Ucraina: l’incontro di Riad è una trappola per l’Europa?
di Claudio Bertolotti.
Il
vertice di Parigi sull’Ucraina e l’incontro di Riad tra Stati Uniti e Russia
segnano due momenti cruciali nella partita geopolitica in corso, rivelando la
fragilità dell’unità europea e la volontà delle grandi potenze di ridisegnare
il futuro del conflitto al di fuori dei canali ufficiali.
Il commento di Claudio Bertolotti a Ticino News – Puntata del 17 febbraio 2025.
Parigi: un’Europa che si spezza
Nella capitale francese si è consumato un dramma
politico che va oltre le dichiarazioni di facciata. L’incontro tra otto leader
europei, convocato con l’obiettivo di rafforzare il sostegno a Kiev, ha invece
messo in scena una frattura profonda tra gli Stati membri. Da un lato, la
Francia di Macron e il Regno Unito si sono detti pronti, almeno teoricamente, a
prendere in considerazione l’invio di truppe in Ucraina. Dall’altro, Germania,
Italia, Spagna e Polonia hanno manifestato una netta opposizione, mettendo in
discussione la fattibilità di un coinvolgimento militare diretto.
Giorgia Meloni ha insistito sulla necessità di un
pieno coinvolgimento degli Stati Uniti in qualsiasi decisione strategica,
suggerendo che l’Europa da sola non può permettersi di giocare alla guerra
senza la copertura di Washington. La tensione si è fatta palpabile: se da una
parte c’è la volontà di mostrare determinazione di fronte all’avanzata russa,
dall’altra permane il timore che un passo falso possa trascinare il continente
in un’escalation senza ritorno.
Riad: negoziati in penombra
Mentre a Parigi si consumava il confronto tra
alleati divisi, a Riad si teneva un incontro ben più enigmatico. Stati Uniti e
Russia si sono seduti al tavolo per discutere della guerra, ma senza la
presenza dell’Ucraina e senza alcun coinvolgimento dell’Unione Europea. Il
messaggio è chiaro: le grandi potenze preferiscono trattare tra loro, lasciando
ai margini coloro che più di tutti subiscono le conseguenze del conflitto.
A Kiev, la notizia è stata accolta con un misto
di preoccupazione e rabbia. Zelensky sa bene cosa significhi essere escluso da
discussioni che potrebbero decidere il destino del suo paese. Il fatto che
questi negoziati si svolgano lontano dai riflettori, in un luogo come l’Arabia
Saudita, sottolinea il ruolo sempre più attivo di Riyad come mediatore globale
e, allo stesso tempo, il desiderio di Washington di mantenere una certa opacità
sulle reali intenzioni americane.
Uno scenario inquietante
Il quadro che emerge è quello di un’Europa
politicamente fragile, divisa tra chi vorrebbe proiettare forza e chi teme il
rischio di una guerra aperta. Nel frattempo, Stati Uniti e Russia trattano
senza il consenso di Kiev, dimostrando che la vera partita si gioca altrove.
Il rischio è che l’Ucraina diventi moneta di
scambio in un accordo che rispecchia più gli interessi strategici di Washington
e Mosca che il diritto di Kiev a esistere come Stato sovrano. Se l’Europa non
riuscirà a trovare una posizione unitaria e a imporsi come attore indipendente,
il suo ruolo nella crisi ucraina sarà sempre più marginale.
Ci troviamo di fronte a un
bivio: continuare a inseguire illusioni di compattezza o accettare che, senza
una strategia comune e credibile, il destino dell’Europa verrà deciso altrove.
Russia, Ucraina e la frattura tra UE
e NATO: una mossa calcolata?
Le recenti dichiarazioni del Cremlino sull’adesione
dell’Ucraina all’Unione Europea segnano un passaggio diplomatico significativo.
Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha affermato che l’ingresso di Kiev nell’UE
rappresenta un “diritto sovrano”, poiché si tratta di un’unificazione economica
e non militare. Tuttavia, ha subito precisato che la posizione russa è
completamente diversa su temi legati alla sicurezza e alla difesa. Questa
apparente apertura sembra contenere un sottotesto ben più complesso,
inserendosi nel quadro più ampio della strategia russa di ridefinizione dei
rapporti di forza in Europa.
Una trappola diplomatica?
Se da un lato la Russia sembra accettare, almeno a
parole, l’integrazione economica dell’Ucraina con l’Europa, dall’altro pone un
confine netto quando si tratta di sicurezza e alleanze militari. Questo solleva
una domanda cruciale: si tratta di una reale concessione diplomatica o di una
manovra per dividere l’Europa dalla NATO?
Mosca sa bene che la NATO e l’UE non coincidono
perfettamente: molti membri dell’Unione non fanno parte dell’Alleanza Atlantica
e viceversa. Accettare il percorso europeo dell’Ucraina potrebbe quindi
rappresentare un modo per mettere alla prova le divergenze interne all’Europa,
spingendo alcuni Paesi a considerare un rapporto con Kiev separato dal sostegno
militare della NATO. Il Cremlino potrebbe così cercare di indebolire il fronte
occidentale, sfruttando le differenze tra gli Stati membri e rallentando il sostegno
militare a Kiev.
Il fattore USA e il timore del
disimpegno atlantico
Un altro elemento da considerare è il ruolo degli
Stati Uniti. La Russia potrebbe ritenere che Washington sia sempre meno
coinvolta nella difesa dell’Europa, sia per ragioni politiche interne sia per
la necessità di concentrare risorse su altre aree di crisi, come il Pacifico.
Se gli USA riducessero il loro impegno nella sicurezza europea, la NATO stessa
potrebbe indebolirsi, lasciando l’Unione Europea a dover gestire in autonomia la
propria sicurezza.
Questa ipotesi renderebbe più credibile la tattica
russa: accettare un’Ucraina più vicina economicamente all’Europa, ma allo
stesso tempo lavorare per impedire che diventi un avamposto militare
dell’Occidente. Se gli Stati Uniti si disimpegnassero, Mosca potrebbe sperare
in una UE meno incline al confronto e più propensa a negoziare un equilibrio
con la Russia.
UE e NATO: un destino comune?
Tuttavia, questo ragionamento presenta un problema di
fondo: nella realtà dei fatti, l’UE e la NATO sono oggi più allineate che mai.
L’aiuto militare all’Ucraina non è una prerogativa esclusiva dell’Alleanza
Atlantica, ma coinvolge anche Paesi europei in maniera autonoma. Inoltre, la
guerra in Ucraina ha spinto molti governi europei a rafforzare la propria
difesa, accelerando processi di cooperazione militare intra-UE che fino a pochi
anni fa sembravano impensabili.
Se la Russia spera di sfruttare la separazione tra UE
e NATO per ridurre il supporto a Kiev, potrebbe trovarsi di fronte a una realtà
ben diversa: più la guerra si prolunga, più l’Europa tende a rafforzare la
propria posizione, anche militarmente. Anzi, paradossalmente, accettando il
percorso europeo dell’Ucraina, Mosca potrebbe finire per legittimare
un’integrazione ancora più stretta tra sicurezza europea e atlantica.
Le parole di Peskov: coerenti con la
strategia russa
Le
dichiarazioni di Peskov incarnano quella che ormai è una costante nella
strategia diplomatica russa: un equilibrio sottile tra concessioni apparenti e
fermezza sui temi della sicurezza. Da un lato, il Cremlino si mostra aperto al
dialogo per accreditarsi come attore razionale e pragmatico; dall’altro,
traccia confini invalicabili in ambito militare, mantenendo alta la pressione
sugli avversari.
La vera questione, però, è un’altra: Mosca ritiene
che gli Stati Uniti siano destinati a ridurre il loro impegno in Europa? Se il
Cremlino è convinto di questo scenario, allora l’accettazione dell’ingresso
dell’Ucraina nell’UE potrebbe essere una mossa studiata per sfruttare le
fragilità europee e ricalibrare l’ordine geopolitico a proprio vantaggio.
Se invece Washington
continuerà a sostenere Kiev in modo deciso, la strategia russa potrebbe
rivelarsi un boomerang: un’Unione Europea più coesa e allineata alla NATO
potrebbe vanificare ogni tentativo di divisione, rafforzando ancora di più il
legame tra il blocco occidentale e l’Ucraina.
Il vertice di Parigi e le incognite europee. Il commento.
OFFICINA GEOPOLITICA di START InSight: il commento di Claudio Bertolotti sullo scenario internazionale.
Il vertice di #Parigi e le ambizioni francesi. La visione europea e le sue effettive capacità di incidere in un processo negoziale che sembra ormai definito, almeno nei giocatori: Stati Uniti e Russia, alias Donald Trump e Vladimir Putin. Come leggere la mossa di Emmanuel Macron? Non dovrebbe essere Ursula Von der Leyen a muoversi? Sull’Ucraina, l’Europa riuscirà a ritagliarsi un ruolo oppure no? È un vertice da cui potrebbe emergere qualcosa di concreto? L’Unione Europea conta sempre meno. È un problema di struttura dell’UE o di un’assenza di leader? Trump riuscirà ad arrivare ad un accordo con Putin? Quale sarà il prezzo per l’Ucraina? Per la Russia sarà una vittoria?
Claudio Bertolotti risponde a queste domande ponendo particolare attenzione al ruolo dell’Unione europea e alla sua debole posizione nell’arena internazionale.
Il vertice di Parigi del 17 febbraio 2025, convocato dal presidente francese Emmanuel Macron, ha riunito i leader di 8 paesi Europei, Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Polonia, Spagna, Paesi Bassi, Danimarca, insieme al presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il segretario generale della Nato Mark Rutte, per discutere della situazione in Ucraina e della sicurezza europea. Questa iniziativa europea nasce in risposta ai negoziati tra Stati Uniti e Russia in corso a Riad, dai quali l’Europa e l’Ucraina sono state inizialmente escluse.
La presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha partecipato al vertice nonostante alcune riserve iniziali, sottolineando l’importanza di ascoltare i partner europei e di mantenere una posizione unitaria. L’Italia ha evidenziato la necessità di far leva sulle sanzioni imposte alla Russia come strumento per ottenere un ruolo nei negoziati e ha espresso preoccupazione per l’esclusione dell’Europa dalle trattative tra Washington e Mosca.
Tuttavia, non tutti i Paesi europei hanno sostenuto
l’iniziativa di Macron. L’Ungheria, ad esempio, ha criticato il vertice,
affermando che potrebbe ostacolare gli sforzi di pace in Ucraina e accusando i
leader europei di alimentare l’escalation del conflitto.
In parallelo, il presidente Macron ha avuto una
conversazione telefonica con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump,
prima dell’inizio del vertice, nel tentativo di coordinare le posizioni e
ribadire l’importanza di un approccio concertato tra Europa e Stati Uniti nella
ricerca di una soluzione al conflitto ucraino.
Questo vertice rappresenta un tentativo dell’Europa di
riaffermare il proprio ruolo centrale nei negoziati di pace e di garantire che
gli interessi europei e ucraini siano adeguatamente rappresentati nelle future
discussioni internazionali.
Le Filippine: un perno geopolitico nell’Indo-Pacifico e l’opportunità strategica per l’Italia
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
Le Filippine, da tempo considerate
un attore geopolitico cruciale nel Sud-Est asiatico, si trovano sempre più al
centro della crescente competizione tra Stati Uniti e Cina. Mentre la “linea degli
undici tratti” porta avanti l’aggressiva politica estera di Beijin nel Mar
Cinese Meridionale e oltre, e Washington intensifica la sua strategia
indo-pacifica, Manila gioca un ruolo di primo piano nel plasmare le dinamiche
di sicurezza regionale. Per l’Italia, che tradizionalmente ha concentrato la
propria politica estera su Europa, Africa e Mediterraneo, l’evoluzione del
panorama indo-pacifico rappresenta un’opportunità per ridefinire il proprio
impegno globale attraverso una presenza più mirata, sia militare che civile,
nell’arcipelago filippino. La posizione strategica delle Filippine, situate
all’incrocio tra il Pacifico e il Mar Cinese Meridionale, le rende infatti un
alleato potenzialemtne prezioso sia per le potenze regionali che per quelle
globali. Situato al crocevia di importanti rotte commerciali marittime, il
paese funge da varco tra il Pacifico e i centri economici dell’Asia orientale.
Ancora più importante,
l’arcipelago offre vantaggi logistici e militari cruciali, in particolare nel
contrastare l’espansione territoriale aggressiva della Cina nelle acque contese
e la minaccia a Taiwan. Le rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese
Meridionale, comprese la costruzione di isole artificiali e l’interruzione di
diverse rotte di pesca, hanno direttamente minacciato la sovranità delle
Filippine. Nonostante una sentenza del tribunale internazionale nel 2016 abbia
invalidato le rivendicazioni cinesi, Beijin continua a perseguire i propri
interessi in modo aggressivo. In risposta, Manila ha rafforzato i suoi legami
di difesa con Washington, riaprendo basi strategiche alle forze statunitensi e
approfondendo la cooperazione in materia di sicurezza con partner regionali
come Giappone e Australia. Le Filippine hanno partecipato, ad esempio, a una
serie di esercitazioni navali internazionali con Stati Uniti, Australia,
Giappone e Francia. Queste manovre, condotte all’interno della Zona Economica
Esclusiva filippina, mirano a migliorare il coordinamento della difesa e
l’interoperabilità.
La Cina: obiezioni e interessi
La Cina ha espresso obiezioni a queste attività, considerandole destabilizzanti. Inoltre, Manila ha firmato un accordo di difesa con il Canada per rafforzare le esercitazioni militari congiunte, in linea con la sua strategia di consolidamento delle partnership di difesa nel contesto delle crescenti tensioni nel Mar Cinese Meridionale. Allo stesso tempo, le Filippine devono gestire un equilibrio molto delicato. Pur necessitando delle garanzie di sicurezza fornite dagli Stati Uniti, la loro interdipendenza economica con la Cina complica la situazione. Beijin rimane un partner commerciale chiave, una fonte primaria di investimenti e un attore influente nell’architettura economica della regione. Questa tensione tra sicurezza e interessi economici riflette la più ampia sfida che molte nazioni del Sud-Est asiatico affrontano nel navigare la rivalità tra Stati Uniti e Cina. Mentre le Filippine stanno rafforzando le loro collaborazioni in materia di difesa con gli Stati Uniti e altri alleati, continuano anche a mantenere un dialogo diplomatico con la Cina. Ad esempio, durante un recente incontro con il Primo Ministro cambogiano Hun Manet, il Presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. ha espresso gratitudine per la grazia concessa a 13 donne filippine, evidenziando gli sforzi di Manila per mantenere relazioni positive all’interno della regione. Il rinnovato focus di Washington sull’Indo-Pacifico, in particolare attraverso iniziative come AUKUS, il Quad e il rafforzamento della cooperazione di sicurezza con i paesi ASEAN, mira a contrastare l’influenza crescente della Cina.
Gli Stati Uniti: la strategia di sicurezza regionale
Per gli Stati Uniti, le Filippine rappresentano un pilastro critico nella loro strategia di sicurezza regionale. L’Enhanced Defense Cooperation Agreement (EDCA) tra Manila e Washington facilita l’accesso americano a installazioni militari chiave, garantendo una presenza avanzata in grado di dissuadere le incursioni cinesi e rafforzare la sicurezza marittima. Inoltre, la crescente presenza militare statunitense nella regione funge da deterrente contro una potenziale escalation a Taiwan, una delle principali aree di tensione tra USA e Cina. La vicinanza delle Filippine a Taiwan le rende un hub logistico fondamentale in caso di conflitto, consolidando ulteriormente la loro importanza nella strategia americana.
L’Italia: economia, commercio e difesa
Ma che dire dell’Italia? L’Italia, in quanto media potenza europea, ha tradizionalmente mantenuto una presenza limitata nell’Indo-Pacifico. Tuttavia, data la crescente rilevanza globale della regione e i legami sempre più stretti con Washington, Roma dovrebbe riconsiderare il proprio coinvolgimento strategico. Mentre Francia e Regno Unito hanno già rafforzato la loro presenza navale ed economica nell’Indo-Pacifico, l’Italia deve ancora definire pienamente il proprio ruolo. Gli interessi economici italiani si allineano con la necessità di un Indo-Pacifico stabile e basato su regole chiare. La regione rappresenta un mercato cruciale per le esportazioni italiane, tra cui tecnologia della difesa, attrezzature marittime e infrastrutture.
Rafforzare i legami
economici e di sicurezza con le Filippine potrebbe fornire un punto d’accesso
strategico per un coinvolgimento più ampio nell’ASEAN, dove l’Italia detiene lo
status di osservatore. Sul fronte della sicurezza, l’Italia potrebbe potenziare
la cooperazione navale con le Filippine partecipando a esercitazioni marittime
congiunte, fornendo addestramento alla guardia costiera e supportando gli
sforzi regionali per mantenere la libertà di navigazione. Inoltre, l’avanzata
industria della difesa italiana potrebbe contribuire alla modernizzazione delle
capacità militari filippine.
Dal punto di vista
diplomatico, l’Italia dovrebbe sfruttare le proprie partnership all’interno
dell’UE per promuovere una strategia europea più coerente nell’Indo-Pacifico,
assicurandosi che l’Europa rimanga un attore rilevante nell’equilibrio
geopolitico della regione. Sostenere i meccanismi di sicurezza guidati
dall’ASEAN e promuovere il rispetto del diritto internazionale, in particolare
della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS),
rafforzerebbe ulteriormente il ruolo dell’Italia come attore costruttivo. In
conclusione, l’importanza geopolitica delle Filippine nell’Indo-Pacifico è
indiscutibile. Mentre gli Stati Uniti si muovono per contrastare l’assertività
crescente della Cina, Manila si trova al centro di una competizione strategica
che plasmerà il futuro dell’ordine globale. Per l’Italia, un coinvolgimento più
proattivo nell’Indo-Pacifico—soprattutto attraverso un rafforzamento dei legami
con le Filippine—rappresenta un’opportunità per diversificare la propria
politica estera e affermarsi come attore rilevante in una delle regioni più
dinamiche del mondo.
Approfondendo i legami
economici, di sicurezza e diplomatici, l’Italia può contribuire a un
Indo-Pacifico più stabile e basato sulle regole, ampliando al contempo il
proprio ruolo strategico in un mondo sempre più multipolare.
Fra i tanti litiganti sarà l’Intelligenza Artificiale a vincere?
di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
Nella evidente corsa
a chi arriverà prima, si conclude oggi il Summit di Parigi sull’Intelligenza
Artificiale, dove si confrontano i protagonisti globali, tra politici e CEO
delle più grandi aziende tecnologiche, per capire, incontrandosi faccia a
faccia, chi sta facendo cosa e chi farà cosa davvero creando “la difference”.
Intanto si consumano,
e non tanto dietro le quinte, le prime sfide e battaglie: Altman Ceo di Open AI,
e parte del progetto Star Gate da 500 miliardi, insieme a Oracle, SoftBank e
MGX, rifiuta l’offerta del suo ex partner Musk di vendergli la struttura di
ricerca di intelligenza artificiale; Musk avvelenato, accusa velatamente Trump di
barare, sapendo che i fondi per il progetto non ci sono, e Trump, seccato,
(ecco che già iniziano gli screzi tra i due), reclama il potere della “sua
presidenza”, facendo capire a chiare lettere che è lui a decidere i giochi in
casa propria.
A rappresentare gli
Stati Uniti al Summit, c’è il Vicepresidente JD Vance, che con molta chiarezza
ha sottolineato l’impegno
dell’amministrazione Trump a guidare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale
(IA) abbracciando questa innovazione globale con entusiasmo e non con paura per
la possibile perdita di posti di lavoro, ma rifacendosi al discorso
dell’indiano Modi, co organizzatore con Macron dell’evento, a quanto sia
positivo l’utilizzo dellIA nel campo medicale.
Parigi,
per Vance è stata l’occasione perfetta per criticare le rigide normative
dell’Unione Europea, che dalla creazione del GDPR (25 maggio 2018), sono state
causa di molte complicazione per gli USA. Ha proseguito avvertendo che un
eccessivo controllo normativo, soffocherebbe l’innovazione e ostacolerebbe la
crescita di questo settore trasformativo. Vance ha affermato che, sebbene sia
importante garantire la sicurezza, una regolamentazione eccessiva potrebbe
impedire i progressi tecnologici che l’IA promette.
Però
la realtà negli Stati Uniti non è così edulcorata come Vance la racconta: un
libero mercato dove tutti si rispettano. Al contrario, la percentuale di furti
di identità, le innumerevoli difficoltà ad eseguire semplici operazioni
bancarie come un bonifico interno vedono il povero cittadino subissato dal
dover sempre e continuamente con la scusa della frode dimostrare la propria
identità. Le regole negli Stati Uniti non sono costruite per proteggere la
privacy dell’individuo, ma per aumentare i guadagni corporate e facilitare i
business rispetto alla persona. Se in Italia si soffre per le continue
sollecitazioni telefoniche commerciali, qui negli Stati Uniti parlare con un
operatore umano è quasi un miracolo.
Chiudendo il suo intervento, Vance
ha anche messo in guardia i presenti contro la collaborazione con regimi
autoritari, facendo un ovvio riferimento alla Cina, ma senza nominarla.
Partnership di questo tipo potrebbero compromettere la sicurezza nazionale e
l’integrità tecnologica, ha sostenuto. È necessario, quindi, creare quadri
normativi internazionali che promuovano lo sviluppo dell’IA senza imporre
misure restrittive.
Il
summit, organizzato dal presidente francese Emmanuel Macron e come detto sopra,
dal primo ministro indiano Narendra Modi, ha offerto un’occasione per discutere
vis a vis le opportunità e le sfide globali legate all’IA, in un periodo in cui
l’adozione dell’IA sta avvenendo a un ritmo accelerato in tutto il mondo. Sia
Macron che Modi hanno sottolineato l’importanza di un approccio regolato ed
equo, incentrato sulla protezione dei diritti umani, mentre gli Stati Uniti,
sotto la leadership di Trump, si sono focalizzati sul libero mercato e l’innovazione,
proponendo una regolamentazione flessibile.
Non c’è dubbio che in
questo panorama, gli attori principali, oggi, sono: al primo livello, quello
più importante, i governi rappresentati dai capi di Stato, circondati dalle
poche società tecnologiche leader nel campo, soprannominate “I Magnifici 7”; al
secondo livello a scendere, abbiamo le
società di consulenza o servizi accompagnate da quelle di prodotto che insieme
creano il legame b2b e infine la popolazione.
Decido quindi di
chiedere a chi ne sa più di me come analizzare questo paesaggio internazionale
che non è per niente rassicurante. Parlo con Bianca de Teffé Erb, dottoranda in
AI & the future of work, esperta di AI Governance & Ethics e Rapporteur
per il Parlamento europeo sul tema “AI Ethics by Design”, e le chiedo di
spiegarmi come leggere quello che vediamo evolversi davanti ai nostri occhi a
velocità spaziali senza cadere nelle politiche dei singoli paesi.
Bianca de Teffé Erb
Bianca de Teffé
Erb: Nello
scenario globale, l’economia sta vivendo un periodo di stagnazione importante,
dovuta alla standardizzazione dei mercati, all’inflazione e ai debiti pubblici
che pesano su gran parte delle nazioni. A fronte di ciò, si sta assistendo a
un’inversione di rotta, con un focus sempre più orientato verso soluzioni nazionali
e non globali. Sicuramente l’intelligenza artificiale sarà una delle più
importanti soluzioni per far ripartire l’economia perché migliorerà la
produttività senza compromettere il valore del servizio o del prodotto a
condizione che sia adeguatamente istruita. Settori come quello della finanza, e
soprattutto il medicale usano già applicazioni che ottimizzano i processi e
migliorano l’efficacia dei servizi. Ma questa è un’evoluzione molto rapida,
forse troppo veloce.
Domanda: “Ascoltando
i vari interventi al Summit di Parigi, ci troviamo ancora una volta di fronte a
due blocchi l’Unione Europea da un lato, che ha già legiferato sul rispetto
della privacy con il GDPR e l’etica dell’IA con l’AI Act, e dall’altro con gli
Stati Uniti, oggi rappresentati dal Vicepresidente Vance, che coglie
l’occasione per criticare la regolamentazione europea, che, secondo lui blocca
e rallenta lo sviluppo dell’IA. Chi ha
ragione?
Bianca: Citerò come
esempio noto quello di Bard, un modello conversazionale progettato per
competere con ChatGPT, lanciato da Google nel 2023. Spinta dalla pressione di
innovare rapidamente, l’azienda ha accelerato il rilascio senza adeguate
verifiche etiche, causando problemi significativi, con risposte sbagliate e bias
discriminatori, sollevando di conseguenza forti dubbi sulla sua affidabilità. Non
contenti del primo flop, l’anno seguente, nel 2024, Google DeepMind lancia
Gemini 1.5. Anche questo è stato fallimentare e direi peggio del primo,
causando giustamente polemiche a 360 gradi. Nel tentativo mal calibrato di evitare
pregiudizi ed essere bilanciati, Gemini finì per generare immagini distorte a
causa della “diversity overcorrection”. La più nota è stata quella di George Washington con la pelle
nera e non bianca. Ovviamente Google ha subito sospeso la funzione scusandosi.
Questi due episodi
dimostrano come la corsa all’innovazione senza un solido framework di
governance ed etica possa trasformarsi in un boomerang, minando la fiducia del
pubblico e mettendo in discussione l’etica delle big tech.
Domanda: E l’Unione
Europea, invece, come si propone oggi?
Bianca: la
presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato durante
il Summit, che prevede un investimento significativo per rafforzare le capacità
dell’Unione Europea nell’IA, con un ulteriore investimento di 50 miliardi di
euro, portando l’investimento totale a 200 miliardi di euro, grazie
anche ai fondi privati provenienti dall’Iniziativa Europea per i Campioni
dell’IA. Questo investimento dovrebbe sviluppare tecnologie industriali per posizionare
l’Europa come leader nell’innovazione dell’IA. Von der Leyen ha enfatizzato
l’importanza di adottare l’IA per migliorare la competitività, la sicurezza e
la salute pubblica, volendo assicurarci che i benefici saranno accessibili a
tutti. L’idea è di costruire degli HUB o “Gigafabbriche” per
favorire la collaborazione tra ricercatori, imprenditori e investitori,
ispirandosi al successo del laboratorio CERN di Ginevra.
Tornando però al
punto centrale e quello più criticato, ossia il legislativo, come rapporteur ho
avuto modo di vedere più da vicino la necessità di regolamentazione. L’UE ad
Aprile dell’anno scorso ha adottato l’AI ACT ossia il primo Regolamento
sull’Intelligenza Artificiale, con l’obiettivo di stabilire un quadro
normativo generale per bilanciare l’innovazione con la protezione dei diritti
fondamentali dell’individuo. Questo regolamento si integra con il Regolamento
Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), creando così un sistema
normativo che mira a garantire la privacy, l’equità, la trasparenza e la
sicurezza nell’uso dell’IA.
L’Europa è
sicuramente leader nella creazione di un’IA etica, perché fornisce il primo
quadro normativo e di riferimento globale per proteggere i diritti individuali
con l’avanzamento tecnologico. Tuttavia, l’adozione di tali norme a livello
mondiale è una sfida significativa.
Domanda: E la Cina?
Bianca: Dietro la
sua apparente reticenza, la Cina cela in realtà il livello di progresso di
talento e di tecnologia più avanzato al mondo, grazie a una strategia di
investimento massiccio e a una pianificazione a lungo termine nel campo dell’IA
e delle tecnologie emergenti.Come
scrive Suleyman in The Coming Wave: “La Cina ha più dei
cinquecento supercomputer, i più potenti al mondo,… ha una quota
impressionante e in crescita, di persone dedicate alla ricerca sull’IA….le
istituzioni cinesi hanno pubblicato ben quattro volte e mezzo più articoli
sull’IA ….., superando ampiamente gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’India
e la Germania messe insieme. ….. Dalla cleantech alla bioscienza, la Cina sta
facendo rapidi progressi in tutti i settori delle tecnologie fondamentali,
investendo su scala epica, diventando un colosso della proprietà intellettuale
con ‘caratteristiche cinesi’. Più di
quattrocento ‘laboratori chiave statali’ ancorano un sistema di ricerca
pubblico-privato magnificamente finanziato, che copre tutto, dalla biologia
molecolare alla progettazione di chip.”
Se pensiamo che la
Cina ha registrato un significativo aumento nel numero di laureati in
ingegneria informatica, dove ad esempio nel 2019, circa 8,34 milioni di
studenti cinesi si sono laureati in discipline STEM (Scienza, Tecnologia,
Ingegneria e Matematica), rappresentando circa il 45,4% del totale dei
laureati nel paese. In confronto, negli Stati Uniti, nello stesso anno, si
sono laureati circa 568.000 studenti in discipline scientifico-tecnologiche, appena
il 7% della popolazione statunitense. Questa disparità evidenzia il divario
crescente nella formazione di talenti tecnologici, che alimenta ulteriormente
il primato della Cina nell’innovazione e nello sviluppo dell’intelligenza
artificiale.
Concludendo Bianca mi
fa un raffronto molto italiano e molto calzante.
Bianca: è come
voler guidare una Ferrari a tutta velocità: l’Unione Europea vuole mettere la
cintura di sicurezza e l’airbag in caso di collisione, gli Stati Uniti no. Per
i cinesi è impossibile avere una risposta, perché non abbiamo informazioni
sufficienti.
Volendo spezzare una
lancia a favore degli Stati Uniti, trascrivo qui di seguito tradotto quanto
pubblicato dalla Casa Bianca: “ULTIM’ORA – La Casa Bianca chiede
commenti pubblici sulla Strategia Nazionale per l’IA (6 febbraio 2025)
👉🏼 L’Ufficio per la Politica
Scientifica e Tecnologica della Casa Bianca ha lanciato una Richiesta di
Informazioni per lo Sviluppo di un Piano d’Azione sull’Intelligenza Artificiale
(IA). 📑 “Attraverso questa Richiesta
di Informazioni (RFI), OSTP e l’Ufficio Nazionale per la Ricerca e lo Sviluppo
delle Tecnologie dell’Informazione e delle Comunicazioni cercano il contributo
del pubblico, comprese le università, i gruppi industriali, le organizzazioni
del settore privato, i governi statali, locali e tribali, e qualsiasi altra
parte interessata, su azioni prioritarie che dovrebbero essere incluse nel
Piano.”
“L’amministrazione
Trump è impegnata a garantire che gli Stati Uniti siano il leader indiscusso
nella tecnologia dell’IA” – “Questo Piano d’Azione per l’IA è il
primo passo per garantire e rafforzare il dominio americano nell’IA, e non
vediamo l’ora di incorporare i commenti del pubblico e le idee innovative”
ha dichiarato LynneParker, primo Vicedirettore dell’Ufficio per
la Politica Scientifica e Tecnologica (OSTP). Anche il popolo potrà dire la
sua.
L’Italia in prima linea nel Sahel: sfide e opportunità dopo il ritiro francese.
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
Dopo il ritiro dell’ultima
presenza francese, l’Italia rimane l’unico paese europeo con una presenza
rilevante nel Sahel. Una situazione che apre a diverse opportunità, ma che pone
anche diverse sfide che Roma dovrà affrontare con una strategia il più
possibile integrata. L’Italia ha infatti una presenza militare significativa
nell’Africa subsahariana, con diverse missioni volte a garantire sicurezza,
contrastare il terrorismo e sostenere la stabilità della regione. Queste
missioni vedono Roma impegnata in Niger, Ciad, Gibuti, Somalia e nel Golfo di Guinea,
sia attraverso operazioni bilaterali sia nel contesto di missioni UE, NATO e
ONU. L’Italia ha una presenza militare in Niger nell’ambito della missione
“MISIN” (Missione Bilaterale di Supporto nella Repubblica del Niger),
avviata nel 2018 con l’obiettivo di supportare le autorità locali nella lotta
al terrorismo, al traffico di esseri umani e al crimine organizzato.
L’operazione si inquadra in un più ampio impegno dell’Italia nel Sahel, volto a
garantire stabilità e sicurezza nella regione, contrastando le minacce che
possono avere ripercussioni anche sull’Europa, come il flusso migratorio
irregolare.
La missione italiana in Niger
La missione italiana in
Niger prevede principalmente attività di addestramento e formazione delle forze
di sicurezza locali, con lo scopo di migliorare le loro capacità operative. I
militari italiani, appartenenti a diverse unità delle Forze Armate, forniscono
corsi su tecniche di combattimento, operazioni speciali, sorveglianza e
gestione delle frontiere. Inoltre, il supporto logistico e sanitario è una
componente essenziale dell’operazione. Il contingente italiano in Niger è
composto da alcune centinaia di unità, con la possibilità di impiegare fino a
470 militari, 130 veicoli e mezzi aerei per esigenze logistiche e di
ricognizione. L’Italia ha stabilito la sua base operativa a Niamey, la capitale
del Niger, collaborando con le autorità locali e con altri partner
internazionali, tra cui Stati Uniti e in passato la Francia. L’operazione si
inserisce anche in un contesto più ampio di cooperazione tra Italia e Niger,
che comprende iniziative di sviluppo, aiuti umanitari e investimenti per
migliorare le condizioni economiche e sociali del paese africano. Tuttavia, la
situazione politica in Niger è instabile, con il recente colpo di Stato del
2023 che ha portato alla revisione delle relazioni tra il governo nigerino e
gli stati occidentali, incluso l’Italia.
Nonostante le incertezze
geopolitiche, la missione italiana in Niger rappresenta un tassello importante
nella strategia di difesa e sicurezza dell’Italia nel Sahel, contribuendo alla
stabilizzazione di un’area cruciale per gli equilibri geopolitici ed economici
della regione e dell’Europa. Oltre al Niger, l’Italia mantiene anche una
presenza militare limitata nel vicino Ciad, focalizzandosi principalmente su
attività di collegamento, addestramento e supporto alle missioni internazionali
presenti nella regione del Sahel. Questo impegno si inserisce in un contesto
più ampio di cooperazione multilaterale finalizzata al contrasto del
terrorismo, alla stabilizzazione dell’area e al rafforzamento delle capacità
delle forze di sicurezza locali. L’attività italiana si sviluppa in sinergia
con le operazioni condotte da organizzazioni internazionali come l’Unione
Europea, le Nazioni Unite e il G5 Sahel, fornendo supporto strategico e
operativo attraverso la condivisione di intelligence, l’addestramento delle
forze armate locali e il coordinamento con altri contingenti militari presenti
nell’area. Infine, l’Italia partecipa a iniziative volte a migliorare la
sicurezza delle frontiere del paese, prevenire il traffico di armi e
contrastare la radicalizzazione, elementi chiave per la stabilità del Ciad e
dell’intero Sahel.
L’approccio italiano
L’approccio italiano si distingue per una forte attenzione alla cooperazione civile-militare, promuovendo non solo la sicurezza, ma anche lo sviluppo e la resilienza delle comunità locali. L’Italia dispone poi di una base militare a Gibuti, la Base Militare Italiana di Supporto (BMIS), operativa dal 2013. Situata in una posizione strategica nel Corno d’Africa, la BMIS funge da hub logistico e operativo, sviluppando capacità di intelligence, per le forze armate italiane impegnate in missioni nella regione dell’Africa orientale e nell’Oceano Indiano. Questa base rappresenta un’infrastruttura chiave per il supporto delle operazioni di contrasto alla pirateria marittima, contribuendo alla sicurezza delle rotte commerciali e al pattugliamento delle acque internazionali. Inoltre, fornisce supporto logistico e operativo a diverse missioni italiane ed europee nella regione, tra cui la partecipazione italiana alle operazioni EUNAVFOR Atalanta (contro la pirateria nel Golfo di Aden) e EUTM Somalia, dedicata all’addestramento delle forze armate somale.
La presenza della BMIS
consente inoltre il rapido dispiegamento di unità italiane in caso di emergenze
o crisi nell’area, rafforzando il ruolo dell’Italia nella sicurezza e
stabilizzazione del Corno d’Africa. La base ospita personale militare e
infrastrutture di supporto avanzate, permettendo la manutenzione dei mezzi, il rifornimento
e l’assistenza alle forze italiane e alle missioni alleate. Oltre agli aspetti
militari, la BMIS rappresenta anche un punto di cooperazione con le autorità
locali gibutiane, contribuendo a rafforzare le relazioni diplomatiche tra
Italia e Gibuti e a sostenere iniziative di sicurezza regionale, stabilità e
sviluppo. Naturalmente, l’Italia mantiene una presenza significativa in
Somalia, contribuendo attivamente alla sicurezza e alla stabilizzazione del
paese attraverso due principali missioni internazionali. Si tradda di EUTM
Somalia (European Union Training Mission in Somalia): una missione dell’Unione
Europea attiva dal 2010, finalizzata all’addestramento e alla formazione
dell’Esercito Nazionale Somalo (SNA) per rafforzarne le capacità operative e
consentire al governo somalo di affrontare minacce alla sicurezza interna, in
particolare quelle rappresentate dal gruppo terroristico Al-Shabaab.
Gli istruttori militari italiani: strumento politico
L’Italia svolge un ruolo di primo piano in questa missione, fornendo istruttori militari, consulenti e supporto strategico. Il personale italiano è impegnato nella formazione di ufficiali somali su aspetti tattici, strategici e logistici, nonché nella promozione dei principi del diritto internazionale umanitario. L’obiettivo è costruire un esercito somalo professionale ed efficiente, capace di garantire la sicurezza del paese in autonomia. Oltre alla formazione militare, la missione si concentra sullo sviluppo della leadership militare somala e sul rafforzamento delle istituzioni della difesa, contribuendo alla creazione di una catena di comando e controllo più efficace. La seconda operazione, denominata Operazione Atalanta, è una missione navale dell’Unione Europea (EUNAVFOR Atalanta) avviata nel 2008, con l’obiettivo di contrastare la pirateria nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, proteggere le navi mercantili e garantire la sicurezza delle rotte marittime strategiche. L’Italia partecipa attivamente all’operazione con unità navali, elicotteri e personale militare, svolgendo pattugliamenti e scorte a navi commerciali e umanitarie, in particolare quelle del Programma Alimentare Mondiale (WFP) dirette in Somalia.
I compiti della marina Militare
La Marina Militare Italiana ha avuto un ruolo di rilievo nella missione, contribuendo alla deterrenza della pirateria e al mantenimento della sicurezza nelle acque internazionali. L’Operazione Atalanta ha avuto un impatto significativo, riducendo drasticamente gli attacchi dei pirati e rafforzando la cooperazione tra le forze navali internazionali. L’Italia, oltre al contributo operativo, ha avuto spesso comandi di alto livello all’interno della missione, confermando il suo impegno nella sicurezza marittima globale. Oltre alla partecipazione a queste missioni, l’Italia mantiene forti legami storici e diplomatici con la Somalia, un paese che è stato colonia italiana fino alla metà del XX secolo. L’impegno italiano va oltre l’aspetto militare e include cooperazione allo sviluppo, supporto umanitario e iniziative per la stabilizzazione politica.
Attraverso le missioni
EUTM Somalia e Operazione Atalanta, l’Italia contribuisce in modo significativo
alla sicurezza e alla stabilità del Corno d’Africa, consolidando il proprio
ruolo come attore chiave nelle operazioni internazionali della regione. Infine,
con l’Operazione Gabinia, l’Italia si è impegnata a rafforzare la sicurezza
marittima nel Golfo di Guinea, un’area cruciale per il traffico internazionale
di petrolio e merci, ma anche una delle zone più colpite dalla pirateria
marittima. L’invio di unità navali italiane mira a contrastare gli atti di
pirateria, proteggere le navi commerciali (in particolare quelle battenti
bandiera italiana) e garantire la sicurezza delle infrastrutture marittime
essenziali per gli interessi economici globali. Tutte queste operazioni si
inseriscono in un contesto più ampio di impegno italiano nella regione, che
include cooperazione economica, militare e diplomatica con diversi paesi
dell’Africa occidentale.
L’Italia sta cercando di
sviluppare partnership strategiche che comprendano iniziative di sviluppo,
aiuti umanitari e investimenti per migliorare le condizioni economiche e
sociali dei paesi coinvolti, contribuendo così alla loro stabilità e alla
riduzione delle cause profonde di instabilità e migrazione forzata. Tra le
principali aree di intervento figurano la formazione delle forze di sicurezza
locali, il controllo delle frontiere, il contrasto ai traffici illeciti (droga,
armi, esseri umani) e la lotta al terrorismo jihadista, che rappresenta una
minaccia crescente nella regione del Sahel. In particolare, il rafforzamento
delle capacità di sicurezza e intelligence locali è cruciale per contrastare
gruppi estremisti come Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), Boko Haram e lo
Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), che sfruttano le fragilità
istituzionali e le tensioni etniche per espandere la loro influenza.
Mosca e Pechino: una sfida?
Un ulteriore obiettivo che l’Italia dovrà perseguire con maggiore decisione in futuro riguarda la contenzione della crescente penetrazione geopolitica di Russia e Cina nella regione. Mosca ha rafforzato la propria presenza militare e politica attraverso l’azione dei gruppi paramilitari, come il Wagner Group, offrendo supporto ai regimi autoritari e alle giunte militari in cambio di risorse naturali e basi strategiche.
Pechino, invece, continua
a espandere la sua influenza economica tramite ingenti investimenti
infrastrutturali e finanziari, spesso attraverso il meccanismo del debito che
vincola i governi locali agli interessi cinesi. Di fronte a questi sviluppi,
l’Italia, in coordinamento con gli Stati Uniti e i gli altri partner NATO,
dovrà rafforzare la propria presenza politico-militare, intensificare la
cooperazione con i governi locali e promuovere modelli di sviluppo alternativi,
basati sulla sostenibilità e sull’autodeterminazione economica dei paesi
africani.
L’impegno italiano in
Africa occidentale si configura quindi sempre più come un delicato equilibrio
tra sicurezza, diplomazia, cooperazione allo sviluppo e protezione degli
interessi strategici nazionali ed europei.
L’Etiopia, l’interesse dell’Italia tra competitor e alleati: il “piano Mattei”.
L’Etiopia non è solo il cuore pulsante dell’Africa orientale, ma anche un crocevia di interessi geopolitici ed economici di primaria importanza per l’Italia. Con una popolazione in rapida crescita e un’economia tra le più dinamiche del continente, il paese rappresenta un potenziale strategico ancora in gran parte inesplorato.
Sebbene la sua storia sia segnata da conflitti e tensioni interne, l’Etiopia si proietta verso il futuro con ambizioni di sviluppo e modernizzazione. La sua posizione geografica, che la rende un nodo essenziale per le rotte commerciali del Corno d’Africa, e il suo ruolo di leadership nel continente africano, con Addis Abeba sede dell’Unione Africana, la collocano al centro di dinamiche cruciali per la stabilità e la sicurezza regionale.
Per l’Italia, l’Etiopia rappresenta un’opportunità unica. Dalle collaborazioni nel settore energetico e infrastrutturale alla sicurezza e alla lotta al terrorismo, passando per il rilancio degli scambi commerciali, il legame tra i due paesi può rafforzarsi ulteriormente grazie alle iniziative del Piano Mattei, volto a rilanciare il ruolo italiano in Africa attraverso una cooperazione concreta e mirata.
Ma quali sono le sfide da affrontare? E quali le reali opportunità che l’Italia può cogliere in questo contesto? Un’analisi approfondita di questa relazione (disponibile nell’allegato documento in formato Pdf) permetterà di comprendere come e perché l’Etiopia sia un partner chiave per il futuro della politica estera ed economica italiana.
Lo abbiamo anticipato, l’Etiopia si conferma come un attore chiave nel contesto geopolitico dell’Africa orientale. Con una popolazione che supera i 120 milioni di abitanti e un’economia in crescita sostenuta dagli investimenti infrastrutturali e dal settore agricolo, il paese rappresenta una realtà con cui l’Italia intende rafforzare i rapporti. La sua posizione strategica, tra il Corno d’Africa e le principali rotte commerciali internazionali, la rende un perno per la stabilità dell’intera regione. Tuttavia, le sfide interne, tra cui tensioni etniche e instabilità politica, rappresentano fattori critici da gestire con una strategia di lungo termine. In questo contesto, il “Piano Mattei” emerge come un’opportunità per consolidare la presenza italiana nel paese attraverso una cooperazione che spazia dalla sicurezza allo sviluppo economico.
L’importanza
dell’Etiopia nel contesto geopolitico
L’Etiopia confina con Eritrea, Sudan, Sud Sudan,
Kenya, Somalia e Gibuti, trovandosi al centro di una regione attraversata da
profonde tensioni geopolitiche. La mancanza di uno sbocco marittimo dal 1993 ha
reso essenziale l’accesso ai porti di Gibuti per il commercio internazionale,
rafforzando la necessità di investimenti infrastrutturali. Inoltre, la presenza
della sede dell’Unione Africana ad Addis Abeba sottolinea il ruolo politico centrale
del paese nel continente.
Struttura
politica e sfide interne
L’Etiopia è organizzata come una Repubblica Federale
Parlamentare, con un assetto politico che, nonostante le riforme, continua a
essere segnato da divisioni etniche e conflitti interni. Dal 2018, il governo
del Primo Ministro Abiy Ahmed ha tentato di modernizzare il paese, ma ha dovuto
fronteggiare una grave crisi nel Tigray (2020-2022) e continue tensioni nelle
regioni di Oromia e Amhara. L’instabilità politica si riflette anche nella
sicurezza interna, con la presenza di milizie locali che spesso sfidano
l’autorità centrale.
Economia e
opportunità di sviluppo
Nonostante le difficoltà, l’Etiopia mantiene un tasso
di crescita economica significativo, sostenuto dai settori chiave:
– Agricoltura (40% del PIL): principale fonte di
reddito del paese, con l’export di caffè e sesamo tra i più rilevanti.
– Industria (25%): in forte espansione, grazie agli
investimenti nelle infrastrutture e nella manifattura.
– Energia e trasporti: con la modernizzazione della
rete ferroviaria Addis Abeba-Gibuti e il potenziamento della produzione
idroelettrica, sebbene la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam
(GERD) abbia generato tensioni con Egitto e Sudan.
Il Piano
Mattei e le opportunità di collaborazione con l’Italia
L’Italia ha una lunga storia di rapporti con
l’Etiopia, caratterizzata da momenti di difficoltà ma anche da significative
collaborazioni. Oggi, il “Piano Mattei” si configura come un’iniziativa
strategica per rafforzare i legami tra i due paesi attraverso azioni mirate nei
seguenti ambiti:
1. Sviluppo
delle infrastrutture: progetti per il miglioramento delle reti di
trasporto, con particolare attenzione ai collegamenti ferroviari e stradali per
potenziare il commercio regionale.
2. Settore
della difesa e sicurezza: programmi di formazione per le forze armate
etiopi, cooperazione nella lotta al terrorismo e supporto tecnico per la
gestione della sicurezza interna.
3. Collaborazione
energetica: investimenti nel settore delle energie rinnovabili, in
particolare per lo sviluppo di progetti idroelettrici e solari.
4. Innovazione
agricola e sicurezza alimentare: trasferimento di tecnologie italiane per
la modernizzazione dell’agricoltura etiope, migliorando la produttività e la
sostenibilità del settore.
5. Relazioni
bilaterali e sviluppo economico: promozione di investimenti italiani in
Etiopia per incentivare la crescita industriale e manifatturiera, con il
supporto di aziende e istituzioni finanziarie.
Competitor e
potenziali partner nell’area
L’Italia non è l’unico attore internazionale a
guardare con interesse all’Etiopia. Tra i principali competitor si annoverano
la Cina, fortemente presente nel
settore infrastrutturale con investimenti nella ferrovia Addis Abeba-Gibuti e
nella costruzione di grandi opere; la Turchia,
che ha consolidato la propria presenza attraverso investimenti manifatturieri e
la vendita di armamenti, tra cui droni militari; la Russia, che cerca di rafforzare i rapporti nel settore della difesa
e dell’energia; e gli Stati Uniti,
tradizionalmente coinvolti in programmi di sviluppo e sicurezza nella regione.
Tuttavia, l’Italia può contare su potenziali alleati
strategici. La Francia, con cui
condivide l’interesse per la stabilità del Corno d’Africa e il rafforzamento
delle infrastrutture regionali, potrebbe essere un partner complementare. Anche
l’Unione Europea, nell’ambito delle proprie politiche di sviluppo e investimenti
in Africa, rappresenta un interlocutore di rilievo per un’azione congiunta in
Etiopia. A livello regionale, il Kenya e Gibuti si configurano come partner
commerciali cruciali per sviluppare corridoi logistici e sinergie economiche.
Prospettive
future e implicazioni strategiche
L’Etiopia si trova a un crocevia: da un lato, il suo
potenziale economico e la sua posizione strategica la rendono un partner
cruciale per l’Italia e per l’Europa; dall’altro, le tensioni interne e le
sfide regionali rappresentano un rischio per la stabilità. Il successo del
“Piano Mattei” dipenderà dalla capacità di garantire investimenti
efficaci e sostenibili, mantenendo un dialogo diplomatico costante e
supportando il rafforzamento della sicurezza interna. Per l’Italia, consolidare
i rapporti con l’Etiopia significa non solo ampliare le opportunità economiche,
ma anche contribuire alla stabilità del Corno d’Africa, con implicazioni
positive per l’intero Mediterraneo.
MDHM nell’era digitale: il doppio volto dell’Intelligenza Artificiale tra minaccia e soluzione per la democrazia.
La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta
nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate
speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con
conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la
sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di
ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’instabilità politica.
L’intelligenza
artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo
strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio
delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove
minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti
automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della
disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e
strategico delle tecnologie emergenti.
Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.
In
conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra
governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti
destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia
nelle informazioni.
Definizioni
e Distinzioni
La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle
sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni
significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti
come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech,
sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano
manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica.
Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per
sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che
tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.
Misinformation:
Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la
condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.
Disinformation:
Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare
individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione
intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o
destabilizzare istituzioni.
Malinformation:
informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare,
causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con
l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.
Hate
Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi
basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento
sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.
Impatto sulla Società
La diffusione di misinformation, disinformation,
malinformation
e hate
speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società
moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei
media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari
ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.
Erosione della
Fiducia
L’informazione falsa o manipolata rappresenta un
attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità
scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di
notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una
crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio,
nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più
trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un
clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.
Un esempio emblematico si osserva nel contesto del
processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare
intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere
falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante
sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia
nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini,
allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.
Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella
gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di
teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato
un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La
disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini,
rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del
virus.
Ma questa erosione della fiducia non si ferma al
singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società,
frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti,
diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno
fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano
sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire
a sfide collettive.
Polarizzazione
Sociale
Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile
nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con
l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni,
alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali,
intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo,
lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.
L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato
più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene
utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose,
costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un
“loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la
malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di
strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite
tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati
fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.
A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette
“bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme
digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli
utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti,
limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come
“filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui
all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue,
impedendo la comprensione di punti di vista differenti.
La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma
però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si
traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più
estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine
di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse
attraverso disinformazione e hate speech.
In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non
danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione
collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni
condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità
permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo
di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.
Minaccia alla
Sicurezza
Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma
potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con
implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La
disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e
instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli
esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la
gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.
La propaganda
e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi
della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche
come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle
popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici
recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico,
rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia,
pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma
colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.
Il discorso
d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore
di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in
Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato
questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri.
Questi episodi dimostrano come lo hate
speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e
sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.
Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono
profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con
intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica
delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e
aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il
singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.
L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità
sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte
immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa
contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace,
proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre
più interconnessa e vulnerabile.
Strategie di Mitigazione
La
lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata,
capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto
complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di
mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale,
combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro
normativo adeguato.
Educazione e
Consapevolezza
La prima e più efficace linea di difesa contro il
fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa
alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni
circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato
controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente
i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo
attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti
negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.
Il pensiero critico
rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle
condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o
manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che
insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e
analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice
formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio
costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.
Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole
devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione
mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel
complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei
programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una
necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni,
i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti
manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni
false.
Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani.
Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono
essere coinvolti attraverso campagne di
sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso
i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni
utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze
negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole
dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta
contro la disinformazione.
Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione
non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare
il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle
manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la
stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un
impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a
una delle minacce più insidiose del nostro tempo.
Collaborazione
Intersettoriale
La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun
singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che
richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni
non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per
sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è
possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.
Le istituzioni
governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a
creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di
informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali:
la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di
espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella
censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio
deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle
tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.
Le aziende
tecnologiche, in particolare i social
media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità
significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali
veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello
sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti
dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi
non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La
trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi
di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e
prevenire abusi.
Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono
un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e
cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i
fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione.
Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale,
comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando
le strategie di contrasto alle loro esigenze.
Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La
collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere
risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In
particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi
possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle.
Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più
ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e
intervento.
La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata
né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione
trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi
fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.
Ruolo delle Tecnologie
Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM
Le
tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono
un ruolo cruciale nel contesto di misinformation,
disinformation, malinformation e hate speech.
L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti
per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro,
alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli
strumenti di disinformazione.
Rilevamento
Automatico
L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in
cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi
avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o
dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato
quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli
strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa
complessità, offrendo risposte tempestive e precise.
Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di
rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento
automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che
possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su
dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi
sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli
sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini
alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di
adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le
proprie performance.
Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati
su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti
affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la
tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera
più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un
pubblico vasto.
L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle
minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre
tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini
manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella
sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo.
Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla
verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta
a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.
Il monitoraggio
del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo
valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è
possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo
categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo
una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il
discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di
intervenire tempestivamente è cruciale.
Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare
e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle
interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne
coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account
collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni
orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la
fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.
In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta
uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e
dell’hate speech. Tuttavia, come ogni
tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso
un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il
potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione
sociale.
Generazione di
Contenuti
L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta
una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro
contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo
strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di
sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA
una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.
Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake,
prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi
strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui
persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai
avvenute. I deepfake compromettono
gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova
tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere
utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o
per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà
alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle
fonti visive e alla coesione sociale.
Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati,
come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi
sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che
appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i
contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non
a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che
diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo
di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.
Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione.
L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di
contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto.
Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può
generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente
il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati
possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima
che si possa intervenire.
Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che
rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi
avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o
immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità
di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti
di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le
nuove tecniche di manipolazione.
In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua
capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a
doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo
etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando
ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la
società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e
strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per
limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.
Sfide e Opportunità
L’impiego
dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM
rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era
digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la
diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative,
evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.
Le
Opportunità Offerte dall’IA
Tra
i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità
dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica,
è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i
segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre
l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.
Un
altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti.
Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di
verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli
utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più
sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il
caos informativo.
L’AI
contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking.
L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano,
velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo
migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su
casi particolarmente complessi o delicati.
Le
Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM
Tuttavia,
le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate
per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione
possono essere manipolati per aumentare la
sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più
difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un
controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.
La
difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati
rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di
disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente
aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo
investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di
diversi settori.
Infine,
è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI,
che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o
addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti
legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione.
Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono
minare la fiducia nel sistema stesso.
Conclusione
L’intelligenza
artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation,
malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua
ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso
consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per
rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione
di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la
stabilità sociale e istituzionale.
Il
MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina
le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua
proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la
polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano
reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la
fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola.
Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità
dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.
La
polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è
un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti
polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito
dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il
dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le
divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere
insormontabili.
A
livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di
disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere
regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate
speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale
distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità
collettiva e individuale.
Affrontare
questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione
e cooperazione globale.
Promuovere
l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere
una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la
disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente.
Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone
degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.
Rafforzare
la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende
tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che
adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi,
garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una
supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti
fondamentali.
Incentivare
la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM
richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni
internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare
tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala
globale.
Solo
attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti
del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della
democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità
collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e
responsabilità.
La nuova Siria: tra minaccia islamista, risposta preventiva di Israele e la ‘buffer zone’ turca.
di Claudio Bertolotti.
La recente conquista di Damasco da parte del leader jihadista Ahmed al-Sharaa, già noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, capo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), segna un punto di svolta nell’equilibrio politico-militare del Medio Oriente. La Siria, dopo tredici anni di guerra civile contro il regime di Bashar al-Assad, si ritrova ora nella fase più critica della sua storia contemporanea: l’ascesa al potere degli islamisti guidati da al-Jolani, già affiliati ad al-Qaeda, si avvia a trasformare il Paese in uno “Stato islamico” destinato a rimodellare gli assetti regionali. E, ancora una volta, la variabile jihadista si manifesta come un fattore di destabilizzazione dagli effetti potenzialmente globali.
L’occupazione israeliana del Golan: una manovra preventiva e strategica L’avanzata islamista in Siria, con il conseguente venir meno del controllo centralizzato di Damasco, crea un vuoto di potere all’interno del quale proliferano gruppi radicali e attori esterni in cerca di vantaggi geostrategici. L’azione di Israele – nello specifico il consolidamento dell’occupazione delle alture del Golan – va letta in questo quadro: non si tratta di un’ennesima incursione di natura espansionistica, bensì di una manovra difensiva e preventiva. Da un lato, Gerusalemme mira a evitare che forze jihadiste possano insediarsi lungo il proprio confine settentrionale, minacciando direttamente la sua sicurezza. Dall’altro, la presenza militare israeliana nell’area svolge anche un ruolo di protezione a favore delle forze di interposizione delle Nazioni Unite, potenzialmente esposte ad attacchi da parte di gruppi radicali in assenza di un potere centrale affidabile a Damasco.
L’attacco preventivo contro arsenali strategici e chimici La lezione appresa in Afghanistan e in Iraq – dove arsenali convenzionali e non convenzionali sono passati di mano favorendo gruppi estremisti – ha reso evidente la necessità di interventi rapidi e chirurgici. L’attacco preventivo di Israele contro i depositi di armi strategiche siriane, inclusi quelli sospettati di contenere agenti chimici, intende prevenire il rischio che tali strumenti finiscano nelle mani dei jihadisti. Non si tratta solo di un interesse israeliano: se fossero i movimenti radicali a impadronirsi di armamenti chimici, l’intera regione, e persino l’Occidente, ne subirebbero le conseguenze. Come evidenziato dalle ultime analisi dell’Institute for the Study of War (Iran Update, 11 dicembre 2024), il controllo degli arsenali siriani da parte di attori non statali apre scenari ad altissimo rischio. Israele agisce dunque con un’intelligenza strategica che mira a prevenire futuri attacchi terroristici su larga scala.
La mossa israeliana e la scelta turca: due facce della stessa medaglia La politica israeliana nel Golan non può essere letta in modo isolato: è coerente, nella logica strategica di contenimento delle minacce, con la scelta turca di occupare parti del territorio siriano al confine settentrionale. Ankara, come già dimostrato in passato, intende mantenere una “buffer zone” tra le aree sotto il proprio controllo e le regioni abitate dai curdi siriani, considerati una minaccia perché in collegamento con il PKK in Turchia. Tale azione non solo limita i movimenti delle milizie curde, ma risponde a un duplice obiettivo: arginare il potere curdo e, al contempo, impedire l’insediamento di gruppi islamisti ostili alla Turchia. L’avanzata israeliana sul Golan e la buffer zone turca formano, in modi diversi, due esempi di contenimento preventivo della minaccia jihadista.
L’ascesa degli islamisti in Siria: l’incognita dei diritti e il parallelismo con i talebani La presa del potere da parte di al-Jolani e dei suoi uomini non può essere vista con favore. Le dichiarazioni rassicuranti nei confronti delle minoranze, delle donne e della comunità cristiana suonano come pura retorica. Sappiamo bene quale sia la storia dei movimenti jihadisti: la sharia applicata in modo letterale, l’assenza di rispetto per le differenze religiose e culturali, l’eliminazione di ogni spazio di pluralismo. allo scioglimento del parlamento siriano seguirà l’imposizione di un governo di unna shurà musulmana, non eletta né rappresentativa dell’estrema eterogeneità etno-culturale e religiosa siriana. Come già osservato nel caso dell’Afghanistan dei talebani, l’instaurazione di uno Stato islamico sotto la guida di ex qaedisti “riciclati” in forza politica locale non farà altro che istituzionalizzare un regime repressivo e contrario ai principi fondamentali dei diritti umani.
La minaccia terroristica si estende all’Occidente La vittoria islamista in Siria, come fu per il ritorno dei talebani a Kabul nel 2021, agirà da catalizzatore per il terrorismo internazionale. Le cronache recenti mostrano che ogni avanzamento dell’ideologia jihadista si accompagna a un incremento degli attacchi e della propaganda violenta, spingendo individui radicalizzati o simpatizzanti a compiere gesti emulativi in Occidente. Come osservato da recenti analisi su media internazionali (si veda il 5° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo #ReaCT2024 e Il Giornale), il successo di Hts in Siria accresce il rischio che l’Europa diventi bersaglio di nuovi attacchi, ispirati e orchestrati da soggetti che trarranno nuovo slancio e legittimazione simbolica dalla “vittoria” di al-Jolani. La dimensione mediatica del jihad è tale per cui il controllo di un territorio – e la proclamazione di uno Stato islamico – si trasforma in un messaggio di potenza rivolto a potenziali sostenitori e reclute.
Prospettive e conclusioni La nuova Siria di al-Jolani non è meno pericolosa del regime di Assad. Anzi, l’aperta adesione ai principi fondamentalisti, la lotta per il potere che seguirà tra gruppi islamisti e jihadisti in competizione – in primis con il gruppo Stato islamico – l’influenza di gruppi radicali e l’assenza di un sistema di garanzie internazionali rendono il contesto più imprevedibile. La mossa israeliana nel Golan e la strategia turca a nord riflettono una comprensibile, anche se parziale, risposta a queste minacce. L’Occidente non può permettersi di cadere nell’illusione di un al-Jolani “pragmatico”: la natura islamista e jihadista della nuova leadership è un dato di fatto. Se a ciò si sommano i rischi legati alla disponibilità di armi strategiche e chimiche, l’interesse nazionale israeliano e turco di creare zone cuscinetto e di colpire preventivamente gli arsenali appare tragicamente sensato. In questo scenario – al pari dell’Afghanistan talebano – la Siria potrebbe fungere da polo attrattivo per un jihadismo oggi in cerca di legittimazione e vittorie simboliche, con conseguenze dirette anche per l’Europa.
Corso ISPI “Prevenire la guerra: quale modello di Difesa?”
Il nuovo corso dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI, Milano) avrà luogo il 7 e l’8 marzo 2025
Chi si iscrive entro il 15 dicembre 2024 può beneficiare della quota agevolata
“In un mondo sempre più complesso e interconnesso, comprendere le dinamiche della difesa è cruciale per garantire la sicurezza e la stabilità internazionale. Questo corso si propone di esplorare i modelli di difesa più attuali, analizzando sia le realtà nazionali che le prospettive europee.”
Il concetto strategico del Capo di Stato Maggiore della Difesa
Claudio Bertolotti
12.15-13.15
Lo sviluppo di un’Europa della Difesa tra ambizioni e criticità
Sonia Lucarelli, Università degli studi di Bologna
14.15-15.15
Il ruolo della NATO nella Difesa europea
Una prospettiva politica
Sonia Lucarelli
15.15-16.15
La dimensione cyber della Difesa I
Giampiero Giacomello, Università di Bologna
16.30-17.30
La dimensione cyber della Difesa II
Giampiero Giacomello
PROGRAMMA DELL’8 MARZO 2025
9.00-10.00
La politica industriale della Difesa I
Nicolò Petrelli, Università degli studi Roma tre
10.00-11.00
La politica industriale della Difesa II
Nicolò Petrelli
11.15-12.15
Gli attori privati come componente integrata della Difesa I
Stefano Ruzza, Università degli studi di Torino
12.15-13.15
Gli attori privati come componente integrata della Difesa II
Stefano Ruzza
La strategia russa: offensiva (azione e interferenza), difensiva e deterrente. Diplomazia digitale, guerra informatica e intelligenza artificiale nella competizione globale.
di Claudio Bertolotti.
Abstract
Questo articolo
esplora la strategia russa di diplomazia digitale, guerra informatica e uso
dell’intelligenza artificiale (AI) come strumenti fondamentali nella
competizione globale. La soft diplomacy russa, inizialmente accolta con favore,
ha subito evoluzioni altalenanti a causa di campagne informative che hanno
danneggiato l’immagine internazionale del paese. Negli ultimi anni, la Russia
ha sviluppato una “diplomazia digitale” per influenzare l’opinione
pubblica internazionale, sfruttando strumenti come i social media per
diffondere messaggi polarizzanti e notizie alternative. Parallelamente, il
paese ha potenziato le sue capacità di guerra informatica, considerandola una
componente essenziale delle operazioni di informazione e un mezzo per
raggiungere un equilibrio militare asimmetrico contro l’Occidente. L’uso
dell’AI amplifica queste operazioni, consentendo la creazione di
disinformazione su vasta scala e potenziando tecniche di spionaggio e attacchi
cibernetici, con l’obiettivo di destabilizzare gli avversari e consolidare
l’influenza russa a livello globale.
Soft
diplomacy
pubblica, diplomazia digitale e operazioni informatiche
All’inizio del 21° secolo, l’affermarsi della soft diplomacy pubblica russa è stata
accolta con ottimismo sia dagli analisti che dall’opinione pubblica
internazionale. Tuttavia, successivamente, la diplomazia pubblica russa ha
attraversato diverse fasi altalenanti a causa di campagne informative che hanno
danneggiato l’immagine della Russia a livello globale, in particolare dopo il
conflitto russo-georgiano del 2008.
Un altro aspetto significativo legato al progresso digitale
dell’informazione è l’uso crescente della guerra dell’informazione, ora
potenziata dall’intelligenza artificiale, che è diventata un fattore cruciale
nel raggiungimento di obiettivi strategici.[3]
La strategia e la dottrina russe hanno sempre attribuito
grande importanza alla sicurezza informatica e alle operazioni cibernetiche,
considerandole una parte essenziale delle più ampie operazioni di informazione.
Questo approccio rende spesso indistinguibile la linea di confine tra capacità
militari e civili, poiché entrambe collaborano all’interno della strategia
nazionale complessiva. Le principali agenzie informatiche russe, infatti,
partecipano attivamente, anche ai più alti livelli, all’interno del Consiglio
di sicurezza del governo, che include membri come il ministro della Difesa, il
capo del Servizio di sicurezza federale (FSB) e il capo di stato maggiore
generale.
La dottrina militare del 2015, che ha preceduto la dottrina
per la sicurezza informatica del 2016, sottolinea l’importanza della protezione
dello spazio cibernetico come parte integrante della sicurezza nazionale russa,
affidando questo compito alle forze armate. In linea con questa dottrina, nel
2017 la Russia ha istituito “unità per le operazioni di informazione”,
inizialmente concepite per la difesa del cyberspazio, ma che hanno rapidamente
assunto un ruolo più ampio, includendo attività di informazione tradizionali e
operazioni psicologiche. La “Direzione Principale dello Stato Maggiore” (GU),
precedentemente nota come GRU, insieme ai suoi comandi subordinati, come l’85°
Centro Servizi Speciali Principali (Unità 26165) e il 72° Centro Servizi
Speciali (Unità 54777), sotto il diretto controllo del capo di stato maggiore
delle forze armate russe, è considerata l’entità principale responsabile delle
operazioni cibernetiche offensive e di influenza.
Figura 1.
Evoluzione della Diplomazia russa e delle operazioni informatiche.
Il grafico in Figura 1 rappresenta l’evoluzione della diplomazia russa e delle
operazioni informatiche, mostrando come queste siano diventate sempre più
influenti nel tempo. Le fasi temporali sono così illustrate:
Prima fase: inizio del 21° secolo –
Introduzione della soft diplomacy
pubblica.
Seconda fase: 2008-2012 – Sviluppo
della diplomazia digitale e delle prime operazioni informatiche, specialmente
dopo il conflitto russo-georgiano.
Terza fase: 2013-Presente –
Consolidamento e intensificazione delle operazioni informatiche e
dell’influenza attraverso la diplomazia digitale, potenziate dall’intelligenza
artificiale.
Il grafico evidenzia un aumento
progressivo del livello di influenza di queste strategie nel contesto globale.
La diplomazia pubblica della Russia: tra strategia
e meccanismi
La diplomazia pubblica russa contemporanea si fonda sulla
strategia di politica estera delineata nel 2013. In un articolo intitolato
“Russia and the Changing World“,
pubblicato nel febbraio 2012, il presidente russo Vladimir Putin ha definito il
soft power come un insieme di
strumenti e metodi per conseguire obiettivi di politica estera senza ricorrere
all’uso di armi o altre forme di pressione, con un’enfasi particolare
sull’utilizzo della leva finanziaria.[4] In linea con questa visione, il
“Concetto di politica estera della Federazione Russa”, approvato da
Putin nel febbraio 2013, dichiara che il soft
power, un insieme completo di strumenti per il raggiungimento degli
obiettivi di politica estera basato sul potenziale della società civile,
dell’informazione, e su metodi e tecnologie culturali alternativi alla
diplomazia tradizionale, è diventato una componente essenziale nelle relazioni
internazionali contemporanee.
Tuttavia, l’intensificazione della competizione globale e
l’aumento del rischio di crisi possono talvolta portare a un uso distorto e
illegale del soft power e dei diritti
umani «per esercitare pressioni politiche sui paesi sovrani, interferire nei
loro affari interni, destabilizzare la situazione politica e manipolare
l’opinione pubblica, anche attraverso il finanziamento di progetti culturali e
sui diritti umani».[5] La
citazione inquadra molto bene l’atteggiamento della Russia verso il concetto di
soft power, inteso come motore delle cosiddette “rivoluzioni
colorate” e delle attività dell’Occidente che la Russia considera sfavorevoli
per sé stessa. Russia che, nello sviluppo della propria diplomazia pubblica, ha
fatto ampio utilizzo degli strumenti d’influenza per condizionare la vita
politica di paesi terzi.[6]
Con queste ambizioni, nel 2010 la Russia ha creato due
agenzie diplomatiche: il “Russian World”, focalizzato sulla diffusione della
lingua russa, e il “Fondo Alexander Gorchakov per la Diplomazia Pubblica”.
Inoltre, già nel 2008, all’interno del ministero degli Affari Esteri era stata
istituita la Divisione Rossotrudnichestvo,
l’Agenzia federale responsabile degli affari della Comunità degli Stati
Indipendenti, dei compatrioti all’estero e della cooperazione umanitaria
internazionale. Questa agenzia si occupa dei russi e delle comunità di lingua
russa all’estero. Nel 2020, Rossotrudnichestvo
ha ampliato la sua struttura aggiungendo dipartimenti dedicati all’informazione
e alla sicurezza informatica, alla scienza e all’istruzione, e agli aiuti
esteri.
Nel complesso, l’approccio russo alla diplomazia pubblica
mostra una continua evoluzione nella comunicazione strategica e nel marketing
politico di Mosca, in cui strumenti come messaggi mirati, tweet, e il coinvolgimento del pubblico diventano sempre più
centrali, sia nella comunicazione tradizionale che in quella digitale.[7]
L’influenza russa attraverso la diffusione di informazioni è
limitata dalla scarsa accessibilità e penetrazione dei contenuti in lingua
russa, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Per superare questo ostacolo,
la Russia sta efficacemente potenziando le sue capacità di azione e
penetrazione nel cyberspazio. Considerando le pressioni politiche e
l’inefficacia della diplomazia culturale tradizionale russa, è la diplomazia
digitale e dei dati che viene utilizzata come strumento per diffondere
“notizie alternative” nei paesi di interesse per il Cremlino. In
questo contesto, i messaggi politici e le comunicazioni divisive sono mirati a
polarizzare le opinioni pubbliche nazionali tramite social network come Facebook, Twitter e YouTube, utilizzati come
strumenti di guerra informativa da utenti registrati in Russia.[8]
Attraverso questi strumenti, la diplomazia pubblica russa ha intensificato i
suoi sforzi durante la pandemia da Covid-19, sfruttando il supporto umanitario
russo per presentarsi in modo credibile alle opinioni pubbliche straniere.
Paesi come la Serbia nei Balcani, la Siria in Medio Oriente, il Venezuela in
America Latina e persino l’Italia nell’Unione Europea hanno ricevuto aiuti
russi, la cui portata è stata promossa sui social
network attraverso una campagna propagandistica ben organizzata ed
efficace.
Information
warfare, artificial
intelligence e la competizione con la Nato
Come discusso, la Russia percepisce l’Occidente come una
minaccia. Questo punto di vista è stato ribadito dal capo di stato maggiore
generale delle forze armate russe, Valery Gerasimov, nell’aprile 2019, quando
ha sottolineato il pericolo rappresentato dall’espansione della NATO verso i
confini russi e dai tentativi occidentali di destabilizzare il governo del
presidente Putin attraverso l’uso della “guerra ibrida”.[9]
Questa percezione è ulteriormente rafforzata dalla
consapevolezza della debolezza delle forze armate convenzionali russe, ritenute
non sufficientemente preparate per affrontare un eventuale conflitto con la
NATO. I vertici militari russi credono fermamente che sia essenziale evitare
una guerra convenzionale, preferendo spostare il confronto sul piano
cibernetico per raggiungere un equilibrio militare asimmetrico. Questa
strategia è attivamente perseguita dal Cremlino per garantire alla Russia un
vantaggio militare capace di contrastare le ambizioni dell’Alleanza Atlantica,
senza dover ricorrere all’uso della forza cinetica convenzionale.
L’approccio russo può essere descritto come una forma di
“dissuasione strategica”, o come ha indicato lo stesso Gerasimov, una
“strategia di difesa attiva”, nota in Occidente come “guerra
ibrida” o “attività sotto soglia”. Questo concetto si basa su
operazioni non cinetiche mirate a indebolire, nel lungo termine, i potenziali
avversari durante il tempo di pace, creando divisioni politiche e sociali al
loro interno per minare la risolutezza e la capacità decisionale strategica
dello Stato bersaglio. Gli obiettivi principali sarebbero i paesi fortemente
anti-russi, in particolare quelli situati sul fianco orientale della NATO, dove
la Russia potrebbe concentrare un’intensa guerra d’informazione per provocare
cambiamenti politici significativi. In questo modo, la Russia potrebbe
perseguire la sua dottrina di “autoaffermazione sovrana” e ottenere
maggiore libertà di azione in regioni critiche come la Siria, il Medio Oriente
e l’Africa. Queste misure preventive potrebbero anche servire a ostacolare
qualsiasi decisione collettiva della NATO, compresa l’eventualità di un
intervento diretto contro Mosca.[10] In
linea con questa lettura, in occasione dell’avvio della guerra russo-ucraina nel
febbraio 2022 è stata registrata un’ondata di azioni per penetrare le reti
della Nato all’inizio del conflitto, una precauzione ragionevole dal punto di
vista russo, dato il timore di un possibile intervento dell’Alleanza a supporto
di Kiev.
Information Warfare e Intelligenza Artificiale (AI)
Come già menzionato, Gerasimov ha sottolineato l’importanza
crescente dell’informazione per neutralizzare gli oppositori dello Stato, sia
interni che esterni. Secondo Gerasimov, «le tecnologie dell’informazione»
stanno diventando «uno dei tipi di armi più promettenti» da impiegare contro
altri paesi. Per questo motivo, egli afferma che «lo studio dei temi legati
alla preparazione e alla conduzione delle azioni di informazione è il compito
più importante della scienza militare».
Con questo approccio, la Russia ha dato priorità allo
sviluppo di operazioni informative avanzate piuttosto che all’espansione di
armi convenzionali, come carri armati o sistemi missilistici, poiché oggi le
“tecnologie dell’informazione” possono essere notevolmente potenziate
dall’intelligenza artificiale (AI).[11]
Il pensiero delle forze armate russe riguardo allo sviluppo e all’impiego
dell’intelligenza artificiale in ambito militare si focalizza sui vantaggi che
essa può offrire nel supporto alle operazioni militari. Questi vantaggi spaziano
dal miglioramento dei sistemi autonomi e di altre tecnologie militari fino alla
gestione dell’informazione, in particolare a livello strategico globale. In
questo contesto, l’intelligenza artificiale agisce come un amplificatore,
potenziando le operazioni di disinformazione attraverso la diffusione
intenzionale di notizie false e ingannevoli, con l’obiettivo di influenzare
politiche e società e di creare instabilità su larga scala mediante la
manipolazione delle informazioni e attività cibernetiche.[12]
Durante la crisi in Ucraina, la Russia avrebbe messo in atto
un’ampia campagna di operazioni informative mirate a influenzare l’opinione
pubblica e a creare confusione nello spazio dell’informazione, diffondendo una
combinazione di informazioni vere, parzialmente vere e false per renderle
credibili. Un esempio significativo di questi sforzi è rappresentato dai più di
65.000 tweet diffusi da falsi account
russi nelle ventiquattr’ore successive all’abbattimento del volo MH-17 della
Malaysia Airlines il 17 luglio 2014, con l’obiettivo di attribuire la colpa
dell’incidente al governo ucraino. Inoltre, durante l’annessione della Crimea,
le forze russe avrebbero oscurato nove canali televisivi ucraini in Crimea,
sostituendoli con emittenti televisive russe per silenziare i media
filo-governativi ucraini:[13]
un fatto che confermerebbe la condotta di azioni di guerra elettronica (Electronic
warfare, EW) come fattore abilitante per le operazioni di informazione.[14]
Le azioni menzionate evidenziano la
determinazione della Russia a migliorare e intensificare le proprie capacità
nel contesto della guerra informatica, che all’interno della dottrina militare
russa è considerata una componente della più ampia guerra dell’informazione. La
minaccia strategica posta dalla guerra informatica potenziata dall’intelligenza
artificiale sarà particolarmente pericolosa, poiché gli strumenti informatici
diventeranno sempre più capaci di generare disinformazione dettagliata e
credibile (inclusi i “deep fake“[15]) in volumi tali da rendere estremamente difficile distinguere la verità
reale da un’enorme quantità di informazioni contrastanti.[16] L’AI consentirà di saturare lo spazio informativo con dati artificiali,
creando una “verità virtuale” che potrà confondere e destabilizzare
gli avversari, aprendo la strada a una possibile “guerra cognitiva” che
la Russia potrebbe dominare.
Un altro aspetto cruciale della
guerra informatica riguarda il piano tecnico: lo spionaggio, l’installazione di
malware, la distruzione selettiva e, in particolare, la ricerca di
vulnerabilità nei sistemi informatici degli avversari. Con l’avvento dell’AI,
queste tecniche cibernetiche diventeranno sempre più efficaci, permettendo di
individuare le debolezze dei sistemi IT avversari con maggiore rapidità.[17]
Figura 2.
Evoluzione dell’importanza della sicurezza informatica nella strategia russa.
Il grafico
rappresenta l’evoluzione dell’importanza attribuita alla sicurezza informatica
e alle operazioni cibernetiche nella strategia russa nel corso degli anni. Il
grafico mostra un aumento significativo dell’enfasi sulla sicurezza informatica
dal 2010 al 2020, indicando la sua crescente priorità nella pianificazione
strategica della Russia.
[1] J. Fieke, Digital Activism in
the Middle East: Mapping Issue Networks in Egypt, “Knowledge Management for
Development Journal” 6 (1), 2010, pp. 37–52.
[2] N. Tsvetkova, D. Rushchin, (2021), Russia’s Public Diplomacy: From Soft Power
to Strategic Communication, Journal of Political Marketing. 20. 1-12.
10.1080/15377857.2020.1869845.
[3] R. Thornton & M. Miron, Towards
the ‘Third Revolution in Military Affairs’, The RUSI Journal, 165:3, 2020,
pp. 12-21, DOI: 10.1080/03071847.2020.1765514:
https://doi.org/10.1080/03071847.2020.1765514.
[4] V. Putin (2012), Russia and the
Changing World, “Rossiyskaya Gaseta”. Accessed October 20, 2020.
[5] A. Sergunin, L. Karabeshkin, Understanding
Russia’s Soft Power Strategy, “Politics” 35
(3–4):347–63,
2015.
[6] U.S. Congress. 2015. “U.S.
Senate Committee on the Judiciary. Extremist Content and Russian Disinformation
Online:
Working with Tech to Find Solutions.”. In: https://www.judiciary.senate.gov/meetings/extremist-content-and-russian-disinformation-online-working-with-tech-to-find-solutions
(ultimo accesso 21 luglio 2021).
[7] N. Tsvetkova & D. Rushchin, Russia’s
Public Diplomacy…, cit.
[8] J. Bērziņš (2014), Russia’s
New Generation Warfare in Ukraine: Implications for Latvian Defense Policy,
Policy Paper No 02, (Riga: National Defence Academy of Latvian Center for
Security and Strategic Research, April 2014), 5.
[9] V. Gerasimov, Vektory Razvitiya
Voyennoy Strategii [“The Vectors of Military Strategic Development”],
“Krasnaya Zvezda” [Red Star], 3 aprile 2019, in
http://redstar.ru/vektory-razvitiya-voennoj-strategii/.
[10] R. Thornton & M. Miron, Towards
the ‘Third Revolution…, cit.
[13] Office of the UN High Commissioner
for Human Rights, ‘Report on the Human Rights Situation in Ukraine’, 15
July 2014, p. 31. In:
https://www.ohchr.org/Documents/Countries/UA/Ukraine_Report_15July2014.pdf
(ultimo accesso 21 luglio 2021).
[14] D. McCrory (2021), Russian
Electronic Warfare, Cyber and Information Operations in Ukraine, “The RUSI
Journal”, 2021, pp –.
[15]Deepfake: tecnica per la rielaborazione
dell’immagine umana basata sull’intelligenza artificiale, usata per combinare e
sovrapporre immagini e video esistenti con altri video, o immagini originali,
tramite una tecnica di apprendimento automatico, nota come rete antagonista
generativa.
[16] R. Thornton &
M. Miron, Towards the ‘Third Revolution…, cit.
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