Abstract: Questo articolo delinea un’ipotesi di riforma dell’intelligence italiana basata su recenti dibattiti teorici, nonché sulla storia del sistema informativo della Repubblica. Dopo aver illustrato le principali difficoltà a cui i servizi d’informazione occidentali si trovano a far fronte, discute alcuni costrutti teorici emersi negli ultimi anni per guidare riforme dei sistemi d’intelligence ed analizza brevemente alcuni episodi rilevanti tratti dalla storia dell’apparato informativo italiano nel periodo repubblicano. L’articolo conclude infine con alcune indicazioni su come procedere a riformare il sistema.
Alcune
settimane fa i quotidiani hanno riportato la notizia che il
sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Autorità delegata per la
sicurezza della Repubblica (AD) Alfredo Mantovano intende entro la fine dell’anno sottoporre al
Parlamento una bozza di riforma dell’apparato di intelligence.[1]
La materia è estremamente complessa non solo per via della segretezza che
circonda l’ambito delle informazioni per la sicurezza e di una generalizzata scarsa
familiarità con il tema, ma anche perché la riforma di un apparato informativo
presenta dilemmi di funzionalità ed efficacia, così come di controllo e
responsabilità democratica. Se questi ultimi si sono già profilati nelle poche
notizie riportate dai quotidiani, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda
i primi. La funzionalità e l’efficacia di un sistema di intelligence
rivestono tuttavia enorme importanza, dal momento che la decisione politica si
basa necessariamente sulla disponibilità di informazioni e che, in presenza di
un apparato disfunzionale, i decisori politici tenderanno a reperire altrove e
in autonomia le informazioni che ritengono necessarie all’esercizio del proprio
ruolo, con rischi tutt’altro che trascurabili per quanto riguarda il controllo
effettivamente esercitabile dalle autorità preposte circa la democraticità dei
processi attraverso cui tali informazioni vengono prodotte.
In un noto studio di alcuni anni fa lo storico di Harvard
Ernest May concluse che l’architettura organizzativa di un sistema di intelligence
non sembrava avere un impatto determinante sulla performance dello
stesso.[2] Negli
ultimi anni tuttavia tale conclusione, basata del resto sullo studio dei
periodi precedenti le due guerre mondiali, è stata sempre più spesso messa in
discussione, e attualmente il consenso tra gli studiosi è che l’organizzazione
sia una delle variabili chiave nel determinare l’efficacia di un sistema di intelligence
nel processo di raccolta e analisi delle informazioni, e dunque la sua capacità
di generare “conoscenza” utile a prendere decisioni politiche suscettibili di
avere un impatto sull’ambiente strategico di riferimento.[3]
Alla base di tale nuovo consensus vi sono due elementi: i rimarchevoli
cambiamenti intervenuti nel contesto strategico-operativo in cui gli apparati
informativi occidentali sono chiamati ad operare, ed un’evoluzione sempre più
rapida nelle tecnologie rilevanti per l’attività di raccolta e analisi delle
informazioni.[4] Da un lato, i servizi di
informazione operano oggi in un ambiente strategico instabile e soggetto a
mutamenti estremamente rapidi, il che produce significativi cambiamenti
nella natura del lavoro di intelligence, in particolare la necessità di identificare e monitorare
entità e minacce “nascoste”, e “processi emergenti”. Dall’altro, sono costretti a confrontarsi con un ciclo
di innovazione tecnologica estremamente rapido che a sua volta genera una sfida
di acquisizione, integrazione e innovazione particolarmente problematica per
organizzazioni di dimensioni medio-piccole.
E proprio problemi inerenti all’assetto organizzativo
sembrano essere alla base della proposta di riformare il sistema italiano
recentemente resa pubblica: come sottolineato in diverse occasioni da addetti
ai lavori infatti, l’efficacia dell’apparato informativo della Repubblica è
minata dalla persistente frammentazione tra le tre componenti del sistema.[5]
La soluzione individuata dall’AD per questo annoso problema si è orientata
dunque verso la “centralizzazione”, ovvero la creazione di un unico servizio
informazioni con competenze sia sul territorio nazionale che all’estero. Il
tema della centralizzazione non è nuovo al dibattito italiano sulla politica
dell’informazione per la sicurezza: una proposta per la creazione di un
servizio informativo unico fu infatti avanzata già nel 1993 da parte del
governo Ciampi.[6] Una riforma di questo tipo
appare tuttavia oggi di difficile realizzazione, non solo per i numerosi
ostacoli tecnici e burocratici a cui potrebbe andare incontro, ma anche alla
luce dei timori e resistenze che, sulla scorta della travagliata storia degli
apparati informativi nell’Italia repubblicana, la proposta di creare un
servizio informazioni unificato potrebbe generare in parte della classe
politica e dell’opinione pubblica.
In ogni caso la creazione di un servizio unico non
rappresenta la sola possibile soluzione al problema della frammentazione. La
recente letteratura di studi sull’intelligence, così come la storia dell’apparato
informativo italiano, offrono al contrario alcune preziose indicazioni per
sviluppare linee generali di riforma alternative mantenendo la attuale
struttura triangolare che, oltre a risolvere il problema della frammentazione, consentirebbero
di affrontare in maniera adeguata le sfide precedentemente menzionate ed assicurare
efficacia e rilevanza alla funzione d’intelligence nel contesto italiano
nei prossimi anni.
Un primo spunto potrebbe venire dal relativamente recente
concetto di “Revolution in Intelligence Affairs” (RIA) epigono del più
noto costrutto di “Revolution in Military Affairs” coniato negli anni
90. La nozione di RIA contiene tre prescrizioni fondamentali per riformare le strutture
delle organizzazioni di intelligence ed adattarle nella maniera migliore all’ambiente
informativo attuale e futuro. Anzitutto, acquisizione e integrazione su base
continuativa di intelligenza artificiale, sensori all’avanguardia e tecnologie
di automazione. In secondo luogo, promozione da parte dei vertici delle
organizzazioni di intelligence di cambiamenti organizzativi volti ad integrare
raccolta e analisi, generare un certo grado di ridondanza organizzativa tra le
varie componenti del sistema, e creare meccanismi più rapidi per la diffusione
in tempo reale ai decisori a tutti i livelli (oltre a sviluppare concetti
operativi per il teaming uomo-macchina che ottimizzino i punti di forza di ciascuno).
Da ultimo, i sostenitori della RIA ritengono che in futuro la maniera più
efficiente di operare per un sistema di intelligence sia ridurre la
sequenzialità delle operazioni a beneficio di una maggiore sincronia nelle
quattro funzioni fondamentali di pianificazione, raccolta, analisi e disseminazione.
Il concetto di RIA, per quanto utile come
costrutto-guida generale, potrebbe tuttavia in una certa misura risultare di
limitata rilevanza per un sistema di intelligence come quello italiano,
estremamente diverso per obiettivi, dimensioni, grado di tecnologizzazione, e
risorse da quello statunitense, in relazione a cui è stato sviluppato. Elementi
di riferimento più concreti potrebbero venire dal concetto di “integrazione” (Jointness)
applicato all’ambito informativo, dibattuto ed impiegato come principio guida
per vari cicli di riforme in seno all’intelligence israeliana. Esso si
fonda sull’ampio consenso esistente negli studi di teoria dell’organizzazione
circa la necessità, per un’organizzazione che
aspiri ad operare in maniera efficace in un ambiente complesso e mutevole, di
mantenere un alto livello di specializzazione delle varie componenti del
sistema nonché di assicurare meccanismi di interazione estremamente flessibili
tra le stesse al fine di integrare al massimo grado le competenze.[7]
Nel
dibattito israeliano con il concetto di “integrazione” si è inteso delineare un
nuovo tipo di assetto organizzativo per il sistema di intelligence che
si spingesse oltre la mera istituzionalizzazione di forme di collaborazione e
cooperazione, come ad esempio la condivisione di strutture e prodotti o i
tavoli di lavoro pianificati. L’“integrazione” si riferisce infatti alla
“creazione di nuove capacità sistemiche attraverso la fusione delle risorse e
delle competenze delle varie componenti dello stesso”.[8]
Tre
sono le linee di riforma ritenute essenziali per la creazione di tali capacità
sistemiche: ridondanza, riordino dei processi di lavoro, autonomia. La
ridondanza si riferisce alla generazione all’interno delle varie componenti del
sistema di surplus di competenze analoghe rispetto alle rispettive esigenze,
sia per quanto concerne metodologie di raccolta delle informazioni (in
particolare di raccolta tecnica), sia in relazione a tecniche analitiche (ad
esempio: strutturate, qualitative, quantitative) ed aree disciplinari (ad
esempio: analisi economica, social network analysis, studi
antropologico-culturali).
Il
secondo elemento, il riordino dei processi lavorativi, contempla invece che
all’interno delle varie componenti del sistema, accanto ai classici processi
lineari, paralleli e funzionalmente segmentati, si sviluppino anche in pari
misura processi “di rete” gestiti su base logica anziché funzionale che
eliminino la tradizionale separazione tra la raccolta e l’elaborazione delle
informazioni, ad esempio attraverso la creazione di gruppi di lavoro che, in relazione
a questioni emergenti, operino congiuntamente lungo l’intero “ciclo
dell’intelligence” per periodi di tempo prolungati.
Infine,
per quanto riguarda l’autonomia, ci si riferisce al trasferimento di autorità
pratica dai capi reparto ai sottoposti in un modello analogo al “mission
command” da tempo in uso proprio nelle forze armate israeliane, statunitensi,
britanniche, in cui i componenti di ogni unità godono della massima autonomia
nella gestione dei compiti affidati dai vertici che si limitano, da parte loro,
a operare come facilitatori, “abilitatori” e “sintetizzatori” dei prodotti
finali. In sintesi dunque l’“integrazione” crea le condizioni per una capacità
di continuo adattamento del sistema d’intelligence decentralizzando al
massimo il processo di produzione dell’intelligence e contemporaneamente
centralizzando il suo output, ovvero la conoscenza.
Tale nozione appare dunque decisamente più appropriata
come costrutto-guida per riformare il sistema informativo italiano poiché,
essendo incentrata sullo sviluppo e rafforzamento dei meccanismi di interazione
verticali e orizzontali tra le varie componenti organizzative del sistema, è
suscettibile di produrre quella moltiplicazione di forze che risulta essenziale
perché un sistema medio-piccolo e risorse limitate come quello italiano possa
superare i problemi di frammentazione di cui attualmente soffre e gestire
efficacemente le due sfide precedentemente menzionate. A questo punto è
necessario riflettere su “come” declinare tale costrutto-guida alla luce
dell’effettivo funzionamento del comparto intelligence.
Storicamente il sistema di intelligence della repubblica
italiana ha mostrato una più che buona predisposizione all’integrazione
orizzontale sia all’interno delle singole agenzie, sia nelle interazioni
esterne tra le stesse. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare
che già il primo apparato informativo militare della repubblica, il Servizio
Informazioni Forze Armate (SIFAR), era strutturato in due branche principali,
una offensiva e l’altra difensiva ognuna delle quali deputata alla gestione di
entrambe le funzioni principali, raccolta e analisi
delle informazioni, nei rispettivi ambiti di competenza. I successori del
SIFAR, il Servizio Informazioni Difesa (SID), il Servizio
Informazioni e Sicurezza Miliare (SISMI), così come poi il Servizio
Informazioni e Sicurezza Democratica (SISDE) pur sviluppando strutture più
articolate, hanno sempre mantenuto assetti organizzativi di tipo ibrido in cui
le funzioni di raccolta e analisi erano compartimentate in alcuni ambiti e fuse
in altri.[9]
Per quanto riguarda le interazioni tra le varie agenzie dalla
storia del sistema informativo italiano emerge chiaramente come, anche in
situazioni di accesa rivalità, le varie componenti abbiano dimostrato
eccellenti capacità sia di coordinamento che di cooperazione. Alcuni primi
esempi in tal senso possono trarsi già dal periodo 1949-1977, in cui il sistema
di intelligence, formalmente centralizzato con il servizio informazioni
militare unico organismo deputato alla raccolta, analisi e protezione delle
informazioni a tutela della sicurezza dello stato, di fatto operava come un
sistema binario, con la Divisione Affari Riservati (DAR) del Ministero
dell’Interno come servizio informativo civile. In particolar modo, tra il 1951
ed il 1954 SIFAR e DAR collaborarono efficacemente attraverso tavoli di lavoro
a scadenza regolare per coordinare le penetrazioni della rete informativa Los
Angeles, impiantata dall’intelligence militare USA nell’Italia
nordorientale e tentare di appropriarsene.[10]
Un ulteriore esempio potrebbe considerarsi la collaborazione avviata intorno alla
fine del 1963 in materia di raccolta tecnica. La DAR ottenne l’affidamento del
centro radio di Monterotondo, che fu destinato alla localizzazione e
l’intercettazione di emittenti clandestine, nonché di radiotrasmissioni
provenienti dai paesi comunisti dell’Europa orientale. SIFAR e DAR iniziarono
una stretta cooperazione, che sarebbe durata fin quasi al 1966, volta allo
sviluppo da parte del servizio civile di competenze specialistiche in materia,
non solo in relazione all’impiego di particolari attrezzature per
intercettazioni, ma anche per operazioni di bonifica.[11]
Altri, ancor più significativi esempi, possono
derivarsi dal periodo successivo alla riforma del sistema d’intelligence attuata
con la legge n. 801 del 1977.[12] La
documentazione disponibile sul caso del rapimento di Aldo Moro mostra, ancora
una volta, una notevole attitudine all’integrazione orizzontale da parte
dell’apparato informativo. Infatti, in una condizione di gravissima crisi, il Comitato
Esecutivo per le Informazioni e la Sicurezza – CESIS, il Servizio Informazioni
e Sicurezza Militare – SISMI, ed il Servizio Informazioni e Sicurezza
Democratica – SISDE, in diverse sedi (i noti “Comitati” istituiti dall’allora
Ministro dell’Interno Cossiga) cooperarono abbattendo de facto le
barriere tra raccolta ed analisi, condividendo non solo informazioni, ma in
molti casi comunicandone le fonti, e conducendo analisi congiunte di specifici
eventi, così come dell’evoluzione generale della situazione. Nonostante la
mancanza di risultati rispetto all’obiettivo primario di fornire informazioni
rilevanti per la liberazione dell’ostaggio, la collaborazione tra le componenti
del sistema informativo che ebbe luogo durante i quasi due mesi del sequestro
Moro si sarebbe rivelata di notevole importanza nel periodo immediatamente
successivo, non solo come “esperimento organizzativo” utile a definire percorsi
di cooperazione, ma anche per sviluppare il quadro informativo alla base delle
operazioni anti-terrorismo condotte sotto il comando del Generale Dalla Chiesa.[13] Ciò
emerge con chiarezza dall’analisi delle fonti archivistiche disponibili. Nella
seconda metà del 1978 il SISDE, di recente creazione, avrebbe dovuto essere la
principale agenzia deputata a produrre un flusso di informazioni a sostegno delle
operazioni anti-terrorismo. Essa tuttavia mancava ancora di una infrastruttura
sul territorio nazionale, non disponeva di un patrimonio informativo
organizzato, né di una consolidata rete di fonti. In tale circostanza il SISMI,
in quanto erede strutturale del SIFAR e del SID, non solo si adoperò per un
prolungato periodo di tempo per sopperire a tali carenze, fornendo costante
supporto informativo all’azione anti-terrorismo delle forze dell’ordine, ma
avviò attraverso la 1^ Divisione (ex ufficio “D” del SID), una strettissima
cooperazione con il SISDE. Essa si tradusse in una “coabitazione” delle due
agenzie nei Centri di Contro Spionaggio (CS) del SISMI, in particolare nelle
città di Milano, Torino e Genova, con condivisione di fonti, risorse e
metodologie di raccolta, al fine di costruire un surplus di capacità sistemiche
nel neonato SISDE.[14]
Al
contrario, la documentazione d’archivio disponibile in merito al funzionamento
del sistema d’intelligence creato dalla legge n. 801/1977 evidenzia importanti
lacune in relazione alla dimensione verticale dell’integrazione. Benché come
notato dalla Commissione Stragi nel 1993, e di nuovo nel “Primo rapporto sul
sistema di informazione e sicurezza” del 1995, il principale organo di
coordinamento e sintesi informativa, ovvero il CESIS, abbia nel corso degli
anni svolto un ruolo sempre più incisivo, per via della mancata applicazione di
numerosi regolamenti e disposizioni negli anni i poteri di quest’organo sono de
facto rimasti più circoscritti rispetto a quanto effettivamente previsto nella
disciplina di legge.[15] Ciò,
a sua volta, ha fatto sì che in ultimo l’efficacia del CESIS sia storicamente
rimasta molto legata alle capacità individuali del Segretario Generale (segretari
più efficaci nell’attività di sintesi informativa come Orazio Sparano si sono
alternati a figure meno in grado di porre in essere un effettivo coordinamento
nell’attività delle agenzie operative come Francesco Paolo Fulci).[16]
Trarre conclusioni circa la sussistenza o meno
nell’attuale assetto dei livelli di integrazione mostrati storicamente dal
sistema di intelligence italiano è estremamente difficile data la
segretezza che circonda la materia e la mancanza di documentazione relativa al
periodo successivo all’approvazione della legge n. 124/2007. È plausibile
ipotizzare che a seguito della più recente riforma del sistema informativo ed il
potenziamento dell’organo di coordinamento e sintesi informativa, con la
creazione del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) in luogo
del CESIS, le carenze in materia di integrazione verticale siano state almeno
in parte sanate. L’impressione tuttavia da dichiarazioni di ex vertici, eventi
trapelati sulla stampa, e fonti estere è che a livello di integrazione, sia
orizzontale che verticale, il sistema non abbia subito rilevanti
trasformazioni.
Come dunque procedere alla luce degli elementi di
analisi teorici e storici qui brevemente presentati? Due raccomandazioni base appaiono
di particolare importanza: espandere lo spazio di interazione delle due agenzie
operative, e consentire al DIS di
perseguire quelle che potremmo chiamare forme di “integrazione verticale a monte” sul processo di
produzione dell’intelligence.
Delle tre misure che la letteratura
teorica evidenzia come essenziali per infondere “integrazione” in un sistema d’intelligence,
autonomia, ridondanza, e riordino dei processi,
l’apparato informativo italiano necessità principalmente della prima. Come
visto in precedenza nella cultura organizzativa di entrambe le agenzie
operative esiste una forte attitudine alla fusione di raccolta e analisi, così
come, a mettere in pratica sia all’interno che all’esterno, processi di lavoro
congiunti e non lineari. Al fine di sfruttare nella maniera più produttiva
questo vantaggio comparato, la riforma del sistema dovrebbe puntare
sull’incrementare l’autonomia, spingendola quanto meno a livello di aree
(introdurre ridondanza è più semplice e può essere fatto attraverso il
reclutamento). Ciò rafforzerebbe ulteriormente l’integrazione orizzontale
creando dei potenziali spazi di lavoro congiunti tra le agenzie operative da
attivarsi in base alle necessità.
Per quanto riguarda l’integrazione verticale, in cui
invece come si è visto il sistema è relativamente debole, una soluzione
potrebbe essere rappresentata dal consentire al DIS di integrare all’interno delle proprie attività un
maggior numero di “passaggi intermedi” nel processo di produzione dell’intelligence.
In altre parole dovrebbe essere consentito al Dipartimento di esercitare un ruolo di coordinamento (operando di
fatto come “abilitatore”/”facilitatore”) sulle attività congiunte delle agenzie
operative fino al livello più basso a cui si intende spingere l’integrazione
orizzontale. Solo in tal modo sembra possibile lasciarsi definitivamente alle
spalle le lacune croniche di integrazione verticale di cui il sistema sembra
soffrire dal 1977.
Da ultimo, vale la pena ribadire che, come più volte
sottolineato, essenziale per il rafforzamento dell’integrazione e la creazione
di un surplus capacitivo è il reintegro del Reparto Informazioni per la Sicurezza
(RIS) nel sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica.[17]
Ciò alla luce del fatto che il RIS dispone di una serie di risorse per la
raccolta tecnica la cui condivisione in un sistema d’intelligence
relativamente piccolo come quello italiano potrebbe essere di
fondamentale importanza.
Niccolò Petrelli è Ricercatore presso
il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, dove insegna
Studi Strategici, e Senior Researcher per StartInsight.
[2] Ernest R. May (Ed.), Knowing One’s
Enemies: Intelligence Assessment Before the Two World Wars (Princeton:
Princeton UP, 1986).
[3] Thomas H. Hammond, ‘Intelligence
Organizations and the Organization of Intelligence’, International Journal
of Intelligence and CounterIntelligence, 23/4, (2010), 680-724
[4] Shay Hershkovitz, the Future of
National Intelligence: How Emerging Technologies Reshape Intelligence Communities
(New York: Rowman & Littlefield, 2023), 1-2.
[6]
Enzo Bianco, “Così è Cambiata l’Intelligence in Italia”, Gnosis – Rivista
Italiana di Intelligence, 13/3 (2007), 1.
[7] A titolo di
esempio: P. R. Lawrence and J. W. Lorsch, “Differentiation and Integration in
Complex Organizations,” Administrative Science Quarterly 12(1) (January
1967): 1-47; AAVV., Designing Organizations. 21st Century
Approaches (Berlin: Springer, 2008).
[8] Kobi Michael, David Siman-Tov, and
Oren Yoeli, ‘Jointness in Intelligence Organizations: Theory Put into Practice’,
INSS Cyber, Intelligence, and Security, 1/1 (January 2017), 5-30.
[9] Relazione del
Comitato Parlamentare per i Servizi di Informazione e Sicurezza e per il
Segreto di Stato, Primo Rapporto sul Sistema di Informazione e Sicurezza,
6 Aprile 1995.
[10] Niccolò Petrelli, ‘Through a Glass,
Darkly: US-Italian Intelligence Cooperation, Covert Operations and the Gladio
‘Stay-Behind’ Programme’, Diplomacy & Statecraft (in corso di
pubblicazione, Marzo 2024).
[11]
Aldo Giannuli, La Guerra Fredda delle Spie: L’Ufficio Affari Riservati
(Roma: Nuova Iniziativa Editoriale, 2005), 72-73.
[13]
Si vedano: Appunto 04/9344/E/1^ da SISMI a CESIS: “Attività
svolta in relazione al “Caso MORO””, 13 Maggio 1979, ACS Raccolte
speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/CESIS/5: Varie 1979. Corrispondenza –
appunti (1979)/10: Attività svolta in relazione al caso Moro: riscontri
informativi e relazioni; Appunto CESIS n. 2113.1.1: “Attività svolta dal SISDE
in relazione al caso MORO”, 15 Maggio 1979 ACS Raccolte speciali/Direttiva
Prodi (2008)/PCM/CESIS/5: Varie
1979. Corrispondenza – appunti (1979)/11: Attività
svolta in relazione al caso Moro: riscontri informativi e relazioni; Appunto
da Direttore 1^ Divisione SISDE a Direttore del Servizio, 20 Maggio 1980, ACS
Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/AISI/Servizio per le informazioni
e la sicurezza democratica – SISDE/Indagini, accertamenti sulla vicenda e
eventi collegati (durante il rapimento e dopo l’uccisione) [1978 – 2001]/3:
Atti diversi. Caso Moro (1978 – 2000)/104: Riunione ministero dell’interno
(1978 mar. 16).
[14]
Si vedano: Appunto 04/536/RR, da SISMI a Centri CS Tutti,
Comandante RCCS, Direttore SISDE: Ordinamento provvisorio del SISMI –
Collaborazione con Il Gen. D. CC. Carlo Alberto DALLA CHIESA, 31 agosto 1978,
ACS Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/Agenzia informazioni e
sicurezza esterna – AISE/Servizio per le informazioni e la sicurezza militare –
SISMI (primo versamento)/Collaborazione SISMI con il Gen. Carlo Alberto Dalla
Chiesa. Fascicoli nn. 118-136 [1978 – 1998]/1: Collaborazione SISMI con il Gen.
Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicolo n. 118 da n. 1 a n. 17 (1978 – 1980)/1:
Lettera (non firmata): Ordinamento provvisorio del SISMI – Collaborazione con
il Gen. Carlo Alberto dalla Chiesa (pag. 1) (1978 ago. 31); Appunto
SISMI 04/83/S: Collaborazione SISMI-SISDE – Utilizzazione dei
Centri C.S., 25 Ottobre 1978, ACS
Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/Agenzia
informazioni e sicurezza esterna – AISE/Servizio per le informazioni e la
sicurezza militare – SISMI (primo versamento)/Collaborazione SISMI con il Gen.
Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicoli nn. 118-136 [1978 – 1998]/1:
Collaborazione SISMI con il Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicolo n. 118
da n. 1 a n. 17 (1978 – 1980)/11: Lettera: Collaborazione SISMI – SISDE –
Utilizzazione dei Centri CS (1978 nov. 28)/2: Appunto: Cooperazione tra SISDE e
SISMI (1978 ott. 25); Appunto da Direttore SISDE a Segretario CESIS 20 gennaio
1979, ACS Raccolte speciali / Direttiva Renzi (2014)
/ Presidenza del Consiglio dei ministri / Dipartimento
delle informazioni per la sicurezza – DIS / Serie varie / 14: Attività Giudiziaria e di Polizia –
Strage di Piazza Fontana (Milano 12/12/1969): Giovanni Ventura (1979)
/ 3: DIS_f0014_d0002.pdf.
[15]
Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Terrorismo in Italia e sulle Cause
dalla Mancata Individuazione dei Responsabili delle Stragi, Resoconto della 13ª
SEDUTA, 30 Novembre 1993, 303-304; Relazione del Comitato Parlamentare per i
Servizi di Informazione e Sicurezza e per il Segreto di Stato, Primo
Rapporto sul Sistema di Informazione e Sicurezza, 6 Aprile 1995.
[16]
“Appunto
da Segretario CESIS a PCM, s.d.”, ACS Raccolte speciali/Direttiva Renzi (2014) PCM/DIS/Serie
varie/13: Attività Giudiziaria e di Polizia – Strage di Piazza Fontana (Milano
12/12/1969): Giovanni Ventura (1978)/4: DIS_f0013_documentazione.pdf.
Competizione NATO e Cina-Russia nel Mar del Giappone
di Andrea Molle
La reazione sino-russa
alla diplomazia NATO nell’indo-pacifico, che include anche i recenti sforzi
italiani, non si fa attendere. Dopo la conferma delle indiscrezioni di una
futura apertura di un liaison office dell’Alleanza in Giappone, ipotesi
peraltro volutamente omessa dalle dichiarazioni ufficiali dell’incontro di
Vilnius, i due paesi annunciano un’esercitazione navale comune nel Mar del
Giappone.
Il Mar del Giappone è un fondamentale
teatro strategico sia per la Cina che per la Russia. In particolare gli stretti
di Soya, di Tsushima e Tsugaru hanno importanti implicazioni per la sicurezza
nazionale di Beijin e Mosca. Sabato, il Ministro della Difesa cinese ha
dichiarato che forze navali e aeree russe prenderanno parte alle esercitazioni
militari “Northern/Interaction”, organizzate dal comando del teatro
settentrionale dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). Va precisato che le
relazioni militari tra i due paesi non sono una novità; basti ricordare, ad esempio,
che a partire dal 2018, la Cina ha partecipato regolarmente alle principali
esercitazioni annuali russe tra cui “Vostok 2018”, “Tsentr-2019” e “Kavkaz-2020”.
Nell’agosto 2021, la Russia ha anche preso parte all’esercitazione “Western/Interaction”,
condotta nella regione autonoma dello Ningxia Hui, nella Cina nord-occidentale,
la prima in cui la Cina ha invitato a partecipare forze armate straniere.
Successivamente, nel 2022, Beijin ha inviato componenti delle sue forze
terrestri, navali e aeree in Russia per partecipare alle esercitazioni “Vostok
2022” le cui attività si sono svolte in ben 13 siti addestrativi russi
e in diverse aree di interesse del Mar del Giappone.
Tuttavia, quest’ultima campagna
addestrativa comune, che si aggiunge all’attività di pattugliamento congiunto del Mar del Giappone
e del Mar Cinese Orientale da parte delle due Forze Armate iniziata lo scorso
giugno, sembra rappresentare un salto di qualità verso un vero e
proprio partenariato strategico. Il Ministero
della Difesa ha infatti sottolineato come questa esercitazione congiunta abbia
sì uno scopo
prettamente operativo, cioè di acquisire le capacità necessarie al mantenimento della
sicurezza delle rotte marittime strategiche, ma ha anche aggiunto che, tramite
lo sviluppo di più
strette relazioni militari, Cina e Russia intendono affermarsi politicamente
come i reali garanti della pace e della stabilità nella regione.
Diversi esperti militari prevedono
anche che queste attività addestrative andranno ad aumentare in futuro,
anche grazie alla probabile rotazione tra tutti e cinque i comandi del PLA che
potranno interessare diversi teatri strategici e scenari di conflitto tra i
quali naturalmente spicca l’isola di Taiwan.
Ancora non si conosce l’entità nè la configurazione del contingente navale russo, ma la componente navale cinese sembra includere i cacciatorpedinieri missilistici Qiqihar e Guiyang, le fregate missilistiche Zaozhuang e Rizhao e la nave da rifornimento Taihu, salpate dal porto di Qingdao, sito nella provincia dello Shandong nella Cina orientale.
Fotografia di Michael Afonso
Non solo mare nostrum. L’Italia parte dal Giappone per un ruolo nell’arena globale
di Andrea Molle
Da diverso tempo a questa parte, l’Italia e il Giappone stanno intensificando la cooperazione nei settori della difesa e della sicurezza nel teatro indo-pacifico. Un trend già emerso nel recente passato, ad esempio con la partecipazione del Giappone al Global Combat Air Program, l’ampliato programma per il caccia di sesta generazione Tempest di cui assieme al Regno Unito e all’Italia il Giappone è un paese chiave, ma che in queste ultime settimane sembra aver preso slancio. Si profila infatti la ripresa dopo più di 20 anni delle esercitazioni congiunte tra la Marina Militare Italiana e la Forza marittima di autodifesa giapponese, tra cui citiamo a titolo di esempio quella che ha appena visto coinvolto il nostro PPA Morosini che ha fatto scalo alla base navale di Yokosuka a fine giugno nell’ambito di un dispiegamento di cinque mesi nella regione, che comprendono sia attività squisitamente operative che di tipo logistico, forse in vista di una sempre più probabile integrazione tra le due marine sotto il profilo del rifornimento, della manutenzione e delle riparazioni navali. Inoltre, come annunciato pochi giorni fa dal Capo di Stato Maggiore della Marina giapponese Ammiraglio Sakai, i due paesi svilupperanno una cooperazione specifica relativamente al caccia multiruolo STOVL F-35B.
Se Roma si è impegnata ad acquistare nei prossimi anni fino a 60 F-35A, la configurazione di base ad atterraggio e decollo convenzionale destinata all’aereonautica militare, e 30 F- 35B, la versione a decollo e atterraggio verticale destinati in gran parte alla marina, Tokyo prevede di acquisire fino a 105 F-35A e 42 F-35B. Il Giappone prevede di operare i velivoli su due portaelicotteri di classe Izumo, entrambe attualmente in fase di conversione in portaerei leggere, mentre l’Italia intende operare il caccia dalle portaerei Cavour, che dovrebbe proprio arrivare nel Pacifico tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024, e Trieste. Garantire l’interoperatività dei due strumenti militari porterebbe un grande vantaggio in termini di dispiegamento e rotazione di unità aeronavali, aumentando così la capacità di readiness e di deterrenza nell’area.
Questo rinnovato interesse dell’Italia, tradizionalmente poco coinvolta al di fuori dell’area mediterranea, per il teatro asiatico appare coerente con la dottrina NATO che che considera la sicurezza dell’Europa come inseparabile da quella dell’Asia Orientale e piace sia agli Stati Uniti che al Regno Unito. La cooperazione, spinta in primo luogo proprio da Londra, è stata certificato ufficialmente dal recente accordo tra il primo ministro giapponese Fumio Kishida e il Presidente Giorgia Meloni che ha portato i legami bilaterali tra i due paesi al livello di partenariato strategico, che comporta anche la creazione di un meccanismo di consultazione bilaterale permanente su questioni di politica estera e di difesa. La maturazione dei rapporti tra Tokyo e Roma è stata anche evidenziata dal Ministro della Difesa Guido Crosetto, che a margine della recente trilaterale con i suoi omologhi britannici e giapponesi si è impegnato ad esplorare meccanismi di integrazione in diverse aree tra cui la cyber defense, l’intelligence, l’addestramento congiunto e naturalmente nell’ambito dell’industria della difesa.
Mentre Roma cerca dunque di crearsi un posto nell’Indo-Pacifico, forse anche a spese di altri partner europei, da affiancare al suo rinnovato impegno in Nord Africa e Medioriente, Tokyo intende così ampliare la propria rete di partners sia per controbilanciare la crescita della Cina sia per ridurre la propria dipendenza dagli Stati Uniti. Il Giappone sta infatti diversificando la propria strategia nel settore della tecnologia della difesa, fino ad ora completamente subordinata agli interessi di Washington, presentandosi allo stesso tempo alla Casa Bianca come un attore necessario per garantire la stabilità nell’Indo-Pacifico.
Tornando all’Italia, il continuo aumentare del numero dei quadri di crisi, e soprattutto la piega che stanno prendendo le relazioni tra la Cina e l’Occidente nel contesto degli equilibri internazionali, fanno pensare che investire in Asia Orientale sia davvero necessario per garantire la sicurezza futura del paese.
La gestione di crisi nel XXI secolo
di Quentin Ladetto, Patrick Trancu, Alessandro Rappazzo, Luca Tenzi
L’articolo tratta della complessità dei processi decisionali nel contesto interconnesso e interdipendente odierno, evidenziando le sfide che politici, manager ed imprenditori devono affrontare. In particolare, viene evidenziata la presenza di un gran numero di variabili, la loro velocità di cambiamento e la loro interconnessione, che rendono difficile la previsione. Viene poi sottolineato il passaggio dalle crisi tradizionali a quelle sistemiche, che coinvolgono diverse aree e la necessità per le organizzazioni di sviluppare una capacità di previsione strategica per anticipare tali crisi. Sono citati la pandemia COVID-19 e la guerra in Ucraina come esempi di crisi sistemiche, e viene evidenziata l’importanza delle emozioni umane e della sensibilità nella comprensione di contesti complessi. Il testo inoltre discute l’importanza di adeguare l’organizzazione di gestione delle crisi al XXI secolo, evidenziando il ruolo del nuovo ufficio federale per la gestione di crisi e uno Stato Maggiore di Crisi di base permanente al suo interno, con il compito di armonizzare la comprensione del processo di gestione delle crisi, diventare un centro di competenza aperto ad esperti, esercitare il coordinamento tra le diverse strutture, ospitare un’unità di anticipazione strategica e creare cellule di riflessione rapida. Ciò permetterebbe di integrare in un unico sistema Comuni, Cantoni e la Confederazione svizzera e di affrontare le sfide contemporanee con un approccio flessibile, creativo e pronto all’azione.
Keywords: decision-making, crises
La complessità Nel nuovo contesto interdipendente e interconnesso di questo millennio “essere politici, manager o imprenditori, prendere decisioni che avranno un impatto profondo sul presente e sul futuro di intere comunità è sempre meno un’attività banale o per la quale basta un guizzo di creatività alla faccia della competenza. (…) In sintesi, decidere nel nuovo millennio è diventata un’attività complessa”. “La complessità è descritta dall’aneddoto meteorologico della farfalla, che, alzandosi in volo da un fiore nelle Filippine, con il suo battito di ali scatena, tanto paradossalmente quanto realmente, un uragano in Florida. La complessità sottende uno stato di ampia varietà nella numerosità delle variabili in gioco (troppe), di variabilità della dinamica con cui cambiano i rispettivi valori (troppo veloci), e della loro più o meno stretta e a volte indecifrabile interdipendenza (troppo connessi, anche in modo labile). Assieme, queste tre condizioni rendono difficile la possibilità di previsione, anche a una macchina con potenza di calcolo significativa quale può essere un supercomputer. Ed è qui che subentra l’importanza dell’essere umano rispetto alla tecnologia. Perché l’essere umano è dotato, oltreché delle competenze, di quelle emozioni e sensibilità che gli permettono, con il supporto della tecnologia, di comprendere meglio il contesto di riferimento. La complessità richiede uno sforzo di immersione per comprenderla e per affrontarla” (Verona, 2022). Siamo di fatto immersi in contesti operativi sempre più connessi tra loro, in cui gli schemi di comportamento interagiscono non solo all’interno di ciascuna singola organizzazione, ma anche tra le diverse organizzazioni, in un ambiente sempre più interdipendente (Allison, 1999).
Tra crisi sistemiche e policrisi Le crisi non sono più quelle di una volta. A differenza di quelle del XX secolo dove il contesto era chiaro e il perimetro ben definito, pensiamo ad esempio ad eventi di natura industriale/ambientale (Seveso, Exxon Valdez, ecc.) o a quelli associati alla sicurezza alimentare o dei farmaci (Tylenol), le crisi sistemiche del 21° secolo tendono a proiettarci in scenari ipercomplessi dove “l’evento non rappresenta più il fulcro del problema. Il problema è rappresentato dalla fragilità delle strutture fondamentali del nostro sistema”. Queste crisi, transfrontaliere per natura, tendono a sfociare “nel caotico, spaziano territori sempre più ampi e complessi, sono difficilmente inquadrabili in categorie predefinite. (…) Ci spingono in un universo caratterizzato dalla perdita di orientamento e di punti di riferimento.” (Trancu P. et al. Lagadec P. 2021). L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, prima vera crisi sistemica del nuovo secolo, rappresenta il momento di frattura tra l’era della stabilità e quella dell’instabilità. Ma è la concatenazione di due crisi sistemiche, pandemia e guerra in Ucraina, che determina il passaggio all’era dell’incertezza costante e da origine al termine «policrisi». In questo scenario già estremamente complesso non possiamo ignorare ulteriori fattori sotterranei quali la guerra ibrida permanente o il potenziale emergere di nuove minacce terroristiche caratterizzate dall’uso di nuovi arsenali di armi facilmente accessibili, a basso costo e ad alto impatto.
L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, prima vera crisi sistemica del nuovo secolo, rappresenta il momento di frattura tra l’era della stabilità e quella dell’instabilità.
I limiti della gestione delle crisi L’esperienza pandemica ha messo in evidenza quello che numerosi esperti di risk management e crisis management hanno compreso da tempo: la maggior parte delle organizzazioni e delle società intese come nazioni, non sono cablate per ricercare e apprezzare scenari negativi. Il periodo di incubazione della pandemia (e della guerra in Ucraina), illustra la sfida che è dinanzi a noi: la necessità di sviluppare una propensione e una capacità di esaminare l’ambiente con un’antenna dedicata alle potenziali crisi (Boin, 2021). Si tratta di introdurre nelle organizzazioni, siano esse aziende o Stati, meccanismi di anticipazione strategica (strategic foresight). Unità nelle quali si concentrano le informazioni provenienti da diversi sistemi di sensori e in grado quindi di monitorare costantemente l’orizzonte per identificare in una logica di anticipazione possibili scenari critici. La realtà è che nella maggioranza dei Paesi abbiamo assistito ad una cecità organizzativa: incapacità di immaginare; sistemi organizzati a silos (Scharte, 2021) e incapaci di collegare i puntini; il dilemma di confrontarsi con eventi di bassa probabilità ma alto impatto; l’illusione del controllo e l’incapacità di confrontarsi con la dura realtà di scenari “what if”; la tendenza a trincerarsi in contesti familiari – i known knowns – in fase di analisi del rischio e preparazione; l’esercitarsi su scenari “soft” (Boin et al., 2021); una comunicazione difficilmente comprensibile (Trancu et al., Grandi, 2021) e mirante a fornire rassicurazioni non supportate dalla realtà della situazione. Vi sono problemi culturali, di architettura organizzativa, di coordinamento, di leadership, di comando e controllo, di trasparenza e comunicazione, che richiedono pressante attenzione. Nel caso degli Stati a questi spesso legislazioni inadeguate per fronteggiare eventi critici e queste rappresentano un ulteriore ostacolo alla gestione di tali eventi. 5 le aree di intervento urgenti: 1) superare la cecità organizzativa 2) instaurare processi decisionali solidi e multidisciplinari; 3) gestire la frammentazione; 4) articolare narrazioni credibili; 5) gestire lo stress collettivo (Boin et al., 2021). La nostra impostazione alla gestione del rischio si è basata fino ad oggi sui “known unknowns”: i rischi dei quali abbiamo consapevolezza. Li abbiamo identificati, mappati e compresi. Ma il tema che si pone oggi è quello dei rischi che sono fuori dal nostro “radar” e che non siamo in grado di identificare: gli “unknown unknowns”. Il perimetro si è quindi drammaticamente ampliato a dismisura. Vi è urgenza di trasformazione mentale e organizzativa. Bisogna essere in grado di cogliere tempestivamente i potenziali campanelli d’allarme (foresight) che possono permetterci di anticipare la riflessione e l’azione. I decisori hanno più che mai necessità di poter contare più che mai su squadre di sostegno, unità di anticipazione strategica e cellule di riflessione rapida (Lagadec, 1991), squadre operative che li aiutino a governare con la necessaria competenza il caos. Bisogna abbandonare l’idea dell’uomo solo al comando e privilegiare la leadership diffusa; rifiutare il “group think” e valorizzare individui che mostrano ingegno, creatività, capacità di affrontare l’imprevisto e l’anomalo. E’ più che mai necessario imparare a “pensare fuori dagli schemi”, e ad agire, in un contesto in cui gli schemi non esistono più (Grannatt, 2004).
Vi è urgenza di trasformazione mentale e organizzativa.
In conclusione, la cassetta degli attrezzi della gestione di crisi che abbiamo ereditato dall’era industriale è obsoleta. Così come sono obsolete le organizzazioni e gli stili di leadership in essa contenuti. E’ quindi necessario ripensare le organizzazioni e i processi di preparazione e gestione di crisi delle istituzioni e delle aziende alla luce degli elementi di complessità introdotti dalle crisi sistemiche del XXI secolo. Dobbiamo ragionare sulla collaborazione pubblico privato quale elemento fondamentale del processo, ripensare i processi comunicativi e superare la logica dei silos per giungere ad una visione olistica degli eventi critici.
Il ruolo delle idee Essere pronti a pensare l’inimmaginabile (Taleb, 2009) è una capacità che è sempre più richiesta per affrontare i possibili futuri (Li & Qiufan, 2021). Il tempo come lo conosciamo perde la sua determinatezza in quanto non è un “quando” arriva, ma piuttosto una sfida di “cosa” arriva. I futuri al plurale sono quindi diventati il vero fulcro dell’interesse per la preparazione alle crisi (Ladetto, 2022). Essere preparati alle crisi significa anche sviluppare, seminare e raccogliere nuove conoscenze, nuove idee, e questo per cercare la flessibilità intellettuale necessaria a vedere oltre l’inimmaginabile (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Grazie a Prometeo, che per ordine di Zeus diede all’uomo la capacità di pensare (Eschilo, 2018), abbiamo lo strumento necessario per prepararci. Ma le idee sono come i semi, cioè devono essere seminate, raccolte, mangiate o mescolate con altri semi, e questo all’infinito. Dalla conoscenza e dalle analogie nascono le idee, le idee combinate creano altra conoscenza, e con la conoscenza l’esperienza dell’uomo diventa sempre più grande. Per riassumere con le parole di Pascal, l’uomo inizia la sua vita nell’ignoranza, ma continua a imparare e a crescere costantemente. Beneficia della propria esperienza e delle conoscenze acquisite da quanti lo hanno preceduto. L’esperienza genera conoscenza; conoscenza, memoria e confronto generano idee; le idee vengono messe in relazione; le relazioni ci permettono di immaginare. La capacità di immaginare diventa l’elemento cardine della gestione di crisi del XXI secolo.
Per una moderna gestione di crisi La globalizzazione nel senso olistico da un lato e la pervasività tecnologica dall’altro, hanno messo sotto processo l’affidabilità del sistema ereditato dalla prima Rivoluzione Industriale, cioè un modello gerarchico con chiare responsabilità improntate principalmente sul controllo e sull’esecuzione, cioè chi comandava e chi eseguiva. Per affrontare le sfide contemporanee è necessario un moderno quadro strutturale e concettuale per la gestione delle crisi (Henrizi & Müller-Gauss, 22. November 2022), quindi avere una mentalità adatta alle circostanze (Watson et al., 2021) e possedere uno strumento adeguato, o per dirla con Urner Maren (2019) un maggiordomo mentale, per gestire la crisi. Il modello 5+2, cioè le attività di condotta dell’Esercito Svizzero (Führung und Stabsorganisation der Armee 17 : (FSO 17), 2019) offre un processo semplice, scalabile e adatto a tutte le crisi, qualunque esse siano. Il principio non è quello di esercitarsi su quello che avverrà, perché come sappiamo non sarà mai il caso, bensì, prima di tutto, di interiorizzare il processo e questo anche perché l’unica costante nella situazione di crisi è la parola stessa crisi (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Ogni crisi anche se porta lo stesso nome, non è mai uguale alla precedente.
Le organizzazioni che si chiudono in loro stesse, cioè che diventano una monocultura, hanno meno probabilità di evolversi e quindi diventano più vulnerabili nel tempo e corrono il rischio di estinguersi.
Quali sono dunque i limiti del sistema attuale di gestione di crisi della Confederazione Elvetica e come è ipotizzabile superarli? I limiti non sono certo nella capacità di pianificare ma piuttosto nel monitoraggio (inteso come capacità di individuare e anticipare), nella supervisione e nella conduzione dell’operazione. Queste rappresentano le vere sfide. La capacità di reagire rapidamente ed efficacemente ai cambiamenti è fondamentale per il successo. I decisori devono essere in grado di seguire da vicino l’operazione e di prendere rapidamente decisioni per mantenere il controllo della situazione. Il rischio di gestire una crisi secondo il concetto della gestione per misure d’urgenza, oppure anche con il nome di micromanagement (Rappazzo, 2015), è un pericolo reale da non sottovalutare. Si tratta di una situazione in cui il decisore cerca di controllare ogni aspetto della crisi, invece di affidarsi alle competenze e alla professionalità delle persone che lo circondano. Il rischio è di soffocare la creatività e l’iniziativa, oltre che di alimentare il clima di sfiducia e paura che già caratterizza la crisi. Democrazia, regionalismo, partner diversi, strutture troppo gerarchiche e processi troppo rigidi rallentano l’agilità e la capacità di gestire proattivamente una crisi. L’agenda politica e la resilienza non vanno d’accordo. Non si tratta di cattiva volontà, ma la politica ha tempi e modi propri. Il voto, ad esempio, è un elemento che non può essere ignorato: significa consenso, e senza consenso non c’è rielezione. Senza un metodo o un processo chiaro per risolvere i problemi, la crisi può creare incomprensioni compromettendo la comprensione reciproca. Le organizzazioni che si chiudono in loro stesse, cioè che diventano una monocultura, hanno meno probabilità di evolversi e quindi diventano più vulnerabili nel tempo e corrono il rischio di estinguersi. Un altro pericolo è rappresentato dal pregiudizio di conferma, che è la madre di tutti gli errori del ragionamento umano. Si manifesta come l’inclinazione a considerare le nuove informazioni in modo da confermare le teorie, le visioni del mondo e le credenze esistenti. Ciò significa che viene applicato alle novità per deviare i pensieri verso lo statusquo (Dobelli, 2013). Ciò è particolarmente vero in un mondo in cui i cambiamenti sono sempre più rapidi e le sfide sempre più complesse. Per sopravvivere e prosperare, le organizzazioni devono quindi essere in grado di evolversi e adattarsi rapidamente ai cambiamenti. Le complessità delle strutture di condotta e dei processi ben funzionanti in una situazione normale sono insufficienti durante un periodo eccezionale. In questi momenti, l’eccezione richiede un approccio più flessibile, creativo e pronto all’azione. Riducendo il personale e comprimendo i costi, cioè massimizzando ogni minuto libero, si è persa la capacità di pensare a lungo termine. Sviluppare e riflettere in modo critico richiede tempo, ma è economicamente costoso e dovrebbe essere inteso come un investimento. Inoltre, la capacità di sviluppare un pensiero critico (Urner, 2019) è la chiave per affrontare un mondo che da VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguos) è, secondo alcuni, diventato BANI (Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensible).
Sviluppare e riflettere in modo critico richiede tempo, ma è economicamente costoso e dovrebbe essere inteso come un investimento.
Immaginazione e anticipazione strategica quale elemento di innovazione Per fare fronte alle profonde trasformazioni in atto dobbiamo innovare. Dobbiamo spingere la riflessione un passo oltre. L’anticipazione strategica è definita come “l’esplorazione strutturata ed esplicita di molteplici futuri al fine di informare il processo decisionale” (OECD, 2019). Questa comporta tipicamente la scansione dell’orizzonte alla ricerca di segnali di cambiamento emergenti, lo sviluppo e l’esplorazione di una varietà di possibili scenari futuri e l’identificazione delle potenziali implicazioni per le strategie e le politiche sviluppate nel presente. L’anticipazione strategica può fornire una base potente per lo sviluppo di politiche pubbliche lungimiranti e contribuire a garantire l’adeguatezza al futuro delle politiche esistenti, in particolare nel contesto di “ambienti complessi e incerti ” (Greenblott J.M. et al. 2017). Questa anticipazione del futuro, l’essere attenti ai segnali deboli e agli elementi presenti che preannunciano un cambiamento prossimo è soprattutto un’attitudine intellettuale. Che si tratti di proteggersi dalle crisi o di cercare opportunità, è un’attività permanente, un processo continuo in cui interagiscono tempi brevi e lunghi. Le varie azioni intraprese mirano a mantenere vigili le nostre certezze e a metterle costantemente alla prova in virtù di ipotesi o idee ispirate da un presente in continua evoluzione. In quest’ottica, il Dipartimento federale della difesa, della protezione civile e dello sport, attraverso il suo centro tecnologico armasuisse scienza e tecnologia, ha creato nel 2013 un programma di anticipazione strategica. Il suo obiettivo è anticipare l’uso di tecnologie che potrebbero avere un impatto dirompente sul modo in cui la Svizzera difende e preserva la propria sicurezza. Il programma, noto come deftech, acronimo di defence future technologies, fa una chiara separazione fra foresight e forecast (Ladetto, 2022) e cerca, tramite progetti e sinergie nazionali ed internazionali di anticipare usi dirompenti di campi tecnologici e delle loro convergenze.
L’anticipazione strategica può fornire una base potente per lo sviluppo di politiche pubbliche lungimiranti e contribuire a garantire l’adeguatezza al futuro delle politiche esistenti
Nonostante l’incertezza del contesto, il foresight ci aiuta a vedere quali sono i possibili stati del futuro (Foresight Serie, 2021). Il pensiero futuristico ci aiuta a capire come questi stati potrebbero evolversi e, di conseguenza, come dovremmo mettere in discussione i nostri pregiudizi, punti ciechi e mentalità. Dobbiamo poi tradurre sistematicamente queste intuizioni in strategie e politiche, per prendere i provvedimenti necessari ora per essere preparati al futuro. Il domani si costruisce interamente a partire da oggi. In mezzo non c’è nulla. C’è un vuoto che si può anche chiamare divenire. Questo vuoto è in attesa di essere colmato da un numero infinito di innovazioni, sviluppi e opportunità. Questa posizione intellettuale è importante perché dà piena rilevanza alle azioni presenti. Poiché queste azioni e interazioni sono potenzialmente infinite, ciò giustifica la presa in considerazione non di uno, non di due, non di tre, ma di una moltitudine di futuri. Questi futuri non sono considerati in relazione agli orizzonti temporali, ma in relazione alle differenze e agli impatti che presentano rispetto al presente, o in relazione ai presenti, se consideriamo i nostri diversi modelli mentali. Rendere visibile questa moltitudine di possibilità e ispirare i decisori nelle loro azioni è l’obiettivo di un dispositivo di anticipazione strategica oggi più che mai fondamentale per poter gestire con maggiore efficacia le crisi sistemiche del 21° secolo. Ma è anche necessario pensare anche in termini di governance anticipatoria ovvero “l’incorporazione e l’applicazione sistematica dell’anticipazione strategica nell’intera architettura di governance, compresa l’analisi delle politiche, l’impegno e il processo decisionale” (OECD 2019). La governance anticipatoria e l’istituzionalizzazione della previsione strategica deve comprendere la creazione di istituzioni e strutture dedicate alla previsione (ad esempio unità, comitati, reti, legislazione e pratiche) e la costruzione di una cultura della previsione all’interno delle strutture istituzionali esistenti (OECD 2022). Incluse le unità preposte alla gestione di crisi.
Adeguare l’organizzazione di gestione di crisi al XXI Secolo Partendo da queste considerazioni è urgente confrontarsi su una diversa organizzazione per la gestione di crisi e avviare processi formativi finalizzati a creare un “fitness mentale” che permetta di confrontarsi con scenari inediti piuttosto che esercitare quelli ben conosciuti. Come quindi rafforzare l’attuale sistema in vigore nella Confederazione Elvetica e potenzialmente anche quelli di altri Paesi? Partendo innanzitutto dal presupposto che per fronteggiare la complessità esterna a un sistema occorre aumentarne la complessità interna (De Simone, 2020). Dobbiamo quindi ripensare l’organizzazione. Non a caso si tratta di una delle 13 raccomandazioni contenute nel rapporto post mortem Covid-19 elaborato dalla Cancelleria federale (2022). Dal rapporto emerge inoltre un altro importante tema trasversale: a livello strategico deve essere migliorata la capacità di anticipare possibili crisi e i relativi sviluppi della situazione. Per rispondere alle numerose sfide, sulla scorta delle lezioni apprese dopo la pandemia e delle raccomandazioni sopra citate, nel marzo 2023 il Consiglio federale ha deciso di “rafforzare l’organizzazione dell’Amministrazione federale per le crisi future”. Tre i pilastri della futura organizzazione: 1. la costituzione di uno stato maggiore di crisi permanente incaricato di fornire supporto nella gestione di crisi a livello sopradipartimentale. Si tratta di fatto di una struttura orizzontale che mira a superare la problematica dei silos verticali, assicurando continuità, una procedura di gestione di crisi uniforme e una conservazione delle conoscenze nel tempo; 2. la costituzione, su indicazione del Consiglio federale, di uno stato maggiore di crisi a livello politicostrategico (SMCPS) sotto la direzione del dipartimento responsabile per la crisi in questione. Compito del nuovo organismo formulare per il Consiglio federale le risposte politiche e assicurare il coordinamento della gestione di crisi a livello sopradipartimentale; 3. la possibilità di costituire in seno al dipartimento responsabile della gestione uno Stato maggiore di crisi operativo (SMCOp) che ha di fatto il compito di elaborare la documentazione di base necessario per lo SMCPS oltre a garantire il coordinamento tra le unità amministrative. La riorganizzazione prevede inoltre un coinvolgimento dei Cantoni, della comunità scientifica e di eventuali altri attori rilevanti nei lavori del SMPCS e del SMCOp. Infine, Il Consiglio federale ha dato mandato agli organismi competenti di elaborare le basi legali della nuova organizzazione. Si tratta a nostro giudizio di un importante passo in avanti nella costruzione di un diverso sistema organizzativo, più idoneo per raccogliere la sfida delle crisi sistemiche del 21° secolo. Anche se i dettagli non sono ancora disponibili, dal nostro punto di vista il nuovo Stato maggiore di crisi permanente dovrebbe assolvere alcuni compiti primari che vanno oltre quanto ad oggi comunicato: 1) armonizzare la comprensione del processo di gestione delle crisi per l’intera confederazione, per le altre istituzioni, così come per il settore privato attraverso processi formativi; 2) divenire un “centro di competenza” aperto anche ad esperti stranieri in grado di dare vita ad una cultura comune integrando anche campagne informative a tutti gli stakeholder e ai cittadini. Il processo di gestione armonizzato dovrebbe ispirarsi al modello 5+2, cioè le attività di condotta dell’Esercito svizzero che grazie alla sua semplicità e scalabilità si è dimostrato per anni uno strumento affidabile; 3) esercitare non solo il coordinamento tra le diverse strutture integrandole orizzontalmente come effettivamente previsto ma assicurarsi anche che i processi di ascolto siano attivi; 4) ospitare al suo interno un’unità di anticipazione strategica con il compito di stimolare e sfidare di continuo le ipotesi di crisi, immaginando nuovi scenari e confrontandole al presente e ai segnali deboli monitorati costantemente. In relazione con gli impatti potenziali in vari settori identificati, un orizzonte temporale di breve, medio e lungo termine per le possibili azioni da svolgere. Un esempio concreto può essere quello di Singapore e del “Centre for Strategic Future” il quale è entrato a far parte del nuovo Strategy Group dell’Ufficio del Primo Ministro dal 2015. Fu istituito per concentrarsi sulla pianificazione strategica e la definizione delle priorità dell’intero governo, sul coordinamento e lo sviluppo di iniziative e per incubare e catalizzare nuove capacità nel servizio pubblico nazionale; 5) creare, formare e preparare “cellule di riflessione rapida” incaricate di lavorare in parallelo durante un evento critico con l’obiettivo di porre le domande giuste al momento giusto; 6) individuare le cellule di contatto e coordinamento interfederali, interdipartimentali e con gli stakeholder esterni e stabilire un “modus operandi”; 7) dare vita ad un’unità interdisciplinare dedicata alI’Intelligenza Artificiale per esplorare e implementare applicazioni nel campo dell’emergenza e della crisi. La riorganizzazione promossa costituisce sicuramente un importante punto di partenza che dovrebbe tuttavia essere perseguito con un occhio già rivolto al futuro. Il tema dell’anticipazione delle crisi, seppure evocato dal Consiglio federale, deve partire da un approfondimento più puntuale circa l’anticipazione strategica così come si impone una riflessione sull’integrazione di sistemi di intelligenza artificiale, tema quest’ultimo che implica anche valutazioni di natura etica. Gli elementi che ci sembrano assenti sono un chiaro riferimento alla multidisciplinarietà, elemento oggi fondamentale nella gestione delle crisi sistemiche, e un’attenzione al ruolo centrale della formazione di quanti saranno chiamati a diverso titolo a pilotare le crisi future.
E’ necessario valutare nuovi approcci organizzativi, acquisire una migliore comprensione dei possibili futuri e soprattutto concentrarsi su come selezionare e formare donne e uomini capaci di orientarsi in universi ipercomplessi, sconosciuti e caotici.
In conclusione, abbiamo visto l’importanza dell’anticipazione, della padronanza dei processi e del ruolo delle idee. Non si tratta solo di riorganizzare ma soprattutto di istituire in seno alla nuova organizzazione una cultura che favorisca una semina costante dei campi, e allo stesso tempo l’alternanza o l’innesto di nuove semine per garantire anche la cultura dell’allenamento e del cambiamento. Ogni organizzazione porta in sé i germi dei problemi correnti. Invece di investire ore ma anche anni in preparazione di esercizi fittizi (che comunque di per sé è già positivo), si tratta semplicemente di esercitarsi su problemi reali. Successivamente dare più ampio respiro alle simulazioni, che necessitano di molta preparazione. Per fare questo però è necessario possedere una buona padronanza dei processi di base. E’ bene ricordare che gli obiettivi della gestione di crisi sono tre: porre fine alla crisi in tempi brevi, limitare i danni e ripristinare la credibilità (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Ciò significa anche non ostacolare o rallentare il normale svolgimento dei compiti dei vari dipartimenti o istituzioni coinvolti. Significa avere un elemento di risoluzione dei problemi libero dai vincoli della gestione della continuità operativa (BCM), in grado di ripristinare autonomamente, con le risorse e le competenze necessarie e disponibili, la situazione normale o desiderata nel più breve tempo possibile. Le peculiarità delle crisi sistemiche e transfrontaliere del 21° secolo caratterizzate da elevati elementi di complessità e sempre più spesso destinate a diventare policrisi impone un ripensamento di come queste vengono affrontate e gestite. E’ necessario valutare nuovi approcci organizzativi, acquisire una migliore comprensione dei possibili futuri e soprattutto concentrarsi su come selezionare e formare donne e uomini capaci di orientarsi in universi ipercomplessi, sconosciuti e caotici.
Gli Autori Quentin Ladetto Ideatore e direttore del programma di foresight di armasuisse scienza e tecnologia – https://deftech.ch. L’obiettivo del programma è di identificare le tendenze tecnologiche e casi d’uso dirompenti e di valutare le loro implicazioni in un contesto militare. Scrive di foresight su atelierdesfuturs.org Patrick Trancu Consulente di gestione di crisi che lavora da oltre 20 anni con il settore privato, pubblico e con le istituzioni focalizzandosi principalmente sul tema della preparazione. Ha curato ed è uno dei 35 co-autori del libro “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro” (2021). Scrive di gestione di crisi su www.tta-advisors.com Alessandro Rappazzo Ufficiale professionista dell’esercito svizzero. Ha conseguito un EMBA ed è dottorando presso l’Università di Gloucestershire. Attualmente è attivo presso il comando MIKA (Comando per la formazione in materia di gestione, informazione, e comunicazione), dove ha l’opportunità di lavorare con un’ampia gamma di aziende private e dipartimenti federali e cantonali. Scrive anche su Opinione67 Luca Tenzi Esperto di sicurezza, resilienza e crisi con oltre 20 anni di esperienza aziendale abbracciando molteplici settori di attività in aziende Fortune 100 e 500 e consulenza per alcune agenzie specializzate delle Nazioni Unite – guidando operazioni e definendo strategie di sicurezza in diversi ambienti geopolitici
This volume examines the combined effects of risk propensity, relative deprivation, and social learning of deviance on the collective grievance within a religious population under the assumption of civil unrest caused by extreme climatic events. We designed an agent-based model to demonstrate how greater or lesser amounts of grievance towards political authority are likely to create an ideal en-vironment for organized violence to emerge when resources are threatened by climate change.
Scholars have tried to formulate a generally accepted definition of religious terrorism for almost four decades, but its investigation is still controversial, especially in the context of the emerging study of the political and social consequences of climatic events. This particular form of terrorism is nevertheless highly diffuse and observed to be coming from smaller clubs of radicalized individuals instead of main-stream religious groups. However, we find that doctrinal explanations appear irrelevant in explaining how terrorist cells emerge and organize themselves.
Ucraina: l’evoluzione sul campo e le munizioni all’uranio impoverito
di Claudio Bertolotti
dal commento di Claudio Bertolotti a “In un’ora” – RaiNews 24 del 22 marzo 2023
Ucraina: munizioni all’Uranio impoverito? Il commento di C. Bertolotti a “In un’ora” RaiNews24, puntata dal 22 marzo 2023
La situazione sul campo: iniziativa ancora in mano russa
Le operazioni terrestri in Ucraina, e più in
generale l’intero andamento del conflitto, hanno ormai assunto il carattere di
una lotta d’attrito e logoramento, relegando la manovra militare a poche azioni
tattiche a vantaggio della Russia (Riggi). Di fatto ciò che prevale è la
capacità di mettere forze in campo e disporre di munizionamenti ed
equipaggiamenti. Anche qui la Russia è in una posizione di vantaggio in termini
di quantità. Chi tra i due contendenti riuscirà e avrà la forza di condurre
azioni offensive dovrà tenere conto della sostenibilità sul medio periodo.
Insomma sembra difficile prevedere l’azzardo di una manovra di sfondamento su
tutto il fronte, mentre appare più probabile una pressione costante attraverso
azioni tattiche ripetute e progressive. Non molto diverso da ciò che è accaduto
su quello stesso fronte durante la seconda guerra mondiale.
Le forze russe continuarono limitate operazioni offensive lungo la linea Kupyansk-Svatove-Kreminna e non hanno fatto ottenuto vantaggi nell’area di Bakhmut; continuano le operazioni offensive lungo la periferia della città di Donetsk.
La questione dei
proiettili all’uranio impoverito che arriveranno dalla Gran Bretagna
Sull’uso del munizionamento all’uranio impoverito direi che
è un tema ricorrente in ogni guerra combattuta dagli anni ’70 in poi e al
centro del dibattito pubblico dagli anni ’90, con la Guerra del Golfo di Bosnia
e del Kossovo, dove l’utilizzo è stato ampio. Tutti i paesi usano
munizionamento DU, cosiddetto uranio impoverito: Stati Uniti, Gran Bretagna,
Francia, Russia. E il suo ampio utilizzo che, per quanto dibattuto, è legittimo,
è conseguenza degli indubbi vantaggi operativi: è efficace, perfora con maggiore
efficacia le corazzature dei carrarmati e il cemento armato dei bunker e in più
costa poco (essendo prodotto di scarto degli impianti nucleari). Tra gli
svantaggi certamente quello della contaminazione del terreno, per periodi
brevi, e i rischi per i soggetti, militari e civili, che dovessero inalarne il
particolato in prossimità dell’esplosione.
Cresce la tensione
tra Stati uniti e la Russia. Due le due ragioni fondamentali
La prima è che la Russia dopo un anno di guerra ha
dimostrato di essere in grado, pur a costo di enormi sacrifici, di tenere le
posizioni del fronte in una guerra pressocchè statica, di attrito e logoramento,
che potrebbe durare ancora molto, con il sostegno della Cina e dei suoi alleati
minori e sostenuta attraverso una progressiva mobilitazione degli scaglioni di
coscritti, certo sempre meno preparati alla guerra ma in quantità sufficiente
per mantenere l’iniziativa.
La seconda è che il tempo che ha la Russia è molto più di
quello che hanno a disposizione gli Stati Uniti. Così come in tutte le guerre –
dall’Iraq all’Afghanistan – gli appuntamenti elettorali hanno imposto i tempi e
i modi della guerra. L’imminente avvio della campagna elettorale per le
presidenziali sarà determinante per le prossime scelte strategiche, anche
tenuto conto del fatto che il contribuente-elettore statunitense non è
particolarmente entusiasta dei costi crescenti di questa guerra che, ad oggi
avrebbe visto impegnati oltre 40miliardi di dollari: agli oppositori
repubblicani potrebbero così aggiungersi anche i democratici che non rispondono
al Presidente, bensì ai loro elettori.
Nuovi aiuti militari dell’Italia all’Ucraina: quali armi, costi e premesse politiche?
di Redazione
Dall’intervista di C. Bertolotti a Tagadà, La7 (puntata del 22 febbraio 2023)
Carri armati, artigliera pesante, mezzi per la difesa aerea e non solo. Da Europa e Stati Uniti la promessa di potenziare gli aiuti militari all’Ucraina. Anche l’Italia farà la sua parte; in che termini, quali i numeri, i costi e le premesse politiche?
L’Italia, in generale, quali armi sta mandando in Ucraina?
Stiamo mandando molto del poco che abbiamo. E questo a causa delle risorse limitate destinate alla difesa negli ultimi decenni, e in particolare dal 2012. In termini operativi il contributo principale è in funzione di uno strumento militare ucraino con una forte componente di “arma base”, ossia la fanteria. Dunque equipaggiamenti e armi individuali e di reparto, sistemi controcarro, veicoli da trasporto truppa, e così via. A cui si è progressivamente aggiunto il contributo della componente di “supporto al combattimento” dell’artiglieria e, in ultimo, di difesa aerea.
Mentre gli Stati Uniti hanno inviato in maniera massiccia,
razionale e coerente, i propri aiuti a Kiev, i paesi europei lo hanno fatto in
maniera meno strutturata, cominciando con aiuti prima poco rilevanti per
procedere a tappe forzate verso un contributo via via più di rilievo. Ci sono
poi varie sensibilità: i paesi del fianco est, appartenenti all’ex blocco
sovietico, hanno spinto fin da subito per l’invio di armamenti pesanti, come i
carri armati. L’Italia ha cominciato con i sistemi d’arma di reparto, dalle
mitragliatrici ai sistemi contro-carro, per poi inviare i veicoli da trasporto
truppe, prevalentemente di vecchia generazione, come gli M113. Per poi inviare
sistemi di artiglieria pesante campale e semovente di vecchia e nuova
generazione, nei limiti delle riserve disponibili.
Il contributo complessivo è rilevante, sia in termini
politici che militari. Adeguato a fermare l’avanzata russa, e dunque mantenendo
uno stato di guerra di attrito, ma non sufficienti per fornire all’Ucraina gli
strumenti per una vittoria decisiva.
Sono noti questi
elenchi? Periodicamente si polemizza sulla mancanza di trasparenza sul tema.
Funziona diversamente negli altri paesi?
Ogni paese ha la propria policy. La differenza di approccio in termini di pubblicità delle decisioni prese è culturale. La politica in Italia si rivolge con estrema cautela al cittadino-elettore, preferendo omettere alcune informazioni per ragioni di opportunità di elettorale e anche perché, da parte dell’opinione pubblica italiana, vi è uno scarso interesse nella politica estera. Negli Stati Uniti il governo si rivolge al cittadino-contribuente, al quale deve rendere conto di come spende i suoi soldi. Questo è il motivo per cui conosciamo l’elenco dettagliato delle armi fornite da Washington ma non dall’Italia, i cui governi, di qualunque colore, appongono la classifica di sicurezza agli aiuti dati. Una scelta politica, certamente non dettata dalle esigenze di carattere operativo. Anche la Francia, va detto, ha reso noti i numeri degli equipaggiamenti d’artiglieria, il contributo più significativo dato da Parigi. E così la Germania, che ha pubblicato ufficialmente la lista di equipaggiamenti forniti.
Sono cambiate le armi
che abbiamo inviato? Sono diventate gradualmente più “offensive”?
Non direi che siano “più offensive”, direi piuttosto gradualmente
più rispondenti alle necessità imposte dalle dinamiche sul campo di battaglia e
all’approccio statunitense al conflitto. Quanto più aumenta il contributo
statunitense, tanto più rilevanti sono le richieste (e le pressioni) ai Paesi
dell’Unione europea. La risposta è dunque in termini di efficacia; un’efficacia
che dipende dalla qualità, più che dalla quantità di armi fornite.
In una fase iniziale,
quando c’era ancora il M5s nella maggioranza a sostegno del governo Draghi, si
è a lungo parlato di armi “difensive” e “offensive”. Aveva senso questa
distinzione? È superata?
La distinzione tra armi offensive e difensive ha un valore
politico, non operativo. Le armi servono per combattere, sia una guerra
offensiva che difensiva. Nel caso ucraino potremmo affermare a ragion veduta che
tutte le armi sono “difensive” poiché utilizzate per contrastare l’avanzata di
un esercito invasore. Perché questo è il punto: il sostegno è dato all’Ucraina
che si difende da un’invasione territoriale avviata dalla Russia. Dunque
lascerei da parte questa distinzione, preferendo la formula del “sostegno
militare all’Ucraina”.
Quanto ci costa
mandare queste armi?
Possiamo fare alcune speculazioni, ma non abbiamo dati certi, almeno per quanto riguarda l’Italia. Potremmo valutare il contributo italiano in una cifra approssimativa di 800milioni di euro, di cui più di 400milioni di aiuti militari. Tanto o poco?
Va fatto un distinguo tra quanto dato dagli Stati Uniti e
quanto invece fornito dai Paesi dell’Unione europea presi singolarmente.
Washington ha stanziato al momento oltre 45 miliardi di dollari in aiuti
militari, compresi equipaggiamenti di pregio come i sistemi missilistici a
medio raggio, sistemi radar, sistemi di difesa contraerea, oltre a migliaia di
veicoli di differente tipologia. Poi hanno promesso l’invio di carri armati
pesanti, gli Abrams. I singoli paesi europei hanno invece dato un contributo
eterogeneo, in alcuni settori poco più che formale, ma nel complesso è un aiuto
concreto e utile. Si può valutare in circa 30 miliardi di euro l’aiuto europeo
dato a Kiev, dunque in linea con quello statunitense.
Quant’è significativo
il nostro apporto rispetto a quello degli altri paesi europei?
Va detto che, a fronte delle sempre più limitate risorse
destinate alla Difesa nel corso degli ultimi 20 anni, il contributo è stato
certamente rilevante considerata la penuria di armi ed equipaggiamenti. Il nostro
sforzo e contributo è così, sì importante, ma non decisivo. Certo, è coerente
con quello della maggior parte degli alleati, ad esclusione dei principali
sostenitori – Stati Uniti e Regno Unito – ma inferiore a quello della Germania
che, da sola avrebbe fornito aiuti complessivi (dunque umanitari, finanziari e
militari) di oltre 5 miliardi di euro, contro gli 800milioni dell’Italia.
Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: il libro di C. Bertolotti
Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale
Il nuovo libro di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight, “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” (ed. STARTInSight, 2023, 161 pp., Euro/CHF 14,00) è stato pubblicato per i tipi della Collana “InSight”, disponibile su Amazon.it o richiedendolo all’editore (info@startinsight.eu).
La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.
Il “sistema Mediterraneo” è attualmente sottoposto a un forte stress, politico, sociale, economico, commerciale ed energetico. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.
Non v’è dubbio alcuno che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, è e sarà sempre più l’elemento in grado di condizionare il livello di stabilità o instabilità dell’intera area del mediterraneo allargato. Questo intreccio di ambizioni e legittime aspettative, a cui si aggiungono i fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali, che spesso appaiono inconciliabili tra loro, è la sfida che la nostra generazione ha di fronte e deve affrontare.
Acqua ed energia sono i due elementi chiave che determineranno, e che già ora determinano, l’insorgere di instabilità, emergenze e sfide sempre più pressanti e urgenti.
Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i Paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di risorse idriche e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti energetici interregionali. Dall’altro lato, gli Stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.
Relativamente
al contesto energetico, l’area mediterranea è caratterizzata da un notevole aumento
delle importazioni di energia convenzionale: l’80% dei Paesi del Mediterraneo
occidentale sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che
richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno
energetico ed evitare la produzione eccessiva di gas serra, con uno sguardo
rivolto verso l’alternativa delle energie rinnovabili.
In
particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di
energia, esistono approcci contrastanti sulle modalità di accesso e
sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e
pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive
esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali);
dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato
sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle
tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una
base puramente temporale. Quest’ultimo, certamente minoritario e marginale
all’interno dell’ampio panorama dell’opinione pubblica, è però in grado di
ottenere un’amplificazione massmediatica delle proprie istanze, complice
l’assenza di una strategia comunicativa di contro-narrazione istituzionale
efficace.
Governi
e decisori politici saranno pertanto chiamate ad attuare politiche realistiche,
economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, anche lo
sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e
principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini
di contenimento dell’inquinamento globale il cui contributo, unitamente e in
maniera coordinata e bilanciata a quello delle fonti energetiche sostenibili,
richiede importanti investimenti e una chiara visione di lungo periodo.
Il tema del volume “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo. Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” parte dalle riflessioni e dalle valutazioni della ricerca[ sviluppata nel 2022 in seno alla “5+5 Defense Initiative” dal gruppo internazionale di ricercatori designati dai Paesi aderenti all’iniziativa. Il tema affrontato è strategico e di estrema attualità data la crescita nel consumo di acqua e di energie rinnovabili che le rende un importante argomento politico ed economico e al contempo oggetto primario nelle relazioni internazionali e negli equilibri di potere, interno ed esterno, alle nazioni.
«Acqua
pulita e accessibile per tutti» è l’obiettivo numero 6 nella lista degli
obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable
Development Goals, Sdg) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015. Di vitale
importanza per la vita umana, i Paesi del Mediterraneo occidentale, le loro
popolazioni, agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono un’importanza
vitale all’acqua.
Per
quanto riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica),
il cui potenziale è considerato inesauribile, sono però prodotte con costi
ancora elevati, e spesso non sostenibili su larga scala e con le infrastrutture
esistenti. In tale quadro, caratterizzato da una grande incertezza in cui le
opportunità politiche e le istanze di una parte della società civile svolgono
un ruolo non sempre favorevole e costruttivo, si registra un’accelerazione da
parte dei Paesi maggiormente industrializzati dell’Unione europea verso una
“transizione energetica” che, sotto molti aspetti, tende a imporsi come una
riduzione forzata e irrazionale dell’utilizzo di fonti energetiche fossili, con
danni potenzialmente gravi e irreversibili per le economie nazionali e per gli
equilibri economici, sociali e politici.
Ciò
nonostante, va però riconosciuto che un approccio responsabile che guardi ad un
affrancamento progressivo dalle fonti fossili e combustibili, dunque una
“transizione energetica” sostenibile, progressiva e che tenga conto delle
capacità tecnologiche, dell’impatto economico-sociale e delle attuali fonti
energetiche primarie, se da un lato presenta criticità evidenti, dall’altro
lato apre alla possibilità di quella auspicata e necessaria autonomia
energetica strategica, essenziale tanto ai singoli Paesi quanto e ancor di più,
al «sistema europeo». Una scelta strategica, quella che l’Unione europea ha
definito, essenziale per imporsi come modello di sviluppo di riferimento in
un’epoca storica caratterizzata dagli effetti del cambiamento climatico e dalle
crescenti difficoltà di accesso e disponibilità di combustibili fossili. Ciò
potrà trovare realizzazione solo attraverso la consapevolezza della primazia di
un fattore ineludibile e condizionante: la crescita e lo sviluppo della
popolazione sono le variabili indipendenti che determinano un aumento del
consumo di risorse energetiche e idriche e mai il contrario. Dunque la capacità
di approvvigionamento e di produzione energetica dovrà tener conto di un
aumento progressivo della domanda di energia, coerentemente con l’andamento
demografico ed economico, così come dello sviluppo tecnologico dei Paesi che
ridefiniranno le loro strategie nazionali di sicurezza energetica in questa
direzione.
Ed
è in questo preciso scenario teorico che va ad inserirsi la guerra
russo-ucraina iniziata nel febbraio 2022, quale dimostrazione pratica della
mutabilità delle relazioni internazionali, dei rapporti tra alleati e competitor, così come
dell’imprevedibilità di eventi naturali o umani in grado di negare, in tutto o
in parte, l’accesso alle risorse energetiche e di condizionare in maniera
sfavorevole i prezzi delle fonti energetiche, con dirette ripercussioni sul
piano sociale, politico ed economico. E proprio la guerra russo-ucraina, ha
riportato l’attenzione dei governi sui rischi di interruzione delle forniture
che comportano, per definizione, quel costo strategico che va opportunamente
calcolato: esercizio non semplice, che non può essere ridotto al semplice
computo di investimenti e relativi rendimenti, ma comprende anche valutazioni
sulle diverse opzioni strategiche limitando, in primis, i rischi legati alla fortissima dipendenza da
idrocarburi e, in secondo luogo, imponendo l’esigenza di una diversificazione
del mix energetico a prezzi accessibili e di un potenziamento dell’influenza
dal lato dell’offerta, in particolare attraverso la realizzazione dei gasdotti,
a cui devono associarsi il principio della solidarietà tra Stati amici (in
particolare tra Stati membri dell’Unione europea).
In
sintesi, l’obiettivo a cui si guarda è quello di creare un mix energetico
sostenibile, efficiente e diversificato, cioè che sia sostenibile dal punto di
vista ambientale ed economico, che utilizzi le risorse in modo efficiente e che
sia basato su diverse fonti di energia, in modo da ridurre la dipendenza da una
sola fonte. Inoltre, è importante adottare un approccio integrato per
affrontare le sfide e le opportunità legate ai cambiamenti climatici, cioè un
approccio che consideri i diversi aspetti e le connessioni tra loro.
Sul piano politico-strategico, assume particolare rilevanza lo sviluppo di un “sistema mediterraneo dell’energia”, ovvero un sistema che colleghi in modo sicuro e a più vie le due sponde del Mediterraneo. Ciò potrebbe includere il potenziamento delle infrastrutture esistenti, come gasdotti e condotti sottomarini, e la costruzione di nuove infrastrutture, come impianti di trasformazione e stoccaggio dell’energia. L’obiettivo è quello di aumentare la sicurezza e la diversificazione delle fonti di energia per l’Europa, oltre che di sfruttare le opportunità economiche offerte dalla cooperazione energetica con i paesi della sponda Sud del Mediterraneo, con l’obiettivo primario di governare le dinamiche delle relazioni internazionali, senza esserne sopraffatti a causa di una mancata o inadeguata strategia di sicurezza nazionale.
Sicurezza energetica e accesso all’acqua: la sicurezza del Mediterraneo secondo la “5+5”
La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.
Coerentemente con questo principio e nell’ottica di cooperare per la sicurezza e la stabilità del Mediterraneo, i Ministri della Difesa aderenti alla “5+5 Defense initiative” (Italia, Francia, Spagna, Malta, Portogallo, Mauritania, Marocco, Libia, Algeria, Tunisia) in occasione della riunione ministeriale tenuta a Rabat (Marocco) lo scorso 16 dicembre, hanno discusso e approvato il documento di ricerca, e gli indirizzi di policy in esso contenuti, dal titolo: “Risorse idriche e energia rinnovabile come strategia per la stabilità futura nello spazio 5+5“. Il documento, a cui ha contribuito il ricercatore senior e rappresentante unico per l’Italia Claudio Bertolotti, direttore di START InSight, è stato illustrato al Sottosegretario di Stato alla Difesa Matteo Perego di Cremnago.
Non c’è dubbio che il “sistema Mediterraneo” sia attualmente sottoposto a un forte stress. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.
Così come non c’è dubbio che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, sono e saranno sempre più gli elementi in grado di determinare il livello di stabilità o instabilità dell’area mediterranea.
Questo intreccio di ambizioni, aspettative legittime, a cui si aggiungono i fattori della geopolitica, spesso appaiono inconciliabili tra loro, ma sono queste le sfide che la nostra generazione ha di fronte e deve risolvere.
Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di acqua e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti interregionali. Dall’altro lato, gli stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.
Relativamente al contesto energetico, lo spazio mediterraneo è caratterizzato da un notevole aumento delle importazioni di energia convenzionale, l’80% dei paesi appartenenti all’area del Mediterraneo occidentale, sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico ed evitare la produzione di gas serra.
In particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di energia, esistono approcci contrastanti sugli aspetti di accesso e sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali); dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una base puramente temporale.
Governi e decisori politici dovranno attuare politiche realistiche che devono essere economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, lo sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini di contenimento dell’inquinamento globale.
I contenuti del documento di ricerca 2022 della “5+5 defense initiative”
Il tema di
ricerca 2022 “Water Resources and Renewable Energy as a Strategy for Future Stability
in the 5+5 Space” è strategico e di estrema attualità dato che
l’acqua e le energie rinnovabili sono sempre più consumate, di fatto
rappresentando una questione politica ed economica di primaria importanza.
“Acqua
pulita e accessibile per tutti” è l’obiettivo numero 6 nell’elenco degli
obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015.
Di vitale importanza per la vita umana, e coerentemente con il principio
enunciato dalle nazioni Unite, i dieci paesi dello spazio 5+5, le loro
popolazioni, gli agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono grande
importanza all’acqua.
Per quanto
riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica) che
sono inesauribili e sostenibili ma che richiedono ancora elevati costi di
produzione, il loro interesse sta diventando sempre più rilevante in
conseguenza dei cambiamenti climatici e della scarsità di combustibili fossili.
Oggi il mondo
si trova di fronte a un importante punto di svolta della sua storia poichè la
crescita demografica e lo sviluppo industriale stanno imponendo un elevato e
crescente consumo di risorse energetiche e idriche.
Risorse idriche. I Paesi
dell’area 5+5 dispongono di notevoli risorse idriche, ma il 90% della
disponibilità è locata nei Paesi settentrionali dell’area; al contrario, Aleria,
Marocco e Tunisia sono in situazione di penuria. Alcuni paesi come Malta e la
Libia sono caratterizzate da un consumo superiore alla capacità delle loro
risorse rinnovabili e sono tra i 10 paesi con meno risorse idriche al mondo.
Fabbisogno energetico. Il contesto
energetico dell’area 5+5 è caratterizzato da un notevole aumento dell’importazione
di energia convenzionale; l’80% dei suoi paesi sono grandi importatori. Si
tratta di una situazione che impone la ricerca di soluzioni alternative per
soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico e allo stesso tempo evitare un
aumento della produzione di gas serra. È quindi essenziale promuovere lo
sviluppo e l’utilizzo di energie rinnovabili. In particolare, l’abbondanza di
risorse energetiche solari ed eoliche è un fattore che accomuna i paesi della
sponda sud dell’area 5+5.
Idroneno verde (Green hydrogene): L’idrogeno
verde, prodotto dall’elettrolisi dell’acqua alimentata da fonti energetiche
rinnovabili, può essere utilizzato per contribuire alla decarbonizzazione dei settori
e delle aree produttive più difficili da elettrificare.
Energia nucleare. Lo sviluppo
del nucleare ha contribuito alla riduzione degli effetti negativi del
cambiamento climatico sui paesi industrializzati. Nel 2018, l’energia nucleare
ha contribuito per il 10,1% alla produzione mondiale di elettricità,
imponendosi quindi come terza più grande fonte di produzione di elettricità al
mondo.
Quali gli
aspetti di rilievo evidenziati dalla ricerca?
1. Risorse
idriche, criticità dell’area “5+5”:
a) Almeno 3 paesi (Algeria,
Marocco, Tunisia) si trovano in una situazione critica (≤ 1.000 m3/hbt/anno),
b) sfruttamento eccessivo delle
acque sotterranee (fossili), perdite nelle reti e sprechi,
c) inquinamento delle risorse e
impatto del cambiamento climatico,
d) carenze in alcuni quadri
giuridici e scarso sviluppo delle capacità.
2. Risorse idriche, punti di forza dell’area
“5+5”:
a) Ricchezza di risorse naturali,
b) Diversi partenariati a livello di istituzioni internazionali,
c) Reale volontà dei governi di attuare il diritto all’acqua e il suo
accesso per tutti,
d) Grande potenziale in termini di energia sostenibile.
3. Energie rinnovabili, criticità dai Paesi dell’area “5+5”:
a) Mancanza di incentivi nei quadri legislativi esistenti,
b) Debolezza dei programmi di capacity building,
c) Mancanza di integrazione regionale dei mercati dell’energia e delle
reti elettriche,
d) Affidamento a materiali e minerali rari per la produzione di
tecnologie a basse emissioni di carbonio.
4. Il potenziale dei paesi membri nelle energie
rinnovabili
a) Importanti capacità umane e materiali per investimenti nel settore delle
energie rinnovabili,
b) Disponibilità di importanti risorse rinnovabili,
c) Il continuo sostegno dello Stato al nuovo settore energetico,
d) Il riconoscimento dell’accesso alle fonti energetiche come «priorità
di sviluppo nazionale».
Alcune
raccomandazioni condivise dai ricercatori con i Ministri della Difesa
dell’iniziativa “5+5”
I limiti nella parte meridionale dell’area 5+5 possono essere superati attraverso
l’elaborazione di una strategia nazionale organica specifica per lo sviluppo
delle energie rinnovabili, basata principalmente su:
Istituzione di
un quadro giuridico e normativo attraente per gli investitori privati;
Creazione di un
quadro istituzionale che copra i diversi aspetti del settore;
Capacity
building nella ricerca scientifica e nelle tecniche innovative nei settori
delle Energie Rinnovabili e dell’Idrogeno;
Elaborazione di
un quadro finanziario e di incentivi;
Istituzione di
una piattaforma di assistenza tecnica comprendente:
sensibilizzazione e formazione dei consumatori;
filiera e servizi di gestione e manutenzione di impianti solari ed
eolici; e
standard per i fornitori di apparecchiature e servizi (tecnici e
distributori di prodotti di energia rinnovabile) al fine dell’efficientamento
del sistema in termini di costo-efficacia;
Istituzione di
un programma di trasporto e distribuzione dell’energia elettrica che promuova
il commercio e l’interconnessione dell’energia per migliorare l’integrazione
regionale;
dipendenza
dell’accesso all’energia da processi produttivi redditizi che contribuiscano
alla creazione di posti di lavoro e alla riduzione della povertà;
Cyber warfare nel conflitto russo-ucraino: strategie cyber, lessons learned e implicazioni per il futuro
Il conflitto russo-ucraino è stato definito in parte come la prima guerra del futuro, a causa della centralità della dimensione digitale e del nuovo cyber warfare. Come si è applicato al contesto bellico questa nuovo dominio e quali sono le maggiori implicazioni per il futuro dell’internet e dei conflitti armati?
Il
24 febbraio 2022 la Russia ha ufficialmente dato il via all’invasione su larga
scala del territorio sovrano ucraino, con lo scopo di liberare (secondo la
narrativa di Mosca) le regioni del Donbass, la cui popolazione si sentirebbe di
appartenere più alla Russia che all’Ucraina, in una sorta di lotta, si direbbe
in altri casi, per l’autodeterminazione dei popoli. La guerra è stata
dunque cominciata con pretesti visti e rivisti nel corso della storia, con
mezzi e strategie militari tipiche del più classico warfare e, almeno
nella mente dei russi, con delle tempistiche di completamento decisamente
brevi; se l’ultimo punto si è rivelato drasticamente errato, ai primi due si è
aggiunto un elemento che permette di classificare il conflitto russo ucraino
come il primo esempio di guerra del futuro.
La
dimensione cyber dello scontro armato, infatti, rappresenta un fattore di
significativa novità e soprattutto di enorme centralità nelle dinamiche della
guerra: oltre a essere il primo caso dove gli attacchi cibernetici sono molto
sofisticati e diretti alle infrastrutture sensibili di entrambe le parti in causa,
il moderno cyber warfare aggiunge un nuovo dominio a quelli classici
della terra, dell’aria e del mare, spostando in maniera decisiva l’asse delle
forze in gioco. Le battaglie non si combatteranno più unicamente sul terreno,
anzi, gli attacchi decisivi per determinare l’esito di un conflitto armato
potrebbero avvenire senza sparare più un singolo proiettile.
Questo
è quanto avvenuto, chiaramente solo in parte, nel caso russo ucraino. Proprio il
giorno prima dell’inizio delle ostilità da parte di Mosca, infatti, il Cremlino
ha attaccato la rete digitale infrastrutturale ucraina con un malware che è
stato indicato da Microsoft, in uno studio redatto dalla
stessa compagnia pochi giorni dopo l’inizio del conflitto, con il nome di
FOXBLADE; senza entrare nelle specifiche del malware (anche perché Microsoft
non le ha rilasciate per ragioni di sicurezza), FOXBLADE rappresenta una
cyberweapon in grado di far partire attacchi DDoS dal proprio computer
senza che l’utilizzatore ne sia a conoscenza. La sigla DDos sta per Distributed
Denial of Service, si tratta di un’arma di sicurezza informatica che mira a
interrompere le attività aziendali o a estorcere denaro alle organizzazioni
prese di mira e che agisce utilizzando enormi volumi di traffico digitale
sovraccaricando così i server o le connessioni di rete, rendendoli
inutilizzabili. La dimensione dei cyber attacchi ha dunque giocato un ruolo
primario fin dall’inizio del conflitto armato ed ha continuato a ricoprire una
funzione centrale anche nelle fasi successive. Come riportato da Stas Prybytko,
il responsabile dello sviluppo della banda larga mobile nel Ministero della
trasformazione digitale ucraino, il modus operandi dei russi una volta
conquistati ed occupati nuovi territori prevedeva una priorità su tutte:
tagliare e sconnettere le reti digitali della regione occupata, così che le
persone residenti in quell’area non potessero sapere cosa succedeva nelle zone
circostanti e non potessero descrivere la reale situazione nei territori
occupati.
Dall’altra
parte, l’Ucraina del Presidente Zelensky ha cercato di rispondere alle minacce
e agli attacchi digitali russi cercando, in primo luogo, di estromettere la
Russia
dall’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), entità che
rappresenta sostanzialmente la governance internazionale di internet. Questa
richiesta è arrivata praticamente all’inizio della guerra, il 28 febbraio, a
testimonianza di come anche gli ucraini avessero bene in mente il ruolo
fondamentale del dominio digitale fin dalle primissime fasi dello scontro. La
richiesta ucraina è stata tuttavia respinta al mittente dal Presidente
dell’ICANN Goran Murphy, con la motivazione che tale organizzazione non detiene
l’autorità di esprimere sanzioni in materia e che il compito di ICANN è
semplicemente sorvegliare che il funzionamento dell’internet rimanga esterno
alle dinamiche politiche; accogliere l’istanza ucraina, secondo la visione di
Murphy, avrebbe dunque significato andare contro i principi base dell’ICANN
stessa.
Fra
le due parti in conflitto Mosca è sicuramente quella che dispone delle maggiori
capacità di sferrare cyber attacchi significativi. Questo è dovuto sicuramente
alla grande rete di hacker russi ma anche alla tendenza del Cremlino di
manipolare le informazioni, sia a livello domestico sia quelle dirette al mondo
esterno, che ha fornito ai russi una notevole expertise in questo campo.
Il già citato studio svolto da Microsoft, dal nome “Defending Ukraine: Early
Lesson from the Cyber War”, evidenzia come la Russia abbia utilizzato una
sofisticata strategia cyber che si compone di tre sforzi principali, distinti
ma utilizzati anche simultaneamente. Si tratta nello specifico di attacchi
informatici di tipo distruttivo rivolti all’interno dell’Ucraina, di operazioni
di penetrazione e spionaggio all’esterno dell’Ucraina e infine di azioni di cyber-influenza
che prendono di mira le persone di tutto il globo. Alcuni esempi lampanti di
tale strategia sono state sicuramente le campagne di disinformazione e di
manipolazione della narrativa sul conflitto operata da Mosca fin dall’inizio
della guerra; ma anche attacchi concreti alle infrastrutture vitali ucraine,
come quello del 28 febbraio, definito da alcuni analisti come il più
severo dall’inizio della guerra. Questo cyber attacco ha colpito Ukrtelecom, la
compagnia di telecomunicazioni nazionale ucraina, ed ha portato a delle
significative interruzioni di internet nel paese per circa 15 ore che hanno
colpito principalmente gli utenti privati e le aziende.
Kiev,
dal canto suo, ha potuto contare praticamente dall’inizio degli scontri su uno
strumento che si è rivelato essenziale finora per la resistenza dell’esercito
ucraino, ovvero il sistema Starlink, offerto gratuitamente dal magnate Elon
Musk su richiesta del Primo Ministro ucraino Mykhaylo Fedorov. Il ruolo giocato
da Starlink testimonia una volta di più la centralità dei sistemi
tecnologici-cibernetici applicati ai moderni contesti bellici: senza il
supporto di Starlink, infatti, l’Ucraina molto probabilmente sarebbe già caduta
sotto i colpi dei carri armati russi. Starlink è un complesso sistema che fornisce
Internet alle regioni con scarse infrastrutture di telecomunicazioni, come in
mare aperto, in aree remote lontane dalle città o in regioni in cui l’accesso a
Internet è limitato dai governi e che funziona grazie a una vera e propria
costellazione di satelliti (circa 3000) che SpaceX, la società aerospaziale
privata di Elon Musk, ha rilasciato nella parte bassa dell’orbita terrestre.
L’utilizzo di Starlink in Ucraina, dunque, ha avuto importanti applicazioni sia
in ambito civile, in quanto ha permesso che le reti di comunicazioni venissero
ripristinate in tempi record, ma soprattutto in ambito militare: grazie
all’enorme numero di terminali Starlink dispiegati sul territorio ucraino, ad
esempio, l’esercito ha potuto utilizzare droni da ricognizione collegati ai
terminali Starlink per inviare informazioni di puntamento all’artiglieria, è riuscito
ad individuare l’esatta posizione di mezzi pesanti russi ed è stato in grado di
mantenere le comunicazioni aperte anche con propri soldati che si trovavano in
prima linea durante uno scontro con i russi.
Analizzate le principali
caratteristiche e strategie cyber utilizzate nei primi 8 mesi di guerra, è
possibile trarre qualche indicazioni per il futuro dei conflitti armati e del
ruolo della dimensione digitale applicato alle guerre. In primis si può
affermare come la strada intrapresa con l’inizio del conflitto russo-ucraino è
destinata a diventare la tendenza preponderante per le guerre che verranno: il
classico warfare rimarrà sicuramente al centro delle strategie e delle
considerazioni militari, ma sarà accompagnato sempre di più dalle cyber
weapon e dagli attacchi cibernetici, che potrebbero diventare l’arma
decisiva nelle sorti di un conflitto armato. Sarà necessario inoltre rafforzare
i sistemi di intelligence, con l’obiettivo di creare dei team di professionisti
che sappiano valutare le reali capacità cyber di un determinato attore: nel
caso russo, ad esempio, la maggior parte degli analisti politici aveva
sovrastimato le capacità militari russe ed è possibile che lo stesso sia successo
con le capacità cibernetiche attribuite a Mosca, che non è riuscita nel lungo
periodo a causare danni significativi alle reti ucraine. Infine, stiamo
assistendo a un significativo cambiamento strutturale di quelle che sono le front
lines di uno scontro armato: non più solamente soldati con fucili impegnati
al fronte, ma orde di hacker e informatici devono rappresentare ormai una
priorità per i governi quando si discute di sicurezza nazionale. Investire in
questa nuova tipologia di “addestramento” digitale può prefigurarsi dunque come
la strategia madre per arrivare preparati alle guerre del futuro, che sono
molto più prossime e vicine di quanto si creda.
📌#ReaCT2023 The 4th annual Report on Terrorism and Radicalisation in Europe ⬇📈launches on 23rd May. Don't miss it! 📊📚Numbers, trends, analyses, books, interviews👇 pic.twitter.com/KLIWWlrJXS
🔴📚 OUT SOON! #ReaCT2023 Annual Report on Terrorism and Radicalisation in Europe | Start Insight ⬇ 16 articles by different authors discuss current trends and numbers. Available in Italian and English startinsight.eu/en/out-soon-r…
🔴@cbertolotti1 a FanPage sulle varie ipotesi dell'attacco👉"(...) non si tratterebbe di droni in grado di fare danni significativi, ma piuttosto di una tipologia di equipaggiamento in grado di fare danni limitati con l'obiettivo di portare l'attenzione mediatica sulla questione" twitter.com/cbertolotti1/s…
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.