cartello_al_giorno.png

Elezioni USA. La campagna elettorale: solo una questione di soldi?

di Melissa de Teffè

Solo una questione di soldi?

Come disse saggiamente Warren Buffett: “se vuoi sapere la verità, segui la scia dei soldi”, e anche in questa corsa presidenziale, i soldi parlano. Per Trump, abbiamo visto che, dopo il supporto di Elon Musk con la promessa di donare 45 milioni di dollari al mese, di Stephen Schwarzman, CEO di Blackstone, e di Jamie Dimon, CEO di JP Morgan, si è aggiunto anche quello recente di Nicole Shanahan, (ex moglie del co-fondatore di Google, Sergey Brin, e sostenitrice più ricca di RFK Jr. – Robert Kennedy Jr., figlio di Bobby, settimo figlio della famiglia Kennedy e Procuratore Generale durante la breve presidenza del fratello John, anch’egli assassinato a Los Angeles), dopo che Kennedy Jr. ha deciso di ritirarsi dalla corsa per supportare Trump.

Infatti, è di questi giorni la notizia che RFK Jr., dopo aver trovato, sin dall’inizio della campagna elettorale, la porta chiusa dei democratici (infatti il DNC, l’organismo che gestisce il Partito Democratico, aveva rifiutato di inserire RFK Jr. nella lista dei candidati – non ne sappiamo il motivo – costringendolo a correre come indipendente), ha deciso di unirsi alla campagna di Trump, scoprendo di avere molte più sinergie con il suo programma rispetto a quello del ticket Harris-Walz.

Trump, quindi, vedrà aumentare il suo già ricco bottino di finanziamenti.

Ma torniamo alla scia dei soldi. Perché è stata nominata la Harris e nessun altro? Il motivo principale risiede nel regolamento che governa il Partito Democratico, che stabilisce chi prende cosa, come e quando.

Perché Kamala Harris è divenuta quasi automaticamente la candidata democratica? Inizialmente, Biden, nonostante la sua malattia degenerativa, si ricandida e inizia a ricevere il supporto finanziario dai “donors” per sostenere le spese della campagna elettorale, ma dopo il disastroso confronto televisivo con Trump, Biden appare, di fronte alle telecamere di tutto il mondo, inadatto. È quindi imperativo trovare un sostituto. Qui apro una parentesi sul passato della Harris.

Quando Biden decise di nominare la Harris come Vicepresidente, non fece altro che seguire la tradizione americana di scegliere qualcuno che non creasse problemi e che eseguisse quei compiti che il Presidente considerava secondari, ma comunque necessari. Harris non ha mai raccolto molto sostegno durante la sua corsa presidenziale nel 2020 e, durante questi tre anni, è stata lasciata nell’ombra a causa della sua incapacità di parlare a braccio e di sviluppare una qualsiasi oratoria politica.

Nella storia americana recente, il paragone perfetto è il Vicepresidente Quayle, secondo a Bush Sr., senatore dell’Indiana, di bell’aspetto, che divenne la barzelletta nazionale durante l’unico dibattito tra Vicepresidenti, dal quale non riuscì mai più a risollevarsi. Questa è la vicenda: nonostante i suoi consiglieri gli avessero fermamente suggerito di non paragonarsi a John F. Kennedy per giustificare la sua giovane età, e dove Kennedy, alla stessa età, era già un eroe di guerra, aveva vinto un Premio Pulitzer e godeva di una reputazione nazionale incredibile quando si candidò alla presidenza, il 5 ottobre 1988, quando il moderatore Tom Brokaw chiese se fosse qualificato per essere vicepresidente, Quayle rispose: “Ho tanta esperienza quanta ne aveva Jack Kennedy quando si candidò alla presidenza.” Bentsen, astuto politico texano di lunga data e controparte democratica, senza esitazione rispose: “Senatore, io ho servito con Jack Kennedy. Conoscevo Jack Kennedy. Jack Kennedy era un mio amico. Senatore, lei non è Jack Kennedy.” (qui il breve video)

L’espressione mortificata di Quayle è rimasta impressa nel tempo, al punto che questo dibattito è un capitolo di uno dei libri guida delle “cose da non dire e da non fare in politica”: The Art of the Political Putdown*.

Se da un lato mantenere la manovrabilità di Biden, a causa della sua malattia, rende la scelta della Harris perfetta, dall’altro ci sono le regole gestionali delle finanze della campagna. Mi spiego: dal momento in cui Biden si ritira alla selezione della Harris trascorrono due settimane in cui i dirigenti di partito decidono come procedere. I fondi accumulati fino ai primi giorni di agosto sono all’incirca 240 milioni di dollari, che però appartengono al ticket Biden-Harris. Può Harris avvalersi di questi soldi? Può un altro candidato usarli in caso di nomina? Di candidati più che autorevoli e papabili ce ne sono, come i governatori Shapiro o Pritzker. Gli esperti di finanza elettorale affermano che Harris può accedere a parte di quel denaro senza troppi ostacoli, ma nessun altro candidato. Infatti, se fosse consacrato qualcun altro, con molta probabilità, il denaro dovrebbe essere restituito ai singoli donatori. Ecco perché la scelta ricade sulla Harris che, essendo la candidata iniziale, può usufruire di 91 milioni di dollari dei 240 raccolti per la rielezione, afferma Kenneth Gross, un consulente senior di diritto politico ed ex Consigliere Generale Associato della Commissione Elettorale Federale, dell’Associated Press. Anche un altro guru del campo, Saurav Ghosh, avvocato del Campaign Legal Center, ci dice che Harris ha diritto a usare i fondi per la sua campagna se rimane nel ticket come compagna di un altro candidato. Sappiamo già com’è andata, e quindi il DNC ha messo a disposizione il tesoretto.

Torniamo quindi a oggi. La decisione di Kennedy di attraversare il Rubicone democratico, causando peraltro una tempesta familiare non indifferente, porta con sé non solo soldi ma anche quel 5% di voti che, in una gara ravvicinata, può significare tutto. Secondo indiscrezioni da parte di un consulente di Trump, sappiamo che a Kennedy è stato promesso, in caso di vittoria, o la sedia di Attorney General (Procuratore Generale, come suo padre) o la sedia di Burns, capo della CIA. Ovviamente, la notizia che si crede abbia fatto rivoltare in tomba i già non più Kennedy, è una bomba, ma per il direttivo democratico è atomica, perché darebbe a RFK jr, la possibilità di cercare, sperando di trovare, i motivi dei due assassinii forse i più famosi al mondo.

Per ovviare a questa e ad altre chance di vittoria, i democratici hanno deciso di lasciare il nome Kennedy nelle schede elettorali, soprattutto in quelle degli Stati chiave, o swing States, che potrebbero portare probabilmente la vittoria al campo avverso, quali il Michigan, Wisconsin e il Colorado, con l’idea di causare confusione e disperdere voti.
I colpi di scena non mancano e ieri, per intrecciare maggiormente questa fitta trama elettorale, Zuckerberg ha scritto una lettera aperta al Dipartimento di Giustizia, in un atto quasi di contrizione cattolica, un mea culpa per aver ceduto alle pressioni sia dell’amministrazione Biden-Harris prima, sia dell’FBI dopo, per cancellare dalle sue piattaforme informazioni o messaggi che ledevano l’immagine politica presidenziale (vedasi il caso Hunter Biden e i legami con società ucraine che hanno beneficiato finanziariamente la famiglia) o le scelte di Fauci sulle vaccinazioni, incluse satire e gag. Zuckerberg conclude informando che queste richieste non verranno più né ascoltate né soddisfatte, indipendentemente da chi le faccia, e che da questa campagna in poi non ci saranno più contributi finanziari viste le polemiche nate dai contributi bipartisan di quattro anni fa. Insomma, i colpi di scena sono tanti, quasi una telenovela in diretta. Aspettiamo senza ansia la prossima puntata, augurandoci dimostrazioni più alte che basse.