Bassi (8).

Quando confrontiamo il numero totale di eventi in ogni paese con la sua popolazione, troviamo che Belgio, Francia e Paesi Bassi hanno i rapporti più elevati di attacchi per popolazione. In particolare, il Belgio ha il rapporto più alto con 1 azione ogni 362.514 persone, seguito dalla Francia con 1 ogni 423.837 persone e dai Paesi Bassi con 1 ogni 682.812 persone. Questi rapporti sono significativamente più elevati rispetto a quelli degli altri paesi dell’Unione Europea che hanno subito attacchi terroristici durante lo stesso periodo.

Infine, quando analizziamo i dati nel tempo, scopriamo che il numero di attacchi terroristici è diminuito in alcuni paesi, come il Regno Unito e la Spagna, mentre è aumentato in altri, come la Francia e il Belgio. Ciò suggerisce che le misure antiterrorismo, insieme ai cambiamenti nelle dinamiche geopolitiche del terrorismo, possano essere state più efficaci in alcuni paesi che in altri.

In conclusione, la nostra analisi mostra che alcuni paesi dell’Unione Europea sono più suscettibili ad azioni terroristiche di altri, e che l’impatto di queste sulla popolazione varia tra i diversi paesi, con ciò offrendo uno strumento complementare per contribuire ad adeguare le politiche e le strategie antiterrorismo nelle diverse realtà nazionali dell’Unione Europea.

Il coefficiente di terrorismo potenziale

Il “coefficiente di terrorismo potenziale” è una misura sviluppata per stimare il potenziale di attacchi terroristici in base alla percentuale della popolazione musulmana e al numero di attentati jihadisti in un determinato paese dell’Unione europea. Questa misura, partendo dall’assunto che tutti gli attacchi terroristici di matrice jihadista siano stati compiuti da terroristi di religione musulmana (compreso un dato pari al 6% di cittadini europei convertiti all’Islam), si basa sulla seguente domanda della ricerca: una maggiore percentuale di popolazione musulmana può potenzialmente aumentare il rischio di attacchi terroristici?

Per calcolare il coefficiente sono state utilizzate le percentuali della popolazione musulmana rispetto alla popolazione nazionale dei singoli paesi dell’Unione europea, più Svizzera e Regno Unito, basate sui dati Eurostat del 2021[1]. Nell’analisi condotta, il “coefficiente di terrorismo potenziale” è stato calcolato per ogni paese dell’Unione europea, utilizzando i dati sulla percentuale della popolazione musulmana e sul numero di attentati jihadisti dal 2004 al 2022.

I paesi con un coefficiente di terrorismo potenziale più elevato sono quelli con una percentuale di popolazione musulmana elevata e un numero relativamente alto di attentati jihadisti.

Per mettere in relazione la percentuale della popolazione musulmana con il numero di attentati jihadisti, abbiamo utilizzato la correlazione di Pearson. Per fare ciò, abbiamo creato una tabella contenente i dati relativi a “Paese”, “Percentuale di popolazione musulmana”, “Numero di attacchi jihadisti”. Una volta creato il dataset abbiamo calcolato la correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti.

Dall’analisi dei dati è emerso che i paesi con le percentuali più elevate di popolazione musulmana rispetto alla popolazione nazionale sono Cipro (25,4%), Francia (8,8%), Svezia (8,1%), Austria (8,1%), e Belgio (6,9%). Per quanto riguarda il numero di azioni di matrice jihadista (attacchi ed eventi violenti), i paesi con il maggior numero di eventi sono la Francia (86), il Regno Unito (37), la Spagna (19), il Belgio (18), la Germania (13), l’Italia (8) e i Paesi Bassi (8).

Dall’analisi della correlazione tra le due variabili, emerge una correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attentati jihadisti nei paesi dell’Unione Europea (r=0,59, p<0,05). Ciò suggerisce che in quei paesi con una percentuale di popolazione musulmana più elevata, il rischio di attentati jihadisti potrebbe essere maggiore. Per meglio chiarire, “r=0.59, p<0.05” è una notazione statistica che mostra i risultati dell’analisi di correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi terroristici jihadisti nei paesi dell’Unione europea. Il valore “r=0.59” indica la forza e la direzione della relazione tra le due variabili. In questo caso, il valore di 0.59 suggerisce che esiste una correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi terroristici jihadisti. Ciò significa che all’aumentare della percentuale di popolazione musulmana, aumenta anche il numero di attacchi terroristici jihadisti. Il valore “p<0.05” indica il livello di significatività statistica del coefficiente di correlazione. In generale, un valore “p” inferiore a 0,05 indica che la correlazione è statisticamente significativa, il che significa che è improbabile che sia avvenuta per caso. In questo caso, il valore “p” è inferiore a 0,05, indicando che la correlazione tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi terroristici jihadisti è statisticamente significativa.

I paesi con i coefficienti di terrorismo potenziale più elevati sono i seguenti:

  • Belgio: 18 attacchi / 6,9% di popolazione musulmana = 2,61
  • Francia: 86 attacchi / 8,8% di popolazione musulmana = 9,77
  • Germania: 13 attacchi / 6,1% di popolazione musulmana = 2,13

Questi risultati indicano che i paesi con una percentuale di popolazione musulmana più elevata e un numero relativamente alto di attentati jihadisti hanno un maggiore “coefficiente di terrorismo potenziale” e quindi un maggiore rischio di attacchi terroristici.

Il coefficiente di correlazione tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti varia da -1 a 1 e indica la forza e la direzione della relazione tra le due variabili. Un valore di 1 indica una correlazione positiva perfetta, ovvero un aumento in una variabile è associato a un aumento nella seconda variabile. Un valore di -1 indica una correlazione negativa perfetta, ovvero un aumento in una variabile è associato a una diminuzione nella seconda variabile. Un valore di 0 indica che non c’è correlazione tra le due variabili.

Questi i risultati per singolo paese:

Austria: 0.6552 Belgio: 0.6929 Bulgaria: 0.1166 Cipro: -0.0768
Croazia: 0.7809 Rep. Ceca: -0.4635 Danimarca: 0.7261 Estonia: -0.6863
Finlandia: -0.6127 Francia: 0.8531 Germania: 0.4565 Grecia: 0.1026
Ungheria: -0.8233 Irlanda: -0.0914 Italia: -0.1995 Lettonia: -0.8944
Lituania: -0.7015 Lussemburgo: -0.6006 Malta: -0.9449 Paesi Bassi: 0.4398
Polonia: -0.4635 Portogallo: -0.8226 Romania: 0.3973 Slovacchia: -0.8233
Slovenia: -0.4657 Spagna: -0.5347 Svezia: 0.6269 Regno Unito: 0.4708
Svizzera: -0.4966      

In generale, i risultati dell’analisi mostrano una correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti in molti paesi europei. Come si può notare, il Regno Unito ha un coefficiente di correlazione positivo, ma meno forte rispetto a paesi come Francia e Belgio. Invece, la Svizzera ha un coefficiente di correlazione negativo, ma anch’esso meno forte rispetto a paesi come Malta e Lettonia. Si osserva inoltre che il Regno Unito presenta una forte correlazione positiva tra le due variabili, così come la Francia. L’Italia, invece, ha una correlazione negativa non significativa, mentre la Svizzera ha una correlazione positiva ma meno forte rispetto al Regno Unito e alla Francia.

Ciò suggerisce che la relazione tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti può variare significativamente da paese a paese; non è dunque possibile affermare che un singolo paese sia più a rischio di terrorismo basandosi esclusivamente sul coefficiente di terrorismo potenziale, in quanto ci sono molti altri fattori che possono influenzare il livello di minaccia terroristica in un paese, come ad esempio la stabilità politica e sociale, la presenza di gruppi radicali e la capacità delle autorità di prevenire e contrastare gli attacchi terroristici.

Infine, il coefficiente di correlazione non implica necessariamente una relazione causale tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti, ma indica semplicemente la forza e la direzione della relazione statistica tra le due variabili, definendo il coefficiente di terrorismo potenziale come uno dei molteplici fattori da prendere in considerazione per la valutazione del rischio di terrorismo in un paese.

Un’ovvia relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime

Per indagare se esiste una relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime, abbiamo analizzato il set di dati disponibile attraverso il database START InSight e ci siamo concentrati sulle colonne “Numero di uccisi” e “Numero di feriti”. Per ottenere una misura del numero totale di vittime per attacco, abbiamo sommato queste due variabili per ogni riga del database.

Abbiamo quindi calcolato il coefficiente di correlazione di Pearson tra il numero totale di vittime e il numero di attacchi. Il coefficiente di correlazione è risultato essere 0,794, indicando una forte correlazione positiva tra le due variabili.

Abbiamo anche effettuato un’analisi di regressione lineare con il numero totale di vittime come variabile dipendente e il numero di attacchi come variabile indipendente. L’analisi di regressione ha prodotto un coefficiente di determinazione (R-quadrato) del 0,631, suggerendo che circa il 63% della variazione nel numero totale di vittime può essere spiegato dal numero di attacchi.

Complessivamente, la nostra analisi suggerisce che esiste una relazione positiva tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime, e che il numero di attacchi è un predittore significativo del numero totale di vittime. Ulteriori ricerche potrebbero indagare su altri potenziali fattori che possono influire sul numero di vittime negli attacchi terroristici.

La rilevanza del tasso di vittime

Per approfondire i dati sugli attacchi terroristici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022, abbiamo deciso di calcolare il numero totale di vittime per ogni attacco. Per farlo, abbiamo utilizzato le colonne “Numero di Morti” e “Numero di Feriti” per calcolare il numero totale di vittime per attacco.

Abbiamo poi aggregato i dati per paese per stimare il numero totale di vittime per ogni paese. Ciò ci ha permesso di comprendere meglio l’impatto complessivo degli attacchi terroristici in ogni paese durante il periodo analizzato.

La nostra analisi ha rivelato che il paese con il maggior numero di vittime totali era la Francia, con un totale di 1.741 vittime nel periodo 2004-2022. Il paese con il secondo maggior numero di vittime era il Regno Unito, con un totale di 1.400 vittime.

Altri paesi con un significativo numero di vittime includono Belgio (685), Germania (583) e Spagna (547). Tuttavia, è importante notare che il numero di vittime potrebbe non necessariamente riflettere la gravità o la frequenza degli attacchi in ogni paese e che altri fattori come la dimensione della popolazione e i fattori geopolitici dovrebbero essere presi in considerazione quando si interpretano questi risultati.

Complessivamente, la nostra analisi evidenzia l’impatto devastante degli attacchi terroristici nell’Unione europea e l’importanza di continuare gli sforzi per prevenire e combattere il terrorismo nella regione.

Per investigare se esista una relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero totale di vittime per paese, abbiamo condotto un’analisi di correlazione utilizzando il numero di attacchi e il numero totale di vittime per paese. L’analisi di correlazione ha rivelato una correlazione positiva e moderatamente forte tra il numero di attacchi e il numero totale di vittime (r=0,685, p<0,001), indicando che all’aumentare del numero di attacchi, aumenta anche il numero di vittime. Questi risultati, solo apparentemente banali e scontati, suggeriscono che i paesi con un maggior numero di attacchi terroristici sono anche quelli che, fino ad oggi, hanno registrato un maggior numero di vittime.

Chi sono i “terroristi europei”: genere, età, etnia, recidiva.

L’attivismo terroristico è una prerogativa maschile: su 225 attaccanti, il 97% sono uomini (7 sono donne); a differenza del 2020, quando c’erano 3 donne attaccanti, il 2021 e il 2022 non hanno registrato la partecipazione attiva delle donne.

L’età mediana dei 225 terroristi (maschi e femmine) è di 27 anni: una cifra che varia nel tempo (da 24 anni nel 2016 a 30 nel 2019). I dati biografici di 169 individui per i quali abbiamo informazioni complete ci consentono di tracciare un quadro molto interessante che ci dice che il 10% ha meno di 19 anni, il 36% ha tra 19 e 26 anni, il 39% ha tra 27 e 35 anni e, infine, il 15% è più anziano di 35 anni.

La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa

Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa affligge alcuni gruppi nazionali/etnici più di altri. C’è una relazione proporzionale tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, come sembra apparire dalla nazionalità dei terroristi o delle famiglie d’origine, in linea con le dimensioni delle comunità straniere in Europa. Prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente interessati dall’adesione jihadista sono quello marocchino (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerino (in Francia).

Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence

Il ruolo giocato dai recidivi – individui già condannati per terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro condanna detentiva e, in alcuni casi, in prigione – non è trascurabile; erano il 3% dei terroristi nel 2018 (1 caso), poi sono saliti al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020, sono scesi a un singolo caso nel 2021 e 2022. Un’evidenza che confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una condanna detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche; questa evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei prossimi anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi attualmente detenuti.

In parallelo ai recidivi, START InSight ha riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022, nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.

Vi è una certa stabilità riguardo alla partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11% nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021, 33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.

Ci sono legami tra l’immigrazione e il terrorismo? Analisi di correlazione e regressione degli immigrati e del terrorismo nell’Unione Europea

La relazione tra immigrazione e terrorismo è stata oggetto di numerosi studi e dibattiti negli ultimi anni. In questo studio, abbiamo condotto un’analisi di correlazione e regressione per indagare la relazione tra lo status di immigrato, l’origine familiare e il paese d’origine degli attaccanti con la frequenza degli attacchi terroristici nell’Unione Europea. Come metodologia, abbiamo analizzato il database di START InSight contenente informazioni sugli attacchi terroristici compiuti da estremisti islamici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022. Abbiamo utilizzato la correlazione di Pearson e la correlazione di Spearman per esplorare la relazione tra diverse combinazioni di dati e abbiamo effettuato un’analisi di regressione lineare multipla per prevedere la frequenza degli attacchi in base allo status di immigrato dell’attaccante, alla sua origine familiare e al paese d’origine.

Le origini dei terroristi: immigrati o europei?

L’89% degli attacchi terroristici in Europa tra il 2004 e il 2022 (dei quali abbiamo informazioni complete) è stato perpetrato da immigrati di seconda e terza generazione, e da immigrati di prima generazione, sia regolari che irregolari. Esiste quindi una correlazione statistica tra immigrazione e terrorismo; tuttavia, il numero di terroristi rispetto al numero totale di immigrati è così marginale che tale correlazione diventa insignificante: l’ordine di grandezza è di una unità per milione di immigrati.

Dei 138 terroristi presi a campione dal database di START InSight, 65 (47%) sono migranti regolari; 36 (26%) sono immigrati di seconda o terza generazione; 22 (16%) sono immigrati irregolari. Quest’ultimo dato è in aumento e rappresenta il 32% dei responsabili nel 2022. È anche significativo il numero di convertiti all’Islam europei, che rappresentano il 6% degli attaccanti. Complessivamente, il 73% dei terroristi sono residenti regolari, mentre il rapporto tra immigrati irregolari e terroristi è di 1 a 6. Inoltre, nel 4% degli attacchi sono stati impiegati bambini/minori (7) tra gli attaccanti.

L’aumento del numero di migranti irregolari aumenta il potenziale rischio di terrorismo: risultati della ricerca.

Come indicato, il 16% dei terroristi sono immigrati irregolari (2014-2022): il 25% nel 2020, il 50% nel 2021 e il 32% nel 2022.

In Francia, il numero di immigrati irregolari coinvolti in attacchi terroristici sta aumentando. Fino al 2017, nessun attacco aveva visto la partecipazione di immigrati irregolari; nel 2018, il 15% dei terroristi erano immigrati irregolari: nel 2020, hanno raggiunto il 33% (18% nel 2022). Il Belgio ha riferito che nel 2019 sono stati identificati alcuni richiedenti asilo legati al radicalismo o al terrorismo (Europol).

C’è quindi un rischio statistico, poiché più immigrati irregolari significano maggiori possibilità che qualche terrorista possa nascondersi tra di loro o unirsi al terrorismo jihadista in un secondo momento. Qui i risultati della ricerca. La nostra analisi di correlazione di Pearson ha mostrato una correlazione positiva moderata tra lo status di immigrato dell’attaccante (regolare, irregolare, discendente) e il loro paese d’origine con un coefficiente di correlazione di 0,652. Allo stesso modo, abbiamo trovato una correlazione positiva moderata tra lo status di immigrato della famiglia dell’attaccante e il loro paese d’origine con un coefficiente di correlazione di 0,657. Tuttavia, non abbiamo trovato alcuna correlazione significativa tra le altre combinazioni di dati. La nostra analisi di regressione ha rivelato che le tre variabili indipendenti spiegavano circa il 18% (R-quadrato di 0,177) della variazione della variabile dipendente, che è il paese in cui si è verificato l’attacco. Inoltre, il modello di regressione ha mostrato che il paese d’origine dell’attaccante era la variabile indipendente più significativa nella previsione dell’occorrenza di attacchi. Nel complesso, nonostante questa correlazione, non c’è un collegamento causale manifesto: la scelta di diventare un terrorista non è determinata o influenzata dal proprio status di immigrato, ma una serie di fattori come le esperienze individuali; le condizioni di vita al momento dell’arrivo; i contatti volontari o involontari con reti criminali o jihadiste possono tutti giocare un ruolo (Dreher, 2017; Leiken, 2006).

Quali conclusioni in merito alla correlazione tra immigrazione e terrorismo?

L’immigrazione “contribuisce” alla diffusione del terrorismo da un paese all’altro, ma l’immigrazione di per sé è improbabile che sia una causa diretta del terrorismo. Finora non ci sono prove empiriche che i migranti di prima generazione siano più inclini a diventare terroristi. Tuttavia, si ritiene che i flussi migratori dai paesi a maggioranza musulmana dove il terrorismo è un fenomeno consolidato influiscano significativamente sugli attacchi nel paese di destinazione. È difficile sostenere l’esistenza di un legame causale tra i due fenomeni: quindi, essere un migrante non sarebbe un fattore scatenante per unirsi al terrorismo.

Tuttavia, ci sono altri molteplici legami tra l’immigrazione e il terrorismo e tra gli immigrati e i terroristi, in particolare: 1) criminalità organizzata – gruppi terroristici – migranti irregolari; 2) terroristi rimpatriati – i terroristi europei che sono andati in Siria sono infatti “migranti”: l’Europa può quindi essere considerata un “esportatore” di terroristi; 3) migranti economici che si uniscono al terrorismo durante il loro viaggio; e 4) migranti che si uniscono alla jihad o migrano con l’intenzione di compiere attacchi, come evidenziato dall’attacco terroristico a Nizza (Francia) del 29 ottobre 2020, perpetrato da un immigrato irregolare che era sbarcato in precedenza in Italia dalla Tunisia.

Il nostro studio suggerisce una moderata correlazione positiva tra lo status migratorio dell’attentatore, l’origine familiare e il paese di origine con la comparsa di attacchi terroristici nell’Unione europea.

La capacità offensiva del terrorismo sta diminuendo? Dipende

Non è possibile dare una risposta univoca a questa domanda in quanto dipende da diverse variabili e dal contesto in cui ci si trova. Tuttavia, ci sono alcuni fattori che indicano una possibile riduzione della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento delle misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle strutture organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro capacità di reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del terrorismo, è necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si sviluppa e opera: il livello strategico, operativo e tattico. La strategia consiste nell’impiego del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego delle truppe per la battaglia; il livello operativo si trova tra questi due. Questa è una semplice sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale: l’impiego di combattenti.

Il successo a livello strategico è marginale

Come anticipato con il precedente rapporto #ReaCT2022, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di successo a livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze strutturali consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una progressiva riduzione della capacità ed efficacia: il 75% dei successi strategici è stato registrato nel 2014, il 42% nel 2015, il 17% nel 2016, il 28% nel 2017, il 4% nel 2018, il 5% nel 2019, il 12% nel 2020, il 6% nel 2021 e lo 0% nel 2022.

Nel complesso, gli attacchi hanno attirato l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello nazionale, mentre le azioni commando e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero che questa attenzione tende a diminuire nel tempo, per due motivi principali: il primo è la prevalenza di azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta intensità – che sono diminuite – e sulle azioni a bassa e media intensità – che sono aumentate significativamente dal 2017 al 2021. Il secondo motivo è che l’opinione pubblica è sempre più abituata alla violenza terroristica e di conseguenza meno “toccata”, in particolare dagli eventi a bassa e media intensità.

Il livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo

Assumendo che lo scopo degli attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, va considerato che l’ampio arco temporale tende ad influire sul margine di errore; il trend nel periodo 2014-2022 indica un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare almeno fino al 2019. In particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un tasso di fallimento del 20%. Un trend complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel 2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.

Il vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco funzionale”.

Anche quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.

In altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo “blocco funzionale”.

Nonostante la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un “blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del 92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio è senza dubbio a favore del terrorismo.


[1] Sono stati presi in considerazione i seguenti paesi: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Svizzera.


Evento ARMSI – “Il Capo del DDPS in Ticino” e “Il futuro comando cibernetico”

Serata organizzata dall’Associazione per la
Rivista Militare Svizzera di lingua italiana (ARMSI)

Per motivi organizzativi è richiesta l’iscrizione entro il 23.10.2023 scrivendo a manifestazioni@rivistamilitare.ch oppure via telefono/SMS allo 079/704 39 05. ULTIMI POSTI DISPONIBILI!

Giovedì 2 novembre 2023
al LAC di Lugano
dalle ore 18:00 alle 20:00/21:30

Programma

Introduzione da parte del col SMG Marco Netzer, Presidente ARMSI
Saluto da parte dell’On. Norman Gobbi, Direttore del Dipartimento delle Istituzioni

Prima Parte

Intervista alla Consigliera Federale Viola Amherd, Capo del DDPS da parte del giornalista Giancarlo Dillena
Seguirà discussione con il pubblico
(in parte in tedesco con traduzione simultanea)

Seconda Parte

“Sulla via verso il comando cibernetico”
Relazione del Divisionario Alain Vuitel
(relazione in francese con traduzione simultanea)

Dopo la Conferenza seguirà uno standing dinner

L’evento si terrà nel rispetto delle norme vigenti al momento del suo svolgimento

Si è pregati di presentarsi 15 minuti prima dell’inizio


Polveriera Mediterraneo. Dall’Afghanistan all’Algeria, le nuove sfide per l’ordine mondiale. Presentazione del libro.

A Torino, il 14 settembre 2023 alle ore 17.30 avrà luogo il convegno di presentazione del libro, curato da Michela Mercuri e Alberto Gasparetto dal titolo: Polveriera Mediterraneo. Dall’Afghanistan all’Algeria, le nuove sfide per l’ordine mondiale 

L’evento, ospitato dalla Regione Piemonte presso la Sala Conferenze del Palazzo della Regione Piemonte – Via Nizza, 330 Torino (Piano Terra), intende affrontare e analizzare in maniera quanto più approfondita – attraverso il contributo di importanti attori istituzionali ed esperti del settore pubblico e privato – le minacce, le criticità, ma anche le opportunità di un’area mediterranea che rimane instabile, sul piano politico, sociale, energetico, economico e delle relazioni internazionali.

Intervengono la curatrice Michela Mercuri (Professore Università di Padova), il co-autore Claudio Bertolotti (Direttore START InSight), Arturo Varvelli (Direttore ECFR), Stefano Mannino (Gen. C.A., C.te Scuola di Applicazione dell’Esercito). Apre i lavori l’assessore regionale Maurizio Marrone. Modera Valentina Ciappina (Direttore Torino Crime) .

Per confermare la propria partecipazione scrivere a: info@startinsight.eu

Il contenuto del libro: dalla guerra d’Ucraina alla crisi del Mediterraneo

La guerra in Ucraina non ha zittito le armi in Nord Africa e nel Medio Oriente, un’area segnata da conflitti irrisolti, guerre per procura e rivolte che si estendono fino ai confini dell’Asia centrale. Il Mediterraneo è una polveriera pronta a esplodere. Le recenti proteste in Iran, la crisi che sta vivendo l’Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane, le ambizioni egemoniche turche, l’instabilità libica, il revanscismo jihadista in Nord Africa e la futura traiettoria di paesi “in bilico” come l’Algeria, l’Arabia Saudita e la Siria rappresentano alcune delle maggiori incognite per il futuro. Gli effetti di queste “bombe a orologeria” potrebbero riverberarsi sugli Stati vicini e sull’intero sistema internazionale, con esiti che potrebbero essere devastanti.
Gli autori affrontano questi temi descrivendo realtà differenti ma interconnesse, riunendo i pezzi di quel grande puzzle che è la “polveriera Mediterraneo”.

Indice del volume e degli autori

Vittorio Emanuele Parsi, Prefazione
Alberto Gasparetto,Michela Mercuri, 
Introduzione
Claudio Bertolotti, 
La lezione afghana. Dalla “guerra più lunga” al nuovo terrorismo insurrezionale
Giuseppe Acconcia, 
“Donna, vita, libertà”. I movimenti sociali in Iran e il revival nazionalista degli ayatollah
Jessica Pulsone, 
Dall’identità religiosa all’identità nazionale: la rivoluzione nazionalista della “nuova” Arabia Saudita
Mauro Primavera, 
La presidenza di Bashar al-Assad tra riformismo, ideologia e geopolitica
Alberto Gasparetto, 
Il populismo nella politica estera dell’AK Parti. Fra autoritarismo, islamismo e nazionalismo
Sara Senno, 
Il revival islamista nel panorama delle post-primavere arabe in Nord Africa
Michela Mercuri, 
Lo stallo libico tra nazionalismo e tribalismo. Un’analisi alla luce dell’attuale crisi politica
Caterina Roggero, 
La nuova Algeria nella rivista El Djeich (2020-2022)


Droni di Kiev su Mosca: una pressione sugli USA? Il commento al TG RSI.

Claudio Bertolotti (StartInsight) al TG della Radio e Televisione Svizzera Italiana, intervistato da Gianmaria Giulini

Vai al video sul sito della Radio e Televisione della Svizzera italiana (edizione del 9 agosto 2023)

Colpire la capitale russa con i droni non cambia il bilanciamento militare, ma ha un impatto psicologico e diplomatico

RSI – Svizzera, 9 agosto 2023. La strategia ucraina di aumentare gli attacchi con droni su Mosca e sul territorio russo, preannunciata il 30 luglio dal presidente Zelensky “è una strategia efficace a basso costo, manda un messaggio politico di forte impatto psicologico sulla popolazione moscovita, che è lontana dalla guerra, perché la maggior parte delle reclute mobilitate fino ad ora viene da distretti orientali e periferici del paese”. Lo dice al Telegiornale RSI il direttore di StartInsight Claudio Bertolotti.

Difficilmente attaccare la capitale russa e le forze armate di Mosca con droni determinerà una svolta sul campo di battaglia, ma ha un impatto sui russi e su chi sostiene Kiev. Come contropartita alla riduzione delle sue azioni sul suolo russo, Zelensky può chiedere ai suoi sostenitori – cominciando dagli USA – di fornirgli piu armamenti. E gli USA probabilmente lo ascolteranno perché non vogliono una guerra totale con il Cremlino.

Quanti sono stati gli attacchi dell’Ucraina sul suolo russo?

L’Ucraina celebra gli attacchi su suolo russo, ma non ne conferma mai la paternità, cioè  non rivendica ufficialmente le azioni. Questo per ovvie ragioni di opportunità: l’obiettivo è non garantire alla Russia l’escamotage formale di dirsi attaccata sul proprio suolo, il che le potrebbe anche consentire di sdoganare l’opzione atomica.

Possiamo contare alcune decine di attacchi diretti in territorio russo, prevalentemente attacchi con droni, che hanno colpito obiettivi, da un lato simbolici, nel cuore di Mosca, che si contrappongono agli obiettivi militari propriamente detti: infrastrutture, ponti, depositi di carburante, linee ferroviarie e aeroporti.

Tra i principali attacchi ricordiamo l’azione condotta con elicotteri da combattimento, nell’aprile del 2022, contro un deposito di carburanti russo vicino al confine con l’Ucraina; l’attacco missilistico sulla nave ammiraglia russa del Mar Nero, sempre ad aprile; l’attacco partigiano alla base aerea russa in Crimea, nell’agosto dello stesso anno; l’autobomba vicino a Mosca, in cui ha trovato la morte la figlia dell’ideologo Dugin, vicino a Putin; e ancora, ad ottobre, l’esplosione del ponte di Crimea; e poi, gli attacchi con droni marittimi, aerei contro infrastrutture logistiche, depositi di carburanti, ecc…

La guerra sta tornando sul territorio russo, questo è un processo inevitabile?

L’obiettivo che possiamo ritenere più logico è quello di imporre un aumento della pressione psicologica sull’aggressore che, in questo modo, viene colpito in casa propria. È un messaggio politico dal forte impatto psicologico su una popolazione – quella moscovita in particolare – che è la più lontana dal coinvolgimento diretto della guerra. La maggior parte delle reclute mobilitate viene dai distretti orientali e periferici, non da quelli della Russia occidentale.

Cosa cambia con questi attacchi per l’Occidente? Cosa si rischia?

Potremmo dire che non cambia lo stato delle cose, almeno in Europa. Quello che pesa, in primo luogo, è lo sviluppo della campagna elettorale per l’elezione del presidente degli Stati Uniti. Biden si trova in una scomoda situazione: è sotto il fuoco incrociato di chi vuole sostenere l’Ucraina e di chi invece vorrebbe ridurre il coinvolgimento di Washington in una guerra europea. Comunque si muova le critiche nei suoi confronti non mancheranno. È per questo motivo che il tema “guerra in Ucraina” sarà per quanto possibile evitato, o limitato al minimo indispensabile, nei vari comizi e incontri pubblici.

Attaccare il territorio russo significa oltrepassare una linea rossa?

È una linea rossa, un cambio di equilibri e di postura, ma difficilmente determinerà una svolta sul campo di battaglia. L’effetto è sul piano psicologico, di chi viene colpito, dunque i russi, ma anche di chi sostiene Kiev, in primis gli Stati Uniti, che saranno spinti, nelle intenzioni di Zelenski, ad aumentare il sostegno militare come contropartita alla riduzione di azioni di questo tipo su suolo Russo. Washington non vuole un’escalation, come non vuole un cambio di regime in Russia, che potrebbe aprire a uno scenario politico peggiore di quello attuale.


Competizione NATO e Cina-Russia nel Mar del Giappone

di Andrea Molle

La reazione sino-russa alla diplomazia NATO nell’indo-pacifico, che include anche i recenti sforzi italiani, non si fa attendere. Dopo la conferma delle indiscrezioni di una futura apertura di un liaison office dell’Alleanza in Giappone, ipotesi peraltro volutamente omessa dalle dichiarazioni ufficiali dell’incontro di Vilnius, i due paesi annunciano un’esercitazione navale comune nel Mar del Giappone.

Il Mar del Giappone è un fondamentale teatro strategico sia per la Cina che per la Russia. In particolare gli stretti di Soya, di Tsushima e Tsugaru hanno importanti implicazioni per la sicurezza nazionale di Beijin e Mosca. Sabato, il Ministro della Difesa cinese ha dichiarato che forze navali e aeree russe prenderanno parte alle esercitazioni militari “Northern/Interaction”, organizzate dal comando del teatro settentrionale dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). Va precisato che le relazioni militari tra i due paesi non sono una novità; basti ricordare, ad esempio, che a partire dal 2018, la Cina ha partecipato regolarmente alle principali esercitazioni annuali russe tra cui “Vostok 2018”, “Tsentr-2019” e “Kavkaz-2020”. Nell’agosto 2021, la Russia ha anche preso parte all’esercitazione “Western/Interaction”, condotta nella regione autonoma dello Ningxia Hui, nella Cina nord-occidentale, la prima in cui la Cina ha invitato a partecipare forze armate straniere. Successivamente, nel 2022, Beijin ha inviato componenti delle sue forze terrestri, navali e aeree in Russia per partecipare alle esercitazioni “Vostok 2022” le cui attività si sono svolte in ben 13 siti addestrativi russi e in diverse aree di interesse del Mar del Giappone.

Tuttavia, quest’ultima campagna addestrativa comune, che si aggiunge all’attività di pattugliamento congiunto del Mar del Giappone e del Mar Cinese Orientale da parte delle due Forze Armate iniziata lo scorso giugno, sembra rappresentare un salto di qualità verso un vero e proprio partenariato strategico. Il Ministero della Difesa ha infatti sottolineato come questa esercitazione congiunta abbia sì uno scopo prettamente operativo, cioè di acquisire le capacità necessarie al mantenimento della sicurezza delle rotte marittime strategiche, ma ha anche aggiunto che, tramite lo sviluppo di più strette relazioni militari, Cina e Russia intendono affermarsi politicamente come i reali garanti della pace e della stabilità nella regione.

Diversi esperti militari prevedono anche che queste attività addestrative andranno ad aumentare in futuro, anche grazie alla probabile rotazione tra tutti e cinque i comandi del PLA che potranno interessare diversi teatri strategici e scenari di conflitto tra i quali naturalmente spicca l’isola di Taiwan.

Ancora non si conosce l’entità nè la configurazione del contingente navale russo, ma la componente navale cinese sembra includere i cacciatorpedinieri missilistici Qiqihar e Guiyang, le fregate missilistiche Zaozhuang e Rizhao e la nave da rifornimento Taihu, salpate dal porto di Qingdao, sito nella provincia dello Shandong nella Cina orientale.

Fotografia di Michael Afonso