This volume examines the combined effects of risk propensity, relative deprivation, and social learning of deviance on the collective grievance within a religious population under the assumption of civil unrest caused by extreme climatic events. We designed an agent-based model to demonstrate how greater or lesser amounts of grievance towards political authority are likely to create an ideal en-vironment for organized violence to emerge when resources are threatened by climate change.
Scholars have tried to formulate a generally accepted definition of religious terrorism for almost four decades, but its investigation is still controversial, especially in the context of the emerging study of the political and social consequences of climatic events. This particular form of terrorism is nevertheless highly diffuse and observed to be coming from smaller clubs of radicalized individuals instead of main-stream religious groups. However, we find that doctrinal explanations appear irrelevant in explaining how terrorist cells emerge and organize themselves.
Ucraina: l’evoluzione sul campo e le munizioni all’uranio impoverito
di Claudio Bertolotti
dal commento di Claudio Bertolotti a “In un’ora” – RaiNews 24 del 22 marzo 2023
Ucraina: munizioni all’Uranio impoverito? Il commento di C. Bertolotti a “In un’ora” RaiNews24, puntata dal 22 marzo 2023
La situazione sul campo: iniziativa ancora in mano russa
Le operazioni terrestri in Ucraina, e più in
generale l’intero andamento del conflitto, hanno ormai assunto il carattere di
una lotta d’attrito e logoramento, relegando la manovra militare a poche azioni
tattiche a vantaggio della Russia (Riggi). Di fatto ciò che prevale è la
capacità di mettere forze in campo e disporre di munizionamenti ed
equipaggiamenti. Anche qui la Russia è in una posizione di vantaggio in termini
di quantità. Chi tra i due contendenti riuscirà e avrà la forza di condurre
azioni offensive dovrà tenere conto della sostenibilità sul medio periodo.
Insomma sembra difficile prevedere l’azzardo di una manovra di sfondamento su
tutto il fronte, mentre appare più probabile una pressione costante attraverso
azioni tattiche ripetute e progressive. Non molto diverso da ciò che è accaduto
su quello stesso fronte durante la seconda guerra mondiale.
Le forze russe continuarono limitate operazioni offensive lungo la linea Kupyansk-Svatove-Kreminna e non hanno fatto ottenuto vantaggi nell’area di Bakhmut; continuano le operazioni offensive lungo la periferia della città di Donetsk.
La questione dei
proiettili all’uranio impoverito che arriveranno dalla Gran Bretagna
Sull’uso del munizionamento all’uranio impoverito direi che
è un tema ricorrente in ogni guerra combattuta dagli anni ’70 in poi e al
centro del dibattito pubblico dagli anni ’90, con la Guerra del Golfo di Bosnia
e del Kossovo, dove l’utilizzo è stato ampio. Tutti i paesi usano
munizionamento DU, cosiddetto uranio impoverito: Stati Uniti, Gran Bretagna,
Francia, Russia. E il suo ampio utilizzo che, per quanto dibattuto, è legittimo,
è conseguenza degli indubbi vantaggi operativi: è efficace, perfora con maggiore
efficacia le corazzature dei carrarmati e il cemento armato dei bunker e in più
costa poco (essendo prodotto di scarto degli impianti nucleari). Tra gli
svantaggi certamente quello della contaminazione del terreno, per periodi
brevi, e i rischi per i soggetti, militari e civili, che dovessero inalarne il
particolato in prossimità dell’esplosione.
Cresce la tensione
tra Stati uniti e la Russia. Due le due ragioni fondamentali
La prima è che la Russia dopo un anno di guerra ha
dimostrato di essere in grado, pur a costo di enormi sacrifici, di tenere le
posizioni del fronte in una guerra pressocchè statica, di attrito e logoramento,
che potrebbe durare ancora molto, con il sostegno della Cina e dei suoi alleati
minori e sostenuta attraverso una progressiva mobilitazione degli scaglioni di
coscritti, certo sempre meno preparati alla guerra ma in quantità sufficiente
per mantenere l’iniziativa.
La seconda è che il tempo che ha la Russia è molto più di
quello che hanno a disposizione gli Stati Uniti. Così come in tutte le guerre –
dall’Iraq all’Afghanistan – gli appuntamenti elettorali hanno imposto i tempi e
i modi della guerra. L’imminente avvio della campagna elettorale per le
presidenziali sarà determinante per le prossime scelte strategiche, anche
tenuto conto del fatto che il contribuente-elettore statunitense non è
particolarmente entusiasta dei costi crescenti di questa guerra che, ad oggi
avrebbe visto impegnati oltre 40miliardi di dollari: agli oppositori
repubblicani potrebbero così aggiungersi anche i democratici che non rispondono
al Presidente, bensì ai loro elettori.
Nuovi aiuti militari dell’Italia all’Ucraina: quali armi, costi e premesse politiche?
di Redazione
Dall’intervista di C. Bertolotti a Tagadà, La7 (puntata del 22 febbraio 2023)
Carri armati, artigliera pesante, mezzi per la difesa aerea e non solo. Da Europa e Stati Uniti la promessa di potenziare gli aiuti militari all’Ucraina. Anche l’Italia farà la sua parte; in che termini, quali i numeri, i costi e le premesse politiche?
L’Italia, in generale, quali armi sta mandando in Ucraina?
Stiamo mandando molto del poco che abbiamo. E questo a causa delle risorse limitate destinate alla difesa negli ultimi decenni, e in particolare dal 2012. In termini operativi il contributo principale è in funzione di uno strumento militare ucraino con una forte componente di “arma base”, ossia la fanteria. Dunque equipaggiamenti e armi individuali e di reparto, sistemi controcarro, veicoli da trasporto truppa, e così via. A cui si è progressivamente aggiunto il contributo della componente di “supporto al combattimento” dell’artiglieria e, in ultimo, di difesa aerea.
Mentre gli Stati Uniti hanno inviato in maniera massiccia,
razionale e coerente, i propri aiuti a Kiev, i paesi europei lo hanno fatto in
maniera meno strutturata, cominciando con aiuti prima poco rilevanti per
procedere a tappe forzate verso un contributo via via più di rilievo. Ci sono
poi varie sensibilità: i paesi del fianco est, appartenenti all’ex blocco
sovietico, hanno spinto fin da subito per l’invio di armamenti pesanti, come i
carri armati. L’Italia ha cominciato con i sistemi d’arma di reparto, dalle
mitragliatrici ai sistemi contro-carro, per poi inviare i veicoli da trasporto
truppe, prevalentemente di vecchia generazione, come gli M113. Per poi inviare
sistemi di artiglieria pesante campale e semovente di vecchia e nuova
generazione, nei limiti delle riserve disponibili.
Il contributo complessivo è rilevante, sia in termini
politici che militari. Adeguato a fermare l’avanzata russa, e dunque mantenendo
uno stato di guerra di attrito, ma non sufficienti per fornire all’Ucraina gli
strumenti per una vittoria decisiva.
Sono noti questi
elenchi? Periodicamente si polemizza sulla mancanza di trasparenza sul tema.
Funziona diversamente negli altri paesi?
Ogni paese ha la propria policy. La differenza di approccio in termini di pubblicità delle decisioni prese è culturale. La politica in Italia si rivolge con estrema cautela al cittadino-elettore, preferendo omettere alcune informazioni per ragioni di opportunità di elettorale e anche perché, da parte dell’opinione pubblica italiana, vi è uno scarso interesse nella politica estera. Negli Stati Uniti il governo si rivolge al cittadino-contribuente, al quale deve rendere conto di come spende i suoi soldi. Questo è il motivo per cui conosciamo l’elenco dettagliato delle armi fornite da Washington ma non dall’Italia, i cui governi, di qualunque colore, appongono la classifica di sicurezza agli aiuti dati. Una scelta politica, certamente non dettata dalle esigenze di carattere operativo. Anche la Francia, va detto, ha reso noti i numeri degli equipaggiamenti d’artiglieria, il contributo più significativo dato da Parigi. E così la Germania, che ha pubblicato ufficialmente la lista di equipaggiamenti forniti.
Sono cambiate le armi
che abbiamo inviato? Sono diventate gradualmente più “offensive”?
Non direi che siano “più offensive”, direi piuttosto gradualmente
più rispondenti alle necessità imposte dalle dinamiche sul campo di battaglia e
all’approccio statunitense al conflitto. Quanto più aumenta il contributo
statunitense, tanto più rilevanti sono le richieste (e le pressioni) ai Paesi
dell’Unione europea. La risposta è dunque in termini di efficacia; un’efficacia
che dipende dalla qualità, più che dalla quantità di armi fornite.
In una fase iniziale,
quando c’era ancora il M5s nella maggioranza a sostegno del governo Draghi, si
è a lungo parlato di armi “difensive” e “offensive”. Aveva senso questa
distinzione? È superata?
La distinzione tra armi offensive e difensive ha un valore
politico, non operativo. Le armi servono per combattere, sia una guerra
offensiva che difensiva. Nel caso ucraino potremmo affermare a ragion veduta che
tutte le armi sono “difensive” poiché utilizzate per contrastare l’avanzata di
un esercito invasore. Perché questo è il punto: il sostegno è dato all’Ucraina
che si difende da un’invasione territoriale avviata dalla Russia. Dunque
lascerei da parte questa distinzione, preferendo la formula del “sostegno
militare all’Ucraina”.
Quanto ci costa
mandare queste armi?
Possiamo fare alcune speculazioni, ma non abbiamo dati certi, almeno per quanto riguarda l’Italia. Potremmo valutare il contributo italiano in una cifra approssimativa di 800milioni di euro, di cui più di 400milioni di aiuti militari. Tanto o poco?
Va fatto un distinguo tra quanto dato dagli Stati Uniti e
quanto invece fornito dai Paesi dell’Unione europea presi singolarmente.
Washington ha stanziato al momento oltre 45 miliardi di dollari in aiuti
militari, compresi equipaggiamenti di pregio come i sistemi missilistici a
medio raggio, sistemi radar, sistemi di difesa contraerea, oltre a migliaia di
veicoli di differente tipologia. Poi hanno promesso l’invio di carri armati
pesanti, gli Abrams. I singoli paesi europei hanno invece dato un contributo
eterogeneo, in alcuni settori poco più che formale, ma nel complesso è un aiuto
concreto e utile. Si può valutare in circa 30 miliardi di euro l’aiuto europeo
dato a Kiev, dunque in linea con quello statunitense.
Quant’è significativo
il nostro apporto rispetto a quello degli altri paesi europei?
Va detto che, a fronte delle sempre più limitate risorse
destinate alla Difesa nel corso degli ultimi 20 anni, il contributo è stato
certamente rilevante considerata la penuria di armi ed equipaggiamenti. Il nostro
sforzo e contributo è così, sì importante, ma non decisivo. Certo, è coerente
con quello della maggior parte degli alleati, ad esclusione dei principali
sostenitori – Stati Uniti e Regno Unito – ma inferiore a quello della Germania
che, da sola avrebbe fornito aiuti complessivi (dunque umanitari, finanziari e
militari) di oltre 5 miliardi di euro, contro gli 800milioni dell’Italia.
Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: il libro di C. Bertolotti
Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale
Il nuovo libro di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight, “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” (ed. STARTInSight, 2023, 161 pp., Euro/CHF 14,00) è stato pubblicato per i tipi della Collana “InSight”, disponibile su Amazon.it o richiedendolo all’editore (info@startinsight.eu).
La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.
Il “sistema Mediterraneo” è attualmente sottoposto a un forte stress, politico, sociale, economico, commerciale ed energetico. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.
Non v’è dubbio alcuno che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, è e sarà sempre più l’elemento in grado di condizionare il livello di stabilità o instabilità dell’intera area del mediterraneo allargato. Questo intreccio di ambizioni e legittime aspettative, a cui si aggiungono i fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali, che spesso appaiono inconciliabili tra loro, è la sfida che la nostra generazione ha di fronte e deve affrontare.
Acqua ed energia sono i due elementi chiave che determineranno, e che già ora determinano, l’insorgere di instabilità, emergenze e sfide sempre più pressanti e urgenti.
Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i Paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di risorse idriche e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti energetici interregionali. Dall’altro lato, gli Stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.
Relativamente
al contesto energetico, l’area mediterranea è caratterizzata da un notevole aumento
delle importazioni di energia convenzionale: l’80% dei Paesi del Mediterraneo
occidentale sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che
richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno
energetico ed evitare la produzione eccessiva di gas serra, con uno sguardo
rivolto verso l’alternativa delle energie rinnovabili.
In
particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di
energia, esistono approcci contrastanti sulle modalità di accesso e
sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e
pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive
esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali);
dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato
sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle
tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una
base puramente temporale. Quest’ultimo, certamente minoritario e marginale
all’interno dell’ampio panorama dell’opinione pubblica, è però in grado di
ottenere un’amplificazione massmediatica delle proprie istanze, complice
l’assenza di una strategia comunicativa di contro-narrazione istituzionale
efficace.
Governi
e decisori politici saranno pertanto chiamate ad attuare politiche realistiche,
economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, anche lo
sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e
principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini
di contenimento dell’inquinamento globale il cui contributo, unitamente e in
maniera coordinata e bilanciata a quello delle fonti energetiche sostenibili,
richiede importanti investimenti e una chiara visione di lungo periodo.
Il tema del volume “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo. Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” parte dalle riflessioni e dalle valutazioni della ricerca[ sviluppata nel 2022 in seno alla “5+5 Defense Initiative” dal gruppo internazionale di ricercatori designati dai Paesi aderenti all’iniziativa. Il tema affrontato è strategico e di estrema attualità data la crescita nel consumo di acqua e di energie rinnovabili che le rende un importante argomento politico ed economico e al contempo oggetto primario nelle relazioni internazionali e negli equilibri di potere, interno ed esterno, alle nazioni.
«Acqua
pulita e accessibile per tutti» è l’obiettivo numero 6 nella lista degli
obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable
Development Goals, Sdg) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015. Di vitale
importanza per la vita umana, i Paesi del Mediterraneo occidentale, le loro
popolazioni, agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono un’importanza
vitale all’acqua.
Per
quanto riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica),
il cui potenziale è considerato inesauribile, sono però prodotte con costi
ancora elevati, e spesso non sostenibili su larga scala e con le infrastrutture
esistenti. In tale quadro, caratterizzato da una grande incertezza in cui le
opportunità politiche e le istanze di una parte della società civile svolgono
un ruolo non sempre favorevole e costruttivo, si registra un’accelerazione da
parte dei Paesi maggiormente industrializzati dell’Unione europea verso una
“transizione energetica” che, sotto molti aspetti, tende a imporsi come una
riduzione forzata e irrazionale dell’utilizzo di fonti energetiche fossili, con
danni potenzialmente gravi e irreversibili per le economie nazionali e per gli
equilibri economici, sociali e politici.
Ciò
nonostante, va però riconosciuto che un approccio responsabile che guardi ad un
affrancamento progressivo dalle fonti fossili e combustibili, dunque una
“transizione energetica” sostenibile, progressiva e che tenga conto delle
capacità tecnologiche, dell’impatto economico-sociale e delle attuali fonti
energetiche primarie, se da un lato presenta criticità evidenti, dall’altro
lato apre alla possibilità di quella auspicata e necessaria autonomia
energetica strategica, essenziale tanto ai singoli Paesi quanto e ancor di più,
al «sistema europeo». Una scelta strategica, quella che l’Unione europea ha
definito, essenziale per imporsi come modello di sviluppo di riferimento in
un’epoca storica caratterizzata dagli effetti del cambiamento climatico e dalle
crescenti difficoltà di accesso e disponibilità di combustibili fossili. Ciò
potrà trovare realizzazione solo attraverso la consapevolezza della primazia di
un fattore ineludibile e condizionante: la crescita e lo sviluppo della
popolazione sono le variabili indipendenti che determinano un aumento del
consumo di risorse energetiche e idriche e mai il contrario. Dunque la capacità
di approvvigionamento e di produzione energetica dovrà tener conto di un
aumento progressivo della domanda di energia, coerentemente con l’andamento
demografico ed economico, così come dello sviluppo tecnologico dei Paesi che
ridefiniranno le loro strategie nazionali di sicurezza energetica in questa
direzione.
Ed
è in questo preciso scenario teorico che va ad inserirsi la guerra
russo-ucraina iniziata nel febbraio 2022, quale dimostrazione pratica della
mutabilità delle relazioni internazionali, dei rapporti tra alleati e competitor, così come
dell’imprevedibilità di eventi naturali o umani in grado di negare, in tutto o
in parte, l’accesso alle risorse energetiche e di condizionare in maniera
sfavorevole i prezzi delle fonti energetiche, con dirette ripercussioni sul
piano sociale, politico ed economico. E proprio la guerra russo-ucraina, ha
riportato l’attenzione dei governi sui rischi di interruzione delle forniture
che comportano, per definizione, quel costo strategico che va opportunamente
calcolato: esercizio non semplice, che non può essere ridotto al semplice
computo di investimenti e relativi rendimenti, ma comprende anche valutazioni
sulle diverse opzioni strategiche limitando, in primis, i rischi legati alla fortissima dipendenza da
idrocarburi e, in secondo luogo, imponendo l’esigenza di una diversificazione
del mix energetico a prezzi accessibili e di un potenziamento dell’influenza
dal lato dell’offerta, in particolare attraverso la realizzazione dei gasdotti,
a cui devono associarsi il principio della solidarietà tra Stati amici (in
particolare tra Stati membri dell’Unione europea).
In
sintesi, l’obiettivo a cui si guarda è quello di creare un mix energetico
sostenibile, efficiente e diversificato, cioè che sia sostenibile dal punto di
vista ambientale ed economico, che utilizzi le risorse in modo efficiente e che
sia basato su diverse fonti di energia, in modo da ridurre la dipendenza da una
sola fonte. Inoltre, è importante adottare un approccio integrato per
affrontare le sfide e le opportunità legate ai cambiamenti climatici, cioè un
approccio che consideri i diversi aspetti e le connessioni tra loro.
Sul piano politico-strategico, assume particolare rilevanza lo sviluppo di un “sistema mediterraneo dell’energia”, ovvero un sistema che colleghi in modo sicuro e a più vie le due sponde del Mediterraneo. Ciò potrebbe includere il potenziamento delle infrastrutture esistenti, come gasdotti e condotti sottomarini, e la costruzione di nuove infrastrutture, come impianti di trasformazione e stoccaggio dell’energia. L’obiettivo è quello di aumentare la sicurezza e la diversificazione delle fonti di energia per l’Europa, oltre che di sfruttare le opportunità economiche offerte dalla cooperazione energetica con i paesi della sponda Sud del Mediterraneo, con l’obiettivo primario di governare le dinamiche delle relazioni internazionali, senza esserne sopraffatti a causa di una mancata o inadeguata strategia di sicurezza nazionale.
Sicurezza energetica e accesso all’acqua: la sicurezza del Mediterraneo secondo la “5+5”
La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.
Coerentemente con questo principio e nell’ottica di cooperare per la sicurezza e la stabilità del Mediterraneo, i Ministri della Difesa aderenti alla “5+5 Defense initiative” (Italia, Francia, Spagna, Malta, Portogallo, Mauritania, Marocco, Libia, Algeria, Tunisia) in occasione della riunione ministeriale tenuta a Rabat (Marocco) lo scorso 16 dicembre, hanno discusso e approvato il documento di ricerca, e gli indirizzi di policy in esso contenuti, dal titolo: “Risorse idriche e energia rinnovabile come strategia per la stabilità futura nello spazio 5+5“. Il documento, a cui ha contribuito il ricercatore senior e rappresentante unico per l’Italia Claudio Bertolotti, direttore di START InSight, è stato illustrato al Sottosegretario di Stato alla Difesa Matteo Perego di Cremnago.
Non c’è dubbio che il “sistema Mediterraneo” sia attualmente sottoposto a un forte stress. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.
Così come non c’è dubbio che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, sono e saranno sempre più gli elementi in grado di determinare il livello di stabilità o instabilità dell’area mediterranea.
Questo intreccio di ambizioni, aspettative legittime, a cui si aggiungono i fattori della geopolitica, spesso appaiono inconciliabili tra loro, ma sono queste le sfide che la nostra generazione ha di fronte e deve risolvere.
Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di acqua e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti interregionali. Dall’altro lato, gli stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.
Relativamente al contesto energetico, lo spazio mediterraneo è caratterizzato da un notevole aumento delle importazioni di energia convenzionale, l’80% dei paesi appartenenti all’area del Mediterraneo occidentale, sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico ed evitare la produzione di gas serra.
In particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di energia, esistono approcci contrastanti sugli aspetti di accesso e sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali); dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una base puramente temporale.
Governi e decisori politici dovranno attuare politiche realistiche che devono essere economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, lo sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini di contenimento dell’inquinamento globale.
I contenuti del documento di ricerca 2022 della “5+5 defense initiative”
Il tema di
ricerca 2022 “Water Resources and Renewable Energy as a Strategy for Future Stability
in the 5+5 Space” è strategico e di estrema attualità dato che
l’acqua e le energie rinnovabili sono sempre più consumate, di fatto
rappresentando una questione politica ed economica di primaria importanza.
“Acqua
pulita e accessibile per tutti” è l’obiettivo numero 6 nell’elenco degli
obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015.
Di vitale importanza per la vita umana, e coerentemente con il principio
enunciato dalle nazioni Unite, i dieci paesi dello spazio 5+5, le loro
popolazioni, gli agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono grande
importanza all’acqua.
Per quanto
riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica) che
sono inesauribili e sostenibili ma che richiedono ancora elevati costi di
produzione, il loro interesse sta diventando sempre più rilevante in
conseguenza dei cambiamenti climatici e della scarsità di combustibili fossili.
Oggi il mondo
si trova di fronte a un importante punto di svolta della sua storia poichè la
crescita demografica e lo sviluppo industriale stanno imponendo un elevato e
crescente consumo di risorse energetiche e idriche.
Risorse idriche. I Paesi
dell’area 5+5 dispongono di notevoli risorse idriche, ma il 90% della
disponibilità è locata nei Paesi settentrionali dell’area; al contrario, Aleria,
Marocco e Tunisia sono in situazione di penuria. Alcuni paesi come Malta e la
Libia sono caratterizzate da un consumo superiore alla capacità delle loro
risorse rinnovabili e sono tra i 10 paesi con meno risorse idriche al mondo.
Fabbisogno energetico. Il contesto
energetico dell’area 5+5 è caratterizzato da un notevole aumento dell’importazione
di energia convenzionale; l’80% dei suoi paesi sono grandi importatori. Si
tratta di una situazione che impone la ricerca di soluzioni alternative per
soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico e allo stesso tempo evitare un
aumento della produzione di gas serra. È quindi essenziale promuovere lo
sviluppo e l’utilizzo di energie rinnovabili. In particolare, l’abbondanza di
risorse energetiche solari ed eoliche è un fattore che accomuna i paesi della
sponda sud dell’area 5+5.
Idroneno verde (Green hydrogene): L’idrogeno
verde, prodotto dall’elettrolisi dell’acqua alimentata da fonti energetiche
rinnovabili, può essere utilizzato per contribuire alla decarbonizzazione dei settori
e delle aree produttive più difficili da elettrificare.
Energia nucleare. Lo sviluppo
del nucleare ha contribuito alla riduzione degli effetti negativi del
cambiamento climatico sui paesi industrializzati. Nel 2018, l’energia nucleare
ha contribuito per il 10,1% alla produzione mondiale di elettricità,
imponendosi quindi come terza più grande fonte di produzione di elettricità al
mondo.
Quali gli
aspetti di rilievo evidenziati dalla ricerca?
1. Risorse
idriche, criticità dell’area “5+5”:
a) Almeno 3 paesi (Algeria,
Marocco, Tunisia) si trovano in una situazione critica (≤ 1.000 m3/hbt/anno),
b) sfruttamento eccessivo delle
acque sotterranee (fossili), perdite nelle reti e sprechi,
c) inquinamento delle risorse e
impatto del cambiamento climatico,
d) carenze in alcuni quadri
giuridici e scarso sviluppo delle capacità.
2. Risorse idriche, punti di forza dell’area
“5+5”:
a) Ricchezza di risorse naturali,
b) Diversi partenariati a livello di istituzioni internazionali,
c) Reale volontà dei governi di attuare il diritto all’acqua e il suo
accesso per tutti,
d) Grande potenziale in termini di energia sostenibile.
3. Energie rinnovabili, criticità dai Paesi dell’area “5+5”:
a) Mancanza di incentivi nei quadri legislativi esistenti,
b) Debolezza dei programmi di capacity building,
c) Mancanza di integrazione regionale dei mercati dell’energia e delle
reti elettriche,
d) Affidamento a materiali e minerali rari per la produzione di
tecnologie a basse emissioni di carbonio.
4. Il potenziale dei paesi membri nelle energie
rinnovabili
a) Importanti capacità umane e materiali per investimenti nel settore delle
energie rinnovabili,
b) Disponibilità di importanti risorse rinnovabili,
c) Il continuo sostegno dello Stato al nuovo settore energetico,
d) Il riconoscimento dell’accesso alle fonti energetiche come «priorità
di sviluppo nazionale».
Alcune
raccomandazioni condivise dai ricercatori con i Ministri della Difesa
dell’iniziativa “5+5”
I limiti nella parte meridionale dell’area 5+5 possono essere superati attraverso
l’elaborazione di una strategia nazionale organica specifica per lo sviluppo
delle energie rinnovabili, basata principalmente su:
Istituzione di
un quadro giuridico e normativo attraente per gli investitori privati;
Creazione di un
quadro istituzionale che copra i diversi aspetti del settore;
Capacity
building nella ricerca scientifica e nelle tecniche innovative nei settori
delle Energie Rinnovabili e dell’Idrogeno;
Elaborazione di
un quadro finanziario e di incentivi;
Istituzione di
una piattaforma di assistenza tecnica comprendente:
sensibilizzazione e formazione dei consumatori;
filiera e servizi di gestione e manutenzione di impianti solari ed
eolici; e
standard per i fornitori di apparecchiature e servizi (tecnici e
distributori di prodotti di energia rinnovabile) al fine dell’efficientamento
del sistema in termini di costo-efficacia;
Istituzione di
un programma di trasporto e distribuzione dell’energia elettrica che promuova
il commercio e l’interconnessione dell’energia per migliorare l’integrazione
regionale;
dipendenza
dell’accesso all’energia da processi produttivi redditizi che contribuiscano
alla creazione di posti di lavoro e alla riduzione della povertà;
Cyber warfare nel conflitto russo-ucraino: strategie cyber, lessons learned e implicazioni per il futuro
Il conflitto russo-ucraino è stato definito in parte come la prima guerra del futuro, a causa della centralità della dimensione digitale e del nuovo cyber warfare. Come si è applicato al contesto bellico questa nuovo dominio e quali sono le maggiori implicazioni per il futuro dell’internet e dei conflitti armati?
Il
24 febbraio 2022 la Russia ha ufficialmente dato il via all’invasione su larga
scala del territorio sovrano ucraino, con lo scopo di liberare (secondo la
narrativa di Mosca) le regioni del Donbass, la cui popolazione si sentirebbe di
appartenere più alla Russia che all’Ucraina, in una sorta di lotta, si direbbe
in altri casi, per l’autodeterminazione dei popoli. La guerra è stata
dunque cominciata con pretesti visti e rivisti nel corso della storia, con
mezzi e strategie militari tipiche del più classico warfare e, almeno
nella mente dei russi, con delle tempistiche di completamento decisamente
brevi; se l’ultimo punto si è rivelato drasticamente errato, ai primi due si è
aggiunto un elemento che permette di classificare il conflitto russo ucraino
come il primo esempio di guerra del futuro.
La
dimensione cyber dello scontro armato, infatti, rappresenta un fattore di
significativa novità e soprattutto di enorme centralità nelle dinamiche della
guerra: oltre a essere il primo caso dove gli attacchi cibernetici sono molto
sofisticati e diretti alle infrastrutture sensibili di entrambe le parti in causa,
il moderno cyber warfare aggiunge un nuovo dominio a quelli classici
della terra, dell’aria e del mare, spostando in maniera decisiva l’asse delle
forze in gioco. Le battaglie non si combatteranno più unicamente sul terreno,
anzi, gli attacchi decisivi per determinare l’esito di un conflitto armato
potrebbero avvenire senza sparare più un singolo proiettile.
Questo
è quanto avvenuto, chiaramente solo in parte, nel caso russo ucraino. Proprio il
giorno prima dell’inizio delle ostilità da parte di Mosca, infatti, il Cremlino
ha attaccato la rete digitale infrastrutturale ucraina con un malware che è
stato indicato da Microsoft, in uno studio redatto dalla
stessa compagnia pochi giorni dopo l’inizio del conflitto, con il nome di
FOXBLADE; senza entrare nelle specifiche del malware (anche perché Microsoft
non le ha rilasciate per ragioni di sicurezza), FOXBLADE rappresenta una
cyberweapon in grado di far partire attacchi DDoS dal proprio computer
senza che l’utilizzatore ne sia a conoscenza. La sigla DDos sta per Distributed
Denial of Service, si tratta di un’arma di sicurezza informatica che mira a
interrompere le attività aziendali o a estorcere denaro alle organizzazioni
prese di mira e che agisce utilizzando enormi volumi di traffico digitale
sovraccaricando così i server o le connessioni di rete, rendendoli
inutilizzabili. La dimensione dei cyber attacchi ha dunque giocato un ruolo
primario fin dall’inizio del conflitto armato ed ha continuato a ricoprire una
funzione centrale anche nelle fasi successive. Come riportato da Stas Prybytko,
il responsabile dello sviluppo della banda larga mobile nel Ministero della
trasformazione digitale ucraino, il modus operandi dei russi una volta
conquistati ed occupati nuovi territori prevedeva una priorità su tutte:
tagliare e sconnettere le reti digitali della regione occupata, così che le
persone residenti in quell’area non potessero sapere cosa succedeva nelle zone
circostanti e non potessero descrivere la reale situazione nei territori
occupati.
Dall’altra
parte, l’Ucraina del Presidente Zelensky ha cercato di rispondere alle minacce
e agli attacchi digitali russi cercando, in primo luogo, di estromettere la
Russia
dall’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), entità che
rappresenta sostanzialmente la governance internazionale di internet. Questa
richiesta è arrivata praticamente all’inizio della guerra, il 28 febbraio, a
testimonianza di come anche gli ucraini avessero bene in mente il ruolo
fondamentale del dominio digitale fin dalle primissime fasi dello scontro. La
richiesta ucraina è stata tuttavia respinta al mittente dal Presidente
dell’ICANN Goran Murphy, con la motivazione che tale organizzazione non detiene
l’autorità di esprimere sanzioni in materia e che il compito di ICANN è
semplicemente sorvegliare che il funzionamento dell’internet rimanga esterno
alle dinamiche politiche; accogliere l’istanza ucraina, secondo la visione di
Murphy, avrebbe dunque significato andare contro i principi base dell’ICANN
stessa.
Fra
le due parti in conflitto Mosca è sicuramente quella che dispone delle maggiori
capacità di sferrare cyber attacchi significativi. Questo è dovuto sicuramente
alla grande rete di hacker russi ma anche alla tendenza del Cremlino di
manipolare le informazioni, sia a livello domestico sia quelle dirette al mondo
esterno, che ha fornito ai russi una notevole expertise in questo campo.
Il già citato studio svolto da Microsoft, dal nome “Defending Ukraine: Early
Lesson from the Cyber War”, evidenzia come la Russia abbia utilizzato una
sofisticata strategia cyber che si compone di tre sforzi principali, distinti
ma utilizzati anche simultaneamente. Si tratta nello specifico di attacchi
informatici di tipo distruttivo rivolti all’interno dell’Ucraina, di operazioni
di penetrazione e spionaggio all’esterno dell’Ucraina e infine di azioni di cyber-influenza
che prendono di mira le persone di tutto il globo. Alcuni esempi lampanti di
tale strategia sono state sicuramente le campagne di disinformazione e di
manipolazione della narrativa sul conflitto operata da Mosca fin dall’inizio
della guerra; ma anche attacchi concreti alle infrastrutture vitali ucraine,
come quello del 28 febbraio, definito da alcuni analisti come il più
severo dall’inizio della guerra. Questo cyber attacco ha colpito Ukrtelecom, la
compagnia di telecomunicazioni nazionale ucraina, ed ha portato a delle
significative interruzioni di internet nel paese per circa 15 ore che hanno
colpito principalmente gli utenti privati e le aziende.
Kiev,
dal canto suo, ha potuto contare praticamente dall’inizio degli scontri su uno
strumento che si è rivelato essenziale finora per la resistenza dell’esercito
ucraino, ovvero il sistema Starlink, offerto gratuitamente dal magnate Elon
Musk su richiesta del Primo Ministro ucraino Mykhaylo Fedorov. Il ruolo giocato
da Starlink testimonia una volta di più la centralità dei sistemi
tecnologici-cibernetici applicati ai moderni contesti bellici: senza il
supporto di Starlink, infatti, l’Ucraina molto probabilmente sarebbe già caduta
sotto i colpi dei carri armati russi. Starlink è un complesso sistema che fornisce
Internet alle regioni con scarse infrastrutture di telecomunicazioni, come in
mare aperto, in aree remote lontane dalle città o in regioni in cui l’accesso a
Internet è limitato dai governi e che funziona grazie a una vera e propria
costellazione di satelliti (circa 3000) che SpaceX, la società aerospaziale
privata di Elon Musk, ha rilasciato nella parte bassa dell’orbita terrestre.
L’utilizzo di Starlink in Ucraina, dunque, ha avuto importanti applicazioni sia
in ambito civile, in quanto ha permesso che le reti di comunicazioni venissero
ripristinate in tempi record, ma soprattutto in ambito militare: grazie
all’enorme numero di terminali Starlink dispiegati sul territorio ucraino, ad
esempio, l’esercito ha potuto utilizzare droni da ricognizione collegati ai
terminali Starlink per inviare informazioni di puntamento all’artiglieria, è riuscito
ad individuare l’esatta posizione di mezzi pesanti russi ed è stato in grado di
mantenere le comunicazioni aperte anche con propri soldati che si trovavano in
prima linea durante uno scontro con i russi.
Analizzate le principali
caratteristiche e strategie cyber utilizzate nei primi 8 mesi di guerra, è
possibile trarre qualche indicazioni per il futuro dei conflitti armati e del
ruolo della dimensione digitale applicato alle guerre. In primis si può
affermare come la strada intrapresa con l’inizio del conflitto russo-ucraino è
destinata a diventare la tendenza preponderante per le guerre che verranno: il
classico warfare rimarrà sicuramente al centro delle strategie e delle
considerazioni militari, ma sarà accompagnato sempre di più dalle cyber
weapon e dagli attacchi cibernetici, che potrebbero diventare l’arma
decisiva nelle sorti di un conflitto armato. Sarà necessario inoltre rafforzare
i sistemi di intelligence, con l’obiettivo di creare dei team di professionisti
che sappiano valutare le reali capacità cyber di un determinato attore: nel
caso russo, ad esempio, la maggior parte degli analisti politici aveva
sovrastimato le capacità militari russe ed è possibile che lo stesso sia successo
con le capacità cibernetiche attribuite a Mosca, che non è riuscita nel lungo
periodo a causare danni significativi alle reti ucraine. Infine, stiamo
assistendo a un significativo cambiamento strutturale di quelle che sono le front
lines di uno scontro armato: non più solamente soldati con fucili impegnati
al fronte, ma orde di hacker e informatici devono rappresentare ormai una
priorità per i governi quando si discute di sicurezza nazionale. Investire in
questa nuova tipologia di “addestramento” digitale può prefigurarsi dunque come
la strategia madre per arrivare preparati alle guerre del futuro, che sono
molto più prossime e vicine di quanto si creda.
Ucraina: la mobilitazione dei russi. Come leggere il discorso di Putin? (TeleTicino)
Il commento del Direttore Claudio Bertolotti a TeleTicino (edizione del 21.09.2022, ore 18.25)
La presa di posizione di Putin è coerente con quella di un leader sotto pressione che cerca di mantenere un equilibrio tra le istanze dei falchi intransigenti, il voler compiacere i militari, dare l’impressione di non perdere la guerra e la necessità di rafforzare il consenso interno che tende sempre più a essere precario e ad indebolirsi con il progredire della guerra in Ucraina. Il presidente russo ha parlato della necessità di difendere i confini della Madrepatria presentando la guerra di aggressione in una guerra per la difesa della Russia, di fatto attribuendone la responsabilità agli ucraini e ai loro alleati occidentali, in primo luogo agli Stati Uniti e alla Nato. Di fatto Putin ha adottato un cambio di tono più che di retorica ribadendo il concetto di “difesa del popolo e della sovranità territoriale”, che è il tema ricorrente nella narrativa russa, e lo ha fatto nel tentativo di rafforzare una posizione politica che si è notevolmente indebolita.
Con i referendum di
Putin cresce la minaccia di una guerra nucleare?
Quella di Putin è una scelta strategicamente cinica, quasi
diabolica perché Le autoproclamate repubbliche
autonome del Donbass, Lugansk e Donetsk, e le province di Kherson e
Zaporizhzhia quando saranno annesse alla Russia, di fatto saranno territorio
nazionale russo e dunque, qualunque azione militare contro di essi sarebbe
considerata un’aggressione diretta a Mosca: una circostanza che, secondo la
dottrina militare russa prevede l’impiego dell’arsenale nucleari per difendere
“l’esistenza dello Stato, la sovranità e l’integrità territoriale del Paese”.
Dunque ci troviamo di fronte a un’opzione molto pericolosa
Il discorso di
stamattina mostra un Putin in difficoltà?
Putin è in oggettiva difficoltà, la Russia sta pagando un
prezzo altissimo sia sul fronte ucraino, in termini di risorse umane e
materiali, sia sul fronte interno dove si sta facendo ogni sforzo per contenere
gli effetti deleteri di un’economia di guerra e di una finanza che sono di
fatto fortemente limitate e che stanno avendo un impatto rilevante sulla
quotidianità dei russi. Ora, a fronte di questa scelta di forza dobbiamo però
prendere atto del fatto che – dal punto di vista della leadership russa – forse
non c’erano molte altre alternative. Un passo indietro significherebbe
ammettere la sconfitta e questo determinerebbe la fine politica di Putin. Da qui
la necessità di aumentare la pressione, seguendo i consigli dei falchi del Cremlino,
e tentare la carta della mobilitazione generale per la difesa dei confini che,
tra qualche giorno, si estenderanno ai territori ucraini attualmente tenuti
dalle forze russe.
C’è la famosa
immagine del topo nell’angolo, non è rischioso avere Putin con le spalle al
muro?
Un Putin con le spalle al muro è certamente lo scenario
peggiore che potrebbe prospettarsi le cui conseguenze andrebbero ben oltre i
confini ucraini. Putin in questo momento è in una posizione estremamente
precaria e qualunque azione di forza che possa consentirgli di uscire dal
pantano ucraino verrà perseguita. L’annessione via referendum e la minaccia
nucleare sono un’opzione che Putin ha perseguito a causa della mancanza di
tutte le opzioni a lui favorevoli: l’assenza di una vittoria lampo su Kiev, il
mancato collasso delle forze armate ucraine, la divisione dell’occidente a
supporto dell’ucraina. Putin non ha ottenuto nulla di tutto ciò, e dunque si
prepara ad attuare l’unica opzione perseguibile, in alternativa alla sua non del
tutto impossibile uscita di scena.
Settimana scorsa c’è
stato il vertice di Samarcanda. E anche qui la Russia non sembra aver trovato
appoggi incondizionati da parte di Cina e India.
L’india e la Cina sono state elegantemente perentorie nella
presa di posizione nei confronti della guerra di Putin in Ucraina: Pechino ha
negato la possibilità di aiuti militari alla Russia in Ucraina, tanto che si è
parlato di richieste di Mosca alla Corea del Nord (per razzi e proiettili) e
all’Iran (per i droni); e Nuova Dehli, storicamente molto vicina alla Russia,
non ha lasciato adito a dubbi nell’affermare che questo non è il momento della
guerra e la pace deve essere l’obiettivo primario. Dunque Putin, che guardava a
Samarcanda come a un’occasione per cercare di rafforzare la propria posizione
ha invece incassato un risultato molto più negativo di quanto non si
aspettasse. È forse l’inizio di un isolamento che sino a poche settimane fa
vedeva solo l’Occidente chiudere lo scambio commerciale e la collaborazione con
Mosca ma che ora comincia a interessare anche quegli storici alleati e amici
che dalla guerra sono toccati in termini economici, commerciali e finanziari.
Guerra russo-ucraina: da Kiev al Donbas. Parte prima: la battaglia di Kiev e le ragioni del suo fallimento
A quasi quattro mesi dall’inizio del conflitto, con gli
sviluppi delle operazioni per il controllo delle località di Severodonetsk e Lysychansk la battaglia del Donbas, che si è confermata
la regione dove si concentrano gli sforzi principali di entrambi i contendenti,
ha raggiunto il suo apice. Quest’ultimo ciclo operativo si è concluso, alla
fine, nella giornata del 24 giugno con l’annuncio delle autorità ucraine del
definitivo ritiro delle proprie forze dal pericolo saliente che si era venuto a
creare, e che vedeva alla sua estremità orientale proprio la città industriale
di Severodonetsk, uno dei maggiori centri urbani della regione. Nei giorni
successivi, mantenendo il loro “momentum” offensivo, le forze russe hanno
continuato i loro attacchi in direzione ovest, riuscendo il 3 luglio a
conquistare anche la cittadina di Lysychansk,
completando così di fatto l’occupazione del territorio della repubblica
separatista di Lugansk. In questo momento, le forze russe attaccanti nel Donbas
sembrano aver intrapreso una pausa operativa, in previsione di ulteriori
operazioni volte all’acquisizione della parte restante della repubblica
separatista di Donetsk, e in particolare a superare l’allineamento Sloviansk-Kramatorsk-Toretsk,
a ovest del quale il terreno potrebbe risultare maggiormente favorevole per una
prosecuzione dell’offensiva in direzione del Dnepr.
Le quattro fasi della guerra
Oggi, al punto in cui è giunta la guerra, è possibile
ripartirne il corso seguito finora in quattro fasi principali. La prima è stata caratterizzata dalle
iniziali operazioni offensive russe, altamente dinamiche, con profonde
avanzate nelle regioni nord-orientali e meridionali del paese, e ha interessato
il periodo compreso tra il 24 febbraio e la prima decade del mese di marzo. La seconda, a partire dalla seconda decade
di marzo e fino alla fine dello stesso mese, ha visto il raggiungimento del
cosiddetto “punto culmine” (parametro concettuale che definisce il momento
nel quale, specie in attacco, uno dei due contendenti non dispone più del
potenziale necessario per il conseguimento dei suoi obiettivi, a causa del
tendere di quest’ultimo a equivalersi con quello dell’avversario) degli sforzi offensivi
delle forze di Mosca, a fronte di un’efficace e abile difesa delle unità
ucraine, specie nei settori nord-orientali, e si è conclusa con l’ordinato
ripiegamento di tutte le Grandi Unità russe impiegate negli attacchi alle
regioni settentrionali di Kiev, Chernihiv e Sumy. La terza, iniziata i primi giorni di aprile, e protrattasi per tutto
quello stesso mese, ha visto il complesso e articolato rischieramento di buona
parte delle forze russe utilizzate nelle operazioni nell’Ucraina nord-orientale
nei settori a est e sud-est, gravitando definitivamente, con il rinforzo di
queste, per iniziare un nuovo ciclo operativo volto al completamento
dell’occupazione dell’intera regione del Donbas. Contestualmente, nel quadrante
orientale di Kharkiv, e in quello meridionale di Kherson, le forze russe hanno
assunto una postura difensiva, configurando conseguentemente il proprio
dispositivo, e fronteggiando, nel contempo, contrattacchi ucraini di una certa importanza
e consistenza. La quarta fase, iniziata tra
la seconda metà di aprile e i primi giorni di maggio, e che si può considerare
tutt’ora in corso, ha visto l’inizio dell’offensiva russa nel Donbas, il termine dell’assedio di Mariupol con la
definitiva conquista di questa città da parte dei russi, e ha poi avuto il suo apice con la caduta
di Severodonetsk e Lysychansk, e parrebbe ora volgere al termine con
l’inizio di una pausa operativa del grosso delle forze russe attaccanti che vi
hanno partecipato.
La battaglia di Kiev: le forze russe non
erano sufficienti per realizzare un’offensiva
Il ripiegamento russo dalle aree nord-orientali ucraine
attaccate inizialmente – e in particolare da quella di Kiev, dove l’ampia
manovra di accerchiamento tentata sin dalle prime ore del conflitto non è mai
giunta al suo effettivo compimento – è iniziato tra la fine di marzo e l’inizio
di aprile, e ha rappresentato un vero spartiacque nello sviluppo del conflitto.
Sulle reali motivazioni di quello che appare innegabilmente come un insuccesso
delle operazioni russe nell’Ucraina nord-orientale, è ora possibile iniziare a
formulare delle prime valutazioni, per quanto ancora parziali a causa della
perdurante mancanza di informazioni e di dati consolidati e verificati.
Innanzitutto, da un punto di vista generale, alcune fonti accreditate stanno
iniziando a riportare notizie, corredate da alcuni dettagli, su quella che è
riconosciuta in modo unanime come “l’assumption” posta alla base della
decisione da parte di Mosca di procedere con una serie di offensive anche nei
quadranti settentrionali e della regione di Kiev, a fronte di obiettivi
politico-strategici chiari e dichiarati posti in realtà nelle aree meridionali,
corrispondenti alle regioni della Crimea e del Donbas, e soprattutto nonostante
un rapporto di forze del tutto sfavorevole per una campagna offensiva di questa
portata. Secondo questa ipotesi, la Russia avrebbe agito con queste modalità in
virtù di informazioni e attività riguardanti una presunta “quinta colonna” presente
in seno alle forze armate ucraine, con un certo numero di elementi che sarebbero
stati pronti a passare dalla parte di quelle di Mosca, o quantomeno a non
opporre resistenza all’invasione. In questo quadro potrebbe inserirsi anche l’invito
rivolto espressamente ai militari ucraini, a poche ore dall’inizio delle
ostilità, dallo stesso presidente Putin, affinché deponessero le armi o
contribuissero addirittura a rovesciare il governo del primo ministro Zelensky.
Come noto ciò non è avvenuto, e anzi le
truppe russe hanno da subito incontrato una forte resistenza, complice, sempre
secondo la citata ricostruzione, una rapidissima epurazione degli elementi
sospettati di collusione con il Cremlino, eseguita anche grazie al supporto dei
servizi di Intelligence occidentali.
In ogni caso, dal punto di vista squisitamente militare,
è ancora il caso di sottolineare come dal punto di vista quantitativo le forze
schierate dalla federazione russa non erano sufficienti per realizzare un
rapporto di forze favorevole per un’offensiva di queste proporzioni. È ormai
chiaro a tutti che, già da 24 febbraio, l’Ucraina era lungi dall’essere quella
nazione inerme e pronta a soccombere descritta da alcuni media generalisti.
Nonostante ciò, nella prima settimana di operazioni le forze russe sono
riuscite a realizzare rapide e profonde avanzate su diverse delle loro
molteplici direttrici d’attacco. Subito dopo però, l’insufficienza delle forze
impiegate, in primo luogo, e altri fattori quali l’efficace difesa opposta
dagli ucraini e l’arrivo del disgelo primaverile, con la conseguente presenza
del fango che rendeva difficoltosa, se non proibitiva, la manovra di grandi
formazioni pesanti in campo aperto, ha condotto l’offensiva russa al
raggiungimento del summenzionato punto culmine. In quei giorni, probabilmente
condizionati dalla forte emotività scaturita dalla drammaticità degli eventi in
corso, la maggior parte degli analisti occidentali si sono soffermati nel
sottolineare la presunta incompetenza di quadri e truppe delle forze armate di
Mosca, tralasciando così di valutare compiutamente elementi quali il contesto
ambientale e operativo, e soprattutto le azioni e i risultati ottenuti da
quelle ucraine, che solo ora vengono descritti con la dovuta attenzione.
La riorganizzazione della difesa ucraina: ristrutturazione,
ammodernamento, nuove dottrina e procedure tecnico-tattiche
Secondo gli osservatori più attenti, i comandi di Kiev,
all’indomani dell’amara esperienza del conflitto del 2014-15, oltre ad aver
avviato un programma di ristrutturazione e ammodernamento dello strumento
militare, ne hanno anche in parte modificato la dottrina e le procedure
tecnico-tattiche. Facendo tesoro di quei costosi insegnamenti (scaturiti dalle
dolorose sconfitte subite per opera delle stesse forze russe, soprattutto
quando queste ultime entrarono direttamente in azione a partire dal settembre
2014), a partire dai primi giorni di marzo le forze ucraine si sarebbero
concentrate particolarmente in una serie di attacchi alle iper-estese linee di
comunicazione logistiche delle unità russe, irrigidendo la propria resistenza
in corrispondenza dei principali centri urbani, realizzando così delle
“istrici” difensive che reiteravano la difesa anche dopo essere state isolate
dalle unità avanzanti. Questo è ciò che è accaduto in primo luogo nei settori
dell’Ucraina nord-orientale, dove risulterebbe che per l’attacco ai convogli di
rifornimenti avversari gli ucraini abbiano impiegato in ruolo tattico anche
elementi delle proprie preparate e capaci forze speciali (che sono state
lungamente addestrate secondo gli standard e con il pieno supporto occidentale)
coadiuvate da numerosi distaccamenti dei reparti della difesa territoriale,
conoscitori del terreno e dei luoghi in cui agivano. Operando disperse, queste
unità sono riuscite ad annullare virtualmente la minaccia della potente
artiglieria russa, che peraltro nel dinamico contesto di profonde operazioni
offensive non era nella condizione migliore per poter ammassarsi e ottenere
così la massima efficacia. Con il passare delle settimane di marzo, a nord, la
protratta resistenza delle “istrici” di Chernihiv, Sumy, Konotop, e soprattutto
della grande piazza di Kiev, dove l’accerchiamento della città non si
completerà mai, ha trascinato le operazioni delle unità russe a un sanguinoso
stallo.
Le cinque ragioni del fallimento nella
battaglia per Kiev
In sintesi, il fallimento delle offensive delle forze di
Mosca in Ucraina nord-orientale, e lo speculare successo di quelle ucraine, in
modo particolare nella battaglia di Kiev, può essere attribuito essenzialmente
a cinque fattori:
In primo luogo, il mancato verificarsi dell’ipotesi
operativa di base iniziale (“assumption”) sulla base della quale gli
attaccanti avevano basato la loro pianificazione, andando ad agire in presenza
di un rapporto di forze non favorevole per un’offensiva da condurre contro un
avversario ben organizzato, equipaggiato, addestrato e determinato a resistere,
come hanno dimostrato di essere le forze armate ucraine;
Le condizioni ambientali e di terreno
hanno visto l’avvio (deciso presumibilmente in quella data dall’imprescindibile
volontà del livello politico-strategico) della campagna russa all’approssimarsi
della stagione del disgelo (la celebre “rasputitsa”), elemento che ha creato
tutta una serie di problemi alla manovra in campo aperto delle grandi unità
pesanti (meccanizzate/”motorizzate” e corazzate). E quest’ultimo fattore, anche
tenendo conto del fatto che il movimento su strada è ancora espressamente
previsto dalla dottrina tattica russa per le operazioni offensive, ha molto
probabilmente giocato un suo ruolo nello smorzare l’impeto e il ritmo delle
forze di Mosca. Inoltre, il terreno lungo l’asse a occidente di Kiev, sulla
sponda destra del Dnepr, su una delle due direttrici seguite per ottenere
l’accerchiamento della capitale ucraina, è punteggiato da fitte aree boscose e
acquitrinose, corsi d’acqua (si tratta in buona sostanza della propaggine
meridionale della vasta regione delle paludi del Prjpiat, che si estende verso
nord in territorio bielorusso) e vede la presenza di importanti centri abitati,
tutti elementi che hanno ostacolato le azioni delle unità attaccanti e favorito
quelle dei difensori; questi ultimi, alla fine, sono riusciti a irrigidire la
propria difesa lungo il fiume Irpin, un affluente del Dnepr che scorre lungo
una diagonale a sud-ovest di Kiev, e appoggiandosi su questo ostacolo hanno
inflitto una battuta d’arresto definitiva al braccio occidentale della
“tenaglia” che minacciava di chiudersi sulla capitale ucraina;
Il sapiente utilizzo da parte ucraina di
efficaci tattiche per l’attacco alle linee di comunicazione
dell’avversario, che ne hanno resa difficoltosa, se non proibitiva,
l’alimentazione tattica e logistica delle forze, unitamente all’elevato spirito
combattivo e all’eccellente addestramento di buona parte delle proprie truppe;
Il significativo
contributo apportato al potenziale di combattimento delle unità ucraine dalle forniture di armi occidentali, in modo
particolare per ciò che riguarda i moderni sistemi controcarro, con le
quali hanno avuto modo di imporre un non trascurabile tasso di attrito ai
veicoli da combattimento russi;
Da ultimo, ma non
certo per ordine di importanza, il
sostanziale “dominio informativo” appannaggio degli ucraini, conseguito
grazie al fondamentale supporto in termini di assetti ISR (Intelligence, Surveillance, Reconnaissance) e di Target Acquisition (TA) messi a
disposizione dalla NATO (e in primis
da Stati Uniti e Regno Unito).
Ripiegamento da Kiev e rischieramento sul
fronte meridionale
Nelle prime settimane di guerra, mentre gli attacchi
delle forze russe giungevano a un irreparabile situazione di stallo nei
quadranti settentrionali e a Kiev, nelle regioni del sud, le offensive russe erano
condotte dalle unità del distretto militare meridionale (in primo luogo
appartenenti alla 58a e 49a armata combinata e del
comando delle forze aviotrasportate), descritte da più fonti come le più pronte
e addestrate, e avevano conseguito i maggiori successi, in particolare la
conquista dell’importantissima città di Kherson e, in corrispondenza di questa,
la realizzazione di una testa di ponte oltre il Dnepr, unitamente all’accerchiamento
della città costiera e industriale di Mariupol. Tuttavia, anche in questi
settori meridionali, nel corso del mese di marzo il tentativo successivo di
puntare su Odessa, tentato dalle forze che avevano realizzato la testa di ponte
di Kherson, dovette arrestarsi di fronte alle munite difese di Mykolaiv, anche
in questo caso soprattutto grazie alla tenacia dimostrata dai difensori e alla
scarsità delle forze attaccanti.
Completato in relativamente poco tempo il ripiegamento
delle forze impegnate nei settori nord-orientali – e dimostrando nel far questo
comunque una notevole perizia nel condurre una manovra in ritirata, da sempre
la più complessa e pericolosa da eseguire tra tutte le attività tattiche – le
forze russe hanno iniziato a il rischieramento di buona parte di quelle stesse
unità nelle aree a sud e sud-est di Kharkiv, iniziando a gravitare con esse in quella direzione al
fine di impostare un nuovo ciclo operativo, finalizzato all’esecuzione di nuove
offensive aventi lo scopo di completare la conquista delle regioni del Donbas.
In tale contesto, è importante sottolineare come a un innegabile successo
ottenuto dagli ucraini nello stroncare il tentativo delle forze russe
nell’assumere il controllo delle province settentrionali e orientali – e anche impedendogli
di completare l’isolamento di Kiev – non è corrisposto un efficace inseguimento
del nemico in ritirata, perdendo così probabilmente l’occasione per infliggere
perdite che avrebbero potuto essere pesantissime a un avversario che si trovava
con linee di comunicazione fatalmente allungate e molto vulnerabili. Una
verosimile spiegazione di ciò può essere ricercata nella mancanza da parte
ucraina di forze adeguate, e di un potenziale di combattimento idoneo al
raggiungimento di un risultato che avrebbe potuto essere molto probabilmente
decisivo, stante anche il logoramento e le perdite subite, di certo, dalla
maggior parte di quelle stesse unità che avevano condotto una difficile difesa
nel corso di dure e prolungate azioni di combattimento. Sono innumerevoli gli
esempi, nell’ampio panorama della storia militare, nei quali un mancato
inseguimento del nemico in ritirata non ha tardato di produrre negative
conseguenze sugli sviluppi successivi delle operazioni. Uno dei più celebri,
riguarda ciò che accadde all’indomani della battaglia di Ligny, del 16 giugno
1815, quando la sostanziale inazione di Napoleone nello sfruttare il successo
ottenuto sull’armata prussiana del maresciallo Blucher non mancò di avere un
effetto quasi certamente decisivo su ciò che accadde due giorni dopo, nella famosa
e fatale giornata di Waterloo. Su ciò che accadrà, invece, a seguito di questa
importante fase della guerra, sarà solo il successivo andamento, dal punto di
vista strategico e operativo, del conflitto a svelarlo completamente.
(Segue: “Guerra russo-ucraina: da Kiev al Donbas. Seconda parte: la battaglia del
Donbas”)
Andrea Molle spiega in cosa consiste il disegno di legge denominato Bipartisan Safer Communities Act proposto all’indomani delle stragi di Buffalo e Uvalde. Corrispondenza del 23 giugno 2022
(Cover Photo by Chip Vincent on Unsplash)
La crisi Ucraina e le nuove prospettive della geospatial intelligence (Formiche)
di Piero Boccardo, DIST/Ithaca, Politecnico di Torino
Articolo originale pubblicato su Formiche n. 180, maggio 2022
Il recente e perdurante conflitto
Ucraino ha mostrato in tutta la sua crudezza una serie di conseguenze su di cui
è opportuno porre la massima attenzione e proporre, nel contempo, qualche
spunto di riflessione. Nell’analisi preliminare e nel monitoraggio giornaliero
del teatro bellico, un ruolo fondamentale viene giocato dalla cosiddetta GEOspatial
INTelligence (GEOINT) intesa come la disciplina che, mediante l’utilizzo
di dati georeferenziati, rappresenta, descrive e analizza fenomeni che si
sviluppano in determinate aree geografiche. Nata in un contesto prettamente
militare, la GEOINT nel corso degli ultimi anni, si è estremamente sviluppata
anche ad altri differenti ambiti di applicazione, dall’energia ai trasporti,
dall’agricoltura alle risorse minerarie.
Occorre
analizzare i fenomeni complessi
Questa tecnica, caratterizzata
dall’impiego massiccio di dati di osservazione della terra acquisiti da
sensori posti a bordo delle più svariate piattaforme (satelliti, aerei, droni,
veicoli vari), ha permesso, di fornire dati oggettivi da cui potere ricavare
informazioni incontrovertibili in modo semplice ed efficace anche da soggetti
senza una specifica preparazione nel campo.
Le immagini satellitari ad alta
risoluzione geometrica pubblicate dalla quasi totalità dei media, hanno
mostrato in un primo momento la concentrazione di mezzi e forze militari lungo
le aree di confine Ucraine e poi l’invasione, la documentazione della
distruzione (Fig. 1) e delle possibili prove di eccidi di massa a danno dei
civili. Questa manifestazione di tipo prettamente documentaristico, in cui
l’oggettività del dato (l’immagine satellitare) è facilmente comprensibile a
qualsiasi fruitore del dato stesso, non comporta alcuno sforzo di analisi se
non una generica localizzazione dell’acquisizione; pochi toponimi,
l’indicazione di qualche strada e semplici strumenti di fotointerpretazione, si
mostrano molto efficaci nel veicolare l’informazione.
Il problema però si manifesta nel
momento in cui si voglia cercare di analizzare fenomeni complessi, in cui i
dati necessari per una loro comprensione non siano semplici “frame” che, seppur
lecitamente, documentino le atrocità di un conflitto anche per compiacere il
voyeurismo del pubblico, ma fonti più complete e stabili nel tempo. In questo
caso gli open data che derivano da iniziative nazionali ed
internazionali possono giocare un ruolo fondamentale nella comprensione delle
reali cause e possibili effetti del conflitto.
Due
aspetti chiave: multispettralità e multitemporalità
Tra le diverse fonti, i dati
acquisiti nell’ambito del programma europeo Copernicus, è forse la più
interessante. La componente upstream, ovvero le diverse costellazioni di
satelliti Sentinel che imbarcano sensori sia attivi (radar ad apertura
sintetica) che passivi (scanner mutispettrali a diverse risoluzioni
geometriche), garantisce l’acquisizione del dato con forti rivisitazioni
temporali (da poche ore a qualche giorno); la componente downstream,
ossia i servizi basati sui dati satellitari e quelli in-situ, elabora e
distribuisce gratuitamente servizi relativi a sei diversi domini di applicazione:
atmosfera, ambiente marino, territorio, cambiamenti climatici, emergenze e
sicurezza.
Grazie quindi alle diverse
tipologie di dati disponibili (sensori in grado di acquisire in tutte le
condizioni atmosferiche), alla loro multispettralità (che consente di
caratterizzare contenuti tematici quali vegetazione, acqua, incendi, emissioni,
ecc.) e la multitemporalità (l’acquisizione ripetuta sulle stesse aree
geografiche) è possibile produrre contenuti analitici estremamente interessanti
che consentono analisi estremamente efficaci.
Nel caso del conflitto Ucraino,
quindi non solo mere documentazioni fotografiche della presenza di mezzi
militari o degli effetti della devastazione, ma anche analisi dinamiche
relative alle condizioni al contorno; dalla dinamica della vegetazione agricola
(che costituirà uno dei più grandi problemi nel corso dei prossimi 2-3 anni,
vista la leadership della produzione cerealicola, di girasoli, patate, ecc.), della
sicurezza relativa alle infrastrutture di trasporto energetico e della
produzione di minerali (con particolare attenzione all’area russofona del
Dombass), ma anche alle condizioni dei principali impianti industriali e di
produzione di energia da fonte nucleare (fig. 2), non dimenticando tutta la
parte relativa alla mobilità sia di merci che di persone (corridoi umanitari).
L’osservazione della terra è uno strumento
maturo che permette di estrarre dagli open data disponibili informazione ad
alto valore aggiunto; il nostro compito è quello di farlo maturare e divulgarlo
con la consapevolezza che guardare dal buco della serratura (semplicemente
osservare immagini) può essere utile, ma ciò che veramente risulta
indispensabile è avere la chiave per aprire la porta alla geospatial
intelligence.
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