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Azione israeliana in Libano e rischio di escalation regionale: il punto del Direttore.

Dall’intervista di Stefano Leszczynski a Claudio Bertolotti, per Radio Vaticana, trasmissione Il Mondo alla Radio del 3 gennaio 2024 (VAI AL PODCAST)

L’azione israeliana in Libano e il rischio di escalation.

Gli attentati a Beirut e in Iran infiammano la crisi medio orientale. La guerra di Israele tra battaglie nella Striscia di Gaza e omicidi mirati.

Federica Saini Fasanotti – storica militare e studiosa dell’ISPI

Eric Salerno – giornalista esperto di questioni medio orientali e relazioni internazionali

Claudio Bertolotti – direttore di Start Insight e ricercatore ISPI

Il 2 gennaio 2024, un attacco nel sud di Beirut, Libano, in cui è avvenuta l’uccisione del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, è stato attribuito a Israele e ha preso di mira una roccaforte del gruppo sciita e filo-iraniano Hezbollah. L’attacco ha causato anche vittime collaterali, suscitando la condanna di Hezbollah e la promessa che l'”assassinio” di al Arouri a Beirut non resterà impunito. Le forze armate israeliane hanno diffuso video dell’attacco, sottolineando il loro coinvolgimento nell’incidente. L’evento ha sollevato preoccupazioni riguardo a una possibile escalation tra Libano e Israele.

Dottor Bertolotti, c’è il rischio che le operazioni mirate israeliane come quella in Libano inneschino davvero un conflitto regionale?

Dal punto di vista razionale – secondo Bertolotti – nessuno degli attori coinvolti vuole un allargamento del conflitto a livello regionale. Non lo vuole Israele e non lo vuole l’Iran che, invece, punta a una serie di micro-conflitti e coinvolgimento dei piccoli attori regionali, dagli Houthi nello Yemen ad Hezbollah in Libano per distrarre lo sforzo militare di Israele, indebolendolo. Ma al di la della volontà razionale ci sono le scelte emotive, che spesso condizionano le dinamiche delle relazioni internazionali che possono portare ad effetti incontrollabili. E il rischio di un’escalation orizzontale a livello regionale, in questo senso, è un rischio possibile.

Dott. Bertolotti, la prudenza del governo libanese, che ha chiesto a Hezbollah di non reagire a Israele in maniera autonoma, che cosa suggerisce?

Il governo di Beirut è il primo a voler scongiurare un allargamento del conflitto, perchè ciò significherebbe il collasso dello stato libanese e l’avvio di una nuova guerra civile che sarebbe micidiale per la sopravvivenza dello stesso stato libanese. Questa la ragione per cui il governo libanese svolge un ruolo di intermediario con Hezbollah che noN è, come non è mai stato, sotto controllo governativo, ponendosi come milizia, esercito autonomo legato ai gruppi di potere sciiti a loro volta legati con l’Iran, che di Hezbollah ne sta facendo un uso opportunistico in funzione anti-israeliana, senza però farsi direttamente coinvolgere.

Direttore, la posizione di Ankara (membro della NATO) in questa crisi pone alcuni interrogativi sul proprio ruolo e affidabilità?

La Turchia persegue un proprio e ben definito progetto di proiezione di influenza in tutto l’arco mediterraneo allargato, dal Corno d’Africa ai paesi del Maghreb. La vicinanza ad Hamas, che si lega alla pericolosa organizzazione dei Fratelli Musulmani, è coerente con questa visione di potenza che prevede il consolidamento dei rapporti con i governi e le organizzazioni locali in un’ottica di ricostituzione di un perimetro geopolitico artificiosamente coerente con la storia e con l’ego sproporzionato del presidente Erdogan. Ma non illudiamoci che una qualsiasi alternativa a Erdogan possa avere una visione differente, questa è l’ambizione della Turchia contemporanea.


Gaza è una trappola, ma l’offensiva di terra inevitabile (Bertolotti -Ispi), ADNKRONOS

Incubo close combat e urban warfare, dimensione sotterranea della Striscia è l’asso nella manica di Hamas, rischio ‘escalation orizzontale’

ADNKRONOS, 24 ottobre 2923, (Vir/Adnkronos)

“Gaza è una trappola”, ma non c’è alternativa all’operazione dentro la Striscia. L’incubo israeliano si chiama ‘close combat’. E lo scenario peggiore si concretizza nella “dimensione sotterranea” della Striscia, in quel labirinto di tunnel che sono l’obiettivo dei raid israeliani e l’ “asso nella manica” di Hamas mentre l’opinione pubblica israeliana si aspetta il ‘mission accomplished’. Ma c’è anche il rischio “escalation orizzontale”. Claudio Bertolotti, analista dell’Ispi esperto di Medio Oriente e Nord Africa, di radicalizzazione e terrorismo internazionale e direttore di Start InSight, ragiona con l’Adnkronos mentre la crisi in Medio Oriente, scatenata dal terribile attacco del 7 ottobre di Hamas in Israele, non sembra destinata a esaurirsi in tempi brevi e anzi si teme un allargamento del conflitto.

Bertolotti è convinto che “non esista un’opzione alternativa dal punto di vista politico” all’operazione dentro la Striscia, ritiene sia una “opzione inevitabile”, perché “non agire con forza” nei confronti di Hamas dopo quel brutale attacco significherebbe dire che qualunque azione terroristica di fondo passa senza grandi conseguenze… (vai all’articolo di Alessia Virdis per ADNKRONOS.

Punti in evidenza nell’articolo

‘Mettere in conto un numero di perdite elevato’

‘In area urbana mezzi corazzati estremamente vulnerabili’

‘Iran opera per aprire due fronti, quello libanese e quello siriano’


Polveriera Mediterraneo. Dall’Afghanistan all’Algeria, le nuove sfide per l’ordine mondiale. Presentazione del libro.

A Torino, il 14 settembre 2023 alle ore 17.30 avrà luogo il convegno di presentazione del libro, curato da Michela Mercuri e Alberto Gasparetto dal titolo: Polveriera Mediterraneo. Dall’Afghanistan all’Algeria, le nuove sfide per l’ordine mondiale 

L’evento, ospitato dalla Regione Piemonte presso la Sala Conferenze del Palazzo della Regione Piemonte – Via Nizza, 330 Torino (Piano Terra), intende affrontare e analizzare in maniera quanto più approfondita – attraverso il contributo di importanti attori istituzionali ed esperti del settore pubblico e privato – le minacce, le criticità, ma anche le opportunità di un’area mediterranea che rimane instabile, sul piano politico, sociale, energetico, economico e delle relazioni internazionali.

Intervengono la curatrice Michela Mercuri (Professore Università di Padova), il co-autore Claudio Bertolotti (Direttore START InSight), Arturo Varvelli (Direttore ECFR), Stefano Mannino (Gen. C.A., C.te Scuola di Applicazione dell’Esercito). Apre i lavori l’assessore regionale Maurizio Marrone. Modera Valentina Ciappina (Direttore Torino Crime) .

Per confermare la propria partecipazione scrivere a: info@startinsight.eu

Il contenuto del libro: dalla guerra d’Ucraina alla crisi del Mediterraneo

La guerra in Ucraina non ha zittito le armi in Nord Africa e nel Medio Oriente, un’area segnata da conflitti irrisolti, guerre per procura e rivolte che si estendono fino ai confini dell’Asia centrale. Il Mediterraneo è una polveriera pronta a esplodere. Le recenti proteste in Iran, la crisi che sta vivendo l’Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane, le ambizioni egemoniche turche, l’instabilità libica, il revanscismo jihadista in Nord Africa e la futura traiettoria di paesi “in bilico” come l’Algeria, l’Arabia Saudita e la Siria rappresentano alcune delle maggiori incognite per il futuro. Gli effetti di queste “bombe a orologeria” potrebbero riverberarsi sugli Stati vicini e sull’intero sistema internazionale, con esiti che potrebbero essere devastanti.
Gli autori affrontano questi temi descrivendo realtà differenti ma interconnesse, riunendo i pezzi di quel grande puzzle che è la “polveriera Mediterraneo”.

Indice del volume e degli autori

Vittorio Emanuele Parsi, Prefazione
Alberto Gasparetto,Michela Mercuri, 
Introduzione
Claudio Bertolotti, 
La lezione afghana. Dalla “guerra più lunga” al nuovo terrorismo insurrezionale
Giuseppe Acconcia, 
“Donna, vita, libertà”. I movimenti sociali in Iran e il revival nazionalista degli ayatollah
Jessica Pulsone, 
Dall’identità religiosa all’identità nazionale: la rivoluzione nazionalista della “nuova” Arabia Saudita
Mauro Primavera, 
La presidenza di Bashar al-Assad tra riformismo, ideologia e geopolitica
Alberto Gasparetto, 
Il populismo nella politica estera dell’AK Parti. Fra autoritarismo, islamismo e nazionalismo
Sara Senno, 
Il revival islamista nel panorama delle post-primavere arabe in Nord Africa
Michela Mercuri, 
Lo stallo libico tra nazionalismo e tribalismo. Un’analisi alla luce dell’attuale crisi politica
Caterina Roggero, 
La nuova Algeria nella rivista El Djeich (2020-2022)


Droni di Kiev su Mosca: una pressione sugli USA? Il commento al TG RSI.

Claudio Bertolotti (StartInsight) al TG della Radio e Televisione Svizzera Italiana, intervistato da Gianmaria Giulini

Vai al video sul sito della Radio e Televisione della Svizzera italiana (edizione del 9 agosto 2023)

Colpire la capitale russa con i droni non cambia il bilanciamento militare, ma ha un impatto psicologico e diplomatico

RSI – Svizzera, 9 agosto 2023. La strategia ucraina di aumentare gli attacchi con droni su Mosca e sul territorio russo, preannunciata il 30 luglio dal presidente Zelensky “è una strategia efficace a basso costo, manda un messaggio politico di forte impatto psicologico sulla popolazione moscovita, che è lontana dalla guerra, perché la maggior parte delle reclute mobilitate fino ad ora viene da distretti orientali e periferici del paese”. Lo dice al Telegiornale RSI il direttore di StartInsight Claudio Bertolotti.

Difficilmente attaccare la capitale russa e le forze armate di Mosca con droni determinerà una svolta sul campo di battaglia, ma ha un impatto sui russi e su chi sostiene Kiev. Come contropartita alla riduzione delle sue azioni sul suolo russo, Zelensky può chiedere ai suoi sostenitori – cominciando dagli USA – di fornirgli piu armamenti. E gli USA probabilmente lo ascolteranno perché non vogliono una guerra totale con il Cremlino.

Quanti sono stati gli attacchi dell’Ucraina sul suolo russo?

L’Ucraina celebra gli attacchi su suolo russo, ma non ne conferma mai la paternità, cioè  non rivendica ufficialmente le azioni. Questo per ovvie ragioni di opportunità: l’obiettivo è non garantire alla Russia l’escamotage formale di dirsi attaccata sul proprio suolo, il che le potrebbe anche consentire di sdoganare l’opzione atomica.

Possiamo contare alcune decine di attacchi diretti in territorio russo, prevalentemente attacchi con droni, che hanno colpito obiettivi, da un lato simbolici, nel cuore di Mosca, che si contrappongono agli obiettivi militari propriamente detti: infrastrutture, ponti, depositi di carburante, linee ferroviarie e aeroporti.

Tra i principali attacchi ricordiamo l’azione condotta con elicotteri da combattimento, nell’aprile del 2022, contro un deposito di carburanti russo vicino al confine con l’Ucraina; l’attacco missilistico sulla nave ammiraglia russa del Mar Nero, sempre ad aprile; l’attacco partigiano alla base aerea russa in Crimea, nell’agosto dello stesso anno; l’autobomba vicino a Mosca, in cui ha trovato la morte la figlia dell’ideologo Dugin, vicino a Putin; e ancora, ad ottobre, l’esplosione del ponte di Crimea; e poi, gli attacchi con droni marittimi, aerei contro infrastrutture logistiche, depositi di carburanti, ecc…

La guerra sta tornando sul territorio russo, questo è un processo inevitabile?

L’obiettivo che possiamo ritenere più logico è quello di imporre un aumento della pressione psicologica sull’aggressore che, in questo modo, viene colpito in casa propria. È un messaggio politico dal forte impatto psicologico su una popolazione – quella moscovita in particolare – che è la più lontana dal coinvolgimento diretto della guerra. La maggior parte delle reclute mobilitate viene dai distretti orientali e periferici, non da quelli della Russia occidentale.

Cosa cambia con questi attacchi per l’Occidente? Cosa si rischia?

Potremmo dire che non cambia lo stato delle cose, almeno in Europa. Quello che pesa, in primo luogo, è lo sviluppo della campagna elettorale per l’elezione del presidente degli Stati Uniti. Biden si trova in una scomoda situazione: è sotto il fuoco incrociato di chi vuole sostenere l’Ucraina e di chi invece vorrebbe ridurre il coinvolgimento di Washington in una guerra europea. Comunque si muova le critiche nei suoi confronti non mancheranno. È per questo motivo che il tema “guerra in Ucraina” sarà per quanto possibile evitato, o limitato al minimo indispensabile, nei vari comizi e incontri pubblici.

Attaccare il territorio russo significa oltrepassare una linea rossa?

È una linea rossa, un cambio di equilibri e di postura, ma difficilmente determinerà una svolta sul campo di battaglia. L’effetto è sul piano psicologico, di chi viene colpito, dunque i russi, ma anche di chi sostiene Kiev, in primis gli Stati Uniti, che saranno spinti, nelle intenzioni di Zelenski, ad aumentare il sostegno militare come contropartita alla riduzione di azioni di questo tipo su suolo Russo. Washington non vuole un’escalation, come non vuole un cambio di regime in Russia, che potrebbe aprire a uno scenario politico peggiore di quello attuale.


L’Italia accoglie il “piccolo Messi ” afghano. Murtaza è in salvo.

di Chiara Sulmoni, Claudio Bertolotti, Andrea Molle

info e contatti: info@startinsight.eu

Murtaza, il ragazzino appassionato di calcio noto come il piccolo Messi afghano, costretto per anni a vivere in fuga e nell’ombra a causa delle minacce dei talebani e di altri gruppi criminali, è finalmente in salvo con la sua famiglia in Italia. Come per altri nuclei famigliari per i quali START InSight si è adoperata per il salvataggio dall’Afghanistan, per lui si cercava una soluzione fin dai giorni caotici dell’evacuazione seguita al cambio di regime a Kabul. La svolta è arrivata dopo 18 mesi di tentativi e di attesa, grazie a Caritas Italia, co-organizzatrice dei corridoi umanitari dal Pakistan aperti lo scorso autunno.

Il piccolo Murtaza (Foto di repertorio)

Mentre prendeva avvio tra noi una comunicazione destinata a durare a lungo, in cui concisi “come stai, sei al sicuro?” si sarebbero alternati a lunghi periodi di attesa, a domande senza una risposta certa, a frasi di sconforto e preoccupazione, qualche fotografia e emoji a forma di cuore, nei giorni successivi all’ingresso dei Talebani a Kabul, la popolazione afghana si riversava come un fiume in piena verso l’aeroporto, in cerca di una via d’uscita.

I primi messaggi scambiati su Whatsapp con Mahdia, la sorella maggiore di Murtaza che sarà la nostra interlocutrice per tutto il tempo, risalgono alla terza settimana di agosto del 2021 e raccontano la paura e la precarietà della vita quotidiana: “adesso rimaniamo solo in casa, ma pensare al nostro futuro incerto ci fa stare male psicologicamente. Da un po’ di tempo, credo di poter dire che non ci sentiamo più sicuri neanche all’interno, visto che hanno minacciato Murtaza tante volte prima d’ora”.  

A segnalarci questa situazione e poi a metterci in comunicazione diretta è Rahmatullah Alizadah, un fotoreporter locale che ha trovato oggi riparo in Svizzera. Murtaza a 5 anni tirava calci a un pallone nel suo villaggio, situato in una discosta provincia rurale afghana; una foto lo ritrae con il sorriso timido e una busta della spesa in plastica bianca e azzurra, indossata sopra gli abiti a mo’ di pettorina, con il numero 10 e il nome di Messi scritti in pennarello. Nell’impossibilità di poter acquistare una vera e propria maglia del campione argentino, di cui è fan, si accontenta di questa replica ‘improvvisata’ ideata per lui dal fratello più grande. Nell’epoca dei social media che annullano le distanze, l’immagine catturata da un cellulare e postata su FB diventa virale e verrà in seguito rilanciata dalla stampa internazionale. È così che, nel 2016, il “piccolo Messi” si affaccia al mondo intero. Rahmat è stato il primo giornalista a raggiungere il bimbo reso famoso da internet, a documentarne la storia e anche a spendersi per attirare l’attenzione del calciatore sudamericano che, venuto a conoscenza della vicenda, con i buoni uffici dell’UNICEF, incontrerà Murtaza in occasione di una partita del Barcellona in Qatar.

L’improvvisa notorietà non apre però, come sperato, le porte a nuove opportunità. Al rientro in patria, di questa avventura nel Golfo non resteranno al bimbo che un pallone e la divisa ufficiale autografata dal calciatore. Murtaza e la sua famiglia saranno costretti d’ora in poi a nascondersi e a spostarsi frequentemente per sfuggire sia al rischio concreto di rapimento da parte di criminali convinti che il bimbo abbia ricevuto denaro, che dalle minacce dei fondamentalisti. Niente scuola, un’infanzia isolata e, con il ritorno del regime Talebano, un pericolo crescente e spostamenti che si fanno particolarmente frequenti (più di dodici solo nell’ultimo anno e mezzo); “qualche giorno fa, mio padre è stato riconosciuto in una panetteria, delle persone gli hanno parlato…anche i nostri vicini ci hanno fatto capire che sanno chi siamo. Qualcuno informerà i Talebani? È per questo che abbiamo cambiato di nuovo casa, per fare in modo che non ci capiti nulla”, leggiamo in uno dei tanti messaggi di Mahdia.  

L’evacuazione

Mentre eserciti, diplomatici e organizzazioni internazionali si affrettano a lasciare il paese cercando di portare con sé i propri collaboratori, sui cellulari di veterani, giornalisti e cooperanti che per venti anni si sono occupati di Afghanistan e hanno stretto relazioni e amicizie con la popolazione locale, si affastellano le richieste di aiuto. Chi ha contatti utili li condivide in una catena infinita. Non solo personale militare, umanitario e professionisti dei media, impiegati amministrativi, giudici, avvocati, professori e attivisti, ma anche semplici cittadini in pericolo, tante donne e gli hazara, l’etnia invisa ai talebani e allo Stato islamico Khorasan (il famigerato franchise afghano di quello che fu l’ISIS in Siria e Iraq), alla quale appartiene la famiglia di Murtaza. L’aeroporto di Kabul è preso d’assalto da un fiume infinito di persone di ogni età che tenta di superare muri e sbarramenti per imbarcarsi sugli aerei diretti a Occidente, prima che l’Afghanistan venga abbandonato al suo destino; gli schermi televisivi mandano le immagini strazianti di chi si aggrappa a promesse e speranze infrante, e lo farà fino all’ultimo, trascorrendo giorni e giorni davanti ai cancelli. Le immagini che arrivano sulle chat dei telefoni sono ancora peggiori, fra spari e gente spaesata che scappa davanti ai bastoni delle guardie talebane, o che scivola nei canali di scolo.

Si portano fuori quanti più possibile, nelle ore caotiche anche senza controlli, con scelte cruciali e difficili anche per il personale delle rappresentanze consolari e ai cancelli dell’aeroporto. Sarà una gigantesca operazione di salvataggio di dimensioni inedite.

Il confronto con altre associazioni impegnate a salvare quante più vite possibile, poi arriva la conferma da parte della Difesa italiana. Luce verde: riusciamo a farli inserire nella lista di imbarco dell’ultimo volo. Migliaia di persone sono intanto ammassate al gate “Abbey”, l’ingresso dell’aeroporto in cui operano gli italiani e al quale la famiglia di Murtaza deve presentarsi entro poco tempo. Una missione che sembra impossibile, ma che tentiamo di realizzare in ogni modo, coordinandoci con il Colonnello T., che li attende all’ingresso. Ma le difficoltà aumentano con il passare del tempo, così come gli allarmi di potenziali attentati da parte del gruppo terrorista “Stato islamico” contro l’infrastruttura aeroportuale, ormai controllata congiuntamente dalle forze statunitensi e dai Talebani, i quali ne assumeranno la responsabilità dopo pochi giorni. Un allarme, in particolare, giunge la sera del 25 agosto: molto dettagliato, troppo preciso, diverso dai precedenti. Occorre decidere, in fretta. Lo facciamo: “fermatevi, non andate all’aeroporto, restate a casa domani”, consapevoli che tale decisione avrebbe impedito loro di salire su quell’aereo. In queste condizioni, per la famiglia di Murtaza, otto persone in tutto con bambini e un neonato al seguito, è impensabile rischiare il tutto per tutto per raggiungere l’uscita dove potrebbe essere aiutata dall’esercito italiano.

Quella scelta è stata invece la più giusta e fortunata, la migliore di quelle fatte nell’urgenza del momento. L’attacco suicida del 26 agosto, proprio lì al gate “Abbey” dell’aeroporto di Kabul, lascerà sul terreno più di 180 morti.

Rimangono aperte le altre opzioni che, parallelamente, avevamo tenute attive. I tanti “piani B”. I tentativi di trovare un passaggio sui pochi bus organizzati da non si sa bene chi, e che si spingono oltre i checkpoint dei talebani, sono un buco nell’acqua.

Si apre un’opzione prospettata dai veterani statunitensi. Con loro siamo in contatto dal primo momento e con loro si discute la possibilità di un’“operazione umanitaria” gestita da ex-militari. Esfiltrazione da Kabul, trasferimento al Nord, un aereo pronto a decollare. Murtaza e la sua famiglia, insieme ad altre centinaia di ex collaboratori che hanno lavorato per le forze armate statunitensi nella guerra più lunga, potrebbero essere recuperati in questo modo. Sembra un film, infinito, con la trama che scorre rapida e incalzante. Ogni decisione va presa subito, razionalmente e accettandone i rischi. Un’organizzazione caritatevole statunitense coprirebbe parte dei costi (molto elevati), quello che manca riusciamo a trovarlo con grandi difficoltà, ma l’eccezionalità del momento in questo caso aiuta. Una senatrice statunitense segue la questione con noi. Molto attivi anche alcuni parlamentari e militari italiani che a titolo personale si impegnano per trovare una soluzione. L’entusiasmo per tanta partecipazione è travolgente, reso amaro dai timori e dai messaggi disperati di Mahdia. Sembra tutto a posto, al netto del rischio concreto per chi dovrà portare a compimento l’operazione. Poi la doccia fredda: operazione annullata, non si fa.

Riuscire a lasciare il paese attraverso altre strade comporta costi e rischi non sostenibili. Fra carte e documenti, telefonate, e-mail e segnali lanciati in ogni direzione, per chi si trova in prima linea sul terreno o nelle retrovie, le ore passano frenetiche senza continuità fra giorno e notte. Pensare di portare in salvo tutti gli afghani in pericolo è un’impresa monumentale e impossibile, un’aspirazione nobile che si scontra con la realtà.

18 mesi di tentativi e di attesa

Con la partenza dell’ultimo volo il 30 agosto, l’Afghanistan torna di fatto un Emirato senza ambasciate. Chi non è riuscito a partire può richiedere un visto umanitario in uno stato terzo, ma per coloro che non hanno collaborato direttamente con ONG, media e contingenti militari esteri le difficoltà sono enormi, anche per ciò che riguarda il rinnovo o l’emissione di nuovi passaporti. I tempi sono lunghi, visti e documenti troppo costosi per i cittadini di un paese la cui economia, negli ultimi due decenni, è stata sostenuta soprattutto dalle donazioni e dalle iniezioni di denaro estero. Gran parte della popolazione vive sotto la soglia della povertà, la situazione critica si trasformerà velocemente in un dramma sociale di ampia portata.

Non ci scoraggiamo. Continuiamo a sostenerli, a cercare una via di fuga, tentiamo altre opzioni: pensiamo a un trasferimento via terra verso il confine. Prima l’Uzbekistan, poi il Tajikistan e il Pakistan. È una possibilità, rischiosa, me decidiamo di tastare il terreno. Scopriamo però che i confini sono stati doppiamente sigillati, da una parte i Talebani, dall’altra le autorità dei Paesi confinanti. Occorre un visto, un lascia-passare di un Paese terzo. Le tante telefonate alle ambasciate, ai ministeri e altre istituzioni in Italia, Svizzera e altrove, le interminabili attese, poi il nulla. I paradossi della burocrazia dipingono un quadro dalle tonalità drammatiche e quasi incredibili: “Possiamo rilasciare loro un visto” – ci dicono – “devono presentarsi direttamente in ambasciata, in Qatar, Pakistan ad esempio, o altro paese terzo”. Ma per arrivare all’ambasciata occorre attraversare legalmente il confine, con un visto che non possono avere prima, neanche in formato digitale, via posta elettronica.

Si chiudono le porte, una ad una.

Si apre uno spiraglio: i corridoi umanitari

“Murtaza non ce la fa più a restare seduto in casa, mentre i suoi amici e tutti gli altri bambini vanno a scuola, imparano cose nuove. Piange tanto e si scusa per questo suo desiderio di essere come gli altri. Non riesco più a controllarmi, sono così dispiaciuta per lui, gli prometto che lo aiuterò, che sarà al sicuro e che le cose cambieranno”. È uno dei tanti messaggi di Mahdia, con cui ci sentiamo regolarmente. Ci spronano ad andare avanti, a insistere. Ci vorrà pazienza, ma non li lasceremo soli. Intanto, proseguono le triangolazioni, e settimane di silenzio.

Poi, il 4 novembre 2021, finalmente una bella notizia: la firma, al Viminale, del protocollo d’intesa per l’attivazione dei corridoi umanitari per i cittadini afghani. È la nostra chance. Prendiamo immediatamente contatto con Daniele, di Caritas Italia. Ci conosciamo da tempo e il suo aiuto si rivelerà fondamentale.

È il punto di svolta, iniziamo a lavorare per portarli in Italia. Ma i tempi e le difficoltà sembrano insormontabili: le difficoltà burocratiche si sommano a quelle oggettive. Occorrono i passaporti, che alcuni membri della famiglia non hanno, mentre altri sono intanto scaduti. Si corre contro il tempo, ma non contro la corruzione che, anzi, è l’unica via per ottenere i passaporti. È così, non ci sono alternative. Passano le settimane, poi i mesi. Nel frattempo, il padre di Murtaza viene catturato dai Talebani: imprigionato, torturato verrà rilasciato dopo diverse settimane, malato, previo pagamento di un riscatto. Ancora debole, lascia la famiglia in Afghanistan e si nasconde illegalmente in Iran. Nel frattempo, a ottobre 2022, arriva un’altra notizia positiva: la famiglia può presentarsi a Islamabad per il colloquio con i volontari della Caritas. Ottengono i visti, a un costo elevatissimo, e con questi superano il confine. Sono in Pakistan, tutti in salvo e pronti a partire per l’Italia, pensiamo. Ma non è così, manca il documento di una sorella, una giovanissima ragazza.

Che fare? La decisione è difficile, ma non può rimanere indietro. La famiglia si divide: Murtaza e il padre aspetteranno in Pakistan, mentre Mahdia, con il resto della famiglia tornerà in Afghanistan nel tentativo di ottenere in qualche modo il passaporto della sorella. Passeranno altri mesi: novembre, dicembre, gennaio, e finalmente il passaporto arriva.

È febbraio, Daniele ci informa che tutto è pronto per il trasferimento in Italia. La famiglia si lascia alle spalle un Paese che forse non rivedrà più, o almeno per molti anni. Possono prendere con sé poche cose: piccole valigie e borse, con dentro lo stretto necessario e qualche ricordo. Nulla di più, se non la volontà di ricominciare altrove e la speranza di un futuro migliore grazie a chi, impegnandosi per dar vita ai corridoi umanitari, ha realizzato un vero e proprio miracolo.

Oggi sono in Italia. La speranza è che si possano aprire opportunità concrete, per loro come anche per gli altri afghani che sono stati accolti e nei confronti dei quali il paese si è assunto l’onere del sostegno. Per Murtaza, soprattutto, che finalmente potrà studiare e giocare a calcio senza paura.

Questa è una goccia nel mare, che non chiude un capitolo ma che piuttosto, ne mantiene aperti tanti altri. Questa, è una storia di pazienza e perseveranza.

RINGRAZIAMENTI

… in questi mesi, in molti hanno preso a cuore la storia di Murtaza e si sono resi disponibili, in tempi diversi e in vari modi, con azioni concrete, suggerimenti o parole di sostegno: ONG, politici, militari, istituzioni e semplici cittadini in Italia, in Svizzera e negli Stati Uniti. Siamo grati in particolare a Daniele Albanese, Pierluigi Dovis, Mauro D’Ubaldi, Sua Eccellenza il Vescovo di Torino, Mons. Roberto Repole, Alberto Pagani, Lorenzo Guerini, Piero Fassino, Don Diego, Don Marco Di Matteo, Don Domenico Catti, NOVE Onlus, Gruppo Ticino di Amnesty International, la Senatrice Dianne Feinstein (D-CA), Rav. Arnold Rachlis, Luciano Portolano, Roberto Trubiani, Mauro Berruto, Isabella Rauti, Alessandro Sicchiero, Raffaella Virelli, Nicola Guerini, Luca Tenzi, Rahmatullah Alizadah, Farmanullah Turab, Ahmadullah Turab, Associazione Zenzero…. e a chi non siamo riusciti a raggiungere prima della pubblicazione di questo articolo oppure ha scelto di rimanere anonimo.


Ucraina: carri armati e comunicazione. Il commento di C. Bertolotti a Rainews 24 (27.01.2023)

“Le forze russe hanno continuato gli attacchi di terra intorno a Bakhmut, alla periferia occidentale della città di Donetsk, e nella zona di Vuhledar. Attacchi che secondo lo Stato maggiore della Difesa ucraino sarebbero stati respinti dall’esercito di Kiev. Intensi i bombardamenti lungo la linea del fronte e nel retrofronte ucraino da parte dell’artiglieria russa.

Secondo l’Institute for the Study of War (ISW), “le forze ucraine hanno rilanciato le operazioni di controffensiva vicino a Kreminna.” I ritardi nella fornitura all’Ucraina di sistemi d’arma occidentali a lungo raggio, sistemi avanzati di difesa aerea e carri armati hanno limitato la capacità dell’Ucraina di sfruttare le opportunità per la condotta di operazioni controffensive più ampie sfruttando i limiti e le difficoltà nella condotta delle operazioni militari della Russia.

Guardando a un orizzonte temporale di breve termine, è logico ritenere che le forze russe si stiano preparando per uno sforzo offensivo nella primavera o, al più tardi, all’inizio dell’estate di quest’anno, così da porre termine a un conflitto durato molto più delle previsioni iniziali e per dare un risultato soddisfacente in previsione delle elezioni presidenziali del 2024.

A fronte degli sviluppi sul campo di battaglia, anche sul “fronte” della comunicazione si intensifica l’attivismo delle due parti in guerra. Da un lato il Presidente ucraino
Volodymyr Zelensky e la sua partecipazione a eventi “pop” e ad ampia diffusione come il Festival di Sanremo: tra contestazioni e sostegno riesce a far parlare della guerra in Ucraina, centrando così l’obiettivo di arrivare alle opinioni pubbliche dei Paesi che sostengono Kiev nella difesa dall’invasione illegale della Russia. Dall’altro lato, il Presidente russo Vladimir Putin, che minaccia ampie e gravi rappresaglie in risposta all’invio di mezzi corazzati in supporto all’Ucraina da parte dei Paesi europei e degli Stati Uniti: un messaggio “forte” rivolto prevalentemente all’opinione pubblica interna. Entrambe le azioni hanno in comune una strategia comunicativa e propagandistica aggressiva ed efficace: un chiaro e consolidato strumento della guerra.


Ucraina: la mobilitazione dei russi. Come leggere il discorso di Putin? (TeleTicino)

Il commento del Direttore Claudio Bertolotti a TeleTicino (edizione del 21.09.2022, ore 18.25)

L’intervento del Direttore Claudio Bertolotti in apertura del TG TeleTicino News

Come dobbiamo leggere il discorso di Putin? 

La presa di posizione di Putin è coerente con quella di un leader sotto pressione che cerca di mantenere un equilibrio tra le istanze dei falchi intransigenti, il voler compiacere i militari, dare l’impressione di non perdere la guerra e la necessità di rafforzare il consenso interno che tende sempre più a essere precario e ad indebolirsi con il progredire della guerra in Ucraina.  Il presidente russo ha parlato della necessità di difendere i confini della Madrepatria presentando la guerra di aggressione in una guerra per la difesa della Russia, di fatto attribuendone la responsabilità agli ucraini e ai loro alleati occidentali, in primo luogo agli Stati Uniti e alla Nato. Di fatto Putin ha adottato un cambio di tono più che di retorica ribadendo il concetto di “difesa del popolo e della sovranità territoriale”, che è il tema ricorrente nella narrativa russa, e lo ha fatto nel tentativo di rafforzare una posizione politica che si è notevolmente indebolita.

Con i referendum di Putin cresce la minaccia di una guerra nucleare?

Quella di Putin è una scelta strategicamente cinica, quasi diabolica perché Le autoproclamate repubbliche autonome del Donbass, Lugansk e Donetsk, e le province di Kherson e Zaporizhzhia quando saranno annesse alla Russia, di fatto saranno territorio nazionale russo e dunque, qualunque azione militare contro di essi sarebbe considerata un’aggressione diretta a Mosca: una circostanza che, secondo la dottrina militare russa prevede l’impiego dell’arsenale nucleari per difendere “l’esistenza dello Stato, la sovranità e l’integrità territoriale del Paese”. Dunque ci troviamo di fronte a un’opzione molto pericolosa

Il discorso di stamattina mostra un Putin in difficoltà?

Putin è in oggettiva difficoltà, la Russia sta pagando un prezzo altissimo sia sul fronte ucraino, in termini di risorse umane e materiali, sia sul fronte interno dove si sta facendo ogni sforzo per contenere gli effetti deleteri di un’economia di guerra e di una finanza che sono di fatto fortemente limitate e che stanno avendo un impatto rilevante sulla quotidianità dei russi. Ora, a fronte di questa scelta di forza dobbiamo però prendere atto del fatto che – dal punto di vista della leadership russa – forse non c’erano molte altre alternative. Un passo indietro significherebbe ammettere la sconfitta e questo determinerebbe la fine politica di Putin. Da qui la necessità di aumentare la pressione, seguendo i consigli dei falchi del Cremlino, e tentare la carta della mobilitazione generale per la difesa dei confini che, tra qualche giorno, si estenderanno ai territori ucraini attualmente tenuti dalle forze russe.

C’è la famosa immagine del topo nell’angolo, non è rischioso avere Putin con le spalle al muro?

Un Putin con le spalle al muro è certamente lo scenario peggiore che potrebbe prospettarsi le cui conseguenze andrebbero ben oltre i confini ucraini. Putin in questo momento è in una posizione estremamente precaria e qualunque azione di forza che possa consentirgli di uscire dal pantano ucraino verrà perseguita. L’annessione via referendum e la minaccia nucleare sono un’opzione che Putin ha perseguito a causa della mancanza di tutte le opzioni a lui favorevoli: l’assenza di una vittoria lampo su Kiev, il mancato collasso delle forze armate ucraine, la divisione dell’occidente a supporto dell’ucraina. Putin non ha ottenuto nulla di tutto ciò, e dunque si prepara ad attuare l’unica opzione perseguibile, in alternativa alla sua non del tutto impossibile uscita di scena.

Settimana scorsa c’è stato il vertice di Samarcanda. E anche qui la Russia non sembra aver trovato appoggi incondizionati da parte di Cina e India.

L’india e la Cina sono state elegantemente perentorie nella presa di posizione nei confronti della guerra di Putin in Ucraina: Pechino ha negato la possibilità di aiuti militari alla Russia in Ucraina, tanto che si è parlato di richieste di Mosca alla Corea del Nord (per razzi e proiettili) e all’Iran (per i droni); e Nuova Dehli, storicamente molto vicina alla Russia, non ha lasciato adito a dubbi nell’affermare che questo non è il momento della guerra e la pace deve essere l’obiettivo primario. Dunque Putin, che guardava a Samarcanda come a un’occasione per cercare di rafforzare la propria posizione ha invece incassato un risultato molto più negativo di quanto non si aspettasse. È forse l’inizio di un isolamento che sino a poche settimane fa vedeva solo l’Occidente chiudere lo scambio commerciale e la collaborazione con Mosca ma che ora comincia a interessare anche quegli storici alleati e amici che dalla guerra sono toccati in termini economici, commerciali e finanziari.


Attacco all’ambasciata russa di Kabul: quali le ragioni?

Il commento del Direttore Claudio Bertolotti a Radio24 – Effetto Notte, ospite di Roberta Giordano


Ascolta il commento di Claudio Bertolotti a radio 24, puntata del 5 settembre 2022 (dal minuto 48).

L’entità e la portata degli eventi che abbiamo registrato nell’ultimo anno, cioè da quando i talebani hanno provocato il collasso dello stato afghano, è marginale e rappresenta una minima parte degli attacchi che i talebani hanno storicamente condotto contro le forze afghane e quelle occidentali. Dunque lo Stato islamico Khorasan, che ha rivendicato l’attacco contro l’ambasciata russa di Kabul, ad oggi è ancora una minaccia limitata.


i terroristi di al-Qa’ida, legati indissolubilmente ai talebani

Il problema è però spostato avanti nel tempo in quanto il gruppo terrorista e gli altri gruppi regionali si stanno rafforzando sempre più: da una parte ci sono i terroristi di al-Qa’ida, legati indissolubilmente ai talebani, dall’altra parte ci sono i gruppi del jihad globalista che guardano ai talebani come dei traditori da colpire e che auspicano una guerra settaria, in primo luogo contro la minoranza hazara di confessione sciita.

Sullo specifico attacco alla sede diplomatica russa a Kabul, sono due gli aspetti che devono essere considerati per valutarne la portata e la volontà di compierlo. Il primo è dimostrare che i talebani, che da forza insurrezionale e terrorista hanno assunto il ruolo di forza di governo, sono incapaci di garantire un minimo livello di sicurezza in un paese già sostanzialmente fallito e che non è in grado di garantire nulla ai propri cittadini e, come in questo caso, non è in grado di garantire la sicurezza agli stranieri.


la volontà di colpire, simbolicamente, quella Russia che i talebani cerca di coinvolgerli sul piano politico

Dall’altro lato vi è poi la volontà di colpire, simbolicamente, quella Russia che con i talebani non solo dialoga ma coerentemente con la propria visione cerca di coinvolgerli sul piano politico, ma ancor prima economico, commerciale e di ricostruzione infrastrutturale in linea con quanto cercò di fare la stessa Unione Sovietica nel 1989 quando cercò il dialogo e la collaborazione del leader della resistenza afghana Ahmad Shah Massoud.


Afghanistan, l’esperto: “Rischio diventi trampolino jihadismo globale” (ADNKRONOS)

di Alessia Virdis, ADNKRONOS

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Bertolotti (Ispi): “Il paradosso di al-Qaeda in parte rappresentata all’interno del governo talebani. Vede i Talebani come modello di riferimento per gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali dall’Africa subsahariana al Sudest asiatico”.

‘Ruolo chiave al-Qaeda che considera i Talebani come modello di riferimento per gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali dall’Africa subsahariana al Sudest asiatico’

Passato un anno dal ritiro delle forze internazionali e dal ritorno al potere dei Talebani, l’Afghanistan è “di fatto una terra in cui vi è assenza di comando e controllo da parte dell’autorità centrale”, che “addirittura tollera, quando non sostiene direttamente, la presenza di gruppi jihadisti radicali che potrebbero trasformare” il Paese “in un trampolino del jihadismo globale”. Risponde così Claudio Bertolotti, ricercatore associato Ispi e direttore di Start InSight, se gli si chiede quali siano i rischi per un Paese martoriato da decenni di guerre e di nuovo in mano ai Talebani.

Con un passato di missioni in terra afghana, quando “tra il 2003 e il 2008 era a capo della sezione contro-intelligence e sicurezza della Nato”, è stato “uno dei 500 italiani che ha fatto parte dell’operazione Usa ‘Enduring Freedom'” e oggi in un’intervista all’Adnkronos sottolinea la “presenza, non solo indisturbata ma addirittura come ospite formale di Sirajuddin Haqqani, in Afghanistan di Aymar Al-Zawahiri“, il numero uno di al-Qaeda la cui uccisione a Kabul è stata annunciata nei giorni scorsi dagli Usa. Quel Sirajuddin, comandante della ‘rete Haqqani’, vicina ad al-Qaeda, figlio del defunto Jalaluddin Haqqani e da un anno ministro degli Interni del governo talebano.

Bertolotti parla del “ruolo chiave attribuito” ad al-Qaeda in questo Afghanistan, della “presenza nel Paese di un gruppo terroristico con una visione globale”, un gruppo che “nelle parole di Al-Zawahiri ha definito i Talebani come i portatori dell’interpretazione corretta della sharia, che dovrebbe essere applicata a livello globale”, quindi “indicando i Talebani come modello di riferimento per tutti quei gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali che dall’Africa subsahariana fino al Sudest asiatico si stanno diffondendo e addirittura consolidando”.

‘minaccia crescente Stato islamico Khorasan, aumenta conflittualità all’interno della compagine talebana’

Al-Qaeda, rileva, “è il principale attore a cui si associa il suo competitor per eccellenza, lo Stato islamico Khorasan”, la “variante” nella regione dello Stato islamico, uno “Stato islamico regionale che si è consolidato territorialmente, compete con il governo talebano e si è trasformato in una minaccia concreta, crescente alla sicurezza stessa dell’Afghanistan inteso come Emirato islamico e ma anche dei suoi cittadini”. La componente sciita in particolare. Quella che, sottolinea, lo “Stato islamico Khorasan ha indicato come principale obiettivo insieme ai Talebani”, considerati dal gruppo “come apostati, corrotti, come coloro che hanno accettato un compromesso con l’Occidente”. E’ in questo ‘quadro’ che si inserisce la notizia della morte in un attacco di un attentatore suicida a Kabul, rivendicato dall’Is-K, di Rahimullah Haqqani, figura influente che sosteneva il governo talebano e si era pronunciato a favore del diritto all’istruzione delle donne.

E, prosegue, “la solidità di questo trampolino del jihad globale accresce col tempo a mano a mano che aumenta la conflittualità all’interno della stessa compagine talebana”. Perché, osserva Bertolotti, “il rischio è che le correnti all’interno del movimento talebano possano trasformare questa competizione per il potere in un confronto armato”. E all’interno di questo possibile confronto armato si inserirebbero “tre variabili”, che l’esperto indica nello Stato islamico Khorasan, nella “galassia di gruppi più o meno piccoli di jihadisti che in Afghanistan si stanno consolidando” e nella “cosiddetta resistenza afghana” – quella identificata con il Panjshir che è diventata il ‘Fronte nazionale di resistenza’ e che è guidata da Ahmad Massoud, il figlio del ‘Leone del Panjshir’ – che “si inserisce in un contesto conflittuale amplificandolo”, pur “non avendo la capacità di poter sconfiggere i Talebani”.

Quello della resistenza afghana, sottolinea Bertolotti, è un “elemento importante, non numericamente, ma da un punto vista politico” in un Afghanistan in cui i “Talebani hanno preso il potere, hanno posto un governo di fatto che però nel concreto non è in grado gestire la cosa pubblica afghana né di garantire quella minima cornice di sicurezza fisica ma anche economica di cui la popolazione ha bisogno”. A questo si aggiunge, rimarca, l’elemento di “‘esclusività” del governo talebano “in contrapposizione all’auspicata inclusività”. Di fatto, osserva, “si è assistito a una presa e consolidamento del potere da parte della forte componente della Shura di Quetta”, la storica leadership talebana “che si è di fatto trasformata in forza di governo esclusiva dell’Emirato islamico dell’Afghanistan”.

‘il paradosso di al-Qaeda in parte rappresentata all’interno del governo talebano’

Escluse dalla spartizione del potere, sottolinea, “le molteplici e variegate realtà talebane che nel corso degli anni e in particolar modo nell’ultimo periodo si sono coalizzate attorno al principale e storico nucleo talebano”. Esclusi in particolare “i Talebani del nord e dell’ovest, la componente uzbeka”. Un governo quello talebano, dice Bertolotti, che “non risponde in toto a quelle che erano le premesse dell’Accordo di Doha” del febbraio 2020 tra i Talebani e gli Usa e che “prevedeva tra i punti i principali l’esclusione dell’influenza ma anche della presenza fisica di associati ad al-Qaeda in territorio afghano”. Il raid Usa contro al-Zawahiri nel centro di Kabul.

E oggi siamo con il “paradosso” di “vedere al-Qaeda in parte rappresentata all’interno” del governo talebano e “con un ruolo di consulenza e confronto, in particolar modo con l’ala più oltranzista legata alla rete Haqqani, alla figura di Sirajuddin Haqqani”, che “si contrappone, un po’ anche in competizione interna, all’altra ala più ‘pragmatica’” quella del malawi Yaqoob – figlio del mullah Omar, il fondatore dei Talebani, e oggi ministro della Difesa dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, fresco di ‘promozione’ da mullah a malawi – e degli “associati” al mullah Baradar, vice premier del governo talebano e di fatto con un’autorità ridimensionata dopo essere stato il protagonista degli Accordi di Doha. E, conclude, “Sirajuddin e Yaqoob sono di fatto i due uomini di fiducia del malawi Haibatullah Akhundzada“, leader supremo dei Talebani.

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Ucciso Al-Zawahiri: cosa accadrà ad al-Qa’ida? Rispondono Bertolotti e Vidino (Adnkronos)

Per analisti al-Qaeda forte dopo al-Zawahiri, successore dall’Africa?

di Melissa Bertolotti, ADNKRONOS

Intervista originale pubblicata su ADNKRONOS

Per Bertolotti dell’Ispi è ”verosimile aspettarsi una reazione contro gli Usa”. Vidino vede tra i possibili successori l’egiziano Saif al-Adel o Abdal-Rahman al-Maghrebi, ma anche leader di gruppi in Africa dove il jihad si sta espandendo.

”Per al-Qaeda non cambia nulla” con l’uccisione del suo leader, l’ideologo egiziano Ayman al-Zawahiri, ”non è che la morte di un vecchio leader carismatico”. Perché ”oggi finisce la guerra al terrore, ma non finisce il terrore”, e a livello politico ”si chiude un’epoca storica, un capitolo importante già chiuso con il ritiro fallimentare dall’Afghanistan”. Ma sul terreno ”al-Qaeda è più forte che mai”, perché abbandonato ”l’idealismo e la visione globale di Osama Bin Laden” si è trasformata in ”una realtà regionale più concreta sul campo proprio grazie a Zawahiri”. Ne è convinto Claudio Bertolotti, analista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), che con l’Adnkronos riflette invece su come l’uccisione di al-Zawhiri ”cambi le cose per Biden. Tra tre mesi ci sono le elezioni e i democratici hanno bisogno di avere un presidente che abbia ottenuto dei risultati”.

Al contrario, la morte del successore di Osama Bin Laden ”non avrà un impatto diretto sulle capacità di al-Qaeda”. Anzi, ”ogni volta che un leader del movimento jihadista viene colpito, la reazione non si fa attendere”, così come non tarda ad arrivare ”un nuovo capo che in genere cerca di imporsi con la pianificazione nuovi attentati”. E’ quindi è ”verosimile aspettarsi una reazione di al-Qaeda contro gli Stati Uniti”, afferma Bertolotti, che ricorda come al-Zawahiri considerasse ”controproducente il jihad globale e idealista voluto da Bin Laden, criticava la sua volontà di colpire il Grande Satana, gli Stati Uniti, ovunque, anche in casa sua. Perché ogni azione provoca una reazione”.

La ”rivoluzione” che al-Zawahiri attua dal 2014 porta al-Qaeda a legarsi sempre più a gruppi di opposizione armata, ricorda Bertolotti, citando gli al-Shabab in Somalia e al-Qaeda nel Maghreb islamico nel Nord Africa, la presenza della Rete nell’Africa Sub sahariana e quella nel continente indiano. ”Tutte realtà che si rafforzano e fondano le loro radici con le istanze locali”, creando ”generazioni di combattenti che daranno il via in un futuro ipotetico alla nuova al-Qaeda”, spiega.

Su chi prenderà il posto di Zawahiri alla guida di al-Qaeda, l’analista esclude che possa essere l’attuale ministro degli Interni del governo dei Talebani, Sirajuddin Haqqani, che ospitava il leader terroristico nella sua casa in centro a Kabul dove è stato ucciso. ”Troppo furbo per prendere il posto di al-Zawahiri – spiega Bertolotti – Resterà leader dell’Haqqani network, organizzazione interna ai Talebani, ma autonoma. Non ha alcun interesse a diventare il nuovo capo al-Qaeda”.

Piuttosto, a succedere ad al-Zawahiri potrebbe essere un ”suo amico fraterno, l’ex colonnello egiziano Saif al-Adel”. Oppure Abdal-Rahman ”al-Maghrebi, capo della comunicazione mediatica di al-Qaeda” e genero di al-Zawahiri. In ogni caso si parla di ”un nuovo ideologo, di qualcuno che tenga viva l’al-Qaeda idealista e che non si occupi di far operare le truppe sul territorio”.

”Il futuro di al-Qaeda potrebbe essere in Africa”. E’ lì che si sta rafforzando ed è da lì, probabilmente, che arriverà il nuovo leader dopo l’uccisione di Ayman al-Zawahiri. Anche perché la rete fondata da Osama Bin Laden ”ha perso molto valore sullo scenario globale”, anche se ”ne ha guadagnato con l’ascesa dei Talebani in Afghanistan”. E ”il fatto che Zawahiri sia stato ucciso in centro a Kabul in una casa di proprietà del braccio destro del ministro degli Interni del governo dei Talebani lo dimostra, dimostra che al-Qaeda può operare liberamente nel Paese e ha un suo santuario in Afghanistan”. E’ quanto spiega all’Adnkronos Lorenzo Vidino, direttore del Program on Extremism della George Washington University. ‘

‘Il luogo dove Zawahiri è stato ucciso dimostra che sono veri i timori legati al fatto che il governo dei Talebani avrebbe fatto operare liberamente al-Qaeda”, afferma Vidino, notando ”le implicazioni di policy che questo comporta” anche per il fatto che ”i Talebani vogliamo ricevere fondi dalla comunità internazionale…”.

Insomma, è ”un deja vu, come era successo undici anni fa con Bin Laden ucciso in una villa a poche centinaia di metri da una caserma dell’esercito pachistano”. Ma è anche ”una prova schiacciante, ma non sconvolgente” della protezione che i Talebani forniscono ad al-Qaeda. E’ una ”chiara violazione degli accordi di Doha” perché la casa in cui viveva Zawahiri era di proprietà della rete Haqqani ”che fa da trait d’union tra i Talebani e al-Qaeda”. Ora ”bisognerà vedere questo cosa comporterà, anche se la situazione non cambia. A comandare sono i Talebani e se bisogna interagire con loro alla fine bisogna farlo”, al di là delle ”evidenze di supporto al terrorismo o delle violazioni dei diritti umani e delle donne”.

Sul ”toto candidati per la leadership” di al-Qaeda Vidino vede ”varie possibilità” a partire da ”un paio di candidati interni, il numero 2 Saif al Adel e il numero tre al-Maghrebi, genero di Zawahiri, entrambi pare siano in Iran”. Ma Vidino sottolinea anche che ”negli ultimi anni c’è stato un trend di crescita potenziale di alcuni affiliati, come gli al-Shabab in Somalia, e una perdita di valore di al-Qaeda globale”. Quindi ”potrebbe anche essere possibile che il nuovo leader del gruppo venga dalle affiliazioni”, considerato anche ”il riposizionamento jihadista globale sullo scenario africano”. L’analista spiega come ”il mondo jihadista e al-Qaeda stiano guadagnando terreno in Africa e meno sugli scenari classici come il Medio Oriente”. In ogni caso occorre ”in tempi rapidi trovare un successore” per dimostrare che ”il colpo inferto non sia letale” e ”lo spin che daranno è lo stesso del post morte Bin Laden, ovvero che la scomparsa di un leader non cambia nulla nell’importanza del concetto di Jihad, perché quello che conta sono gli obiettivi e non le persone”.

Comunque sia, al-Qaeda perde ”un suo personaggio importante, leader per 11 anni nonché uno dei fondatori”. Notizia accolta positivamente anche in Arabia Saudita, dove Vidino si trova. ”Nel Golfo, a livello governativo, è cambiato molto rispetto a 20 anni – spiega – Quasi tutti i Paesi del Medio Oriente e del Golfo non hanno più le ambiguità forti del passato per quanto riguarda il jihadismo. Anche se sicuramente esistono sacche di simpatia”. A fare eccezione è ”il Qatar, non a caso è un tramite con i Talebani e gli accordi sono stati firmati a a Doha”. Ma in Arabia Saudita ”la notizia della morte di Zawahiri è stata data dai telegiornali, come notizia di un giorno e nulla di eclatante”.

Vai all’intervista originale su ADNKRONOS