Medioriente: l’operazione antiterrorismo di Israele in Cisgiordania.

Il commendo del Direttore Claudio Bertolotti a TIMELINE SKY TG 24 (30 agosto 2024, dal minuto 13′).

Quanto sta accadendo oggi in Medioriente presenta due aspetti significativi. Il primo riguarda l’operazione militare anti-terrorismo avviata da Israele in Cisgiordania, un’operazione che è la conseguenza dell’attentato suicida a Tel Aviv, rivendicato da Hamas, e seguito dalla minaccia di Khaled Meshal (leader di Hamas all’estero) di lanciare una vasta campagna di attacchi suicidi in Israele, partendo proprio dalla Cisgiordania. Il secondo aspetto riguarda le tensioni interne tra i gruppi islamisti e terroristi palestinesi, con l’ipotesi di un possibile colpo di stato per destituire Hamas e porre fine al conflitto con Israele.

Due fattori che si sommano all’attesa rappresaglia iraniana (e l’attesa stessa è un’arma psicologica usata da Teheran per mantenere in apprensione l’opinione pubblica israeliana) e l’ipotesi di una tregua umanitaria nella Striscia di Gaza; una tregua, svincolata dall’ipotesi di cessate il fuoco in discussione a Doha, che però Hamas certamente utilizzerebbe per riorganizzare le proprie forze.

E, dal punto di vista tattico e operativo, Hamas starebbe dimostrando di aver perso in termini di capacità di colpire e coordinare il proprio sforzo contro Israele. Un aspetto non secondario, che confermerebbe l’efficacia dell’azione militare israeliana.


Elezioni USA. La campagna elettorale: solo una questione di soldi?

di Melissa de Teffè

Solo una questione di soldi?

Come disse saggiamente Warren Buffett: “se vuoi sapere la verità, segui la scia dei soldi”, e anche in questa corsa presidenziale, i soldi parlano. Per Trump, abbiamo visto che, dopo il supporto di Elon Musk con la promessa di donare 45 milioni di dollari al mese, di Stephen Schwarzman, CEO di Blackstone, e di Jamie Dimon, CEO di JP Morgan, si è aggiunto anche quello recente di Nicole Shanahan, (ex moglie del co-fondatore di Google, Sergey Brin, e sostenitrice più ricca di RFK Jr. – Robert Kennedy Jr., figlio di Bobby, settimo figlio della famiglia Kennedy e Procuratore Generale durante la breve presidenza del fratello John, anch’egli assassinato a Los Angeles), dopo che Kennedy Jr. ha deciso di ritirarsi dalla corsa per supportare Trump.

Infatti, è di questi giorni la notizia che RFK Jr., dopo aver trovato, sin dall’inizio della campagna elettorale, la porta chiusa dei democratici (infatti il DNC, l’organismo che gestisce il Partito Democratico, aveva rifiutato di inserire RFK Jr. nella lista dei candidati – non ne sappiamo il motivo – costringendolo a correre come indipendente), ha deciso di unirsi alla campagna di Trump, scoprendo di avere molte più sinergie con il suo programma rispetto a quello del ticket Harris-Walz.

Trump, quindi, vedrà aumentare il suo già ricco bottino di finanziamenti.

Ma torniamo alla scia dei soldi. Perché è stata nominata la Harris e nessun altro? Il motivo principale risiede nel regolamento che governa il Partito Democratico, che stabilisce chi prende cosa, come e quando.

Perché Kamala Harris è divenuta quasi automaticamente la candidata democratica? Inizialmente, Biden, nonostante la sua malattia degenerativa, si ricandida e inizia a ricevere il supporto finanziario dai “donors” per sostenere le spese della campagna elettorale, ma dopo il disastroso confronto televisivo con Trump, Biden appare, di fronte alle telecamere di tutto il mondo, inadatto. È quindi imperativo trovare un sostituto. Qui apro una parentesi sul passato della Harris.

Quando Biden decise di nominare la Harris come Vicepresidente, non fece altro che seguire la tradizione americana di scegliere qualcuno che non creasse problemi e che eseguisse quei compiti che il Presidente considerava secondari, ma comunque necessari. Harris non ha mai raccolto molto sostegno durante la sua corsa presidenziale nel 2020 e, durante questi tre anni, è stata lasciata nell’ombra a causa della sua incapacità di parlare a braccio e di sviluppare una qualsiasi oratoria politica.

Nella storia americana recente, il paragone perfetto è il Vicepresidente Quayle, secondo a Bush Sr., senatore dell’Indiana, di bell’aspetto, che divenne la barzelletta nazionale durante l’unico dibattito tra Vicepresidenti, dal quale non riuscì mai più a risollevarsi. Questa è la vicenda: nonostante i suoi consiglieri gli avessero fermamente suggerito di non paragonarsi a John F. Kennedy per giustificare la sua giovane età, e dove Kennedy, alla stessa età, era già un eroe di guerra, aveva vinto un Premio Pulitzer e godeva di una reputazione nazionale incredibile quando si candidò alla presidenza, il 5 ottobre 1988, quando il moderatore Tom Brokaw chiese se fosse qualificato per essere vicepresidente, Quayle rispose: “Ho tanta esperienza quanta ne aveva Jack Kennedy quando si candidò alla presidenza.” Bentsen, astuto politico texano di lunga data e controparte democratica, senza esitazione rispose: “Senatore, io ho servito con Jack Kennedy. Conoscevo Jack Kennedy. Jack Kennedy era un mio amico. Senatore, lei non è Jack Kennedy.” (qui il breve video)

L’espressione mortificata di Quayle è rimasta impressa nel tempo, al punto che questo dibattito è un capitolo di uno dei libri guida delle “cose da non dire e da non fare in politica”: The Art of the Political Putdown*.

Se da un lato mantenere la manovrabilità di Biden, a causa della sua malattia, rende la scelta della Harris perfetta, dall’altro ci sono le regole gestionali delle finanze della campagna. Mi spiego: dal momento in cui Biden si ritira alla selezione della Harris trascorrono due settimane in cui i dirigenti di partito decidono come procedere. I fondi accumulati fino ai primi giorni di agosto sono all’incirca 240 milioni di dollari, che però appartengono al ticket Biden-Harris. Può Harris avvalersi di questi soldi? Può un altro candidato usarli in caso di nomina? Di candidati più che autorevoli e papabili ce ne sono, come i governatori Shapiro o Pritzker. Gli esperti di finanza elettorale affermano che Harris può accedere a parte di quel denaro senza troppi ostacoli, ma nessun altro candidato. Infatti, se fosse consacrato qualcun altro, con molta probabilità, il denaro dovrebbe essere restituito ai singoli donatori. Ecco perché la scelta ricade sulla Harris che, essendo la candidata iniziale, può usufruire di 91 milioni di dollari dei 240 raccolti per la rielezione, afferma Kenneth Gross, un consulente senior di diritto politico ed ex Consigliere Generale Associato della Commissione Elettorale Federale, dell’Associated Press. Anche un altro guru del campo, Saurav Ghosh, avvocato del Campaign Legal Center, ci dice che Harris ha diritto a usare i fondi per la sua campagna se rimane nel ticket come compagna di un altro candidato. Sappiamo già com’è andata, e quindi il DNC ha messo a disposizione il tesoretto.

Torniamo quindi a oggi. La decisione di Kennedy di attraversare il Rubicone democratico, causando peraltro una tempesta familiare non indifferente, porta con sé non solo soldi ma anche quel 5% di voti che, in una gara ravvicinata, può significare tutto. Secondo indiscrezioni da parte di un consulente di Trump, sappiamo che a Kennedy è stato promesso, in caso di vittoria, o la sedia di Attorney General (Procuratore Generale, come suo padre) o la sedia di Burns, capo della CIA. Ovviamente, la notizia che si crede abbia fatto rivoltare in tomba i già non più Kennedy, è una bomba, ma per il direttivo democratico è atomica, perché darebbe a RFK jr, la possibilità di cercare, sperando di trovare, i motivi dei due assassinii forse i più famosi al mondo.

Per ovviare a questa e ad altre chance di vittoria, i democratici hanno deciso di lasciare il nome Kennedy nelle schede elettorali, soprattutto in quelle degli Stati chiave, o swing States, che potrebbero portare probabilmente la vittoria al campo avverso, quali il Michigan, Wisconsin e il Colorado, con l’idea di causare confusione e disperdere voti.
I colpi di scena non mancano e ieri, per intrecciare maggiormente questa fitta trama elettorale, Zuckerberg ha scritto una lettera aperta al Dipartimento di Giustizia, in un atto quasi di contrizione cattolica, un mea culpa per aver ceduto alle pressioni sia dell’amministrazione Biden-Harris prima, sia dell’FBI dopo, per cancellare dalle sue piattaforme informazioni o messaggi che ledevano l’immagine politica presidenziale (vedasi il caso Hunter Biden e i legami con società ucraine che hanno beneficiato finanziariamente la famiglia) o le scelte di Fauci sulle vaccinazioni, incluse satire e gag. Zuckerberg conclude informando che queste richieste non verranno più né ascoltate né soddisfatte, indipendentemente da chi le faccia, e che da questa campagna in poi non ci saranno più contributi finanziari viste le polemiche nate dai contributi bipartisan di quattro anni fa. Insomma, i colpi di scena sono tanti, quasi una telenovela in diretta. Aspettiamo senza ansia la prossima puntata, augurandoci dimostrazioni più alte che basse.


Cognitive warfare: manipolare i numeri per condizionare l’opinione pubblica globale. Come Hamas ha ingannato i media occidentali.

di Claudio Bertolotti.

Tratto dal libro di C. Bertolotti C. (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, ed. START InSight, Lugano, pp. 325. VAI AL LIBRO.

Abstract

L’articolo analizza l’emergere della “guerra cognitiva” come strategia moderna che sfrutta tecnologie avanzate e tecniche psicologiche per manipolare la percezione pubblica, superando la tradizionale disinformazione. In questo contesto, Hamas ha adottato tali tattiche per influenzare l’opinione pubblica globale durante il conflitto con Israele. Utilizzando simboli, narrazioni emotive, e campagne mediatiche, Hamas ha manipolato le informazioni per ottenere supporto internazionale. L’articolo esamina anche la manipolazione dei dati sulle vittime del conflitto da parte di Hamas, evidenziando incongruenze statistiche che suggeriscono la falsificazione deliberata per confondere e condizionare la percezione globale degli eventi.

La guerra cognitiva e le sue potenzialità a favore del terrorismo di Hamas.

Nell’era digitale, la guerra non è più confinata ai campi di battaglia fisici. Al centro del conflitto contemporaneo emerge il concetto di “guerra cognitiva”, una strategia sofisticata che mira a influenzare, modellare e talvolta controllare la percezione e il comportamento umano. La guerra cognitiva si distingue per l’uso di tecnologie avanzate e tecniche psicologiche per infiltrarsi nelle menti degli individui. Questo approccio va oltre la semplice disinformazione o propaganda; «include l’uso di intelligenza artificiale, algoritmi di apprendimento automatico per influenzare il pensiero e le decisioni delle persone senza il loro consenso esplicito» (Farwell, J. 2020). Questo tipo di guerra si avvale della vulnerabilità delle società moderne all’overload informativo, utilizzando le stesse piattaforme che facilitano la comunicazione globale e l’accesso all’informazione per diffondere contenuti mirati a destabilizzare.

L’articolo che segue analizza come l’attore para-statale Hamas abbia adottato strategie di guerra cognitiva per avanzare i suoi obiettivi geopolitici, economici e sociali. Attraverso il caso studio della guerra Israele-Hamas in corso e analisi teoriche, esploriamo come queste tattiche vengano impiegate in uno scenario di conflitto ibrido, caratterizzato dalla manipolazione.

Questa articolo, frutto di attività di ricerca e tratto dal volume “Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas”, non solo mette in luce le capacità distruttive della guerra cognitiva, ma promuove anche un dibattito critico sulle norme internazionali e le politiche necessarie per regolamentare l’uso delle tecnologie cognitive in contesti bellici.

La guerra cognitiva rappresenta una frontiera critica e inquietante del conflitto moderno. La nostra comprensione di questo fenomeno è essenziale per la salvaguardia delle democrazie e per il mantenimento della pace e della stabilità globale.

L’influenza delle opinioni pubbliche amiche e avversarie

Nel corso del conflitto con Israele, Hamas ha adottato varie strategie di cognitive warfare – la guerra cognitiva – per influenzare l’opinione pubblica, sia arabo-musulmana che occidentale, al fine di ottenere sostegno per la propria causa.

Un elemento chiave è stato l’uso di simboli e narrazioni. Hamas ha adottato simboli e narrazioni tesi a suscitare empatia o sostegno per la propria causa, cercando di creare un legame emotivo tra il pubblico e la sua lotta. Una scelta che ha contribuito a plasmare le opinioni delle persone attraverso un’identificazione emotiva con la causa di Hamas.

Le attività online hanno rappresentato un’altra tattica importante. Hamas ha saputo ben sfruttare le piattaforme in rete per diffondere messaggi, coinvolgere l’opinione pubblica e coordinare attività di propaganda. Una presenza virtuale che ha garantito al gruppo di raggiungere un vasto pubblico in tutto il mondo.

La messa in scena di eventi mediatici è un’altra strategia impiegata da Hamas, che ha saputo organizzare con cinica maestria eventi o situazioni mirate a generare un’ampia e favorevole copertura mediatica o a suscitare emozioni di sdegno – verso Israele – e di solidarietà – verso i palestinesi. Questi eventi sono stati progettati per influenzare l’opinione pubblica attraverso una narrazione a supporto della causa di Hamas, volutamente sovrapposta e confusa con la cosiddetta “causa palestinese”. Un target, quello di Hamas, che è solo secondariamente interno poiché l’obiettivo primario è il coinvolgimento dell’opinione pubblica internazionale. Hamas ha così tentato di ottenere sostegno a livello globale coinvolgendo organizzazioni internazionali, governi o gruppi di pressione: una strategia che ha mirato ad ampliare il sostegno internazionale alla sua causa, influenzando così la percezione globale del conflitto. In sintesi, attraverso l’uso coordinato di queste strategie, Hamas ha cercato di modellare la percezione del pubblico a livello locale e internazionale, puntando ad ottenere il più ampio sostegno possibile contro Israele (Bachmann, 2024)

Una delle principali strategie è stata proprio la propaganda mediatica, basata sull’utilizzo dei media per diffondere un’interpretazione favorevole della causa di Hamas. Attraverso interviste, comunicati stampa e altri mezzi, i funzionari di Hamas hanno cercato di plasmare la percezione del pubblico a loro favore. Nel corso del conflitto Hamas ha così sfruttato i media per diffondere immagini e storie progettate per suscitare empatia e sostenere la propria narrativa, inclusa la presentazione di immagini di vittime civili o situazioni drammatiche, spesso senza contestualizzazione o con informazioni frammentate.

Inoltre, aspetto maggiormente rilevante – e in parte già accennato – Hamas ha adottato la disinformazione come “tecnica di combattimento”, diffondendo deliberatamente informazioni false o fuorvianti per confondere e manipolare la percezione degli eventi. Un approccio che ha creato un ambiente caratterizzato da una verità sfocata, mettendo in dubbio la credibilità delle fonti di informazione e complicando la comprensione dei fatti da parte del pubblico.

Un esempio: il cosiddetto Ministero della Salute di Gaza, di fatto controllato e gestito da Hamas, ha dichiarato, al 1 marzo 2024, un numero di morti superiore a 30.000, principalmente donne e bambini. È credibile? No, non lo è.

Abraham Wyner, professore di statistica e data science presso la Wharton School dell’Università della Pennsylvania e condirettore della facoltà di Sports Analytics and Business Initiative, ha condotto uno studio sulla questione utilizzando i dati forniti da Hamas dal 26 ottobre al 10 novembre 2023, pubblicato in forma sintetica nell’articolo How the Gaza Ministry of Health Fakes Casualty Numbers. The evidence is in their own poorly fabricated figures (Wyner, 2024), le cui conclusioni si riportano qui in forma sintetica.

Il conteggio delle vittime civili a Gaza ha catturato l’attenzione internazionale sin dall’inizio della guerra. La principale fonte di dati a cui i media e la politica a livello globale hanno fatto riferimento è stata il Ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas, il quale ha sostenuto – alla data del 1° marzo 2024 – un dato di oltre 30.000 morti, la maggioranza dei quali costituita da bambini e donne. La stessa amministrazione statunitense, guidata dal presidente Joe Biden, ha dato credibilità ai dati di Hamas. Durante un’audizione alla commissione dei servizi armati della Camera alla fine di febbraio, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha affermato che il numero di donne e bambini palestinesi uccisi dal 7 ottobre fosse “oltre 25.000”; affermazione a cui è seguita la pronta precisazione del Pentagono in cui si evidenziava che il Segretario avesse citato «una stima del Ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas». Lo stesso presidente Biden aveva precedentemente menzionato quella cifra, sottolineando che «troppi, degli oltre 27.000 palestinesi uccisi in questo conflitto [fossero] civili innocenti e bambini». Affermazione, anche in questo caso, a cui è seguita la nota stampa della Casa Bianca riportante il fatto che il presidente avesse fatto «riferimento a dati pubblicamente disponibili sul numero totale di vittime» (Wyner, 2024).

Il problema con questi dati è evidente: i numeri non sono veritieri. Una considerazione che partendo dall’analisi di dati e informazioni disponibili, suggerisce come le vittime non possano essere in prevalenza donne e bambini ma, al contrario, combattenti di Hamas.Se i numeri di Hamas sono in qualche modo alterati o fraudolenti, questo è verificabile attraverso l’analisi degli stessi dati, i quali, anche se limitati, sono comunque sufficienti. Vediamo come Wyner ha potuto verificarne l’attendibilità.

Dal 26 ottobre al 10 novembre 2023, il Ministero della Salute di Gaza ha pubblicato giornalmente cifre sulle vittime, includendo sia il numero totale sia quello specifico di donne e bambini. Il primo elemento su cui Wyner (2024) ha posto l’attenzione è il numero “totale” di morti riportato che, come illustrato nel grafico in Figura 10, mostra un aumento costante nel tempo, quasi lineare.


Figura 10. Il grafico rivela un aumento estremamente regolare delle vittime nel periodo con­siderato. I dati aggregati da Wyner e forniti dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (Ocha) sono basati sulle cifre del Ministero della Salute di Gaza (Fonte Tablet Magazine).

Questa costanza nell’andamento delle morti mostra elementi incoerenti che suggeriscono un elevato grado di non genuinità. In altri termini, non sarebbero veritieri. Ci si aspetterebbe una certa variazione giorno per giorno, ma la media del conteggio giornaliero delle vittime durante il periodo in esame è di circa duecentosettanta, più o meno il quindici percento: una variazione sorprendentemente minima perché ci si aspetterebbero giorni con almeno il doppio della media (o più) e altri con la metà (o meno). Ciò che emerge è la probabilità che il ministero di Gaza abbia diffuso numeri giornalieri falsati, che variano troppo poco rispetto al normale andamento statistico e ciò sarebbe conseguenza del fatto che, da parte di chi avrebbe prodotto quei dati, vi sarebbe una mancanza di comprensione del comportamento dei numeri che si verificano naturalmente. Pur a fronte dell’assenza di dati di controllo verificati, i dettagli dei conteggi giornalieri rendono i numeri quantomeno sospetti (Wyner, 2024).

Entrando più nel dettaglio, rileva Wyner, dovremmo osservare variazioni nel numero di vittime bambini che seguono la variazione nel numero di donne. Questo perché la fluttuazione giornaliera nei conteggi delle morti è causata dalla variazione nel numero di attacchi su edifici residenziali e contro i tunnel, il che dovrebbe risultare in una considerevole variabilità nei totali ma con una variabilità inferiore nella percentuale di morti tra i gruppi (uomini, donne, bambini): è un principio statistico basilare sulla variabilità casuale. Di conseguenza, nei giorni con molte vittime donne dovrebbero esserci grandi numeri di bambini vittime, e nei giorni in cui si riporta un basso dato di donne uccise, dovrebbero essere riportati solo pochi bambini. Questa relazione può essere misurata e quantificata dal coefficiente di determinazione (R-quadrato) che indica quanto siano correlati i conteggi giornalieri delle vittime donne con i conteggi giornalieri delle vittime bambini. Se i numeri fossero reali, ci si aspetterebbe un R-quadrato sostanzialmente maggiore di 0, tendendo più vicino a 1,0. Ma il coefficiente di determinazione R-quadrato, indicato dal grafico in Figura 11, è 0,017, il che indica che sul piano statistico e sostanziale non differisce da 0 (Wyner, 2024).


Figura 11. Il numero giornaliero di bambini segnalati come uccisi non ha alcuna relazione con il numero di donne segnalate. Il coefficiente R2 è dello 0,017 e la relazione è statisticamente e sostanzialmente insignificante (Fonte Tablet Magazine).

Questa assenza di correlazione costituisce il secondo indizio circostanziale che confermerebbe la non autenticità dei numeri forniti dal Ministero della Salute di Gaza.

Un’analisi approfondita richiede di considerare un fattore aggiuntivo significativo: considerata la dinamica del conflitto, ci si aspetterebbe un numero giornaliero di vittime di sesso femminile strettamente legato al numero di vittime di sesso maschile, escludendo donne e minori. Questa ipotesi si basa sul presupposto che le variazioni nella frequenza e nell’intensità dei bombardamenti e degli attacchi influenzino uniformemente i conteggi giornalieri di entrambi i sessi. Contrariamente a tale aspettativa, l’analisi dei dati non rivela una correlazione diretta tra i due; anzi, emerge una marcata correlazione inversa (come illustrato nel grafico in Figura 12). Questo risultato appare incoerente con le previsioni e suggerisce ancora una volta che i dati riportati potrebbero non riflettere la realtà, offrendo un terzo indizio a supporto della possibile mancata autenticità delle cifre comunicate.


Figura 12. La correlazione tra il conteggio giornaliero degli uomini e il conteggio giornaliero delle donne decedute è estremamente forte e negativa (valore p < 0,0001) (Fonte Tablet Ma­gazine).

Wyner ha poi identificato ulteriori incongruenze nei dati analizzati: ad esempio, le cifre relative alle vittime maschili del 29 ottobre sembrano contraddire quelle del giorno precedente, suggerendo il paradosso che ventisei uomini siano tornati in vita o, piuttosto, la discrepanza potrebbe derivare da errori di attribuzione o di registrazione. Inoltre, ci sono giornate in cui il numero di uomini segnalati come vittime è insolitamente basso, quasi nullo; se si trattasse di semplici errori di registrazione, ci si aspetterebbe che, in queste occasioni, il numero di vittime femminili fosse normale, almeno in media. Tuttavia, rileva Winer, si è osservato che nei tre giorni in cui il conteggio degli uomini è vicino allo zero, il che suggerisce un errore, il numero di vittime femminili è insolitamente alto. Curiosamente, i tre picchi giornalieri più elevati di vittime femminili coincidono proprio con queste anomalie, come evidenziato dal grafico in Figura 13) (Wyner, 2024).


Figura 13. Ci sono tre giorni in cui il conteggio delle vittime maschili è vicino allo zero. Questi tre giorni corrispondono ai tre conteggi giornalieri più alti delle vittime femminili (Fonte Tablet Magazine).

Cosa dovrebbero indurci a pensare queste osservazioni? Anche se le evidenze non sono conclusive, sembra fortemente indicativo che i numeri siano stati generati attraverso un metodo poco o per nulla legato alla realtà effettiva. Sembra che ci sia stata una decisione arbitraria da parte del Ministero della Salute di Hamas nel fissare un numero totale di vittime giornaliero. Questo si deduce dall’eccessiva regolarità con cui i totali giornalieri aumentano, il che rende poco credibile la loro autenticità. Successivamente, sembra che abbiano attribuito casualmente circa il settanta percento di queste cifre totali alle donne e ai bambini, variando questa distribuzione di giorno in giorno. Infine, il numero delle vittime maschili è stato adattato per raggiungere il totale prefissato. Questo spiegherebbe il perché di dati così incoerenti e delle evidenti anomalie osservate.[1]

Vi sono anche altre evidenti “bandiere rosse”. Il Ministero della Salute di Gaza ha costantemente sostenuto che circa il settanta percento delle vittime siano donne o bambini, un dato molto più alto rispetto ai numeri riportati nei conflitti precedenti con Israele. Inoltre, se il settanta percento delle vittime sono donne e bambini e il venticinque percento della popolazione è composto da uomini adulti, ciò suggerisce che i numeri riportati siano almeno grossolanamente inaccurati e molto probabilmente falsificati. Infine, il 15 febbraio, Hamas ha ammesso di aver perso 6.000 propri combattenti, un dato che corrisponde a più del venti percento del totale delle vittime riportate, il che pone in evidenza ulteriori incongruenze. Detto in altri termini: se Hamas riporta che il settanta percento delle vittime sono donne e bambini, ma anche che il venti percento sono combattenti, lo scenario descritto è alquanto improbabile da riscontrare in occasione di un confronto armato in territorio urbano, a meno che Israele non abbia in qualche modo volutamente evitato di uccidere uomini non combattenti, oppure che Hamas voglia lasciar intendere che quasi tutti gli uomini di Gaza siano combattenti di Hamas.

Ci sono numeri migliori a disposizione per chi vuole verificare la veridicità dei dati forniti da Hamas? Alcuni osservatori obiettivi hanno riconosciuto che i numeri di Hamas in precedenti conflitti con Israele fossero relativamente accurati. Tuttavia, la guerra Israele-Hamas iniziata nel 2023 si è imposta come un qualcosa di completamente diverso dagli eventi che l’hanno preceduta, per scala e per portata; gli osservatori internazionali che in passato hanno potuto monitorare gli scontri tra Israele e Hamas, sono stati completamente assenti nell’ultimo conflitto, quindi non è possibile fare affidamento sul passato come elemento di riferimento. La “nebbia della guerra” (fog of war) è particolarmente densa a Gaza, e ciò rende impossibile determinare rapidamente i totali delle morti civili con un adeguato grado di precisione. Inoltre, da un lato, i conteggi ufficiali delle morti palestinesi non distinguono tra soldati e bambini, dall’altro, Hamas incolpa Israele per tutte le morti, anche quelle causate dal lancio fallito di razzi da parte palestinese, esplosioni accidentali, omicidi deliberati o scontri intestini. A conferma di ciò, vi è un documento ufficiale di Hamas (in Figura 14), recuperato dalle forze israeliane a Gaza, che si riferisce apertamente alle vittime civili causate dal fallimento di lanci di razzi da parte del gruppo Jihad islamico palestinese e che confermerebbe la volontà di attribuirne la responsabilità a Israele.

Un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health ha confrontato i rapporti di Hamas con i dati sui lavoratori dell’Unrwa, sostenendo che, poiché i tassi di mortalità erano approssimativamente simili, i numeri di Hamas non sarebbero stati aumentati artificiosamente. Tuttavia, tale argomentazione si basa su un’assunzione non verificata, ossia che i lavoratori dell’Unrwa non siano in modo sproporzionato più inclini a essere uccisi rispetto alla popolazione generale; un’ipotesi che potrebbe essere confutata – evidenzia Wyner – dalla possibile affiliazione a Hamas di una frazione dei lavoratori dell’Unrwa, alcuni dei quali hanno partecipato attivamente al massacro del 7 ottobre (Wyner, 2024).

La verità sulla guerra Israele-Hamas è ancora sconosciuta e probabilmente rimarrà tale; ma è altresì probabile che il numero totale delle vittime civili sia enormemente esagerato. Israele stima che almeno 12.000 combattenti palestinesi siano stati uccisi: se anche solo questo numero fosse ragionevolmente accurato, il rapporto tra vittime non combattenti e combattenti sarebbe notevolmente basso, il che indica uno sforzo notevole per evitare perdite umane inutili mentre si combatte un nemico che si nasconde tra la popolazione civile (Wyner, 2024).


Figura 15. I dati utilizzati da Wyner, riportati per colonne (Fonte Tablet Magazine).

Bibliografia

Farwell J. (2020), Information Warfare: Forging Communication Strategies for Twenty-first Century Operational Environments, Doi:10.56686/9781732003095.

Bachmann S.D. (2024), Hamas-Israel: Tik Tok and the relevance of the cognitive warfare domain, Defense Horizon Journal.

Bertolotti C. (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, ed. START InSight, Lugano, pp. 325.

Wyner A. (2024), How the Gaza Ministry of Health Fakes Casualty Numbers. The evidence is in their own poorly fabricated figures, The Tablet, 7 marzo 2024, in https://www.tabletmag.com/sections/news/articles/how-gaza-health-ministry-fakes-casualty-numbers.


[1] Ibidem.


PRESIDENZIALI USA: UNA CORSA IMPERVIA. DUE VICEPRESIDENTI AGLI ESTREMI.

di Melissa de Teffè.

Il duello per le presidenziali americane si sta inasprendo e posiziona i due candidati agli estremi dell’arco politico attraverso la scelta dei due Vice. Dopo il tanto atteso dibattito tra Kamala Harris e Donald Trump che li vedrà confrontarsi a settembre, Vance e Walz, si incontreranno per un faccia a faccia il primo ottobre prossimo. L’evento è organizzato dalla rete televisiva CBS.

Scrive Vance su X: “Il popolo americano merita il maggior numero possibile di dibattiti, ed è per questo che il Presidente Trump sfiderà Kamala in tre momenti diversi. Non solo accetto il dibattito della CBS del 1° ottobre, ma accetto anche il dibattito della CNN del 18 settembre. Non vedo l’ora di vederti a entrambi!”
Dei due compagni di squadra, conosciamo meglio, James David Vance o J.D. Vance, grazie alla sua autobiografia “Elegia americana – (Ed Harper, 2016 – Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis- la biografia di una famiglia e una cultura in crisi) e in seguito alla trasposizione su schermo per la regia di Ron Howard, con Glenn Close ed Amy Adams. Per chi non ha voglia di leggersi il libro, il film visionabile su Netflix, racconta la vita di questo giovane uomo che riesce a conquistare con enormi fatiche, mille rischi e facili inciampi, una posizione nella società, superando il maltrattamento psico-fisico di una madre alcolizzata, drogata, con quattro matrimoni falliti alle spalle, in un contesto sociale poverissimo e ignorante. Per sfuggire a questi orrori, si arruola nei Marines dal 2007 al 2013, e viene subito stanziato in Iraq. Al rientro si laurea in soli 2 anni in Scienze Politiche e filosofia con il massimo dei voti per poi proseguire grazie anche a una borsa di studio alla Yale University e diventa avvocato. Qui conosce sua moglie Usha, di origini indiane, e prima generazione americana. Ma a Vance non piace fare l’avvocato e abbandona quasi subito trasferendosi nella West Coast dove viene assunto come dirigente in una società di investimenti specializzata nelle tecnologie. Prosegue in questo ambiente e da San Francisco ritorna nell’Ohio, dove è cresciuto e qui tenta, fallendo, diverse imprese societarie. Entra poi in politica e viene eletto senatore a gennaio dell’anno scorso, 2023.
Sensibile al sociale segue linee politiche per aiutare chi, come lui e sua madre, viene da ceti bassi e fa fatica a trovare lavoro, e cade nel giro della droga, soprattutto il Fentanil, prodotto in Cina e venduto in grandi quantità a basso prezzo, anche grazie all’importazione attraverso l’immigrazione illegale gestita dai cartelli sudamericani della tratta di esseri umani.

Dall’altro lato dello spettro il Vice Presidente Harris, settimana scorsa, ha scelto come suo Vice, Tim Walz, governatore del Minnesota. È un veterano militare che non è mai andato in guerra. Anzi è proprio in questi giorni che ha dovuto ritrattare una sua dichiarazione su CNN “d’essere orgoglioso d’aver portato la pistola in guerra”, imbellettandosi e Vance, molto attento, lo ha chiamato fuori immediatamente, obbligandolo a spiegare l’affermazione.
Insegnante ed allenatore di football in un liceo pubblico, è entrato in politica come governatore nel 2018, rieletto come governatore per due mandati.
In una recente intervista, Michael Whatley, presidente del Comitato Nazionale Repubblicano ha dichiarato: “Tim Walz è davvero l’anima gemella ideologica (della Harris, ndt).” Progressista e socialista le sue politiche governatoriali sono pro-immigrazione. Infatti, ha più volte ha espresso la volontà di voler investire in una “fabbrica di scale da 30 piedi” per aiutare i migranti a scavalcare il muro di confine dell’ex presidente Trump; inoltre è il primo ad aver dato tutto il suo sostegno elargendo assistenza sanitaria e patenti di guida ai migrati senza documenti e presenti nel suo Stato. Invece Michael Tyler, uno dei portavoce della campagna di Harris, ha detto che scegliendo Walz, Harris ha “cementato la posizione politica offrendo un contrasto fondamentale in questa corsa tra il ticket Harris-Walz che lotta per le famiglie lavoratrici, mentre l’agenda Trump-Vance, al contrario causerebbe danni ineguagliabili in tutto il paese.” Ma fra le iniziative da applaudire c’è sicuramente la detassazione sui prodotti femminili per l’igiene intima così come la distribuzione di tamponi in tutti i bagni delle scuole pubbliche, inclusi quelli maschili, così da accontentare la comunità LGBTQ+, ma che gli è valso il nomignolo di Tampon Tim.
Ad ogni modo Walz è un candidato che può piacere molto, soprattutto nel Midwest. La sua parlata semplice, l’approccio diretto e una biografia da piccolo paese, ne spiega il fascino.

Nei prossimi mesi, la coppia Harris-Walz, viaggerà per il paese proponendo di “rafforzare la classe media invece di tagliare le tasse per i ricchi, e combattere per le libertà fondamentali, inclusa la libertà di abortive fino all’ultimo giorno di gestazione, di dare ai bambini la possibilità di scegliere di cambiare sesso senza avere necessariamente il permesso dei genitori, di naturalizzare immigranti illegali, supportare qualsiasi metodo di fecondazione.” Quando il presidente Biden ha annunciato il suo ritiro, Walz è stato velocissimo nel sostenere Harris, emergendo così come una sorta di pioniere per i Democratici. Poi i suoi attacchi al senatore J.D. Vance non appena nominato da Trump, soprannominandolo uno “strano.” – “Eppure,” controbatte Vance, “alla fine di un importante comizio, io ho abbracciato e baciato mia moglie, mentre Walz le ha stretto la mano come se fosse un’elettrice qualsiasi”. “Non le pare “strano” questo comportamento?”
Così la parola “strano” divenuta la parola d’ordine dei Democratici per il ticket repubblicano, vuole raccontare che se la scelta cadesse su Trump-Vance sarebbe una minaccia per la democrazia, perché insoliti, e fuori dal contesto dell’America stessa.
Quindi per ora la sinistra gode di un raro allineamento. Tutti, infatti, dalla rappresentante di New York Alexandria Ocasio-Cortez al senatore indipendente della Virginia Occidentale Joe Manchin, hanno elogiato la scelta di Walz, come ulteriore prova che i Democratici si sono “spostati così tanto a sinistra nel loro insieme che candidati estremi come Kamala Harris e Tim Walz, oggi, sono considerati mainstream,” – dice Whatley.

E per il capo del partito Democratico la piattaforma politica rimane invariata adesso che Walz è parte del “ticket”. Dietro le quinte i Repubblicani sono quasi entusiasti per questa scelta, invece, ad esempio, del governatore della Pennsylvania Josh Shapiro, che a parer loro, avrebbe reso la corsa alla Casa Bianca molto più ardua.
Infine, come ultima notizia, Tulsi Gabbard, deputata per le Hawaii, ex democratica, e veterana militare, e riservista, ha deciso di citare in giudizio l’amministrazione Biden-Harris, per aver scoperto, grazie ad informatori anonimi della Federal Air Marshal (Sezione di polizia federale dell’aviazione) che è stata segnalata e inserita nella lista di possibili individui pericolosi, secondo il programma Quiet Skies, facente parte del TSA (Transportation-Security-Administration) che ha il compito di identificare i viaggiatori che potrebbero rappresentare un rischio per la sicurezza dell’aviazione. Quelli in lista, possono volare, ma sono soggetti a controlli più stretti, messi sotto “scorta” non identificabile durante il transito, e, anonimamente, sono affiancati da uno Sceriffo armato quando in volo.
Nel caso di Gabbard, ogni volta che viaggia in aereo, viene automaticamente monitorata da: due squadre cinofile per la rilevazione di esplosivi, un addetto della sicurezza dei trasporti, anche lui specializzato in esplosivi, un supervisore della TSA in abiti civili e tre Sceriffi federali dell’aviazione. Che si sappia, non esistono motivi per cui Gabbard dovrebbe essere sulla lista di sorveglianza. A sua difesa, Gabbard ha pubblicato un video spiegando perché ha intrapreso le vie legali, sottolineando con queste parole il suo disgusto: “Il mio stesso governo, il mio presidente, il mio comandante in capo mi ha preso di mira come potenziale target terrorista. La parola che mi viene in mente è totale tradimento.” – “Dopo aver servito per oltre 21 anni e continuando a servire nelle forze armate del nostro paese, il mio stesso governo” ha aggiunto “usa gli Air Marshall come armi e pedine per perseguire i loro avversari politici.” “Ovviamente, non mi è stata fornita alcuna spiegazione, ed è per questo che stiamo ricorrendo alle vie legali,” ha sottolineato. “Ho parlato molto apertamente dei pericoli che l’amministrazione Biden-Harris rappresenta per la nostra democrazia, la nostra libertà e la nostra sicurezza nazionale. Queste le conseguenze” ha concluso.

Possiamo concludere usando le parole di Vance tratte dal suo libro già nel lontano 2016 che sembrano adatte a questo momento storico: “Questo paese è segregato per razza, geografia e reddito in un modo che non si vedeva da molto, moltissimo tempo.”
Possiamo solo augurarci che vinca la moderazione, per ora non c’è traccia.


Ucraina e Medioriente, conflitti e politica estera. C. Bertolotti ne parla su SkyTG24

Trasmissione del 12 agosto 2024


Afghanistan a tre anni dal ritorno dei Talebani. C. Bertolotti a SkyTG24

Il commento di Claudio Bertolotti a tre anni dal ritorno al potere dei Talebani a Kabul.

Approfondimento di SkyTG24 del 15 agosto 2024


Il valore dell’azione ucraina a Kursk: ma la Russia mantiene il vantaggio sul campo

di Claudio Bertolotti

Quella ucraina a Kursk non è un’offensiva né una controffensiva. È un atto tattico che ha permesso alle forze ucraine di prendere temporaneamente l’iniziativa sul campo di battaglia ma che, non potendo essere determinante ai fini della guerra, ha un duplice scopo: il primo alleggerire il fronte sud imponendo alla Russia di spostare e impegnare le proprie riserve altrimenti disponibili sul fronte di Zaporizhzhia– come fatto mesi fa dalla Russia aprendo il fronte di Karkiv –, mentre il secondo scopo è consentire a Zaleski di insistere sul piano politico in un momento di grande difficoltà, tenuto conto della prospettiva presidenziale statunitense del 2025 e del concomitante sostegno di Washington a Israele.

Questo però non significa che sia un atto improduttivo o inutile, al contrario, la Russia è stata così costretta a ripensare lo schieramento delle riserve e ad avviare un processo di pianificazione operativa che preveda la difesa dei confini russi da possibili ulteriori puntate offensive ucraine.

Detto in altri termini: l’operazione di Kursk, per quanto politicamente e mediaticamente rilevante, non cambia gli equilibri al fronte e ci ricorda ancora una volta che in termini di mezzi, uomini e materiali l’Ucraina non ha la capacità di condurre operazioni offensive su larga scala o comunque determinanti ai fini del conflitto.

Perché questo? In primo luogo cominciano a mancare gli uomini al fronte, e l’ipotesi di mobilitazione generale è un dilemma che sta assillando il presidente Zelensky poiché potrebbe rivelare una partecipazione inferiore alle aspettative. In secondo luogo l’aiuto occidentale, in primis statunitense e poi quello europeo, è sempre stato strutturato in modo tale da dare a Kiev lo stretto necessario per difendersi e sostenere il peso della guerra di logoramento russa ma non per cambiarne gli equilibri e dunque non per imporre una sconfitta a Mosca (la cui tenuta statale rimane un punto saldo nel sostegno occidentale all’Ucraina).


Chi è l’ultra radicale Yahya Sinwar, nuovo capo di Hamas: archiviato l’impossibile negoziato?

di Claudio Bertolotti

Estratto dal volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.

Hamas è organizzata in una serie di organi direttivi che gestiscono diverse funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità principale, che si occupa dell’agenda politica e strategica del movimento, è rappresentata dal consiglio della shura di Hamas, il vertice della leadership organizzativa, che opera in esilio. Tuttavia, le attività quotidiane del gruppo sono gestite dal bureau politico, mentre le operazioni militari sono sotto la responsabilità delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio militare del gruppo, che gode di un’ampia autonomia operativa. I comitati locali gestiscono le questioni di base nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Se fino ad oggi Hamas è stato caratterizzato da una dualità che ha visto contrapporsi l’anima politica esterna alla Striscia di Gaza a quella politico-militare a Gaza in un rapporto di sempre più accesa competizione, la nomina di Yahya Sinwar alla guida del movimento potrebbe aver di fatto archiviato l’opzione di un gruppo pragmatico – al netto delle posizioni radicali e violente – per lasciar posto in via esclusiva all’anima movimentista radicale, razionalmente violenta di orientamento jihadista votata alla causa massimalista: la distruzione di Israele, come premessa a qualunque opzione politica.

Chi è il nuovo capo di Hamas?

Fino al momento della sua morte, Ismail Haniyeh ha ricoperto il ruolo di capo politico mentre Yahya Sinwar ha gestito le questioni ordinarie a Gaza.

Conosciuto anche come Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, dal 2017 è il capo di Hamas nella Striscia di Gaza e uno dei primi architetti del braccio armato di Hamas: è sospettato di essere una delle menti dietro gli attacchi del 7 ottobre 2023.[1]

Nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Younis, Striscia di Gaza, da genitori sfollati da Ashkelon durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo aver frequentato le scuole primarie grazie al sostegno dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa), all’inizio degli anni Ottanta si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove lo studio della lingua araba contribuì a plasmare la sua carismatica autopresentazione. Entrò all’università in un momento in cui molti giovani palestinesi della Striscia di Gaza guardavano all’islamismo come strumento di soluzione al conflitto israelo-palestinese, dopo decenni di panarabismo rivelatosi fallimentare. Nel 1982 fu arrestato per la sua partecipazione alle prime organizzazioni islamiste anti-israeliane.

Nel 1985, ancor prima della formazione di Hamas, Sinwar contribuì all’organizzazione di “al-Majd” (in arabo “gloria”, ma anche acronimo di Munazzamat al-Jihad wa al-Da’wah, “Organizzazione per il jihad e da’wah”). Al-Majd era una rete di giovani islamisti con il compito di smascherare il crescente numero di informatori palestinesi reclutati da Israele. Quando Hamas venne fondata nel 1987, al-Majd fu inglobata nei suoi quadri di sicurezza. Nel 1988 si scoprì che la rete era in possesso di armi e Sinwar fu detenuto da Israele per diverse settimane. L’anno successivo venne condannato a quattro ergastoli per l’omicidio di palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele.

Durante la sua lunga incarcerazione, Sinwar mantenne una forte influenza sui suoi compagni di prigionia, usando tattiche di abuso e manipolazione e godendo del supporto dei suoi contatti al di fuori del carcere. Si impegnò a punire i compagni di prigionia che sospettava di essere informatori e una volta costrinse circa 1.600 prigionieri a intraprendere uno sciopero della fame. Trascorse anche gran parte del suo tempo libero studiando ciò che poteva sui suoi nemici israeliani, leggendo giornali israeliani e imparando l’ebraico.

Il rilascio di Sinwar avvenne nell’ambito dello scambio di prigionieri di alto profilo con Gilad Shalit, il soldato israeliano che era stato rapito da Hamas nel 2006 mentre era di stanza a un valico di frontiera. Dopo diversi tentativi falliti di mediare la libertà di Shalit, l’Egitto e la Germania si prodigarono per il suo rilascio nell’ottobre 2011. Il fratello di Sinwar, Mohammed, che era stato assegnato a sorvegliare Shalit, insistette affinché Sinwar fosse incluso nello scambio. Lo stesso giorno in cui Shalit venne rilasciato in Israele, Sinwar fu tra i primi prigionieri palestinesi a essere rimpatriati nella Striscia di Gaza.

Nell’aprile 2012, pochi mesi dopo il suo rilascio, Sinwar fu eletto membro dell’ufficio politico di Hamas nella Striscia di Gaza. Mise a frutto la sua esperienza come leader carcerario e si guadagnò velocemente un’ottima reputazione all’interno di Hamas per aver riunito le sue fazioni attraverso un compromesso. La retorica infuocata di Sinwar conquistò da subito gli elementi più oltranzisti del movimento; in tale cornice dinamica, pur prospettando l’avvio di un’era guidata dall’ala militante, nei suoi primi anni da leader Sinwar tenne un basso profilo e mostrò un lato pragmatico che gli consentì di alleggerire lo stato di isolamento di Hamas. Mesi dopo la sua ascesa come leader del movimento, Hamas strinse un accordo di riconciliazione con l’Anp e, per la prima volta dal 2007, cedette il controllo di gran parte della Striscia di Gaza all’Autorità Palestinese, seppur per un breve periodo. Anche le relazioni con l’Egitto tesero a migliorare, tanto da portare Il Cairo ad allentare le restrizioni al valico di frontiera.

Al contempo, a conferma di una visione estremamente razionale e pragmatica, il gruppo avviò una politica di dialogo e avvicinamento all’Iran che portò in breve al reinserimento di Hamas nella rete di alleati di Teheran e al conseguente sostegno militare e finanziario.

Sebbene alla fine del 2018, con l’avvio degli “Accordi di Abramo” sostenuti dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, si prospettasse un periodo di calma frutto del possibile processo di reciproco riconoscimento tra Israele e uno stato palestinese, nel maggio 2021 ci fu un ritorno all’ostilità aperta di Hamas nei confronti di Gerusalemme. La popolarità di Sinwar aumentò con il conflitto, e la sua autorevolezza si rafforzò in maniera significativa.

L’operazione battezzata “alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, mostra i segni distintivi delle tattiche di Sinwar, e la presa di ostaggi rimanda all’importanza da lui data agli scambi di prigionieri. Sinwar, le cui immagini diffuse dalle Idf a febbraio 2024 confermano che si sia nascosto nella rete dei tunnel sotterranei di Gaza utilizzando la propria famiglia come “scudo umano”, è stato classificato come obiettivo primario di Israele e definito, secondo un portavoce militare israeliano, come “un morto che cammina”.


[1] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.