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Terrorismo: lo Stato islamico e i campionati di calcio.

di Claudio Bertolotti. Dall’intervista di Giampaolo Musumeci per Radio 24 – Nessun Luogo è Lontano del 9 aprile 2024.

Il Cairo, 9 apr. (Adnkronos) – Il sedicente Stato Islamico, tornato a spaventare l’Europa dopo l’attentato a Mosca, ha minacciato di lanciare un attacco contro i quattro stadi in cui da stasera si disputeranno i quarti di finale di Champions League. Al-Azaim, uno degli organi di propaganda dell’Isis, ha confermato queste intenzioni pubblicando l’immagine dei quattro stadi in cui si disputeranno le partite di andata – il Parco dei Principi di Parigi, il Santiago Bernabeu di Madrid, il Metropolitan sempre di Madrid e l’Emirates di Londra – accompagnata dalla didascalia “Uccideteli tutti”.

Una necessaria premessa: l’esperienza dell’ISIS, così come l’abbiamo conosciuta in Iraq e Siria si è conclusa nel giugno 2014 con la proclamazione del Califfato da parte di al-Baghdadi e l’istituzione dello Stato islamico. L’ISIS non esiste più, al suo posto lo Stato islamico dunque. Non è una precisazione da poco, perché segna l’avvio dell’epoca post-territoriale del movimento, quella che stiamo osservando e subendo oggi, sia in Occidente, sia in Medioriente come dimostra la forza sempre più manifesta di questo gruppo in particolare in Siria e Afghanistan.

Quanto seria è questa minaccia? Ricordiamo una allerta simile il 30 marzo in Germania.

Un primo aspetto. In questo caso, come nella maggior parte degli episodi, non è lo Stato islamico ma i suoi gruppi affiliati a chiamare alla lotta. E quella attuale sembra non tanto una avvisaglia quanto un appello a colpire, e dunque non una minaccia diretta. Anche perchè, come ci ha dimostrato la storia recente dello Stato islamico e dei suoi affiliati in franchise, quando il gruppo colpisce lo fa senza preavvertire – di fatto sfruttando l’effetto sorpresa per ottenere il massimo dei risultati. Quanto accaduto in Russia ne è una conferma. Però, e questo è il secondo aspetto, coerentemente con gli attacchi degli ultimi anni, attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico, è l’appello a colpire che viene colto da singoli soggetti, o più raramente da parte di piccoli gruppi, spesso disorganizzati o scarsamente organizzati, che costituisce la forza propulsiva del gruppo che, di norma e per evidente opportunità, rivendica solamente quelli di successo, una minima parte, non citando quelli invece più numerosi che si concludono con un risultato fallimentare.

Dopo l’attentato a Mosca, queste minacce e l’arresto ieri a Roma di un tajiko ex miliziano Isis, ci sono a tuo parere le condizioni per capire quale sia la strategia dell’Isis? Sta rialzando la testa? Riacquisendo forza?

Lo Stato islamico sta rialzando la testa, e lo sta facendo in maniera dirompente ed efficace, riportandoci sul piano emotivo e del terrore ai terribili anni 2015-2017 quando l’Europa fu travolta da una serie di eventi dirompenti, a loro volta in grado di riportare le emozioni agli attacchi di al-Qa’ida in Europa del 2004, a Madrid e a Londra. Oggi è sufficiente guardare alla Siria, dove si pensava – complici anche i riflettori mediatici rivolti altrove – che lo Stato islamico fosse stato sconfitto: non è così. Al contrario, l’aumento progressivo di attacchi dello Stato islamico, gli assalti continui e ripetuti alle carceri per liberare i combattenti detenuti dal regime siriano, la capacità di colpire sostanzialmente ovunque. È un campanello d’allarme che suona molto forte e che anticipa una nuova ondata che si autoalimenta: dalla retorica della vittoria talebana in Afghanistan, alla competizione con i talebani, all’aumentare degli affiliati, singoli e gruppi dal Medioriente al Sud-Est asiatico, fino all’Europa. Non uno Stato islamico ex-novo, ma è un fenomeno che si sta risvegliando.


Russia: attentato a Crocus City Hall. Bertolotti (Ispi): Mosca paga aiuto a talebani e Siria in lotta a Stato Islamico (La Presse).

da La Presse, intervista di Luca La Mantia

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Ascolta l’intervista radio di Laura Zucchetti a Claudio Bertolotti per Radio 3i

Roma, 23 mar. (LaPresse) – “In Afghanistan la Russia dialoga con la frangia più anziana dei talebani contribuendo a quel ciclo di intelligence che consente ai talebani stessi di combattere lo Stato islamico del Khorasan (Is-Kp)”, quindi l’attentato a Mosca per il gruppo jihadista “è un modo per dire ‘tu aiuti i talebani a colpirci e noi colpiamo te‘”. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight, commentando l’attentato nella Crocus City Hall, a nordovest della capitale russa. La Russia, prosegue, ha anche “un ruolo specifico e ben definito, da una parte, nella lotta al terrorismo islamico” e dall’altra nel sostegno in Siria al presidente Bashar al Assad nel contrasto “a tutti i gruppi sunniti ribelli, compresi quelli affiliati allo Stato islamico“.

Roma, 23 mar. (LaPresse) – “E’ molto difficile tenere sotto controllo e prevenire un attacco” come quello avvenuto alla Crocus City Hall, a nordovest di Mosca, rivendicato dall’Isis. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight. “La storia recente, sia in Europa che in Russia”, spiega, ha dimostrato quanto sia difficile prevedere attentati di questo tipo, “sia quelli organizzati, sia quelli emulativi, ovvero portati avanti da singoli soggetti che si rifanno all’ideologia dello Stato islamico ma agiscono in modo autonomo”. 
(segue) 

Roma, 23 mar. (LaPresse) – Gli Stati Uniti, sottolinea Bertolotti, avevano avvertito sul rischio di attentati in Russia “perché hanno un’ottima capacità di raccolta di informazioni legate all’intelligence associata al dialogo con la nuova leadership talebana” in Afghanistan che è “acerrima nemica dello Stato Islamico del Khorasan (Is-Kp)”. Washington, prosegue il ricercatore Ispi, ha “quindi raccolto informazioni e le ha messe e a diposizione della Russia che ha anche messo in atto misure preventive ma è impossibile organizzare in tutto il Paese un sistema efficace al 100%“.


Roma, 23 mar. (LaPresse) – “In Europa non sono mai diminuiti i tentativi di attacchi terroristici che si attestano sui 10-15 l’anno. E’ però diminuita”, rispetto a qualche anno fa, “l’efficacia e quindi anche l’attenzione mediatica“, che porta lo Stato Islamico a rivendicare solo gli attentati “che hanno successo”. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight, commentando l’attentato nella Crocus City Hall, a nordovest di Mosca. La strage rivendicata “è un grande rilancio per lo Stato Islamico”, spiega. C’è poi, prosegue Bertolotti, l’appello di Hamas a tutti i musulmani, dopo l’inizio della guerra con Israele, “a colpire ovunque” gli alleati di Tel Aviv, e questo rappresenta “una minaccia sostanziale” anche per l’Europa. 


Roma, 23 mar. (LaPresse) – Il Cremlino ha “tutto l’interesse a parlare di una responsabilità di Kiev” nell’attacco nella Crocus City Hall, a nordovest di Mosca, poi rivendicato dall’Isis, “perché questo consente di confermare la minaccia rappresentata dall’Ucraina di fronte all’opinione pubblica russa“. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight. “E’ un modo per spostare la responsabilità contro un obiettivo che si sta già colpendo”, spiega, un messaggio anche “per quelle frange dell’opinione pubblica russa che dopo due anni cominciano a non essere più convinte” sulla guerra. Bertolotti esclude una responsabilità ucraina nell’attacco, sia per le “tecniche e procedure” usate dai terroristi sia per l’obiettivo che sarebbe “appagante” per l’Ucraina, in quanto “colpire civili nella narrazione di un popolo che si difende da un’aggressione non è vincente”.


Italia, riforma dell’intelligence: “lavorare sul funzionamento, non sulla struttura”

Nel 2023 il governo italiano ha avviato una riflessione attorno a una riforma dell’Intelligence che dovrebbe vedere la luce il prossimo anno.

In cosa consiste questo cambiamento, quali sono le ragioni, come funziona il sistema informativo ma soprattutto, come e dove bisognerebbe intervenire? Ecco le risposte del nostro esperto sul tema, il Senior Research Fellow Niccolò Petrelli, docente di Studi Strategici all’Università Roma Tre.  

Perché riformare il sistema informativo italiano?

Il nostro sistema informativo soffre di problemi di funzionamento, come sottolineato in diverse occasioni da addetti ai lavori, la sua efficacia è minata dalla persistente frammentazione tra le tre componenti, il DIS (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza), l’AISE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna) e l’AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna), un qualche tipo di intervento per correggere il problema è necessario.

l’efficacia del sistema informativo è minata dalla persistente frammentazione tra le tre componenti, il DIS, l’AISE e l’AISI

La creazione di un servizio unico, ovvero la centralizzazione del sistema, è una soluzione praticabile?

Certamente, ma ci sono ostacoli burocratici non da poco, nonché timori e resistenze che, sulla scorta della travagliata storia degli apparati informativi nell’Italia repubblicana, la proposta di creare un servizio informazioni unificato potrebbe generare in parte della classe politica e dell’opinione pubblica. Modificare l’architettura organizzativa del sistema di intelligence inoltre non è l’unica opzione per risolvere il problema della frammentazione e migliorarne la performance. Una soluzione alternativa potrebbe essere lavorare sul funzionamento del sistema, invece che sulla sua struttura.

La letteratura sulla progettazione organizzativa mostra chiaramente che l’elemento chiave per rendere un’organizzazione efficace è allineare i suoi processi di lavoro con la funzione da essa espletata e, soprattutto, con l’ambiente in cui l’organizzazione opera. Chiaramente sia un assetto centralizzato che uno decentralizzato hanno i propri vantaggi e svantaggi, tuttavia una serie di fattori sembrano rendere quest’ultimo più appropriato per il nostro sistema di intelligence oggi.

Infatti, in primo luogo è noto che un assetto decentralizzato risulta adatto per organizzazioni che, come i servizi informativi, operano oggi a beneficio di vari “clienti”; in secondo luogo, una struttura decentralizzata come quella attuale, promuovendo flessibilità, appare più in linea con la natura instabile e cangiante del contesto in cui il sistema informativo italiano si trova oggi ad operare; terzo ed ultimo, i problemi di coordinamento che inevitabilmente sono associati ad una struttura decentralizzata possono essere oggi meglio gestiti grazie alla disponibilità di sistemi e tecnologie digitali che favoriscono comunicazione, pianificazione e monitoraggio delle attività quasi in tempo reale.

una soluzione alternativa potrebbe essere lavorare sul funzionamento del sistema, invece che sulla sua struttura

Come procedere dunque?

Il costrutto-guida teorico più adatto credo sia il concetto di “integrazione” (Jointness). Nella teoria dell’intelligence con “integrazione” si fa riferimento ad un livello di interazione tra le varie componenti del sistema più avanzato rispetto a forme di collaborazione occasionali, che sono piuttosto frequenti, come la condivisione di strutture (sistemi, database), e prodotti (rapporti, analisi) o la formazione di gruppi di lavoro ad hoc. L’“integrazione” si riferisce infatti alla creazione di nuove capacità sistemiche attraverso la fusione delle risorse e delle competenze delle varie componenti dello stesso. Tre sono le linee di riforma ritenute essenziali per la creazione di tali capacità sistemiche: ridondanza, riordino dei processi di lavoro, autonomia. La ridondanza si riferisce alla generazione all’interno delle varie componenti del sistema di surplus di competenze analoghe rispetto alle rispettive esigenze, sia per quanto concerne metodologie di raccolta delle informazioni sia in relazione a tecniche analitiche.

Il secondo elemento, il riordino dei processi lavorativi, contempla invece che all’interno delle varie componenti del sistema, accanto ai classici processi lineari, paralleli e funzionalmente segmentati, si sviluppino anche in pari misura processi “di rete” che eliminino la tradizionale separazione tra la raccolta e l’elaborazione delle informazioni, ad esempio attraverso l’istituzionalizzazione di gruppi di lavoro che, in ambiti specifici, operino congiuntamente lungo l’intero “ciclo dell’intelligence” su base permanente.

Infine, per quanto riguarda l’autonomia, ci si riferisce al trasferimento di autorità pratica dai capi reparto ai sottoposti in un modello analogo al “mission command” da tempo in uso nelle forze armate di molti paesi occidentali, in cui i componenti di ogni unità godono della massima autonomia nella gestione dei compiti affidati dai vertici che si limitano, da parte loro, a operare come facilitatori, “abilitatori” e “sintetizzatori” dei prodotti finali.

La teoria fa apparire le cose sempre semplici e lineari, ma come e dove bisognerebbe intervenire? Che cosa ci dice di rilevante in merito la storia del sistema informativo italiano?

Storicamente il sistema di intelligence della Repubblica italiana ha mostrato una più che buona predisposizione all’integrazione orizzontale, sia all’interno delle singole agenzie, sia nelle interazioni esterne tra le stesse. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare che già il primo apparato informativo militare della repubblica, il Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR), era strutturato in due branche principali, una offensiva e l’altra difensiva ognuna delle quali deputata alla gestione di entrambe le funzioni principali, raccolta e analisi delle informazioni, nei rispettivi ambiti di competenza. I successori del SIFAR, il Servizio Informazioni Difesa (SID), il Servizio Informazioni e Sicurezza Miliare (SISMI), così come poi il Servizio Informazioni e Sicurezza Democratica (SISDE) pur sviluppando strutture più articolate, hanno sempre mantenuto assetti organizzativi di tipo ibrido in cui le funzioni di raccolta e analisi erano compartimentate in alcuni ambiti e fuse in altri.

storicamente il sistema di intelligence della Repubblica italiana ha mostrato una più che buona predisposizione all’integrazione orizzontale

Per quanto riguarda le interazioni tra le varie agenzie, dalla storia del sistema informativo italiano emerge chiaramente come, anche in situazioni di accesa rivalità, le varie componenti abbiano dimostrato eccellenti capacità sia di coordinamento che di cooperazione. Tra il 1951 ed il 1954 SIFAR e la Divisione Affari Riservati (DAR) del Ministero dell’Interno collaborarono efficacemente attraverso tavoli di lavoro a scadenza regolare per coordinare le penetrazioni della rete informativa Los Angeles, impiantata dall’intelligence militare USA nell’Italia nordorientale (sfruttando ex-ufficiali nazisti ed i loro collaboratori) e tentare di appropriarsene.

Anche la documentazione disponibile sul caso del rapimento di Aldo Moro mostra una notevole attitudine all’integrazione orizzontale da parte dell’apparato informativo. Infatti, in una condizione di gravissima crisi, il Comitato Esecutivo per le Informazioni e la Sicurezza – CESIS, il Servizio Informazioni e Sicurezza Militare – SISMI, ed il Servizio Informazioni e Sicurezza Democratica – SISDE, in diverse sedi (i noti “Comitati” istituiti dall’allora Ministro dell’Interno Cossiga) cooperarono abbattendo de facto le barriere tra raccolta ed analisi, condividendo non solo informazioni, ma in molti casi comunicandone le fonti, e conducendo analisi congiunte di specifici eventi, così come dell’evoluzione generale della situazione. Nonostante la mancanza di risultati rispetto all’obiettivo primario di fornire informazioni rilevanti per la liberazione dell’ostaggio, la collaborazione tra le componenti del sistema informativo che ebbe luogo durante i quasi due mesi del sequestro Moro si sarebbe rivelata di notevole importanza nel periodo immediatamente successivo, non solo come “esperimento organizzativo” utile a definire percorsi di cooperazione, ma anche per sviluppare il quadro informativo alla base delle operazioni anti-terrorismo condotte sotto il comando del Generale Dalla Chiesa.

la documentazione d’archivio disponibile evidenzia importanti lacune in relazione alla dimensione verticale dell’integrazione

Al contrario, la documentazione d’archivio disponibile evidenzia importanti lacune in relazione alla dimensione verticale dell’integrazione. Il principale organo di coordinamento e sintesi informativa creato dalla legge 801/1977, ovvero il CESIS, nel corso degli anni ha svolto un ruolo sempre più incisivo, i suoi poteri tuttavia sono de facto rimasti più circoscritti rispetto a quanto effettivamente previsto nella disciplina di legge. Ciò, a sua volta, ha fatto sì che in ultimo l’efficacia del CESIS sia storicamente rimasta molto legata alle capacità individuali del Segretario Generale.

Da quanto ha detto sembra si possa concludere che gli interventi da attuarsi sull’apparato informativo dovrebbero capitalizzare sul buon livello di integrazione orizzontale esistente e, al contempo, correggere lo scarso livello di integrazione verticale, è così?

Si. Non possiamo ovviamente essere sicuri che l’attuale sistema d’intelligence italiano sia ancora caratterizzato da alti livelli di integrazione orizzontale di cui abbiamo parlato prima. L’ipotesi più plausibile, tuttavia, è la situazione non sia cambiata molto da quel punto di vista, e che la creazione del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) in luogo del CESIS, abbia solo in parte sanato le carenze in materia di integrazione verticale. Gli interventi sul sistema di intelligence dovrebbero dunque mirare a: espandere lo spazio di interazione delle due agenzie operative al fine di rafforzare ulteriormente l’integrazione orizzontale, e consentire al DIS di perseguire quelle che potremmo chiamare forme di “integrazione verticale a monte” sul processo di produzione dell’intelligence.

Come visto in precedenza nella cultura organizzativa di entrambe le agenzie operative esiste una forte attitudine alla fusione di raccolta e analisi, così come, a mettere in pratica sia all’interno che all’esterno, processi di lavoro congiunti e non funzionalmente segmentati. Al fine di sfruttare questo vantaggio comparato, la riforma del sistema dovrebbe puntare sull’incrementare l’autonomia, spingendola quanto meno a livello di aree (introdurre ridondanza è più semplice e può essere fatto attraverso il reclutamento). Ciò rafforzerebbe ulteriormente l’integrazione orizzontale creando dei potenziali spazi di lavoro congiunti tra le agenzie operative da attivarsi in base alle necessità.

la riforma del sistema dovrebbe puntare sull’incrementare l’autonomia, spingendola quanto meno a livello di aree

Per quanto riguarda l’integrazione verticale, in cui invece come si è visto il sistema è relativamente debole, una soluzione potrebbe essere rappresentata dal consentire al DIS di integrare all’interno delle proprie attività un maggior numero di “passaggi intermedi” nel processo di produzione dell’intelligence. In altre parole dovrebbe essere consentito al Dipartimento di esercitare un ruolo di coordinamento (operando di fatto come “abilitatore”/”facilitatore”) sulle attività congiunte delle agenzie operative fino al livello più basso a cui si intende spingere l’integrazione orizzontale. Solo in tal modo sembra possibile lasciarsi definitivamente alle spalle le lacune croniche di integrazione verticale di cui il sistema sembra soffrire dal 1977.

Da ultimo, vale la pena ribadire che, come più volte sottolineato, essenziale per il rafforzamento dell’integrazione e la creazione di un surplus capacitivo è il reintegro del Reparto Informazioni per la Sicurezza (RIS) nel Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica. Ciò alla luce del fatto che il RIS dispone di una serie di risorse per la raccolta tecnica la cui condivisione in un sistema d’intelligence relativamente piccolo come quello italiano potrebbe essere di fondamentale importanza. 

la soluzione al problema della frammentazione non passa dalla centralizzazione del processo di produzione dell’intelligence ma dalla centralizzazione della conoscenza

In sintesi, dunque, la soluzione qui prospettata potrebbe risolvere il problema della frammentazione non attraverso la centralizzazione del processo di produzione dell’intelligence, come avverrebbe con la creazione di servizio unico, ma mediante la centralizzazione del suo output, ovvero della conoscenza.

Niccolò Petrelli è Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, dove insegna Studi Strategici, e Senior Research Fellow per Start InSight.


Riformare l’Intelligence Italiana: Elementi di analisi teorici e storici.

di Niccolò Petrelli. START InSight, Università Roma 3

Abstract: Questo articolo delinea un’ipotesi di riforma dell’intelligence italiana basata su recenti dibattiti teorici, nonché sulla storia del sistema informativo della Repubblica. Dopo aver illustrato le principali difficoltà a cui i servizi d’informazione occidentali si trovano a far fronte, discute alcuni costrutti teorici emersi negli ultimi anni per guidare riforme dei sistemi d’intelligence ed analizza brevemente alcuni episodi rilevanti tratti dalla storia dell’apparato informativo italiano nel periodo repubblicano. L’articolo conclude infine con alcune indicazioni su come procedere a riformare il sistema.

Alcune settimane fa i quotidiani hanno riportato la notizia che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica (AD) Alfredo Mantovano intende entro la fine dell’anno sottoporre al Parlamento una bozza di riforma dell’apparato di intelligence.[1] La materia è estremamente complessa non solo per via della segretezza che circonda l’ambito delle informazioni per la sicurezza e di una generalizzata scarsa familiarità con il tema, ma anche perché la riforma di un apparato informativo presenta dilemmi di funzionalità ed efficacia, così come di controllo e responsabilità democratica. Se questi ultimi si sono già profilati nelle poche notizie riportate dai quotidiani, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda i primi. La funzionalità e l’efficacia di un sistema di intelligence rivestono tuttavia enorme importanza, dal momento che la decisione politica si basa necessariamente sulla disponibilità di informazioni e che, in presenza di un apparato disfunzionale, i decisori politici tenderanno a reperire altrove e in autonomia le informazioni che ritengono necessarie all’esercizio del proprio ruolo, con rischi tutt’altro che trascurabili per quanto riguarda il controllo effettivamente esercitabile dalle autorità preposte circa la democraticità dei processi attraverso cui tali informazioni vengono prodotte.

In un noto studio di alcuni anni fa lo storico di Harvard Ernest May concluse che l’architettura organizzativa di un sistema di intelligence non sembrava avere un impatto determinante sulla performance dello stesso.[2] Negli ultimi anni tuttavia tale conclusione, basata del resto sullo studio dei periodi precedenti le due guerre mondiali, è stata sempre più spesso messa in discussione, e attualmente il consenso tra gli studiosi è che l’organizzazione sia una delle variabili chiave nel determinare l’efficacia di un sistema di intelligence nel processo di raccolta e analisi delle informazioni, e dunque la sua capacità di generare “conoscenza” utile a prendere decisioni politiche suscettibili di avere un impatto sull’ambiente strategico di riferimento.[3] Alla base di tale nuovo consensus vi sono due elementi: i rimarchevoli cambiamenti intervenuti nel contesto strategico-operativo in cui gli apparati informativi occidentali sono chiamati ad operare, ed un’evoluzione sempre più rapida nelle tecnologie rilevanti per l’attività di raccolta e analisi delle informazioni.[4] Da un lato, i servizi di informazione operano oggi in un ambiente strategico instabile e soggetto a mutamenti estremamente rapidi, il che produce significativi cambiamenti nella natura del lavoro di intelligence, in particolare la necessità di identificare e monitorare entità e minacce “nascoste”, e “processi emergenti”. Dall’altro, sono costretti a confrontarsi con un ciclo di innovazione tecnologica estremamente rapido che a sua volta genera una sfida di acquisizione, integrazione e innovazione particolarmente problematica per organizzazioni di dimensioni medio-piccole.

E proprio problemi inerenti all’assetto organizzativo sembrano essere alla base della proposta di riformare il sistema italiano recentemente resa pubblica: come sottolineato in diverse occasioni da addetti ai lavori infatti, l’efficacia dell’apparato informativo della Repubblica è minata dalla persistente frammentazione tra le tre componenti del sistema.[5] La soluzione individuata dall’AD per questo annoso problema si è orientata dunque verso la “centralizzazione”, ovvero la creazione di un unico servizio informazioni con competenze sia sul territorio nazionale che all’estero. Il tema della centralizzazione non è nuovo al dibattito italiano sulla politica dell’informazione per la sicurezza: una proposta per la creazione di un servizio informativo unico fu infatti avanzata già nel 1993 da parte del governo Ciampi.[6] Una riforma di questo tipo appare tuttavia oggi di difficile realizzazione, non solo per i numerosi ostacoli tecnici e burocratici a cui potrebbe andare incontro, ma anche alla luce dei timori e resistenze che, sulla scorta della travagliata storia degli apparati informativi nell’Italia repubblicana, la proposta di creare un servizio informazioni unificato potrebbe generare in parte della classe politica e dell’opinione pubblica.

In ogni caso la creazione di un servizio unico non rappresenta la sola possibile soluzione al problema della frammentazione. La recente letteratura di studi sull’intelligence, così come la storia dell’apparato informativo italiano, offrono al contrario alcune preziose indicazioni per sviluppare linee generali di riforma alternative mantenendo la attuale struttura triangolare che, oltre a risolvere il problema della frammentazione, consentirebbero di affrontare in maniera adeguata le sfide precedentemente menzionate ed assicurare efficacia e rilevanza alla funzione d’intelligence nel contesto italiano nei prossimi anni.

Un primo spunto potrebbe venire dal relativamente recente concetto di “Revolution in Intelligence Affairs” (RIA) epigono del più noto costrutto di “Revolution in Military Affairs” coniato negli anni 90. La nozione di RIA contiene tre prescrizioni fondamentali per riformare le strutture delle organizzazioni di intelligence ed adattarle nella maniera migliore all’ambiente informativo attuale e futuro. Anzitutto, acquisizione e integrazione su base continuativa di intelligenza artificiale, sensori all’avanguardia e tecnologie di automazione. In secondo luogo, promozione da parte dei vertici delle organizzazioni di intelligence di cambiamenti organizzativi volti ad integrare raccolta e analisi, generare un certo grado di ridondanza organizzativa tra le varie componenti del sistema, e creare meccanismi più rapidi per la diffusione in tempo reale ai decisori a tutti i livelli (oltre a sviluppare concetti operativi per il teaming uomo-macchina che ottimizzino i punti di forza di ciascuno). Da ultimo, i sostenitori della RIA ritengono che in futuro la maniera più efficiente di operare per un sistema di intelligence sia ridurre la sequenzialità delle operazioni a beneficio di una maggiore sincronia nelle quattro funzioni fondamentali di pianificazione, raccolta, analisi e disseminazione.

Il concetto di RIA, per quanto utile come costrutto-guida generale, potrebbe tuttavia in una certa misura risultare di limitata rilevanza per un sistema di intelligence come quello italiano, estremamente diverso per obiettivi, dimensioni, grado di tecnologizzazione, e risorse da quello statunitense, in relazione a cui è stato sviluppato. Elementi di riferimento più concreti potrebbero venire dal concetto di “integrazione” (Jointness) applicato all’ambito informativo, dibattuto ed impiegato come principio guida per vari cicli di riforme in seno all’intelligence israeliana. Esso si fonda sull’ampio consenso esistente negli studi di teoria dell’organizzazione circa la necessità, per un’organizzazione che aspiri ad operare in maniera efficace in un ambiente complesso e mutevole, di mantenere un alto livello di specializzazione delle varie componenti del sistema nonché di assicurare meccanismi di interazione estremamente flessibili tra le stesse al fine di integrare al massimo grado le competenze.[7]

Nel dibattito israeliano con il concetto di “integrazione” si è inteso delineare un nuovo tipo di assetto organizzativo per il sistema di intelligence che si spingesse oltre la mera istituzionalizzazione di forme di collaborazione e cooperazione, come ad esempio la condivisione di strutture e prodotti o i tavoli di lavoro pianificati. L’“integrazione” si riferisce infatti alla “creazione di nuove capacità sistemiche attraverso la fusione delle risorse e delle competenze delle varie componenti dello stesso”.[8]

Tre sono le linee di riforma ritenute essenziali per la creazione di tali capacità sistemiche: ridondanza, riordino dei processi di lavoro, autonomia. La ridondanza si riferisce alla generazione all’interno delle varie componenti del sistema di surplus di competenze analoghe rispetto alle rispettive esigenze, sia per quanto concerne metodologie di raccolta delle informazioni (in particolare di raccolta tecnica), sia in relazione a tecniche analitiche (ad esempio: strutturate, qualitative, quantitative) ed aree disciplinari (ad esempio: analisi economica, social network analysis, studi antropologico-culturali).

Il secondo elemento, il riordino dei processi lavorativi, contempla invece che all’interno delle varie componenti del sistema, accanto ai classici processi lineari, paralleli e funzionalmente segmentati, si sviluppino anche in pari misura processi “di rete” gestiti su base logica anziché funzionale che eliminino la tradizionale separazione tra la raccolta e l’elaborazione delle informazioni, ad esempio attraverso la creazione di gruppi di lavoro che, in relazione a questioni emergenti, operino congiuntamente lungo l’intero “ciclo dell’intelligence” per periodi di tempo prolungati.

Infine, per quanto riguarda l’autonomia, ci si riferisce al trasferimento di autorità pratica dai capi reparto ai sottoposti in un modello analogo al “mission command” da tempo in uso proprio nelle forze armate israeliane, statunitensi, britanniche, in cui i componenti di ogni unità godono della massima autonomia nella gestione dei compiti affidati dai vertici che si limitano, da parte loro, a operare come facilitatori, “abilitatori” e “sintetizzatori” dei prodotti finali. In sintesi dunque l’“integrazione” crea le condizioni per una capacità di continuo adattamento del sistema d’intelligence decentralizzando al massimo il processo di produzione dell’intelligence e contemporaneamente centralizzando il suo output, ovvero la conoscenza.

Tale nozione appare dunque decisamente più appropriata come costrutto-guida per riformare il sistema informativo italiano poiché, essendo incentrata sullo sviluppo e rafforzamento dei meccanismi di interazione verticali e orizzontali tra le varie componenti organizzative del sistema, è suscettibile di produrre quella moltiplicazione di forze che risulta essenziale perché un sistema medio-piccolo e risorse limitate come quello italiano possa superare i problemi di frammentazione di cui attualmente soffre e gestire efficacemente le due sfide precedentemente menzionate. A questo punto è necessario riflettere su “come” declinare tale costrutto-guida alla luce dell’effettivo funzionamento del comparto intelligence.

Storicamente il sistema di intelligence della repubblica italiana ha mostrato una più che buona predisposizione all’integrazione orizzontale sia all’interno delle singole agenzie, sia nelle interazioni esterne tra le stesse. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare che già il primo apparato informativo militare della repubblica, il Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR), era strutturato in due branche principali, una offensiva e l’altra difensiva ognuna delle quali deputata alla gestione di entrambe le funzioni principali, raccolta e analisi delle informazioni, nei rispettivi ambiti di competenza. I successori del SIFAR, il Servizio Informazioni Difesa (SID), il Servizio Informazioni e Sicurezza Miliare (SISMI), così come poi il Servizio Informazioni e Sicurezza Democratica (SISDE) pur sviluppando strutture più articolate, hanno sempre mantenuto assetti organizzativi di tipo ibrido in cui le funzioni di raccolta e analisi erano compartimentate in alcuni ambiti e fuse in altri.[9]

Per quanto riguarda le interazioni tra le varie agenzie dalla storia del sistema informativo italiano emerge chiaramente come, anche in situazioni di accesa rivalità, le varie componenti abbiano dimostrato eccellenti capacità sia di coordinamento che di cooperazione. Alcuni primi esempi in tal senso possono trarsi già dal periodo 1949-1977, in cui il sistema di intelligence, formalmente centralizzato con il servizio informazioni militare unico organismo deputato alla raccolta, analisi e protezione delle informazioni a tutela della sicurezza dello stato, di fatto operava come un sistema binario, con la Divisione Affari Riservati (DAR) del Ministero dell’Interno come servizio informativo civile. In particolar modo, tra il 1951 ed il 1954 SIFAR e DAR collaborarono efficacemente attraverso tavoli di lavoro a scadenza regolare per coordinare le penetrazioni della rete informativa Los Angeles, impiantata dall’intelligence militare USA nell’Italia nordorientale e tentare di appropriarsene.[10] Un ulteriore esempio potrebbe considerarsi la collaborazione avviata intorno alla fine del 1963 in materia di raccolta tecnica. La DAR ottenne l’affidamento del centro radio di Monterotondo, che fu destinato alla localizzazione e l’intercettazione di emittenti clandestine, nonché di radiotrasmissioni provenienti dai paesi comunisti dell’Europa orientale. SIFAR e DAR iniziarono una stretta cooperazione, che sarebbe durata fin quasi al 1966, volta allo sviluppo da parte del servizio civile di competenze specialistiche in materia, non solo in relazione all’impiego di particolari attrezzature per intercettazioni, ma anche per operazioni di bonifica.[11]

Altri, ancor più significativi esempi, possono derivarsi dal periodo successivo alla riforma del sistema d’intelligence attuata con la legge n. 801 del 1977.[12] La documentazione disponibile sul caso del rapimento di Aldo Moro mostra, ancora una volta, una notevole attitudine all’integrazione orizzontale da parte dell’apparato informativo. Infatti, in una condizione di gravissima crisi, il Comitato Esecutivo per le Informazioni e la Sicurezza – CESIS, il Servizio Informazioni e Sicurezza Militare – SISMI, ed il Servizio Informazioni e Sicurezza Democratica – SISDE, in diverse sedi (i noti “Comitati” istituiti dall’allora Ministro dell’Interno Cossiga) cooperarono abbattendo de facto le barriere tra raccolta ed analisi, condividendo non solo informazioni, ma in molti casi comunicandone le fonti, e conducendo analisi congiunte di specifici eventi, così come dell’evoluzione generale della situazione. Nonostante la mancanza di risultati rispetto all’obiettivo primario di fornire informazioni rilevanti per la liberazione dell’ostaggio, la collaborazione tra le componenti del sistema informativo che ebbe luogo durante i quasi due mesi del sequestro Moro si sarebbe rivelata di notevole importanza nel periodo immediatamente successivo, non solo come “esperimento organizzativo” utile a definire percorsi di cooperazione, ma anche per sviluppare il quadro informativo alla base delle operazioni anti-terrorismo condotte sotto il comando del Generale Dalla Chiesa.[13] Ciò emerge con chiarezza dall’analisi delle fonti archivistiche disponibili. Nella seconda metà del 1978 il SISDE, di recente creazione, avrebbe dovuto essere la principale agenzia deputata a produrre un flusso di informazioni a sostegno delle operazioni anti-terrorismo. Essa tuttavia mancava ancora di una infrastruttura sul territorio nazionale, non disponeva di un patrimonio informativo organizzato, né di una consolidata rete di fonti. In tale circostanza il SISMI, in quanto erede strutturale del SIFAR e del SID, non solo si adoperò per un prolungato periodo di tempo per sopperire a tali carenze, fornendo costante supporto informativo all’azione anti-terrorismo delle forze dell’ordine, ma avviò attraverso la 1^ Divisione (ex ufficio “D” del SID), una strettissima cooperazione con il SISDE. Essa si tradusse in una “coabitazione” delle due agenzie nei Centri di Contro Spionaggio (CS) del SISMI, in particolare nelle città di Milano, Torino e Genova, con condivisione di fonti, risorse e metodologie di raccolta, al fine di costruire un surplus di capacità sistemiche nel neonato SISDE.[14]

Al contrario, la documentazione d’archivio disponibile in merito al funzionamento del sistema d’intelligence creato dalla legge n. 801/1977 evidenzia importanti lacune in relazione alla dimensione verticale dell’integrazione. Benché come notato dalla Commissione Stragi nel 1993, e di nuovo nel “Primo rapporto sul sistema di informazione e sicurezza” del 1995, il principale organo di coordinamento e sintesi informativa, ovvero il CESIS, abbia nel corso degli anni svolto un ruolo sempre più incisivo, per via della mancata applicazione di numerosi regolamenti e disposizioni negli anni i poteri di quest’organo sono de facto rimasti più circoscritti rispetto a quanto effettivamente previsto nella disciplina di legge.[15] Ciò, a sua volta, ha fatto sì che in ultimo l’efficacia del CESIS sia storicamente rimasta molto legata alle capacità individuali del Segretario Generale (segretari più efficaci nell’attività di sintesi informativa come Orazio Sparano si sono alternati a figure meno in grado di porre in essere un effettivo coordinamento nell’attività delle agenzie operative come Francesco Paolo Fulci).[16]

Trarre conclusioni circa la sussistenza o meno nell’attuale assetto dei livelli di integrazione mostrati storicamente dal sistema di intelligence italiano è estremamente difficile data la segretezza che circonda la materia e la mancanza di documentazione relativa al periodo successivo all’approvazione della legge n. 124/2007. È plausibile ipotizzare che a seguito della più recente riforma del sistema informativo ed il potenziamento dell’organo di coordinamento e sintesi informativa, con la creazione del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) in luogo del CESIS, le carenze in materia di integrazione verticale siano state almeno in parte sanate. L’impressione tuttavia da dichiarazioni di ex vertici, eventi trapelati sulla stampa, e fonti estere è che a livello di integrazione, sia orizzontale che verticale, il sistema non abbia subito rilevanti trasformazioni.

Come dunque procedere alla luce degli elementi di analisi teorici e storici qui brevemente presentati? Due raccomandazioni base appaiono di particolare importanza: espandere lo spazio di interazione delle due agenzie operative, e consentire al DIS di perseguire quelle che potremmo chiamare forme di “integrazione verticale a monte” sul processo di produzione dell’intelligence.

Delle tre misure che la letteratura teorica evidenzia come essenziali per infondere “integrazione” in un sistema d’intelligence, autonomia, ridondanza, e riordino dei processi, l’apparato informativo italiano necessità principalmente della prima. Come visto in precedenza nella cultura organizzativa di entrambe le agenzie operative esiste una forte attitudine alla fusione di raccolta e analisi, così come, a mettere in pratica sia all’interno che all’esterno, processi di lavoro congiunti e non lineari. Al fine di sfruttare nella maniera più produttiva questo vantaggio comparato, la riforma del sistema dovrebbe puntare sull’incrementare l’autonomia, spingendola quanto meno a livello di aree (introdurre ridondanza è più semplice e può essere fatto attraverso il reclutamento). Ciò rafforzerebbe ulteriormente l’integrazione orizzontale creando dei potenziali spazi di lavoro congiunti tra le agenzie operative da attivarsi in base alle necessità.

Per quanto riguarda l’integrazione verticale, in cui invece come si è visto il sistema è relativamente debole, una soluzione potrebbe essere rappresentata dal consentire al DIS di integrare all’interno delle proprie attività un maggior numero di “passaggi intermedi” nel processo di produzione dell’intelligence. In altre parole dovrebbe essere consentito al Dipartimento di esercitare un ruolo di coordinamento (operando di fatto come “abilitatore”/”facilitatore”) sulle attività congiunte delle agenzie operative fino al livello più basso a cui si intende spingere l’integrazione orizzontale. Solo in tal modo sembra possibile lasciarsi definitivamente alle spalle le lacune croniche di integrazione verticale di cui il sistema sembra soffrire dal 1977.

Da ultimo, vale la pena ribadire che, come più volte sottolineato, essenziale per il rafforzamento dell’integrazione e la creazione di un surplus capacitivo è il reintegro del Reparto Informazioni per la Sicurezza (RIS) nel sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica.[17] Ciò alla luce del fatto che il RIS dispone di una serie di risorse per la raccolta tecnica la cui condivisione in un sistema d’intelligence relativamente piccolo come quello italiano potrebbe essere di fondamentale importanza. 

Niccolò Petrelli è Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, dove insegna Studi Strategici, e Senior Researcher per StartInsight.


[1] Il Foglio, 19 Agosto 2023.

[2] Ernest R. May (Ed.), Knowing One’s Enemies: Intelligence Assessment Before the Two World Wars (Princeton: Princeton UP, 1986).

[3] Thomas H. Hammond, ‘Intelligence Organizations and the Organization of Intelligence’, International Journal of Intelligence and CounterIntelligence, 23/4, (2010), 680-724

[4] Shay Hershkovitz, the Future of National Intelligence: How Emerging Technologies Reshape Intelligence Communities (New York: Rowman & Littlefield, 2023), 1-2.

[5] https://formiche.net/2022/12/intelligence-lezione-gabrielli-master-caligiuri/

[6] Enzo Bianco, “Così è Cambiata l’Intelligence in Italia”, Gnosis – Rivista Italiana di Intelligence, 13/3 (2007), 1.

[7] A titolo di esempio: P. R. Lawrence and J. W. Lorsch, “Differentiation and Integration in Complex Organizations,” Administrative Science Quarterly 12(1) (January 1967): 1-47; AAVV., Designing Organizations. 21st Century Approaches (Berlin: Springer, 2008).

[8] Kobi Michael, David Siman-Tov, and Oren Yoeli, ‘Jointness in Intelligence Organizations: Theory Put into Practice’, INSS Cyber, Intelligence, and Security, 1/1 (January 2017), 5-30. 

[9]  Relazione del Comitato Parlamentare per i Servizi di Informazione e Sicurezza e per il Segreto di Stato, Primo Rapporto sul Sistema di Informazione e Sicurezza, 6 Aprile 1995.

[10] Niccolò Petrelli, ‘Through a Glass, Darkly: US-Italian Intelligence Cooperation, Covert Operations and the Gladio ‘Stay-Behind’ Programme’, Diplomacy & Statecraft (in corso di pubblicazione, Marzo 2024).

[11] Aldo Giannuli, La Guerra Fredda delle Spie: L’Ufficio Affari Riservati (Roma: Nuova Iniziativa Editoriale, 2005), 72-73.

[12] https://gnosis.aisi.gov.it/gnosis/MainDb.nsf/HomePages/Legge801-1977#:~:text=6.-,E’%20istituito%20il%20Servizio%20per%20le%20informazioni%20e%20la%20sicurezza,contro%20ogni%20forma%20di%20eversione.

[13] Si vedano: Appunto 04/9344/E/1^ da SISMI a CESIS: “Attività svolta in relazione al “Caso MORO””, 13 Maggio 1979, ACS Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/CESIS/5: Varie 1979. Corrispondenza – appunti (1979)/10: Attività svolta in relazione al caso Moro: riscontri informativi e relazioni; Appunto CESIS n. 2113.1.1: “Attività svolta dal SISDE in relazione al caso MORO”, 15 Maggio 1979 ACS Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/CESIS/5: Varie 1979. Corrispondenza – appunti (1979)/11: Attività svolta in relazione al caso Moro: riscontri informativi e relazioni; Appunto da Direttore 1^ Divisione SISDE a Direttore del Servizio, 20 Maggio 1980, ACS Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/AISI/Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica – SISDE/Indagini, accertamenti sulla vicenda e eventi collegati (durante il rapimento e dopo l’uccisione) [1978 – 2001]/3: Atti diversi. Caso Moro (1978 – 2000)/104: Riunione ministero dell’interno (1978 mar. 16).

[14] Si vedano: Appunto 04/536/RR, da SISMI a Centri CS Tutti, Comandante RCCS, Direttore SISDE: Ordinamento provvisorio del SISMI – Collaborazione con Il Gen. D. CC. Carlo Alberto DALLA CHIESA, 31 agosto 1978, ACS Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/Agenzia informazioni e sicurezza esterna – AISE/Servizio per le informazioni e la sicurezza militare – SISMI (primo versamento)/Collaborazione SISMI con il Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicoli nn. 118-136 [1978 – 1998]/1: Collaborazione SISMI con il Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicolo n. 118 da n. 1 a n. 17 (1978 – 1980)/1: Lettera (non firmata): Ordinamento provvisorio del SISMI – Collaborazione con il Gen. Carlo Alberto dalla Chiesa (pag. 1) (1978 ago. 31); Appunto SISMI 04/83/S: Collaborazione SISMI-SISDE – Utilizzazione dei Centri C.S., 25 Ottobre 1978, ACS Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/Agenzia informazioni e sicurezza esterna – AISE/Servizio per le informazioni e la sicurezza militare – SISMI (primo versamento)/Collaborazione SISMI con il Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicoli nn. 118-136 [1978 – 1998]/1: Collaborazione SISMI con il Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicolo n. 118 da n. 1 a n. 17 (1978 – 1980)/11: Lettera: Collaborazione SISMI – SISDE – Utilizzazione dei Centri CS (1978 nov. 28)/2: Appunto: Cooperazione tra SISDE e SISMI (1978 ott. 25); Appunto da Direttore SISDE a Segretario CESIS 20 gennaio 1979, ACS Raccolte speciali  /  Direttiva Renzi (2014)  /  Presidenza del Consiglio dei ministri  /  Dipartimento delle informazioni per la sicurezza – DIS  /  Serie varie  /  14: Attività Giudiziaria e di Polizia – Strage di Piazza Fontana (Milano 12/12/1969): Giovanni Ventura (1979)  /  3: DIS_f0014_d0002.pdf.

[15] Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Terrorismo in Italia e sulle Cause dalla Mancata Individuazione dei Responsabili delle Stragi, Resoconto della 13ª SEDUTA, 30 Novembre 1993, 303-304; Relazione del Comitato Parlamentare per i Servizi di Informazione e Sicurezza e per il Segreto di Stato, Primo Rapporto sul Sistema di Informazione e Sicurezza, 6 Aprile 1995.

[16] “Appunto da Segretario CESIS a PCM, s.d.”, ACS Raccolte speciali/Direttiva Renzi (2014) PCM/DIS/Serie varie/13: Attività Giudiziaria e di Polizia – Strage di Piazza Fontana (Milano 12/12/1969): Giovanni Ventura (1978)/4: DIS_f0013_documentazione.pdf.

[17] https://formiche.net/2022/09/intevista-intelligence-pagani-pd/.


Competizione NATO e Cina-Russia nel Mar del Giappone

di Andrea Molle

La reazione sino-russa alla diplomazia NATO nell’indo-pacifico, che include anche i recenti sforzi italiani, non si fa attendere. Dopo la conferma delle indiscrezioni di una futura apertura di un liaison office dell’Alleanza in Giappone, ipotesi peraltro volutamente omessa dalle dichiarazioni ufficiali dell’incontro di Vilnius, i due paesi annunciano un’esercitazione navale comune nel Mar del Giappone.

Il Mar del Giappone è un fondamentale teatro strategico sia per la Cina che per la Russia. In particolare gli stretti di Soya, di Tsushima e Tsugaru hanno importanti implicazioni per la sicurezza nazionale di Beijin e Mosca. Sabato, il Ministro della Difesa cinese ha dichiarato che forze navali e aeree russe prenderanno parte alle esercitazioni militari “Northern/Interaction”, organizzate dal comando del teatro settentrionale dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). Va precisato che le relazioni militari tra i due paesi non sono una novità; basti ricordare, ad esempio, che a partire dal 2018, la Cina ha partecipato regolarmente alle principali esercitazioni annuali russe tra cui “Vostok 2018”, “Tsentr-2019” e “Kavkaz-2020”. Nell’agosto 2021, la Russia ha anche preso parte all’esercitazione “Western/Interaction”, condotta nella regione autonoma dello Ningxia Hui, nella Cina nord-occidentale, la prima in cui la Cina ha invitato a partecipare forze armate straniere. Successivamente, nel 2022, Beijin ha inviato componenti delle sue forze terrestri, navali e aeree in Russia per partecipare alle esercitazioni “Vostok 2022” le cui attività si sono svolte in ben 13 siti addestrativi russi e in diverse aree di interesse del Mar del Giappone.

Tuttavia, quest’ultima campagna addestrativa comune, che si aggiunge all’attività di pattugliamento congiunto del Mar del Giappone e del Mar Cinese Orientale da parte delle due Forze Armate iniziata lo scorso giugno, sembra rappresentare un salto di qualità verso un vero e proprio partenariato strategico. Il Ministero della Difesa ha infatti sottolineato come questa esercitazione congiunta abbia sì uno scopo prettamente operativo, cioè di acquisire le capacità necessarie al mantenimento della sicurezza delle rotte marittime strategiche, ma ha anche aggiunto che, tramite lo sviluppo di più strette relazioni militari, Cina e Russia intendono affermarsi politicamente come i reali garanti della pace e della stabilità nella regione.

Diversi esperti militari prevedono anche che queste attività addestrative andranno ad aumentare in futuro, anche grazie alla probabile rotazione tra tutti e cinque i comandi del PLA che potranno interessare diversi teatri strategici e scenari di conflitto tra i quali naturalmente spicca l’isola di Taiwan.

Ancora non si conosce l’entità nè la configurazione del contingente navale russo, ma la componente navale cinese sembra includere i cacciatorpedinieri missilistici Qiqihar e Guiyang, le fregate missilistiche Zaozhuang e Rizhao e la nave da rifornimento Taihu, salpate dal porto di Qingdao, sito nella provincia dello Shandong nella Cina orientale.

Fotografia di Michael Afonso


Non solo mare nostrum. L’Italia parte dal Giappone per un ruolo nell’arena globale

di Andrea Molle

Da diverso tempo a questa parte, l’Italia e il Giappone stanno intensificando la cooperazione nei settori della difesa e della sicurezza nel teatro indo-pacifico. Un trend già emerso nel recente passato, ad esempio con la partecipazione del Giappone al Global Combat Air Program, l’ampliato programma per il caccia di sesta generazione Tempest di cui assieme al Regno Unito e all’Italia il Giappone è un paese chiave, ma che in queste ultime settimane sembra aver preso slancio. Si profila infatti la ripresa dopo più di 20 anni delle esercitazioni congiunte tra la Marina Militare Italiana e la Forza marittima di autodifesa giapponese, tra cui citiamo a titolo di esempio quella che ha appena visto coinvolto il nostro PPA Morosini che ha fatto scalo alla base navale di Yokosuka a fine giugno nell’ambito di un dispiegamento di cinque mesi nella regione, che comprendono sia attività squisitamente operative che di tipo logistico, forse in vista di una sempre più probabile integrazione tra le due marine sotto il profilo del rifornimento, della manutenzione e delle riparazioni navali. Inoltre, come annunciato pochi giorni fa dal Capo di Stato Maggiore della Marina giapponese Ammiraglio Sakai, i due paesi svilupperanno una cooperazione specifica relativamente al caccia multiruolo STOVL F-35B.

Se Roma si è impegnata ad acquistare nei prossimi anni fino a 60 F-35A, la configurazione di base ad atterraggio e decollo convenzionale destinata all’aereonautica militare, e 30 F- 35B, la versione a decollo e atterraggio verticale destinati in gran parte alla marina, Tokyo prevede di acquisire fino a 105 F-35A e 42 F-35B. Il Giappone prevede di operare i velivoli su due portaelicotteri di classe Izumo, entrambe attualmente in fase di conversione in portaerei leggere, mentre l’Italia intende operare il caccia dalle portaerei Cavour, che dovrebbe proprio arrivare nel Pacifico tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024, e Trieste. Garantire l’interoperatività dei due strumenti militari porterebbe un grande vantaggio in termini di dispiegamento e rotazione di unità aeronavali, aumentando così la capacità di readiness e di deterrenza nell’area.

Questo rinnovato interesse dell’Italia, tradizionalmente poco coinvolta al di fuori dell’area mediterranea, per il teatro asiatico appare coerente con la dottrina NATO che che considera la sicurezza dell’Europa come inseparabile da quella dell’Asia Orientale e piace sia agli Stati Uniti che al Regno Unito. La cooperazione, spinta in primo luogo proprio da Londra, è stata certificato ufficialmente dal recente accordo tra il primo ministro giapponese Fumio Kishida e il Presidente Giorgia Meloni che ha portato i legami bilaterali tra i due paesi al livello di partenariato strategico, che comporta anche la creazione di un meccanismo di consultazione bilaterale permanente su questioni di politica estera e di difesa. La maturazione dei rapporti tra Tokyo e Roma è stata anche evidenziata dal Ministro della Difesa Guido Crosetto, che a margine della recente trilaterale con i suoi omologhi britannici e giapponesi si è impegnato ad esplorare meccanismi di integrazione in diverse aree tra cui la cyber defense, l’intelligence, l’addestramento congiunto e naturalmente nell’ambito dell’industria della difesa.

Mentre Roma cerca dunque di crearsi un posto nell’Indo-Pacifico, forse anche a spese di altri partner europei, da affiancare al suo rinnovato impegno in Nord Africa e Medioriente, Tokyo intende così ampliare la propria rete di partners sia per controbilanciare la crescita della Cina sia per ridurre la propria dipendenza dagli Stati Uniti. Il Giappone sta infatti diversificando la propria strategia nel settore della tecnologia della difesa, fino ad ora completamente subordinata agli interessi di Washington, presentandosi allo stesso tempo alla Casa Bianca come un attore necessario per garantire la stabilità nell’Indo-Pacifico.

Tornando all’Italia, il continuo aumentare del numero dei quadri di crisi, e soprattutto la piega che stanno prendendo le relazioni tra la Cina e l’Occidente nel contesto degli equilibri internazionali, fanno pensare che investire in Asia Orientale sia davvero necessario per garantire la sicurezza futura del paese.


La gestione di crisi nel XXI secolo

di Quentin Ladetto, Patrick Trancu, Alessandro Rappazzo, Luca Tenzi

Analisi pubblicata nel Rapporto #ReaCT2023

L’articolo tratta della complessità dei processi decisionali nel contesto interconnesso e interdipendente odierno, evidenziando le sfide che politici, manager ed imprenditori devono affrontare. In particolare, viene evidenziata la presenza di un gran numero di variabili, la loro velocità di cambiamento e la loro interconnessione, che rendono difficile la previsione. Viene poi sottolineato il passaggio dalle crisi tradizionali a quelle sistemiche, che coinvolgono diverse aree e la necessità per le organizzazioni di sviluppare una capacità di previsione strategica per anticipare tali crisi. Sono citati la pandemia COVID-19 e la guerra in Ucraina come esempi di crisi sistemiche, e viene evidenziata l’importanza delle emozioni umane e della sensibilità nella comprensione di contesti complessi. Il testo inoltre discute l’importanza di adeguare l’organizzazione di gestione delle crisi al XXI secolo, evidenziando il ruolo del nuovo ufficio federale per la gestione di crisi e uno Stato Maggiore di Crisi di base permanente al suo interno, con il compito di armonizzare la comprensione del processo di gestione delle crisi, diventare un centro di competenza aperto ad esperti, esercitare il coordinamento tra le diverse strutture, ospitare un’unità di anticipazione strategica e creare cellule di riflessione rapida. Ciò permetterebbe di integrare in un unico sistema Comuni, Cantoni e la Confederazione svizzera e di affrontare le sfide contemporanee con un approccio flessibile, creativo e pronto all’azione.

Keywords: decision-making, crises

La complessità
Nel nuovo contesto interdipendente e interconnesso di questo millennio “essere politici, manager o imprenditori, prendere decisioni che avranno un impatto profondo sul presente e sul futuro di intere comunità è sempre meno un’attività banale o per la quale basta un guizzo di creatività alla faccia della competenza. (…) In sintesi, decidere nel nuovo millennio è diventata un’attività complessa”.
“La complessità è descritta dall’aneddoto meteorologico della farfalla, che, alzandosi in volo da un fiore nelle Filippine, con il suo battito di ali scatena, tanto paradossalmente quanto realmente, un uragano in Florida. La complessità sottende uno stato di ampia varietà nella numerosità delle variabili in gioco (troppe), di variabilità della dinamica con cui cambiano i rispettivi valori (troppo veloci), e della loro più o meno stretta e a volte indecifrabile interdipendenza (troppo connessi, anche in modo labile). Assieme, queste tre condizioni rendono difficile la possibilità di previsione, anche a una macchina con potenza di calcolo significativa quale può essere un supercomputer. Ed è qui che subentra l’importanza dell’essere umano rispetto alla tecnologia. Perché l’essere umano è dotato, oltreché delle competenze, di quelle emozioni e sensibilità che gli permettono, con il supporto della tecnologia, di comprendere meglio il contesto di riferimento. La complessità richiede uno sforzo di immersione per comprenderla e per affrontarla” (Verona, 2022).
Siamo di fatto immersi in contesti operativi sempre più connessi tra loro, in cui gli schemi di comportamento interagiscono non solo all’interno di ciascuna singola organizzazione, ma anche tra le diverse organizzazioni, in un ambiente sempre più interdipendente (Allison, 1999).

Tra crisi sistemiche e policrisi
Le crisi non sono più quelle di una volta. A differenza di quelle del XX secolo dove il contesto era chiaro e il perimetro ben definito, pensiamo ad esempio ad eventi di natura industriale/ambientale (Seveso, Exxon Valdez, ecc.) o a quelli associati alla sicurezza alimentare o dei farmaci (Tylenol), le crisi sistemiche del 21° secolo tendono a proiettarci in scenari ipercomplessi dove “l’evento non rappresenta più il fulcro del problema. Il problema è rappresentato dalla fragilità delle strutture fondamentali del nostro sistema”. Queste crisi, transfrontaliere per natura, tendono a sfociare “nel caotico, spaziano territori sempre più ampi e complessi, sono difficilmente inquadrabili in categorie predefinite. (…) Ci spingono in un universo caratterizzato dalla perdita di orientamento e di punti di riferimento.” (Trancu P. et al. Lagadec P. 2021).
L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, prima vera crisi sistemica del nuovo secolo, rappresenta il momento di frattura tra l’era della stabilità e quella dell’instabilità. Ma è la concatenazione di due crisi sistemiche, pandemia e guerra in Ucraina, che determina il passaggio all’era dell’incertezza costante e da origine al termine «policrisi».
In questo scenario già estremamente complesso non possiamo ignorare ulteriori fattori sotterranei quali la guerra ibrida permanente o il potenziale emergere di nuove minacce terroristiche caratterizzate dall’uso di nuovi arsenali di armi facilmente accessibili, a basso costo e ad alto impatto.

L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, prima vera crisi sistemica del nuovo secolo, rappresenta il momento di frattura tra l’era della stabilità e quella dell’instabilità.

I limiti della gestione delle crisi
L’esperienza pandemica ha messo in evidenza quello che numerosi esperti di risk management e crisis management hanno compreso da tempo: la maggior parte delle organizzazioni e delle società intese come nazioni, non sono cablate per ricercare e apprezzare scenari negativi. Il periodo di incubazione della pandemia (e della guerra in Ucraina), illustra la sfida che è dinanzi a noi: la necessità di sviluppare una propensione e una capacità di esaminare l’ambiente con un’antenna dedicata alle potenziali crisi (Boin, 2021). Si tratta di introdurre nelle organizzazioni, siano esse aziende o Stati, meccanismi di anticipazione strategica (strategic foresight). Unità nelle quali si concentrano le informazioni provenienti da diversi sistemi di sensori e in grado quindi di monitorare costantemente l’orizzonte per identificare in una logica di anticipazione possibili scenari critici.
La realtà è che nella maggioranza dei Paesi abbiamo assistito ad una cecità organizzativa: incapacità di immaginare; sistemi organizzati a silos (Scharte, 2021) e incapaci di collegare i puntini; il dilemma di confrontarsi con eventi di bassa probabilità ma alto impatto; l’illusione del controllo e l’incapacità di confrontarsi con la dura realtà di scenari “what if”; la tendenza a trincerarsi in contesti familiari – i known knowns – in fase di analisi del rischio e preparazione; l’esercitarsi su scenari “soft” (Boin et al., 2021); una comunicazione difficilmente comprensibile (Trancu et al., Grandi, 2021) e mirante a fornire rassicurazioni non supportate dalla realtà della situazione.
Vi sono problemi culturali, di architettura organizzativa, di coordinamento, di leadership, di comando e controllo, di trasparenza e comunicazione, che richiedono pressante attenzione. Nel caso degli Stati a questi spesso legislazioni inadeguate per fronteggiare eventi critici e queste rappresentano un ulteriore ostacolo alla gestione di tali eventi. 5 le aree di intervento urgenti: 1) superare la cecità organizzativa 2) instaurare processi decisionali solidi e multidisciplinari; 3) gestire la frammentazione; 4) articolare narrazioni credibili; 5) gestire lo stress collettivo (Boin et al., 2021).
La nostra impostazione alla gestione del rischio si è basata fino ad oggi sui “known unknowns”: i rischi dei quali abbiamo consapevolezza. Li abbiamo identificati, mappati e compresi. Ma il tema che si pone oggi è quello dei rischi che sono fuori dal nostro “radar” e che non siamo in grado di identificare: gli “unknown unknowns”. Il perimetro si è quindi drammaticamente ampliato a dismisura.
Vi è urgenza di trasformazione mentale e organizzativa. Bisogna essere in grado di cogliere tempestivamente i potenziali campanelli d’allarme (foresight) che possono permetterci di anticipare la riflessione e l’azione. I decisori hanno più che mai necessità di poter contare più che mai su squadre di sostegno, unità di anticipazione strategica e cellule di riflessione rapida (Lagadec, 1991), squadre operative che li aiutino a governare con la necessaria competenza il caos. Bisogna abbandonare l’idea dell’uomo solo al comando e privilegiare la leadership diffusa; rifiutare il “group think” e valorizzare individui che mostrano ingegno, creatività, capacità di affrontare l’imprevisto e l’anomalo. E’ più che mai necessario imparare a “pensare fuori dagli schemi”, e ad agire, in un contesto in cui gli schemi non esistono più (Grannatt, 2004).

Vi è urgenza di trasformazione mentale e organizzativa.

In conclusione, la cassetta degli attrezzi della gestione di crisi che abbiamo ereditato dall’era industriale è obsoleta. Così come sono obsolete le organizzazioni e gli stili di leadership in essa contenuti. E’ quindi necessario ripensare le organizzazioni e i processi di preparazione e gestione di crisi delle istituzioni e delle aziende alla luce degli elementi di complessità introdotti dalle crisi sistemiche del XXI secolo. Dobbiamo ragionare sulla collaborazione pubblico privato quale elemento fondamentale del processo, ripensare i processi comunicativi e superare la logica dei silos per giungere ad una visione olistica degli eventi critici.

Il ruolo delle idee
Essere pronti a pensare l’inimmaginabile (Taleb, 2009) è una capacità che è sempre più richiesta per affrontare i possibili futuri (Li & Qiufan, 2021). Il tempo come lo conosciamo perde la sua determinatezza in quanto non è un “quando” arriva, ma piuttosto una sfida di “cosa” arriva. I futuri al plurale sono quindi diventati il vero fulcro dell’interesse per la preparazione alle crisi (Ladetto, 2022). Essere preparati alle crisi significa anche sviluppare, seminare e raccogliere nuove conoscenze, nuove idee, e questo per cercare la flessibilità intellettuale necessaria a vedere oltre l’inimmaginabile (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Grazie a Prometeo, che per ordine di Zeus diede all’uomo la capacità di pensare (Eschilo, 2018), abbiamo lo strumento necessario per prepararci. Ma le idee sono come i semi, cioè devono essere seminate, raccolte, mangiate o mescolate con altri semi, e questo all’infinito.
Dalla conoscenza e dalle analogie nascono le idee, le idee combinate creano altra conoscenza, e con la conoscenza l’esperienza dell’uomo diventa sempre più grande. Per riassumere con le parole di Pascal, l’uomo inizia la sua vita nell’ignoranza, ma continua a imparare e a crescere costantemente. Beneficia della propria esperienza e delle conoscenze acquisite da quanti lo hanno preceduto. L’esperienza genera conoscenza; conoscenza, memoria e confronto generano idee; le idee vengono messe in relazione; le relazioni ci permettono di immaginare. La capacità di immaginare diventa l’elemento cardine della gestione di crisi del XXI secolo.

Per una moderna gestione di crisi
La globalizzazione nel senso olistico da un lato e la pervasività tecnologica dall’altro, hanno messo sotto processo l’affidabilità del sistema ereditato dalla prima Rivoluzione Industriale, cioè un modello gerarchico con chiare responsabilità improntate principalmente sul controllo e sull’esecuzione, cioè chi comandava e chi eseguiva.
Per affrontare le sfide contemporanee è necessario un moderno quadro strutturale e concettuale per la gestione delle crisi (Henrizi & Müller-Gauss, 22. November 2022), quindi avere una mentalità adatta alle circostanze (Watson et al., 2021) e possedere uno strumento adeguato, o per dirla con Urner Maren (2019) un maggiordomo mentale, per gestire la crisi. Il modello 5+2, cioè le attività di condotta dell’Esercito Svizzero (Führung und Stabsorganisation der Armee 17 : (FSO 17), 2019) offre un processo semplice, scalabile e adatto a tutte le crisi, qualunque esse siano. Il principio non è quello di esercitarsi su quello che avverrà, perché come sappiamo non sarà mai il caso, bensì, prima di tutto, di interiorizzare il processo e questo anche perché l’unica costante nella situazione di crisi è la parola stessa crisi (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Ogni crisi anche se porta lo stesso nome, non è mai uguale alla precedente.

Le organizzazioni che si chiudono in loro stesse, cioè che diventano una monocultura, hanno meno probabilità di evolversi e quindi diventano più vulnerabili nel tempo e corrono il rischio di estinguersi.

Quali sono dunque i limiti del sistema attuale di gestione di crisi della Confederazione Elvetica e come è ipotizzabile superarli? I limiti non sono certo nella capacità di pianificare ma piuttosto nel monitoraggio (inteso come capacità di individuare e anticipare), nella supervisione e nella conduzione dell’operazione. Queste rappresentano le vere sfide. La capacità di reagire rapidamente ed efficacemente ai cambiamenti è fondamentale per il successo. I decisori devono essere in grado di seguire da vicino l’operazione e di prendere rapidamente decisioni per mantenere il controllo della situazione.
Il rischio di gestire una crisi secondo il concetto della gestione per misure d’urgenza, oppure anche con il nome di micromanagement (Rappazzo, 2015), è un pericolo reale da non sottovalutare. Si tratta di una situazione in cui il decisore cerca di controllare ogni aspetto della crisi, invece di affidarsi alle competenze e alla professionalità delle persone che lo circondano. Il rischio è di soffocare la creatività e l’iniziativa, oltre che di alimentare il clima di sfiducia e paura che già caratterizza la crisi. Democrazia, regionalismo, partner diversi, strutture troppo gerarchiche e processi troppo rigidi rallentano l’agilità e la capacità di gestire proattivamente una crisi. L’agenda politica e la resilienza non vanno d’accordo. Non si tratta di cattiva volontà, ma la politica ha tempi e modi propri. Il voto, ad esempio, è un elemento che non può essere ignorato: significa consenso, e senza consenso non c’è rielezione. Senza un metodo o un processo chiaro per risolvere i problemi, la crisi può creare incomprensioni compromettendo la comprensione reciproca.
Le organizzazioni che si chiudono in loro stesse, cioè che diventano una monocultura, hanno meno probabilità di evolversi e quindi diventano più vulnerabili nel tempo e corrono il rischio di estinguersi. Un altro pericolo è rappresentato dal pregiudizio di conferma, che è la madre di tutti gli errori del ragionamento umano. Si manifesta come l’inclinazione a considerare le nuove informazioni in modo da confermare le teorie, le visioni del mondo e le credenze esistenti. Ciò significa che viene applicato alle novità per deviare i pensieri verso lo statusquo (Dobelli, 2013). Ciò è particolarmente vero in un mondo in cui i cambiamenti sono sempre più rapidi e le sfide sempre più complesse. Per sopravvivere e prosperare, le organizzazioni devono quindi essere in grado di evolversi e adattarsi rapidamente ai cambiamenti. Le complessità delle strutture di condotta e dei processi ben funzionanti in una situazione normale sono insufficienti durante un periodo eccezionale. In questi momenti, l’eccezione richiede un approccio più flessibile, creativo e pronto all’azione. Riducendo il personale e comprimendo i costi, cioè massimizzando ogni minuto libero, si è persa la capacità di pensare a lungo termine. Sviluppare e riflettere in modo critico richiede tempo, ma è economicamente costoso e dovrebbe essere inteso come un investimento. Inoltre, la capacità di sviluppare un pensiero critico (Urner, 2019) è la chiave per affrontare un mondo che da VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguos) è, secondo alcuni, diventato BANI (Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensible).

Sviluppare e riflettere in modo critico richiede tempo, ma è economicamente costoso e dovrebbe essere inteso come un investimento.

Immaginazione e anticipazione strategica quale elemento di innovazione
Per fare fronte alle profonde trasformazioni in atto dobbiamo innovare. Dobbiamo spingere la riflessione un passo oltre.
L’anticipazione strategica è definita come “l’esplorazione strutturata ed esplicita di molteplici futuri al fine di informare il processo decisionale” (OECD, 2019). Questa comporta tipicamente la scansione dell’orizzonte alla ricerca di segnali di cambiamento emergenti, lo sviluppo e l’esplorazione di una varietà di possibili scenari futuri e l’identificazione delle potenziali implicazioni per le strategie e le politiche sviluppate nel presente. L’anticipazione strategica può fornire una base potente per lo sviluppo di politiche pubbliche lungimiranti e contribuire a garantire l’adeguatezza al futuro delle politiche esistenti, in particolare nel contesto di “ambienti complessi e incerti ” (Greenblott J.M. et al. 2017).
Questa anticipazione del futuro, l’essere attenti ai segnali deboli e agli elementi presenti che preannunciano un cambiamento prossimo è soprattutto un’attitudine intellettuale. Che si tratti di proteggersi dalle crisi o di cercare opportunità, è un’attività permanente, un processo continuo in cui interagiscono tempi brevi e lunghi. Le varie azioni intraprese mirano a mantenere vigili le nostre certezze e a metterle costantemente alla prova in virtù di ipotesi o idee ispirate da un presente in continua evoluzione.
In quest’ottica, il Dipartimento federale della difesa, della protezione civile e dello sport, attraverso il suo centro tecnologico armasuisse scienza e tecnologia, ha creato nel 2013 un programma di anticipazione strategica. Il suo obiettivo è anticipare l’uso di tecnologie che potrebbero avere un impatto dirompente sul modo in cui la Svizzera difende e preserva la propria sicurezza.
Il programma, noto come deftech, acronimo di defence future technologies, fa una chiara separazione fra foresight e forecast (Ladetto, 2022) e cerca, tramite progetti e sinergie nazionali ed internazionali di anticipare usi dirompenti di campi tecnologici e delle loro convergenze.

L’anticipazione strategica può fornire una base potente per lo sviluppo di politiche pubbliche lungimiranti e contribuire a garantire l’adeguatezza al futuro delle politiche esistenti

Nonostante l’incertezza del contesto, il foresight ci aiuta a vedere quali sono i possibili stati del futuro (Foresight Serie, 2021). Il pensiero futuristico ci aiuta a capire come questi stati potrebbero evolversi e, di conseguenza, come dovremmo mettere in discussione i nostri pregiudizi, punti ciechi e mentalità. Dobbiamo poi tradurre sistematicamente queste intuizioni in strategie e politiche, per prendere i provvedimenti necessari ora per essere preparati al futuro. Il domani si costruisce interamente a partire da oggi. In mezzo non c’è nulla. C’è un vuoto che si può anche chiamare divenire. Questo vuoto è in attesa di essere colmato da un numero infinito di innovazioni, sviluppi e opportunità.
Questa posizione intellettuale è importante perché dà piena rilevanza alle azioni presenti. Poiché queste azioni e interazioni sono potenzialmente infinite, ciò giustifica la presa in considerazione non di uno, non di due, non di tre, ma di una moltitudine di futuri. Questi futuri non sono considerati in relazione agli orizzonti temporali, ma in relazione alle differenze e agli impatti che presentano rispetto al presente, o in relazione ai presenti, se consideriamo i nostri diversi modelli mentali. Rendere visibile questa moltitudine di possibilità e ispirare i decisori nelle loro azioni è l’obiettivo di un dispositivo di anticipazione strategica oggi più che mai fondamentale per poter gestire con maggiore efficacia le crisi sistemiche del 21° secolo. Ma è anche necessario pensare anche in termini di governance anticipatoria ovvero “l’incorporazione e l’applicazione sistematica dell’anticipazione strategica nell’intera architettura di governance, compresa l’analisi delle politiche, l’impegno e il processo decisionale” (OECD 2019). La governance anticipatoria e l’istituzionalizzazione della previsione strategica deve comprendere la creazione di istituzioni e strutture dedicate alla previsione (ad esempio unità, comitati, reti, legislazione e pratiche) e la costruzione di una cultura della previsione all’interno delle strutture istituzionali esistenti (OECD 2022). Incluse le unità preposte alla gestione di crisi.

Adeguare l’organizzazione di gestione di crisi al XXI Secolo
Partendo da queste considerazioni è urgente confrontarsi su una diversa organizzazione per la gestione di crisi e avviare processi formativi finalizzati a creare un “fitness mentale” che permetta di confrontarsi con scenari inediti piuttosto che esercitare quelli ben conosciuti.
Come quindi rafforzare l’attuale sistema in vigore nella Confederazione Elvetica e potenzialmente anche quelli di altri Paesi? Partendo innanzitutto dal presupposto che per fronteggiare la complessità esterna a un sistema occorre aumentarne la complessità interna (De Simone, 2020). Dobbiamo quindi ripensare l’organizzazione. Non a caso si tratta di una delle 13 raccomandazioni contenute nel rapporto post mortem Covid-19 elaborato dalla Cancelleria federale (2022). Dal rapporto emerge inoltre un altro importante tema trasversale: a livello strategico deve essere migliorata la capacità di anticipare possibili crisi e i relativi sviluppi della situazione. Per rispondere alle numerose sfide, sulla scorta delle lezioni apprese dopo la pandemia e delle raccomandazioni sopra citate, nel marzo 2023 il Consiglio federale ha deciso di “rafforzare l’organizzazione dell’Amministrazione federale per le crisi future”. Tre i pilastri della futura organizzazione:
1. la costituzione di uno stato maggiore di crisi permanente incaricato di fornire supporto nella gestione di crisi a livello sopradipartimentale. Si tratta di fatto di una struttura orizzontale che mira a superare la problematica dei silos verticali, assicurando continuità, una procedura di gestione di crisi uniforme e una conservazione delle conoscenze nel tempo;
2. la costituzione, su indicazione del Consiglio federale, di uno stato maggiore di crisi a livello politicostrategico (SMCPS) sotto la direzione del dipartimento responsabile per la crisi in questione. Compito del nuovo organismo formulare per il Consiglio federale le risposte politiche e assicurare il coordinamento della gestione di crisi a livello sopradipartimentale;
3. la possibilità di costituire in seno al dipartimento responsabile della gestione uno Stato maggiore di crisi operativo (SMCOp) che ha di fatto il compito di elaborare la documentazione di base necessario per lo SMCPS oltre a garantire il coordinamento tra le unità amministrative.
La riorganizzazione prevede inoltre un coinvolgimento dei Cantoni, della comunità scientifica e di eventuali altri attori rilevanti nei lavori del SMPCS e del SMCOp. Infine, Il Consiglio federale ha dato mandato agli organismi competenti di elaborare le basi legali della nuova organizzazione.
Si tratta a nostro giudizio di un importante passo in avanti nella costruzione di un diverso sistema organizzativo, più idoneo per raccogliere la sfida delle crisi sistemiche del 21° secolo. Anche se i dettagli non sono ancora disponibili, dal nostro punto di vista il nuovo Stato maggiore di crisi permanente dovrebbe assolvere alcuni compiti primari che vanno oltre quanto ad oggi comunicato:
1) armonizzare la comprensione del processo di gestione delle crisi per l’intera confederazione, per le altre istituzioni, così come per il settore privato attraverso processi formativi;
2) divenire un “centro di competenza” aperto anche ad esperti stranieri in grado di dare vita ad una cultura comune integrando anche campagne informative a tutti gli stakeholder e ai cittadini. Il processo di gestione armonizzato dovrebbe ispirarsi al modello 5+2, cioè le attività di condotta dell’Esercito svizzero che grazie alla sua semplicità e scalabilità si è dimostrato per anni uno strumento affidabile;
3) esercitare non solo il coordinamento tra le diverse strutture integrandole orizzontalmente come effettivamente previsto ma assicurarsi anche che i processi di ascolto siano attivi;
4) ospitare al suo interno un’unità di anticipazione strategica con il compito di stimolare e sfidare di continuo le ipotesi di crisi, immaginando nuovi scenari e confrontandole al presente e ai segnali deboli monitorati costantemente. In relazione con gli impatti potenziali in vari settori identificati, un orizzonte temporale di breve, medio e lungo termine per le possibili azioni da svolgere. Un esempio concreto può essere quello di Singapore e del “Centre for Strategic Future” il quale è entrato a far parte del nuovo Strategy Group dell’Ufficio del Primo Ministro dal 2015. Fu istituito per concentrarsi sulla pianificazione strategica e la definizione delle priorità dell’intero governo, sul coordinamento e lo sviluppo di iniziative e per incubare e catalizzare nuove capacità nel servizio pubblico nazionale;
5) creare, formare e preparare “cellule di riflessione rapida” incaricate di lavorare in parallelo durante un evento critico con l’obiettivo di porre le domande giuste al momento giusto;
6) individuare le cellule di contatto e coordinamento interfederali, interdipartimentali e con gli stakeholder esterni e stabilire un “modus operandi”;
7) dare vita ad un’unità interdisciplinare dedicata alI’Intelligenza Artificiale per esplorare e implementare applicazioni nel campo dell’emergenza e della crisi.
La riorganizzazione promossa costituisce sicuramente un importante punto di partenza che dovrebbe tuttavia essere perseguito con un occhio già rivolto al futuro. Il tema dell’anticipazione delle crisi, seppure evocato dal Consiglio federale, deve partire da un approfondimento più puntuale circa l’anticipazione strategica così come si impone una riflessione sull’integrazione di sistemi di intelligenza artificiale, tema quest’ultimo che implica anche valutazioni di natura etica. Gli elementi che ci sembrano assenti sono un chiaro riferimento alla multidisciplinarietà, elemento oggi fondamentale nella gestione delle crisi sistemiche, e un’attenzione al ruolo centrale della formazione di quanti saranno chiamati a diverso titolo a pilotare le crisi future.

E’ necessario valutare nuovi approcci organizzativi, acquisire una migliore comprensione dei possibili futuri e soprattutto concentrarsi su come selezionare e formare donne e uomini capaci di orientarsi in universi ipercomplessi, sconosciuti e caotici.

In conclusione, abbiamo visto l’importanza dell’anticipazione, della padronanza dei processi e del ruolo delle idee. Non si tratta solo di riorganizzare ma soprattutto di istituire in seno alla nuova organizzazione una cultura che favorisca una semina costante dei campi, e allo stesso tempo l’alternanza o l’innesto di nuove semine per garantire anche la cultura dell’allenamento e del cambiamento. Ogni organizzazione porta in sé i germi dei problemi correnti. Invece di investire ore ma anche anni in preparazione di esercizi fittizi (che comunque di per sé è già positivo), si tratta semplicemente di esercitarsi su problemi reali. Successivamente dare più ampio respiro alle simulazioni, che necessitano di molta preparazione. Per fare questo però è necessario possedere una buona padronanza dei processi di base.
E’ bene ricordare che gli obiettivi della gestione di crisi sono tre: porre fine alla crisi in tempi brevi, limitare i danni e ripristinare la credibilità (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Ciò significa anche non ostacolare o rallentare il normale svolgimento dei compiti dei vari dipartimenti o istituzioni coinvolti. Significa avere un elemento di risoluzione dei problemi libero dai vincoli della gestione della continuità operativa (BCM), in grado di ripristinare autonomamente, con le risorse e le competenze necessarie e disponibili, la situazione normale o desiderata nel più breve tempo possibile.
Le peculiarità delle crisi sistemiche e transfrontaliere del 21° secolo caratterizzate da elevati elementi di complessità e sempre più spesso destinate a diventare policrisi impone un ripensamento di come queste vengono affrontate e gestite. E’ necessario valutare nuovi approcci organizzativi, acquisire una migliore comprensione dei possibili futuri e soprattutto concentrarsi su come selezionare e formare donne e uomini capaci di orientarsi in universi ipercomplessi, sconosciuti e caotici.

PER LA BIBLIOGRAFIA RIMANDIAMO ALL’ARTICOLO PUBBLICATO NEL RAPPORTO #REACT2023

Gli Autori
Quentin Ladetto
Ideatore e direttore del programma di foresight di armasuisse scienza e tecnologia – https://deftech.ch. L’obiettivo del programma è di identificare le tendenze tecnologiche e casi d’uso dirompenti e di valutare le loro implicazioni in un contesto militare. Scrive di foresight su atelierdesfuturs.org
Patrick Trancu
Consulente di gestione di crisi che lavora da oltre 20 anni con il settore privato, pubblico e con le istituzioni focalizzandosi principalmente sul tema della preparazione. Ha curato ed è uno dei 35 co-autori del libro “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro” (2021). Scrive di gestione di crisi su www.tta-advisors.com
Alessandro Rappazzo
Ufficiale professionista dell’esercito svizzero. Ha conseguito un EMBA ed è dottorando presso l’Università di Gloucestershire. Attualmente è attivo presso il comando MIKA (Comando per la formazione in materia di gestione, informazione, e comunicazione), dove ha l’opportunità di lavorare con un’ampia gamma di aziende private e dipartimenti federali e cantonali. Scrive anche su Opinione67
Luca Tenzi
Esperto di sicurezza, resilienza e crisi con oltre 20 anni di esperienza aziendale abbracciando molteplici settori di attività in aziende Fortune 100 e 500 e consulenza per alcune agenzie specializzate delle Nazioni Unite – guidando operazioni e definendo strategie di sicurezza in diversi ambienti geopolitici

Immagine di copertina: foto di albertosandrin da Pixabay


LIBRO SIMTERRORISM – Modeling Religious Terrorism in Populations impacted by Climate Change

DI ANDREA MOLLE
(Pubblicazione in lingua inglese)

DISPONIBILE NEL NOSTRO CATALOGO SU AMAZON (CLICK PER UN ESTRATTO)

This volume examines the combined effects of risk propensity, relative deprivation, and social learning of deviance on the collective grievance within a religious population under the assumption of civil unrest caused by extreme climatic events. We designed an agent-based model to demonstrate how greater or lesser amounts of grievance towards political authority are likely to create an ideal en-vironment for organized violence to emerge when resources are threatened by climate change.

Scholars have tried to formulate a generally accepted definition of religious terrorism for almost four decades, but its investigation is still controversial, especially in the context of the emerging study of the political and social consequences of climatic events. This particular form of terrorism is nevertheless highly diffuse and observed to be coming from smaller clubs of radicalized individuals instead of main-stream religious groups. However, we find that doctrinal explanations appear irrelevant in explaining how terrorist cells emerge and organize themselves.


Ucraina: l’evoluzione sul campo e le munizioni all’uranio impoverito

di Claudio Bertolotti

dal commento di Claudio Bertolotti a “In un’ora” – RaiNews 24 del 22 marzo 2023

Ucraina: munizioni all’Uranio impoverito? Il commento di C. Bertolotti a “In un’ora” RaiNews24, puntata dal 22 marzo 2023

La situazione sul campo: iniziativa ancora in mano russa

Le operazioni terrestri in Ucraina, e più in generale l’intero andamento del conflitto, hanno ormai assunto il carattere di una lotta d’attrito e logoramento, relegando la manovra militare a poche azioni tattiche a vantaggio della Russia (Riggi). Di fatto ciò che prevale è la capacità di mettere forze in campo e disporre di munizionamenti ed equipaggiamenti. Anche qui la Russia è in una posizione di vantaggio in termini di quantità. Chi tra i due contendenti riuscirà e avrà la forza di condurre azioni offensive dovrà tenere conto della sostenibilità sul medio periodo. Insomma sembra difficile prevedere l’azzardo di una manovra di sfondamento su tutto il fronte, mentre appare più probabile una pressione costante attraverso azioni tattiche ripetute e progressive. Non molto diverso da ciò che è accaduto su quello stesso fronte durante la seconda guerra mondiale.

Le forze russe continuarono limitate operazioni offensive lungo la linea Kupyansk-Svatove-Kreminna e non hanno fatto ottenuto vantaggi nell’area di Bakhmut; continuano le operazioni offensive lungo la periferia della città di Donetsk.

La questione dei proiettili all’uranio impoverito che arriveranno dalla Gran Bretagna

Sull’uso del munizionamento all’uranio impoverito direi che è un tema ricorrente in ogni guerra combattuta dagli anni ’70 in poi e al centro del dibattito pubblico dagli anni ’90, con la Guerra del Golfo di Bosnia e del Kossovo, dove l’utilizzo è stato ampio. Tutti i paesi usano munizionamento DU, cosiddetto uranio impoverito: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia. E il suo ampio utilizzo che, per quanto dibattuto, è legittimo, è conseguenza degli indubbi vantaggi operativi: è efficace, perfora con maggiore efficacia le corazzature dei carrarmati e il cemento armato dei bunker e in più costa poco (essendo prodotto di scarto degli impianti nucleari). Tra gli svantaggi certamente quello della contaminazione del terreno, per periodi brevi, e i rischi per i soggetti, militari e civili, che dovessero inalarne il particolato in prossimità dell’esplosione.

Cresce la tensione tra Stati uniti e la Russia. Due le due ragioni fondamentali

La prima è che la Russia dopo un anno di guerra ha dimostrato di essere in grado, pur a costo di enormi sacrifici, di tenere le posizioni del fronte in una guerra pressocchè statica, di attrito e logoramento, che potrebbe durare ancora molto, con il sostegno della Cina e dei suoi alleati minori e sostenuta attraverso una progressiva mobilitazione degli scaglioni di coscritti, certo sempre meno preparati alla guerra ma in quantità sufficiente per mantenere l’iniziativa.

La seconda è che il tempo che ha la Russia è molto più di quello che hanno a disposizione gli Stati Uniti. Così come in tutte le guerre – dall’Iraq all’Afghanistan – gli appuntamenti elettorali hanno imposto i tempi e i modi della guerra. L’imminente avvio della campagna elettorale per le presidenziali sarà determinante per le prossime scelte strategiche, anche tenuto conto del fatto che il contribuente-elettore statunitense non è particolarmente entusiasta dei costi crescenti di questa guerra che, ad oggi avrebbe visto impegnati oltre 40miliardi di dollari: agli oppositori repubblicani potrebbero così aggiungersi anche i democratici che non rispondono al Presidente, bensì ai loro elettori.


Nuovi aiuti militari dell’Italia all’Ucraina: quali armi, costi e premesse politiche?

di Redazione

Dall’intervista di C. Bertolotti a Tagadà, La7 (puntata del 22 febbraio 2023)

Carri armati, artigliera pesante, mezzi per la difesa aerea e non solo. Da Europa e Stati Uniti la promessa di potenziare gli aiuti militari all’Ucraina. Anche l’Italia farà la sua parte; in che termini, quali i numeri, i costi e le premesse politiche?

L’Italia, in generale, quali armi sta mandando in Ucraina?

Stiamo mandando molto del poco che abbiamo. E questo a causa delle risorse limitate destinate alla difesa negli ultimi decenni, e in particolare dal 2012. In termini operativi il contributo principale è in funzione di uno strumento militare ucraino con una forte componente di “arma base”, ossia la fanteria. Dunque equipaggiamenti e armi individuali e di reparto, sistemi controcarro, veicoli da trasporto truppa, e così via. A cui si è progressivamente aggiunto il contributo della componente di “supporto al combattimento” dell’artiglieria e, in ultimo, di difesa aerea.

Mentre gli Stati Uniti hanno inviato in maniera massiccia, razionale e coerente, i propri aiuti a Kiev, i paesi europei lo hanno fatto in maniera meno strutturata, cominciando con aiuti prima poco rilevanti per procedere a tappe forzate verso un contributo via via più di rilievo. Ci sono poi varie sensibilità: i paesi del fianco est, appartenenti all’ex blocco sovietico, hanno spinto fin da subito per l’invio di armamenti pesanti, come i carri armati. L’Italia ha cominciato con i sistemi d’arma di reparto, dalle mitragliatrici ai sistemi contro-carro, per poi inviare i veicoli da trasporto truppe, prevalentemente di vecchia generazione, come gli M113. Per poi inviare sistemi di artiglieria pesante campale e semovente di vecchia e nuova generazione, nei limiti delle riserve disponibili.

Il contributo complessivo è rilevante, sia in termini politici che militari. Adeguato a fermare l’avanzata russa, e dunque mantenendo uno stato di guerra di attrito, ma non sufficienti per fornire all’Ucraina gli strumenti per una vittoria decisiva.

Sono noti questi elenchi? Periodicamente si polemizza sulla mancanza di trasparenza sul tema. Funziona diversamente negli altri paesi?

Ogni paese ha la propria policy. La differenza di approccio in termini di pubblicità delle decisioni prese è culturale. La politica in Italia si rivolge con estrema cautela al cittadino-elettore, preferendo omettere alcune informazioni per ragioni di opportunità di elettorale e anche perché, da parte dell’opinione pubblica italiana, vi è uno scarso interesse nella politica estera. Negli Stati Uniti il governo si rivolge al cittadino-contribuente, al quale deve rendere conto di come spende i suoi soldi. Questo è il motivo per cui conosciamo l’elenco dettagliato delle armi fornite da Washington ma non dall’Italia, i cui governi, di qualunque colore, appongono la classifica di sicurezza agli aiuti dati. Una scelta politica, certamente non dettata dalle esigenze di carattere operativo. Anche la Francia, va detto, ha reso noti i numeri degli equipaggiamenti d’artiglieria, il contributo più significativo dato da Parigi. E così la Germania, che ha pubblicato ufficialmente la lista di equipaggiamenti forniti.

Sono cambiate le armi che abbiamo inviato? Sono diventate gradualmente più “offensive”?

Non direi che siano “più offensive”, direi piuttosto gradualmente più rispondenti alle necessità imposte dalle dinamiche sul campo di battaglia e all’approccio statunitense al conflitto. Quanto più aumenta il contributo statunitense, tanto più rilevanti sono le richieste (e le pressioni) ai Paesi dell’Unione europea. La risposta è dunque in termini di efficacia; un’efficacia che dipende dalla qualità, più che dalla quantità di armi fornite.

In una fase iniziale, quando c’era ancora il M5s nella maggioranza a sostegno del governo Draghi, si è a lungo parlato di armi “difensive” e “offensive”. Aveva senso questa distinzione? È superata?

La distinzione tra armi offensive e difensive ha un valore politico, non operativo. Le armi servono per combattere, sia una guerra offensiva che difensiva. Nel caso ucraino potremmo affermare a ragion veduta che tutte le armi sono “difensive” poiché utilizzate per contrastare l’avanzata di un esercito invasore. Perché questo è il punto: il sostegno è dato all’Ucraina che si difende da un’invasione territoriale avviata dalla Russia. Dunque lascerei da parte questa distinzione, preferendo la formula del “sostegno militare all’Ucraina”.

Quanto ci costa mandare queste armi?

Possiamo fare alcune speculazioni, ma non abbiamo dati certi, almeno per quanto riguarda l’Italia. Potremmo valutare il contributo italiano in una cifra approssimativa di 800milioni di euro, di cui più di 400milioni di aiuti militari. Tanto o poco?

Va fatto un distinguo tra quanto dato dagli Stati Uniti e quanto invece fornito dai Paesi dell’Unione europea presi singolarmente. Washington ha stanziato al momento oltre 45 miliardi di dollari in aiuti militari, compresi equipaggiamenti di pregio come i sistemi missilistici a medio raggio, sistemi radar, sistemi di difesa contraerea, oltre a migliaia di veicoli di differente tipologia. Poi hanno promesso l’invio di carri armati pesanti, gli Abrams. I singoli paesi europei hanno invece dato un contributo eterogeneo, in alcuni settori poco più che formale, ma nel complesso è un aiuto concreto e utile. Si può valutare in circa 30 miliardi di euro l’aiuto europeo dato a Kiev, dunque in linea con quello statunitense.

Quant’è significativo il nostro apporto rispetto a quello degli altri paesi europei?

Va detto che, a fronte delle sempre più limitate risorse destinate alla Difesa nel corso degli ultimi 20 anni, il contributo è stato certamente rilevante considerata la penuria di armi ed equipaggiamenti. Il nostro sforzo e contributo è così, sì importante, ma non decisivo. Certo, è coerente con quello della maggior parte degli alleati, ad esclusione dei principali sostenitori – Stati Uniti e Regno Unito – ma inferiore a quello della Germania che, da sola avrebbe fornito aiuti complessivi (dunque umanitari, finanziari e militari) di oltre 5 miliardi di euro, contro gli 800milioni dell’Italia.