Ucraina, Afghanistan: facciamo il punto – RADIO 24
L’analisi del Direttore Claudio Bertolotti a Radio 24 – Nessun luogo è Lontano, ospite di Giampaolo Musumeci (puntata del 7 settembre 2022)
Ieri l’Aiea ha pubblicato il rapporto sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Dal documento si evince che nonostante i diversi danni alla struttura, i livelli di radiazione nella zona sono “rimasti normali”. Ciononostante l’agenzia è “gravemente preoccupata per la situazione”. Ne abbiamo parlato con Marco Sumini, professore di Fisica dei reattori nucleari all’Università di Bologna.
A poco più di un anno dalla presa del potere da parte dei talebani, torniamo a Kabul con voci esclusive per raccontare ancora un paese che sembra essere nuovamente dimenticato dalla maggior parte dei media e dell’opinione pubblica. Il racconto con Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight, e con le voci raccolte da Morteza Pajhwok, giornalista a Kabul.
Ascolta il Commento di C. Bertolotti a Radio 24 – Nessun luogo è lontano (dal minuto 25)
Possibile intesa sul Nucleare con cappello ONU come accordo sul grano? Di necessità virtù? E forse prodromo a un ulteriore tassello di pace? Cioè singoli dossier molto verticali sui quali si trova accordo (grano, nucleare, ecc) e che magari sommati alla lunga portano verso la pace
Ecco, questo è certamente un fatto di importanza rilevante. Il
Segretario generale dell’Onu António Guterres, di fatto ha ribadito in
forma edulcorata e accettabile per i russi, quanto già aveva auspicato all’inizio
di agosto, e lo ha fatto definendo una precisa priorità, ossia che: “Le
forze russe e ucraine debbano impegnarsi a non intraprendere alcuna operazione
militare verso o dal sito della centrale. Come secondo passo, dovrebbe
essere garantito un accordo su un perimetro smilitarizzato“. Il
fatto interessante è che come nel primo passo auspicato non sia fatto esplicito
riferimento all’abbandono dell’area da parte delle forze russe che, sì, non
potrebbero usare l’area per intraprendere attività offensive ma potrebbero
collocarvi, o mantenervi, all’interno assetti importanti per le attività di
comando, controllo e comunicazione. Il che sarebbe un grande vantaggio per la
Russia, non per l’Ucraina, ma che tranquillizzerebbe le opinioni pubbliche
occidentali e dunque le cancellerie europee. E forse sarebbe l’unica opzione
accettabile dalla Russia che in questo momento continua a mantenere, come ha
fatto per tutta la guerra, il vantaggio tattico pur a fronte di grandi perdite,
umane e materiali. Può essere un tassello verso un possibile negoziato, a
piccolissimi passi.
Un suo personale bilancio su questo primo anno di governo talebano in Afghanistan
A un anno dalla
presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan è un paese
fallito, in preda a una crisi alimentare ed agricola senza
precedenti e con un governo incapace di rispondere alle più elementari
necessità del suo popolo, dalla salute alla sicurezza, e che, nonostante la
crisi economica e sociale, impone un’economia di guerra e una sempre più severa
restrizione dei diritti individuali, a partire dalle donne, sempre più a
margine della vita sociale. Però va detto che l’Afghanistan è oggi
un paese sostanzialmente più sicuro di quanto non lo fosse un anno fa. Una
sicurezza che si traduce in numeri di vittime civili e militari che si sono
ridotti a una minima frazione di quelli registrati durante la guerra dei
vent’anni. Ma non per questo l’Afghanistan è divenuto un posto migliore in cui
vivere, anzi… è divenuto un incubatore di realtà jihadiste, nuove e vecchie,
che hanno la possibilità di collaborare o anche di combattersi a vicenda.
Dunque parliamo di una sicurezza relativa e di breve durata. E le premesse non
aprono ad alcuna prospettiva di miglioramento nel breve periodo; al contrario,
aumenta la presenza, l’attivismo, la capacità organizzativa e operativa dei gruppi
jihadisti che in questo paese hanno ritrovato una base sicura per
colpire all’interno dei confini afghani (dove si impone la competizione tra i
talebani al governo e il gruppo terrorista “Stato islamico Khorasan”), nei
paesi della regione (i talebani pakistani, il movimento islamico
dell’Uzbekistan, i jihadisti uiguri che guardano alla Cina come obiettivo da
colpire) ma anche più lontano, in Occidente, in Africa e nel Sud-Est asiatico.
Una situazione dinamica che ci consegna un paese più pericoloso e
fertile per il jihadismo internazionale di quanto non lo fosse prima
dell’intervento statunitense contro al-Qa’ida, responsabile degli attacchi
agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 e ospitata dai talebani afghani.
Dopo la presa del potere dei Talebani, in molti temevano una ondata di profughi afghani cercare rifugio in Europa. Così non è stato; come mai?
L’unica certezza per poter espatriare dall’Afghanistan è
quella irregolare, o illegale, dal momento che i talebani hanno vietato l’espatrio
se non per motivi particolari, con esclusione delle donne che non possono
lasciare il paese se non accompagnate da un uomo. Una situazione in cui
aumentano dunque i pericoli di un viaggio che non garantisce certezze ma che ha
costi molto elevati in pochi possono permettersi. Due le rotte migratorie principali:
l’Iran e il Pakistan, dove da ottobre a gennaio il numero di attraversamenti sarebbe
quadruplicato rispetto ai dati dell’anno precedenti. E parliamo di cifre che si
attestano a 4/5000 persone al giorno. Il fatto che non arrivino profughi
afghani in Europa non significa che non ci siano afghani che vogliano
raggiungerla, bensì è conseguenza della determinazione dell’Unione europea a
contenere i migranti nella regione. Unione
europea che lo scorso autunno ha promesso oltre 1 miliardo di dollari in aiuti umanitari per l’Afghanistan e i paesi vicini
che ospitano gli afghani che sono fuggiti.
L’Afghanistan dei Talebani continua ad essere isolato dal punto di vista diplomatico; la situazione è destinata a rimanere la stessa?
L’isolamento diplomatico è solamente una questione di
prospettiva. Se guardiamo con lo sguardo da occidente sì, l’Afghanistan è
isolato sul piano formale, anche se su quello sostanziale non mancano gli
indizi che suggeriscono un dialogo costante con gli Stati Uniti – dialogo che
ha avuto un momento di tensione con l’uccisione del capo di al-Qa’ida, ayman
al-Zawairi, proprio nel centro di Kabul, con questo confermando il solido
legame con la frangia talebana più estremista, quella del gruppo Haqqani il cui
leader è oggi il potente ministro degli interni. Ma di isolamento non possiamo
proprio parlare se guardiamo da una prospettiva orientale e mediorientale.
Palista, Uzbekistan, Qatar, Arabia Saudita sono paesi che hanno avviato
rapporti sempre più intensi con l’Emirato talebano, in particolare in tema di
scambi commerciali e supporto. Ma oltre a questi paesi di medio e piccolo peso
se uniscono die pesi massimi: la Cina e la Russia. La prima interessata a
tutelare i propri investimenti fatti in Afghanistan nel settore estrattivo
minerario, la seconda, Mosca, che ospita i talebani a tutti gli eventi di
natura commerciale che organizza. Dunque attenzione a parlare di isolamento, perché
questo in realtà è sempre meno concreto ed efficace.
La guerra in Ucraina ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica e delle cancellerie internazionali; l’Afghanistan è destinato a scivolare sempre più al margine dello scacchiere internazionale?
Purtroppo sì. Quella afghana è una guerra che l’Occidente
guidato dagli Stati Uniti ha perso. E le sconfitte devono essere dimenticate,
chiuse negli archivi della storia e lontane dall’opinione pubblica. Si guarda
oltre, alle priorità immediate: ora è la guerra in Ucraina che focalizza la
nostra attenzione, ma un giorno tornerà l’Afghanistan, insieme al sahel, all’Africa
sub sahariana ad attirare la nostra attenzione su conflitti che sono già in
corso ma che sono fuori dall’attenzione massmediatica e politica.
Attacco all’ambasciata russa di Kabul: quali le ragioni?
Il commento del Direttore Claudio Bertolotti a Radio24 – Effetto Notte, ospite di Roberta Giordano
Ascolta il commento di Claudio Bertolotti a radio 24, puntata del 5 settembre 2022 (dal minuto 48).
L’entità e la portata degli eventi che abbiamo registrato nell’ultimo anno, cioè da quando i talebani hanno provocato il collasso dello stato afghano, è marginale e rappresenta una minima parte degli attacchi che i talebani hanno storicamente condotto contro le forze afghane e quelle occidentali. Dunque lo Stato islamico Khorasan, che ha rivendicato l’attacco contro l’ambasciata russa di Kabul, ad oggi è ancora una minaccia limitata.
The Islamic State has claimed the suicide bombing at the Russian Embassy in Kabul in a statement through its Central Media outlet Amaq. The statement says that the bomber blew himself in a crowd. “The Taliban had assured countries including Russia of their safety” it concludes. pic.twitter.com/ambveXPJ70
i terroristi di al-Qa’ida, legati indissolubilmente ai talebani
Il problema è però spostato avanti nel tempo in quanto il gruppo terrorista e gli altri gruppi regionali si stanno rafforzando sempre più: da una parte ci sono i terroristi di al-Qa’ida, legati indissolubilmente ai talebani, dall’altra parte ci sono i gruppi del jihad globalista che guardano ai talebani come dei traditori da colpire e che auspicano una guerra settaria, in primo luogo contro la minoranza hazara di confessione sciita.
Sullo specifico attacco alla sede diplomatica russa a Kabul, sono due gli aspetti che devono essere considerati per valutarne la portata e la volontà di compierlo. Il primo è dimostrare che i talebani, che da forza insurrezionale e terrorista hanno assunto il ruolo di forza di governo, sono incapaci di garantire un minimo livello di sicurezza in un paese già sostanzialmente fallito e che non è in grado di garantire nulla ai propri cittadini e, come in questo caso, non è in grado di garantire la sicurezza agli stranieri.
la volontà di colpire, simbolicamente, quella Russia che i talebani cerca di coinvolgerli sul piano politico
Dall’altro lato vi è poi la volontà di colpire, simbolicamente, quella Russia che con i talebani non solo dialoga ma coerentemente con la propria visione cerca di coinvolgerli sul piano politico, ma ancor prima economico, commerciale e di ricostruzione infrastrutturale in linea con quanto cercò di fare la stessa Unione Sovietica nel 1989 quando cercò il dialogo e la collaborazione del leader della resistenza afghana Ahmad Shah Massoud.
Bertolotti (Ispi): “Il paradosso di al-Qaeda in parte rappresentata all’interno del governo talebani. Vede i Talebani come modello di riferimento per gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali dall’Africa subsahariana al Sudest asiatico”.
‘Ruolo chiave al-Qaeda che considera i Talebani come modello di riferimento per gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali dall’Africa subsahariana al Sudest asiatico’
Passato un anno dal ritiro delle forze internazionali e dal ritorno al potere dei Talebani, l’Afghanistan è “di fatto una terra in cui vi è assenza di comando e controllo da parte dell’autorità centrale”, che “addirittura tollera, quando non sostiene direttamente, la presenza di gruppi jihadisti radicali che potrebbero trasformare” il Paese “in un trampolino del jihadismo globale”. Risponde così Claudio Bertolotti, ricercatore associato Ispi e direttore di Start InSight, se gli si chiede quali siano i rischi per un Paese martoriato da decenni di guerre e di nuovo in mano ai Talebani.
Con un passato di missioni in terra afghana, quando “tra il 2003 e il 2008 era a capo della sezione contro-intelligence e sicurezza della Nato”, è stato “uno dei 500 italiani che ha fatto parte dell’operazione Usa ‘Enduring Freedom'” e oggi in un’intervista all’Adnkronos sottolinea la “presenza, non solo indisturbata ma addirittura come ospite formale di Sirajuddin Haqqani, in Afghanistan di Aymar Al-Zawahiri“, il numero uno di al-Qaeda la cui uccisione a Kabul è stata annunciata nei giorni scorsi dagli Usa. Quel Sirajuddin, comandante della ‘rete Haqqani’, vicina ad al-Qaeda, figlio del defunto Jalaluddin Haqqani e da un anno ministro degli Interni del governo talebano.
Bertolotti parla del “ruolo chiave attribuito” ad al-Qaeda in questo Afghanistan, della “presenza nel Paese di un gruppo terroristico con una visione globale”, un gruppo che “nelle parole di Al-Zawahiri ha definito i Talebani come i portatori dell’interpretazione corretta della sharia, che dovrebbe essere applicata a livello globale”, quindi “indicando i Talebani come modello di riferimento per tutti quei gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali che dall’Africa subsahariana fino al Sudest asiatico si stanno diffondendo e addirittura consolidando”.
‘minaccia crescente Stato islamico Khorasan, aumenta conflittualità all’interno della compagine talebana’
Al-Qaeda, rileva, “è il principale attore a cui si associa il suo competitor per eccellenza, lo Stato islamico Khorasan”, la “variante” nella regione dello Stato islamico, uno “Stato islamico regionale che si è consolidato territorialmente, compete con il governo talebano e si è trasformato in una minaccia concreta, crescente alla sicurezza stessa dell’Afghanistan inteso come Emirato islamico e ma anche dei suoi cittadini”. La componente sciita in particolare. Quella che, sottolinea, lo “Stato islamico Khorasan ha indicato come principale obiettivo insieme ai Talebani”, considerati dal gruppo “come apostati, corrotti, come coloro che hanno accettato un compromesso con l’Occidente”. E’ in questo ‘quadro’ che si inserisce la notizia della morte in un attacco di un attentatore suicida a Kabul, rivendicato dall’Is-K, di Rahimullah Haqqani, figura influente che sosteneva il governo talebano e si era pronunciato a favore del diritto all’istruzione delle donne.
E, prosegue, “la solidità di questo trampolino del jihad globale accresce col tempo a mano a mano che aumenta la conflittualità all’interno della stessa compagine talebana”. Perché, osserva Bertolotti, “il rischio è che le correnti all’interno del movimento talebano possano trasformare questa competizione per il potere in un confronto armato”. E all’interno di questo possibile confronto armato si inserirebbero “tre variabili”, che l’esperto indica nello Stato islamico Khorasan, nella “galassia di gruppi più o meno piccoli di jihadisti che in Afghanistan si stanno consolidando” e nella “cosiddetta resistenza afghana” – quella identificata con il Panjshir che è diventata il ‘Fronte nazionale di resistenza’ e che è guidata da Ahmad Massoud, il figlio del ‘Leone del Panjshir’ – che “si inserisce in un contesto conflittuale amplificandolo”, pur “non avendo la capacità di poter sconfiggere i Talebani”.
Quello della resistenza afghana, sottolinea Bertolotti, è un “elemento importante, non numericamente, ma da un punto vista politico” in un Afghanistan in cui i “Talebani hanno preso il potere, hanno posto un governo di fatto che però nel concreto non è in grado gestire la cosa pubblica afghana né di garantire quella minima cornice di sicurezza fisica ma anche economica di cui la popolazione ha bisogno”. A questo si aggiunge, rimarca, l’elemento di “‘esclusività” del governo talebano “in contrapposizione all’auspicata inclusività”. Di fatto, osserva, “si è assistito a una presa e consolidamento del potere da parte della forte componente della Shura di Quetta”, la storica leadership talebana “che si è di fatto trasformata in forza di governo esclusiva dell’Emirato islamico dell’Afghanistan”.
‘il paradosso di al-Qaeda in parte rappresentata all’interno del governo talebano’
Escluse dalla spartizione del potere, sottolinea, “le molteplici e variegate realtà talebane che nel corso degli anni e in particolar modo nell’ultimo periodo si sono coalizzate attorno al principale e storico nucleo talebano”. Esclusi in particolare “i Talebani del nord e dell’ovest, la componente uzbeka”. Un governo quello talebano, dice Bertolotti, che “non risponde in toto a quelle che erano le premesse dell’Accordo di Doha” del febbraio 2020 tra i Talebani e gli Usa e che “prevedeva tra i punti i principali l’esclusione dell’influenza ma anche della presenza fisica di associati ad al-Qaeda in territorio afghano”. Il raid Usa contro al-Zawahiri nel centro di Kabul.
E oggi siamo con il “paradosso” di “vedere al-Qaeda in parte rappresentata all’interno” del governo talebano e “con un ruolo di consulenza e confronto, in particolar modo con l’ala più oltranzista legata alla rete Haqqani, alla figura di Sirajuddin Haqqani”, che “si contrappone, un po’ anche in competizione interna, all’altra ala più ‘pragmatica’” quella del malawi Yaqoob – figlio del mullah Omar, il fondatore dei Talebani, e oggi ministro della Difesa dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, fresco di ‘promozione’ da mullah a malawi – e degli “associati” al mullah Baradar, vice premier del governo talebano e di fatto con un’autorità ridimensionata dopo essere stato il protagonista degli Accordi di Doha. E, conclude, “Sirajuddin e Yaqoob sono di fatto i due uomini di fiducia del malawi Haibatullah Akhundzada“, leader supremo dei Talebani.
Per Bertolotti dell’Ispi è ”verosimile aspettarsi una reazione contro gli Usa”. Vidino vede tra i possibili successori l’egiziano Saif al-Adel o Abdal-Rahman al-Maghrebi, ma anche leader di gruppi in Africa dove il jihad si sta espandendo.
”Per al-Qaeda non cambia nulla” con l’uccisione del suo leader, l’ideologo egiziano Ayman al-Zawahiri, ”non è che la morte di un vecchio leader carismatico”. Perché ”oggi finisce la guerra al terrore, ma non finisce il terrore”, e a livello politico ”si chiude un’epoca storica, un capitolo importante già chiuso con il ritiro fallimentare dall’Afghanistan”. Ma sul terreno ”al-Qaeda è più forte che mai”, perché abbandonato ”l’idealismo e la visione globale di Osama Bin Laden” si è trasformata in ”una realtà regionale più concreta sul campo proprio grazie a Zawahiri”. Ne è convinto Claudio Bertolotti, analista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), che con l’Adnkronos riflette invece su come l’uccisione di al-Zawhiri ”cambi le cose per Biden. Tra tre mesi ci sono le elezioni e i democratici hanno bisogno di avere un presidente che abbia ottenuto dei risultati”.
Al contrario, la morte del successore di Osama Bin Laden ”non avrà un
impatto diretto sulle capacità di al-Qaeda”. Anzi, ”ogni volta che un leader
del movimento jihadista viene colpito, la reazione non si fa attendere”, così
come non tarda ad arrivare ”un nuovo capo che in genere cerca di imporsi con
la pianificazione nuovi attentati”. E’ quindi è ”verosimile aspettarsi una
reazione di al-Qaeda contro gli Stati Uniti”, afferma Bertolotti, che ricorda
come al-Zawahiri considerasse ”controproducente il jihad globale e idealista
voluto da Bin Laden, criticava la sua volontà di colpire il Grande Satana, gli
Stati Uniti, ovunque, anche in casa sua. Perché ogni azione provoca una
reazione”.
La ”rivoluzione” che al-Zawahiri attua dal 2014 porta al-Qaeda a legarsi
sempre più a gruppi di opposizione armata, ricorda Bertolotti, citando gli
al-Shabab in Somalia e al-Qaeda nel Maghreb islamico nel Nord Africa, la
presenza della Rete nell’Africa Sub sahariana e quella nel continente indiano.
”Tutte realtà che si rafforzano e fondano le loro radici con le istanze
locali”, creando ”generazioni di combattenti che daranno il via in un futuro
ipotetico alla nuova al-Qaeda”, spiega.
Su chi prenderà il posto di Zawahiri alla guida di al-Qaeda, l’analista esclude che possa essere l’attuale ministro degli Interni del governo dei Talebani, Sirajuddin Haqqani, che ospitava il leader terroristico nella sua casa in centro a Kabul dove è stato ucciso. ”Troppo furbo per prendere il posto di al-Zawahiri – spiega Bertolotti – Resterà leader dell’Haqqani network, organizzazione interna ai Talebani, ma autonoma. Non ha alcun interesse a diventare il nuovo capo al-Qaeda”.
Piuttosto, a succedere ad al-Zawahiri potrebbe essere un ”suo amico fraterno, l’ex colonnello egiziano Saif al-Adel”. Oppure Abdal-Rahman ”al-Maghrebi, capo della comunicazione mediatica di al-Qaeda” e genero di al-Zawahiri. In ogni caso si parla di ”un nuovo ideologo, di qualcuno che tenga viva l’al-Qaeda idealista e che non si occupi di far operare le truppe sul territorio”.
”Il futuro di al-Qaeda potrebbe essere in Africa”. E’ lì che si sta rafforzando ed è da lì, probabilmente, che arriverà il nuovo leader dopo l’uccisione di Ayman al-Zawahiri. Anche perché la rete fondata da Osama Bin Laden ”ha perso molto valore sullo scenario globale”, anche se ”ne ha guadagnato con l’ascesa dei Talebani in Afghanistan”. E ”il fatto che Zawahiri sia stato ucciso in centro a Kabul in una casa di proprietà del braccio destro del ministro degli Interni del governo dei Talebani lo dimostra, dimostra che al-Qaeda può operare liberamente nel Paese e ha un suo santuario in Afghanistan”. E’ quanto spiega all’Adnkronos Lorenzo Vidino, direttore del Program on Extremism della George Washington University. ‘
‘Il luogo dove Zawahiri è stato ucciso dimostra che sono veri i timori
legati al fatto che il governo dei Talebani avrebbe fatto operare liberamente
al-Qaeda”, afferma Vidino, notando ”le implicazioni di policy che questo
comporta” anche per il fatto che ”i Talebani vogliamo ricevere fondi dalla
comunità internazionale…”.
Insomma, è ”un deja vu, come era successo undici anni fa con Bin Laden
ucciso in una villa a poche centinaia di metri da una caserma dell’esercito
pachistano”. Ma è anche ”una prova schiacciante, ma non sconvolgente” della
protezione che i Talebani forniscono ad al-Qaeda. E’ una ”chiara violazione
degli accordi di Doha” perché la casa in cui viveva Zawahiri era di proprietà
della rete Haqqani ”che fa da trait d’union tra i Talebani e al-Qaeda”. Ora
”bisognerà vedere questo cosa comporterà, anche se la situazione non cambia. A
comandare sono i Talebani e se bisogna interagire con loro alla fine bisogna
farlo”, al di là delle ”evidenze di supporto al terrorismo o delle violazioni
dei diritti umani e delle donne”.
Sul ”toto candidati per la leadership” di al-Qaeda Vidino vede ”varie
possibilità” a partire da ”un paio di candidati interni, il numero 2 Saif al
Adel e il numero tre al-Maghrebi, genero di Zawahiri, entrambi pare siano in
Iran”. Ma Vidino sottolinea anche che ”negli ultimi anni c’è stato un trend
di crescita potenziale di alcuni affiliati, come gli al-Shabab in Somalia, e
una perdita di valore di al-Qaeda globale”. Quindi ”potrebbe anche essere
possibile che il nuovo leader del gruppo venga dalle affiliazioni”,
considerato anche ”il riposizionamento jihadista globale sullo scenario africano”.
L’analista spiega come ”il mondo jihadista e al-Qaeda stiano guadagnando
terreno in Africa e meno sugli scenari classici come il Medio Oriente”. In
ogni caso occorre ”in tempi rapidi trovare un successore” per dimostrare che
”il colpo inferto non sia letale” e ”lo spin che daranno è lo stesso del
post morte Bin Laden, ovvero che la scomparsa di un leader non cambia nulla
nell’importanza del concetto di Jihad, perché quello che conta sono gli
obiettivi e non le persone”.
Comunque sia, al-Qaeda perde ”un suo personaggio importante, leader per 11 anni nonché uno dei fondatori”. Notizia accolta positivamente anche in Arabia Saudita, dove Vidino si trova. ”Nel Golfo, a livello governativo, è cambiato molto rispetto a 20 anni – spiega – Quasi tutti i Paesi del Medio Oriente e del Golfo non hanno più le ambiguità forti del passato per quanto riguarda il jihadismo. Anche se sicuramente esistono sacche di simpatia”. A fare eccezione è ”il Qatar, non a caso è un tramite con i Talebani e gli accordi sono stati firmati a a Doha”. Ma in Arabia Saudita ”la notizia della morte di Zawahiri è stata data dai telegiornali, come notizia di un giorno e nulla di eclatante”.
Con Alba Arcuri A cura di Laura Pepe L’accordo di Istanbul e i missili su Odessa. Ascoltiamo la nostra inviata a Dnipro, Azzurra Meringolo. Seconda parte, dedicata all’Afghanistan, ad un anno dal ritorno dei talebani. L’ospite di oggi è Claudio Bertolotti, Direttore di Start Insight, osservatorio di analisi strategica
#UCRAINA – Accordo sui corridoi sicuri per l’esportazione dei cereali: sarà realizzabile?
Pur con grandi limiti, gli accordi potranno proseguire. Questo non per una generosità da parte di Mosca, ma per una questione di opportunità: in primo luogo per dimostrare all’opinione pubblica russa e a quella ucraina che Putin ha a cuore le sorti delle popolazioni civili dell’una e dell’altra parte. E questo ovviamente ha una finalità propagandistica. Dall’altro lato la Russia guarda con grande interesse all’influenza che potrà acquisire nel continente africano, presentandosi come risolutrice di una crisi alimentare di cui è in gran parte responsabile.
In primo luogo dobbiamo guardare l’aspetto operativo: la Russia avrà ben chiari quelli che sono i corridoi di sicurezza per entrare e uscire dai porti ucraini. In secondo luogo l’aspetto comunicativo e diplomatico di una Russia che si propone di fronte e all’opinione pubblica interna, ma anche quella internazionale e alle cancellerie occidentali e dei paesi africani, come risolutrice che trova una soluzione e la concede sia al popolo ucraino sia ai paesi africani che sono i maggiori beneficiari di questa apertura e su cui la Russia sta investendo moltissimo in termini di influenza e presenza. Ora, che la Russia voglia e riesca a proporsi come elemento risolutore potrà apparire paradossale se si osservano superficialmente le dinamiche della guerra russo-ucraina, ma in realtà è una strategia che rientra in uno schema di guerra parallela combattuta sul piano mediatico e propagandistico. Ed è questo un ambito della guerra dove entrambi gli attori, Kiev e Mosca, sono molto attivi ed efficaci. Il vantaggio ovviamente lo ha la Russia che, negli anni ha investito moltissimo nello strumento di guerra d’influenza attraverso l’utilizzo del web, ormai divenuto un campo di battaglia spietato per la diffusione di notizie false e funzionali a influenzare le opinioni pubbliche dei paesi ostili che colpiti da questa tipologia di arma insieme ai paesi occidentali, o alcuni partiti politici, per spingerli ad avere posizioni non ostili quando non addirittura a sostegno della politica estera di Mosca. È la strategia dello Sharp Power: l’uso di politiche (diplomatiche) manipolative da parte di un paese per influenzare e minare il sistema politico di un paese bersaglio.
#AFGHANISTAN: la crisi alimentare, economica e sociale
L’Afghanistan è sempre più preda di una grave crisi umanitaria. E da gennaio ad oggi si è registrato un aumento della grave insicurezza alimentare a cui si sommano la siccità, i terremoti e le epidemie di malattie trasmesse dall’acqua contaminata, con un aumento significativo dei casi di colera, e un netto deterioramento delle condizioni complessive nelle aree urbane. L’inizio della primavera, che tradizionalmente porta sollievo dalla carenza di cibo, ha però dovuto fare i conti con la siccità – la peggiore degli ultimi trent’anni – che ha di fatto peggiorato le condizioni di vulnerabilità delle popolazioni più povere ed esposte.
In questo quadro già drammatico le ricadute
della guerra in Ucraina hanno contribuito ad aggravare la crisi, portando a un
aumento dei prezzi di cibo e carburante e a indebolire le catene di
approvvigionamento. Prezzi della farina di grano a Kabul che sono ad oggi
superiori dell’90% rispetto alla media quinquennale e difficilmente torneranno
ai livelli pre-guerra dato l’aumento dei costi di trasporto e gestione delle
merci.
Viene naturale chiedersi se, di fronte a una
drammatica fotografia del genere, non debbano essere riconsiderate le posizioni
della Comunità internazionale, in primo luogo gli Stati Uniti, in termini di
possibilità e libertà d’intervento a favore delle popolazioni afghane, e questo
indipendentemente dalla gestione politica talebana che ogni giorno si fa più
opprimente e violenta nei confronti degli afghani stessi.
Crisi umanitaria in Afghanistan e leggi sulle armi negli Stati Uniti – analisi
L’approfondimento settimanale in 20 min. a cura del team di analisti di START InSight. In questa puntata torniamo a parlare di #Afghanistan e di leggi sulle armi negli States (+ consigli di lettura e Ukraine Recovery Conference 2022 a Lugano). Con Claudio Bertolotti, Andrea Molle e Chiara Sulmoni.
L’Afghanistan preda di una grave crisi umanitaria che peggiora L’analisi di Claudio Bertolotti
Secondo il Dipartimento di Stato statunitense, “dalla presa di potere dei Talebani nell’agosto 2021, le condizioni umanitarie si sono deteriorate con oltre 24,4 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria – un aumento importante rispetto ai 18 milioni del 2021.
Si stima che siano 23 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza alimentare d’emergenza, un numero più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. È aumentato anche il numero di sfollati interni, passato da 670.000 all’inizio di agosto 2021 a 710.000 alla fine dell’anno”. E da gennaio ad oggi si è registrato un aumento della grave insicurezza alimentare a cui si sommano la siccità, i terremoti – dei quali accenniamo all’ultimo 15 giorni fa che ha portato alla morte di circa 1500 persone – e ancora le epidemie di malattie trasmesse dall’acqua contaminata, con un aumento significativo dei casi di colera, e un netto deterioramento delle condizioni complessive nelle aree urbane.
L’inizio della primavera, che tradizionalmente porta sollievo dalla carenza di cibo, ha però dovuto fare i conti con la siccità – la peggiore degli ultimi trent’anni – che ha di fatto peggiorato le condizioni di vulnerabilità delle popolazioni più povere ed esposte.
Va poi evidenziato come le ricadute della guerra in Ucraina abbiano contribuito ad aggravare la crisi, portando a un aumento dei prezzi di cibo e carburante e a indebolire le catene di approvvigionamento. In questa situazione si stima che le nuove impennate dei prezzi renderanno il cibo ancora più irraggiungibile per la maggior parte dei cittadini, dato che i prezzi della farina di grano a Kabul sono ad oggi superiori dell’90% rispetto alla media quinquennale.
“Non si può negare che il 2022 sia un anno cupo“, ha dichiarato Ben Reynolds, direttore per l’Afghanistan di Medair, un’organizzazione svizzera di aiuti umanitari. “Il 97% della popolazione potrebbe dover vivere (o sopravvivere) al di sotto della soglia di povertà entro la metà dell’anno“.
Viene naturale chiedersi se, di fronte a una drammatica fotografia del genere, non debbano essere riconsiderate le posizioni della Comunità internazionale, in primo luogo gli Stati Uniti, in termini di possibilità e libertà d’intervento a favore delle popolazioni afghane, e questo indipendentemente dalla gestione politica talebana che ogni giorno si fa più opprimente e violenta nei confronti degli afghani stessi.
(Cover photo by Fringer Cat on Unsplash)
LIVE streaming. Parliamo di Afghanistan, rimpatri dalla Siria e movimento dei Sovereign Citizens negli Stati Uniti
Puntata del 9 dicembre 2021
(Cover photo by Andrew Ruiz on Unsplash)
Talebani e nuova frontiera digitale islamista (RSI)
Nella puntata di ‘Millevoci’ del 2 settembre 2021 condotta da Nicola Colotti si parla di narrativa talebana, del ruolo dei social media, degli scenari futuri afghani anche per ciò che riguarda l’accesso alla rete, della posizione dei giganti della tecnologia come FB e Twitter e in questo quadro, dell’orizzonte delle donne.
Partecipano Chiara Sulmoni, giornalista e analista, presidente di Start Insight centro di ricerca sul radicalismo islamista Stefano Mele, esperto di cybersecurity e analista delle strategie comunicative digitali Alessandro Longo, giornalista, direttore di agendadigitale.eu
L’impatto emotivo della caduta di Kabul
Nelle ultime settimane si è molto parlato degli aspetti
politici e militari, legati alla sicurezza, della presa di Kabul e di tutto il
paese da parte dei talebani; meno percepito e discusso ma non meno importante, è
l’aspetto emotivo legato al ritorno prepotente e pervasivo sulla scena, del
movimento fondamentalista.
Si tratta di un impatto molto difficile da gestire per gli
afghani ma anche per chi ha contatti nel paese oppure in questi anni lo ha
raccontato. Anche per i veterani degli eserciti.
In questi giorni di evacuazioni, cooperanti, giornalisti,
professori, soldati, afghani residenti all’estero e individui con legami di
qualsiasi genere nel paese, hanno ricevuto messaggi toccanti e richieste di
aiuto: in tanti si sono mobilitati per dare sostegno a chi si sente in pericolo,
spesso senza riuscire a trovare una soluzione.
Molte persone, anche in grave pericolo di vita, sono state lasciate indietro. Possiamo quindi certamente sentirci sollevati e felici per chi ora dorme sonni più tranquilli, ma la soddisfazione è amara se pensiamo a coloro che non trascorrono la notte senza angosce. .
Tenendo poi conto anche del fatto che un esodo di queste
proporzioni, non può essere considerato un successo, viste le conseguenze a
lungo termine che avrà sul paese.
In generale, si può dire che al di là dei discorsi di distensione fatti dai talebani stessi -e che non sembrano affatto coincidere con la realtà delle cose- la paura sia grande, soprattutto fra la minoranza hazara e le donne.
In particolare, questo impatto emotivo va a colpire un’intera generazione che è nata e cresciuta durante gli ultimi 20 anni e che ha vissuto, pur con tutti i suoi limiti e fallimenti, un’apertura sul mondo e una possibilità di realizzare progetti prima impensabili. Per tanti giovani afghani -dagli attivisti agli studenti, dai giornalisti agli imprenditori, a chi ha lavorato per il governo impegnandosi nella difesa o nella ricostruzione del paese, a chi era impiegato nelle organizzazioni internazionali, a chi ha lottato strenuamente per i diritti e un futuro migliore attraverso le numerose ONG locali- la delusione, lo sconcerto, la rabbia e il senso di abbandono e di disperazione sono forti e disarmanti.
Si tende a sottolineare come due decenni di presenza occidentale abbiano favorito soprattutto le realtà urbane, e come le aree discoste e rurali siano state invece toccate in maniera molto meno importante da questo cambiamento; anzi, forse hanno sentito maggiormente l’assenza di un governo forte anche nel fornire i servizi. Tuttavia questi giovani, numerosi, che sono in molti casi rientrati in Afghanistan dall’estero con un sogno e la voglia di provare a rincorrerlo, rappresentavano la base ideale per una ricostruzione veramente afghana, portata avanti da afghani e che non si può realizzare nel corso di una sola generazione. Il processo è lungo e avrebbe dovuto essere protetto e sostenuto.
Ora i talebani dovranno governare ma questa loro ostilità nei confronti di chi in passato era già impegnato su questo fronte -e quindi ha le capacità e le competenze, gli studi, i contatti, ma che oggi ha lasciato il paese- insieme ai limiti imposti dall’applicazione della sharia, rende tutto ciò assolutamente complicato e difficile.
Un’altra preoccupazione è che in un futuro molto prossimo si chiuda anche la finestra sulla libertà d’espressione che aveva rappresentato una delle storie di successo di questi ultimi 20 anni, quando sono stati aperti centinaia fra canali TV, radio e giornali. Il timore concreto è che riceveremo sempre meno notizie dall’interno dell’Afghanistan, e gli afghani potranno contare su sempre media che non abbiano un carattere prettamente religioso. La mutazione è già in atto.
Non lasciamo solo l’Afghanistan.
I talebani dichiarano la formazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan: la nuova bandiera
I talebani chiedono la riapertura dei commerci e l’avvio di relazioni diplomatiche con tutti i paesi.
A meno di una settimana dalla presa del potere con la conquista della capitala Kabul, i talebani hanno annunciato ufficialmente la formazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.
(Ri)nasce l’Emirato islamico dell’Afghanistan, quello per cui i talebani hanno combattuto vent’anni. Lo ha annunciato il portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid su Twitter in occasione del 102° anniversario dell’indipendenza del paese dal dominio britannico. Zabiullah, sempre attraverso Twitter, ha condiviso l’immagine della nuova bandiera afghana (sopra): diversa dalla bandiera dell’Emirato dell’Afghanistan utilizzata dai talebani fino ad oggi. Zabiullah ha dichiarato che l’Emirato islamico intende instaurare buone relazioni diplomatiche e commerciali con tutti i paesi.
Il ritorno di Baradar
Sempre Zabiullah aveva in precedenza annunciato l’arrivo del vice leader e co-fondatore dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar, a Kandahar – ex capitale dell’Emirato durante il dominio del movuimento fondamentalista. Insieme a lui il gruppo “diplomatico” che nel corso degli ultimi anni ha diretto e partecipato ai dialoghi negoziali di Doha.
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