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Africa occidentale: laboratorio di guerra ibrida

di Andrea Molle

Negli ultimi anni l’Africa occidentale è tornata a occupare un ruolo centrale nelle dinamiche dell’instabilità globale. Una regione storicamente fragile, caratterizzata da istituzioni deboli, corruzione endemica e tensioni etniche, è divenuta oggi terreno d’azione privilegiato per attori non statali e potenze revisioniste. Due protagonisti ne incarnano le logiche più profonde: Hezbollah e il Gruppo Wagner, riorganizzato dopo la morte di Prigožin come Africa Corps sotto il diretto controllo del Ministero della Difesa russo. Apparentemente diversi, i due attori condividono una medesima strategia: proiettare potere e influenza attraverso canali non convenzionali, operando in quella zona grigia tra criminalità, politica e guerra per procura.

Hezbollah: la colonizzazione silenziosa

Per Hezbollah, l’Africa occidentale non rappresenta un fronte militare, ma un centro logistico e finanziario essenziale. Sfruttando la fitta rete della diaspora libanese, l’organizzazione ha costruito nel tempo una infrastruttura economica parallela basata su società di comodo, traffici illeciti e attività di riciclaggio. I proventi del commercio di diamanti, oro e opere d’arte, insieme a donazioni spesso estorte, alimentano le operazioni in Libano e in Siria, compensando la progressiva riduzione del sostegno iraniano. Attraverso l’uso di coperture consolari e diplomatiche, Hezbollah riesce a muoversi con relativa impunità, infiltrandosi nei circuiti economici e politici locali.

Questa strategia produce effetti profondamente corrosivi. La “colonizzazione economica” di Hezbollah mina la sovranità degli Stati africani, corrompe funzionari e imprenditori, e rende la distinzione tra legalità e illegalità sempre più sfumata. Il gruppo non conquista territori, ma colonizza economie, appropriandosi delle rendite e dei canali di intermediazione. È una penetrazione silenziosa, difficilmente riconducibile a uno schema tradizionale di minaccia terroristica, ma devastante nel lungo periodo perché erode dall’interno la capacità dello Stato di governare.

Wagner: la militarizzazione dell’influenza

Il Gruppo Wagner rappresenta invece la dimensione opposta: visibile, coercitiva e brutale. Operando in Mali, Sudan, Niger e Repubblica Centrafricana, Wagner è divenuto lo strumento principale della proiezione di potenza russa in Africa. Attraverso accordi formalmente commerciali o di sicurezza, offre protezione militare e sostegno propagandistico a regimi isolati in cambio di concessioni minerarie e influenza politica. Il caso del massacro di Moura nel 2022, in cui centinaia di civili furono uccisi, mostra come la presenza russa non porti stabilità ma ulteriore violenza, alimentando la narrativa jihadista del “nemico straniero”.

Con la trasformazione in Africa Corps, Mosca ha scelto di istituzionalizzare il modello Wagner, rendendolo parte integrante della propria architettura strategica. L’obiettivo è duplice: mantenere una presenza geopolitica diretta sul continente e al tempo stesso garantirsi un margine di negabilità politica. È una forma di imperialismo privatizzato, in cui la forza militare si fonde con la logica del profitto e del controllo delle risorse naturali.

Screenshot da un’inchiesta di Jeune Afrique sui crimini del gruppo Wagner, pubblicata il 24 giugno 2025

Un laboratorio di guerra ibrida

La coesistenza di Hezbollah e Wagner trasforma l’Africa occidentale in un laboratorio di guerra ibrida, dove terrorismo, criminalità organizzata e geopolitica delle grandi potenze si sovrappongono. Entrambi gli attori sfruttano le stesse vulnerabilità strutturali—l’assenza di governance, la debolezza istituzionale, l’emarginazione economica—e finiscono per alimentarsi a vicenda. Da un lato, le reti finanziarie di Hezbollah corrodono la legittimità economica degli Stati; dall’altro, il mercenariato russo altera gli equilibri politici e di sicurezza. Il risultato è una destabilizzazione multilivello che travalica i confini regionali.

Le conseguenze raggiungono anche l’Europa. Le reti di riciclaggio di Hezbollah si intrecciano con banche e società europee, mentre la proiezione russa in Africa fornisce a Mosca una leva strategica sulle catene di approvvigionamento energetiche e minerarie. Ignorare questi processi significherebbe lasciare che la periferia meridionale dell’Europa diventi un laboratorio di influenza ostile.

Verso un cambio di paradigma

La risposta europea finora è stata frammentata e insufficiente. Né la cooperazione militare né gli aiuti allo sviluppo possono da soli contrastare attori che agiscono su piani economici, politici e cognitivi. Il Piano Mattei promosso dall’Italia può essere un punto di partenza, ma deve evolvere in una strategia integrata che combini sicurezza, governance e finanza internazionale. Servono strumenti per rafforzare le istituzioni giudiziarie africane, migliorare i controlli contro il riciclaggio, e affrontare le cause strutturali della vulnerabilità: diseguaglianza, corruzione e dipendenza economica.

L’occasione italiana

Per l’Italia, la sfida è anche un’opportunità di leadership. Roma, grazie alla sua posizione geopolitica e alla credibilità diplomatica nel Mediterraneo allargato, può guidare una strategia europea verso l’Africa fondata su partenariati paritari e duraturi. Oltre al contributo militare, occorre investire in infrastrutture, formazione e sviluppo istituzionale, riducendo la dipendenza dei governi africani da attori opachi e coercitivi.

In definitiva, l’Africa occidentale rappresenta oggi un microcosmo dell’ordine mondiale emergente: un sistema in cui la sovranità è negoziata, la violenza è esternalizzata e l’influenza si esercita attraverso reti ibride di potere. Hezbollah e Wagner ne sono il simbolo. Per restare un attore credibile, l’Europa deve riconoscere che la sicurezza africana è parte integrante della propria sicurezza. Trascurarla significherebbe cedere spazio a chi, nell’ombra, ha già compreso quanto strategica sia diventata l’instabilità africana per i propri interessi.


Perché il vertice di Budapest è destinato a saltare?

di Claudio Bertolotti.

Il vertice di Budapest, annunciato come possibile occasione di incontro tra Trump e Putin, si sta progressivamente svuotando di sostanza politica. Le ragioni sono tre.
La prima è l’asimmetria negoziale: Mosca non accetta l’idea di un cessate il fuoco immediato e continua a proporre scambi territoriali che congelerebbero i propri vantaggi sul terreno; Washington, consapevole di questo squilibrio, ha deciso di rinviare qualsiasi summit fino a quando non si intravedrà un terreno comune.
La seconda è di natura giuridico-politica: il mandato della Corte penale internazionale nei confronti di Putin rende logisticamente complessa e diplomaticamente tossica qualsiasi sua visita in territorio dell’Unione Europea.
La terza ragione è l’ambiguità ungherese. Orbán, da un lato, proclama di lavorare per la pace; dall’altro, usa l’ipotesi del vertice per fini di politica interna, ben sapendo che né Washington né Mosca intendono legittimare un’iniziativa fuori dal loro controllo. In sintesi, Budapest è oggi più uno strumento narrativo che una reale agenda diplomatica.

Trump e Putin: chi domina il braccio di ferro?

Lo scontro tra Trump e Putin è un confronto tra due poteri diversi: quello della coercizione e quello dell’agenda. Putin controlla la dimensione tattica del conflitto — il terreno, il tempo strategico, la capacità di escalation — e per questo appare più forte nel breve periodo. Trump, invece, esercita un potere strategico: dispone delle leve sanzionatorie, dell’influenza sul sistema finanziario internazionale e della capacità di guidare o rallentare la coalizione occidentale.
Si tratta dunque di due forze che si bilanciano. Putin può imporre fatti compiuti, ma Trump controlla il ritmo e i margini della trattativa. In questo equilibrio instabile, la forza non è solo militare: è anche comunicativa, economica e simbolica.

Come si muovono Zelensky e gli europei?

Zelensky mantiene una doppia linea d’azione: da un lato si dichiara disponibile al dialogo, dall’altro rifiuta qualsiasi riconoscimento delle conquiste territoriali russe. Sul piano operativo punta a mantenere la pressione sul fronte e a garantire continuità nei flussi di armi e finanziamenti occidentali.
Gli europei, invece, mostrano stanchezza strategica. L’obiettivo comune è ottenere un cessate il fuoco “line-of-contact” che fermi i combattimenti senza tradursi in concessioni politiche. Dietro le quinte, Bruxelles lavora su un meccanismo che potremmo definire “freeze & fund”: congelare il fronte militare e finanziare la resilienza e la ricostruzione ucraina con gli asset russi congelati. È un compromesso di gestione, non ancora di pace.

Trump riuscirà davvero a mediare?

È possibile, ma alle sue condizioni. Trump potrà presentarsi come mediatore solo se riuscirà a ottenere un risultato spendibile sul piano interno: uno stop temporaneo ai combattimenti, uno scambio di prigionieri, o un accordo umanitario che possa rivendicare come “vittoria americana”.
Un vero accordo politico, invece, richiederebbe concessioni territoriali che nessuna delle due parti è oggi disposta ad accettare. L’esito più probabile, nel breve periodo, è un cessate il fuoco imperfetto: fragile, reversibile, ma utile a entrambi per guadagnare tempo e consenso.

Perché Trump ha ottenuto una tregua in Medio Oriente ma non in Ucraina?

Le differenze strutturali sono evidenti.
Primo, la natura della mediazione: in Medio Oriente esiste un triangolo operativo stabile — Stati Uniti, Egitto e Qatar — che funziona su logiche transazionali, scambiando ostaggi e tregue in modo sequenziale. In Ucraina, invece, manca un broker accettato da entrambe le parti e non c’è un “bene scambiabile” immediato.
Secondo, l’oggetto del conflitto: a Gaza si tratta di gestire il fuoco e il flusso umanitario; in Ucraina si tratta dell’architettura di sicurezza europea, una questione sistemica e non episodica.
Terzo, i vincoli legali e di coalizione: il mandato ICC su Putin e la natura interstatuale del conflitto limitano margini e formati negoziali.
Infine, la stabilità del cessate il fuoco: in Medio Oriente la tregua è fragile ma replicabile; in Ucraina, un congelamento della linea di contatto creerebbe nuove frontiere armate e un conflitto “ibernato” ma non risolto.

In conclusione

Budapest, oggi, è il simbolo di una diplomazia sospesa: un negoziato ancora senza negoziato.
Mosca guadagna tempo, Washington costruisce pressione finanziaria e militare, l’Europa tenta di reggere la linea del “freeze & fund”. Trump potrebbe ancora imporsi come mediatore “a modo suo”, ma solo se riuscirà a trasformare l’apparenza di una pausa tattica in un successo politico immediato.
Il Medio Oriente gli ha offerto un terreno di scambio; l’Ucraina, invece, richiede un’architettura di sicurezza. E quella non si improvvisa: richiede tempo, compromessi e la rinascita di una volontà politica che, per ora, nessuno dei protagonisti sembra voler realmente esercitare.


Ricostruire Gaza: costi, attori e implicazioni strategiche. 80 miliardi e dieci anni di tempo.

di Claudio Bertolotti.

La ricostruzione della Striscia di Gaza rappresenta una delle operazioni post-conflitto più complesse del XXI secolo. Dopo due anni di guerra e devastazione, il territorio affronta un piano di ricostruzione stimato in 80 miliardi di dollari – pari a circa 46.000 dollari per abitante – che intreccia dimensioni ingegneristiche, politiche e di sicurezza. Con il 78% del patrimonio edilizio distrutto o danneggiato e oltre 40 milioni di tonnellate di macerie, il processo di ricostruzione si configura come un’impresa sistemica in cui il debris management diviene la variabile critica che condiziona tempi, costi e sicurezza operativa. La rimozione delle macerie, la riattivazione dei corridoi logistici e il ripristino delle reti vitali (acqua, energia, viabilità, sanità) costituiscono le precondizioni per qualsiasi strategia di stabilizzazione. Al contempo, la ricostruzione diventa un’arena di competizione geopolitica e industriale: il coordinamento tra la Banca Mondiale e l’Unione Europea – attraverso il Palestinian Health System Reform Project e la EU Gaza Facility – segnala l’intreccio tra governance economica e influenza politica. In questo scenario, la sicurezza è fattore abilitante e moltiplicatore di resilienza: senza corridoi protetti e standard di trasparenza, la ricostruzione rischia di rimanere un esercizio contabile, incapace di trasformarsi in capacità territoriale.

La ricostruzione della Striscia di Gaza è una delle sfide più complesse del dopoguerra contemporaneo. Dopo due anni di conflitto e devastazione, la regione si prepara a un piano di ricostruzione da 80 miliardi di dollari, con un costo stimato di 46mila dollari per abitante. L’entità dei danni e la quantità di risorse necessarie rendono l’impresa non solo un grande sforzo economico ma anche politico, poiché il processo di “ricostruzione” (a cui si associa quello di “stabilizzazione”) si configura come terreno di competizione tra attori internazionali, governi e imprese.

Il bilancio della distruzione

Secondo l’analisi satellitare di UNOSAT, consolidata da OCHA, a inizio luglio 2025 risultano distrutte o danneggiate 192.812 strutture nella Striscia di Gaza: il 78% del patrimonio edilizio complessivo. Nel dettaglio: 102.067 edifici distrutti, 17.421 gravemente danneggiati, 41.895 moderatamente danneggiati e 31.429 con danni potenziali. Si tratta di una stima frutto di un’analisi eterogenea in termini di fonti e sulla base di serie temporali di immagini a diversa risoluzione; il dato, per natura, è ovviamente dinamico e tende a crescere con l’aggiornamento delle acquisizioni e della possibilità di effettuare sopraluoghi (ad oggi ancora molto limitata). L’ordine di grandezza, tuttavia, si presenta come consolidato e coerente con le ultime sintesi OCHA basate sui rilevamenti UNOSAT pubblicati nell’estate 2025.[1]

Il bilancio umano rispecchia l’entità della distruzione, sebbene con numeri che sul piano meramente statistico sono i più bassi di tutti i conflitti urbani degli ultimi decenni, comparati ad analoghi casi come Mosul e Falluja in Iraq e Grozny in Cecenia. Le principali fonti che riportano il numero delle vittime palestinesi – in gran parte riconducibili alle autorità sanitarie di Gaza, cui fanno riferimento anche le agenzie ONU – indicano, alla metà di settembre 2025, 65.062 morti (di cui circa la metà appartenenti o affiliati a Hamas) e 165.697 feriti; valori ripresi da più testate internazionali e aggiornamenti d’agenzia, pur senza una piena possibilità di verifica indipendente. La forbice d’incertezza resta ampia: una quota dei decessi non è stata identificata, parte delle vittime è presumibilmente ancora sotto le macerie e alcuni decessi per cause indirette potrebbero essere sottostimati. Pur in un contesto di guerra, la continuità del sistema sanitario locale consente di considerare i dati raccolti come relativamente affidabili e coerenti nel confronto con gli anni precedenti. 100.000 le nascite riportate durante il periodo in esame, con un saldo finale positivo.

L’impatto territoriale non è omogeneo. Le distruzioni più estese si concentrano nelle aree urbane a più alta densità – Gaza City e Khan Yunis – dove il tessuto urbano compatto e la prossimità di nodi logistici e di infrastrutture militari sotterranee utilizzate da Hamas hanno alimentato cicli ripetuti di combattimento, di fatto imponendo un rallentamento della manovra militare israeliana. Le rilevazioni satellitari UNOSAT sulla rete viaria segnalano migliaia di chilometri di strade distrutte o gravemente compromesse, un fattore che condiziona tanto l’accesso umanitario quanto la futura cantierizzazione dei lavori di rimozione macerie e ricostruzione. In assenza di corridoi terrestri sicuri e di capacità meccaniche adeguate, la finestra temporale per la gestione delle macerie (debris management) si estende oltre il decennio stimato dalle principali valutazioni internazionali.

Da un punto di vista metodologico, le categorie di danno utilizzate da UNOSAT distinguono tra “distrutto”, “gravemente”, “moderatamente” e “potenzialmente” danneggiato, con margini d’errore variabili a seconda della prospettiva e della limitazione di acquisizione immagini. Per questo, i conteggi dovrebbero essere letti come baseline operativa per priorità di intervento: stabilizzazione delle macerie e safety clearance; ripristino dei corridoi stradali primari per la logistica umanitaria; riabilitazione dei servizi essenziali (acqua-energia-sanità) in prossimità degli insediamenti di sfollati. L’insieme dei dati converge su un quadro: devastazione sistemica dell’ambiente antropico e pressione prolungata sulle infrastrutture civili, con conseguenze cumulative sulla capacità di gestione degli aiuti.

In termini di policy, questa fotografia, seppur parziale, non descrive solo l’entità del danno ma anche mappa delle priorità. La densità delle strutture distrutte, la segmentazione della rete viaria e l’elevato numero di feriti impongono una sequenza di interventi che privilegi sicurezza dei cantieri, corridoi logistici e ripristino minimo funzionale degli ospedali. Ogni ritardo nella rimozione delle macerie e nel ripristino delle arterie principali amplifica le difficoltà delle comunità e deprime la resilienza sociale, prolungando la dipendenza dagli aiuti e alzando i costi futuri di ricostruzione.

I costi e i tempi della ricostruzione: dieci anni e 80 miliardi

La stima congiunta di Banca Mondiale e UNDP – circa 80 miliardi di dollari – non è solo un mero dato numerico: è la misura di uno sforzo sistemico. All’interno di quella cifra si collocano tre livelli di intervento che si sostengono a vicenda: messa in sicurezza e rimozione delle macerie; ripristino funzionale delle reti vitali (acqua, elettricità, sanità, viabilità primaria); ricostruzione del tessuto residenziale, scolastico e produttivo. Senza il primo livello, gli altri due non partono; senza il secondo, il terzo non è sostenibile nel tempo.

La variabile che determina tempi e costi è il debris management. Oltre 40 milioni di tonnellate di macerie equivalgono a un’operazione civile-militare continuativa, soggetta a vincoli di sicurezza, carburante, accessi di frontiera, disponibilità di mezzi pesanti e siti di conferimento. Una stima “di banco” aiuta a capire gli ordini di grandezza: se un autocarro trasporta 20 tonnellate a viaggio, per spostare 40.000.000 tonnellate servono 2.000.000 di viaggi. Con 500 camion operativi che effettuano 2 viaggi al giorno, si ottengono 1.000 viaggi/giorno; 1.000 moltiplicato 20 tonnellate fa 20.000 tonnellate/giorno. Dividendo 40.000.000 per 20.000 si ottengono 2.000 giorni di lavoro netto, ossia circa 5 anni e mezzo in condizioni ideali. Ogni attrito reale – strade interrotte, bonifica da ordigni inesplosi, soste ai valichi, guasti, indisponibilità di carburante – allunga il cronoprogramma verso l’ordine del decennio. Ecco perché le valutazioni proiettano un orizzonte temporale superiore a dieci anni.

In più va tenuto conto del fatto che non tutte le macerie sono uguali. Una quota rilevante è mista (cemento, metallo, legno, plastica, amianto), con rischi ambientali e sanitari che impongono triage, frantumazione controllata e riciclo in aggregati per sottofondi stradali. Una gestione “circolare” riduce i costi logistici e di importazione dei materiali, ma richiede impianti mobili di frantumazione, aree sicure di stoccaggio e una rete viaria praticabile. In assenza di questi fattori, i costi unitari aumentano e il cronoprogramma slitta.

7 i miliardi indicati per il ripristino dei servizi militari e di sicurezza vanno letti come componente abilitante. Sicurezza del cantiere, scorta ai convogli, bonifica EOD/UXO, controllo degli accessi, protezione di ospedali e snodi logistici sono prerequisiti; senza di essi, assicurazioni e appalti non partono, i premi di rischio lievitano e la filiera resta incompleta. In tutti i teatri post-bellici, la sicurezza è un moltiplicatore: abbassa i costi indiretti, accelera i flussi e riduce la mortalità evitabile.

Sul piano finanziario, gli 80 miliardi dovranno essere investiti in fasi e strumenti diversi.

  • La fase 0-1 (0–12 mesi) assorbe le donazioni per stabilizzazione, macerie e servizi essenziali;
  • la fase 2 (12–36 mesi) richiede blending tra donatori, banche multilaterali e garanzie per lavori su reti idriche, elettriche e trasporti;
  • la fase 3 (oltre 36 mesi) apre a PPP mirati su edilizia sociale, energia distribuita e waste management.

Qui si giocheranno le partite dei grandi appalti: procurement trasparente, antifrode, clausole sociali minime, filiere locali e indicatori di performance misurabili (giorni-uomo in sicurezza, chilometri di arterie viarie riaperte, megawatt ripristinati, metri cubi d’acqua trattati).

Tre rischi possono erodere la stima iniziale: inflazione dei materiali e della logistica (cemento, acciaio, bitume), colli di bottiglia ai valichi e volatilità del cambio per gli input importati. Tre leve, al contrario, possono contenerla: riciclo degli inerti in situ, micro-reti elettriche modulari per ridurre perdite e furti, standardizzazione dei moduli abitativi e sanitari per economie di scala.

In estrema sintesi: gli 80 miliardi descrivono la dimensione di un progetto di ricostruzione che è insieme ingegneristico e politico. Senza un corridoio di sicurezza stabile, la bonifica delle oltre 40 milioni di tonnellate di macerie resterà il collo di bottiglia che congela il resto. L’allocazione di 7 miliardi alla funzione sicurezza non sottrae risorse: le abilita, perché consente a cantieri, assicurazioni e supply chain di operare con continuità e a costi prevedibili.

La dimensione infrastrutturale

L’impatto sulle infrastrutture civili è sistemico e spezza la continuità funzionale del territorio. La rete viaria – 3.479 chilometri tra distrutti e gravemente danneggiati – non è solo un’informazione ingegneristica: è l’indicatore che misura la capacità del sistema di respirare. Dove le strade non esistono o sono interrotte, l’assistenza non arriva, i cantieri non si aprono, i materiali non si trasferiscono né distribuiscono. La geografia del danno è asimmetrica: i picchi di distruzione si addensano nei nodi urbani e logistici a maggiore densità, con 442 km distrutti a Khan Yunis e 363 km nell’area di Gaza City. Qui, il tessuto urbano compatto, la sovrapposizione tra tessuto residenziale e infrastrutture critiche, e l’uso militare del sottosuolo da parte di Hamas hanno moltiplicato la vulnerabilità.

La cifra di 30 miliardi di dollari per il ripristino delle reti idriche, elettriche e viarie va letta come costo di ri-funzionalizzazione del sistema, non come semplice somma di lavori pubblici. Idrico, elettrico e stradale sono sottosistemi interdipendenti: senza viabilità primaria non si posano condotte e cavi; senza energia non si pompano acqua e reflui; senza acqua non regge l’igiene dei campi e degli ospedali. Il primo obiettivo non è dunque “ricostruire tutto”, ma ristabilire corridoi di servizio minimi che garantiscano una capacità operativa di base al territorio. In termini operativi, significa riaprire in sequenza le arterie A-B (corridoi est–ovest e nord–sud), creare hub di logistica in aree relativamente indenni, e collegare a stella gli insediamenti più popolati, anche con soluzioni provvisorie (ponti bailey, bypass su sottofondi stabilizzati, pavimentazioni temporanee).

Sul fronte idrico, la perdita fisica e commerciale (NRW) tenderà a esplodere per rotture diffuse, furti e mancanza di telemetria. Il ripristino “a parità” sarebbe inefficiente: conviene procedere per distretti idrici (DMA), con riduzioni di pressione, valvole di settore e misurazione a monte, privilegiando la riattivazione dei pozzi e delle condotte che alimentano ospedali, strutture collettive e scuole. Per l’elettrico, la priorità è la maglia di media tensione, i centri di trasformazione e le protezioni: linee provvisorie aeree, micro-reti modulari in prossimità degli insediamenti, generazione ibrida (diesel+fotovoltaico) per ridurre la dipendenza dal carburante e limitare le perdite di rete.

Sulle strade, i 3.479 km danneggiati non hanno lo stesso peso strategico. Un chilometro di arteria primaria riaperta vale più di dieci di strade locali se consente il transito di convogli pesanti e il trasporto di inerti riciclati dalle macerie. La logica deve essere quella della rete essenziale: clearance EOD/UXO, ripristino delle pavimentazioni collassate, posa di griglie e sottofondi riciclati, bitumatura a caldo solo dove la portanza lo richiede; altrove, trattamenti superficiali a freddo. In parallelo, ponti e tombini: sono i colli di bottiglia che, se non trattati, interrompono catene logistiche altrimenti funzionanti. La ricostruzione “perfetta” viene dopo: prima serve la transitabilità sicura, con standard uniformi di segnaletica e controllo accessi.

La dimensione economica conferma questa sequenza. Dentro i 30 miliardi, le voci che pesano sono gli impianti di trattamento acqua e reflui, i trasformatori e gli switchgear di media tensione, gli aggregati per pavimentazioni e la meccanizzazione leggera per cantieri diffusi. Qui si vincono o si perdono anni e miliardi: standardizzare capitolati, favorire il riuso in situ degli inerti, centralizzare gli acquisti di componentistica elettrica, suddividere i lotti stradali in pacchetti cantierabili da imprese locali supervisionate da prime contractor. Una governance chiara – corridoi sicuri, assicurazioni accessibili, pagamenti certi, anticorruzione – riduce il premio di rischio e sposta risorse dal “costo della frizione” al “costo del risultato”.

In sintesi: i numeri descrivono una devastazione estesa, ma soprattutto indicano una rotta. Ripartire dalle arterie vitali, dai distretti idrici e dalle micro-reti elettriche non è un compromesso al ribasso: è la condizione per evitare che la ricostruzione resti ostaggio della geografia del danno. Se i corridoi logistici reggono, i 30 miliardi diventano investimento in resilienza; se saltano, si trasformano in spesa ciclica, destinata a inseguire emergenze senza chiuderne nessuna.

Gli attori economici

Tra le imprese potenzialmente coinvolte nella ricostruzione figurano grandi gruppi internazionali, tra cui: Orascom e Arab Contractors (Egitto), CCC (Grecia), Organi, Limak e Tekfen (Turchia), Webuild, Cementir e Buzzi (Italia), Vinci, Bouygues, Saint-Gobain, Holcim, Heidelberg Materials, Vicat, Imerys, Veolia, Suez, EDF (Francia e Germania), e Siemens Energy, RWE (Germania). Nel settore energetico e delle risorse naturali sono coinvolte compagnie come Amar, Leviathan, Karish e Newmed (Israele), Chevron (USA), Energean (Regno Unito), Eni (Italia), British Petroleum (Regno Unito), Socar (Azerbaijan), Dana Petroleum (Scozia) e Ratio Energies (Israele).

Governance e finanziamenti internazionali

La scansione temporale conta. Il 13 ottobre 2025 la Banca Mondiale ha reso operativo il quadro di gara del Palestinian Health System Reform Project (PHSRP) pubblicando il Procurement Plan 2025-2027 (codice P508917): attuatore il Ministero della Salute palestinese, strumentazione STEP e capitolati standard WB, con prima tornata di lotti su apparecchiature mediche, cliniche mobili e servizi consulenziali per la riorganizzazione della medicina di famiglia e della farmacovigilanza. È il “capo-ponte” sanitario della ricostruzione: non solo acquisti, ma architettura di spesa e governance (procurement centralizzato, criteri di trasparenza, calendario lotti) per trasformare fondi eterogenei in servizi effettivi.

Sul lato europeo, Bruxelles ha valutato un investimento triennale fino a 1,6 miliardi di euro (2025-2027): sovvenzioni dirette alla PA (circa 620 mln), dotazione per progetti di resilienza e recovery in Cisgiordania e Gaza (circa 580 mln, “quando le condizioni lo consentiranno”) e una facility EIB da 400 mln in prestiti garantiti dalla Commissione, dedicata al tessuto produttivo. Non è un fondo unico, ma un programma a “tre tasche” che chiede coordinamento: BEI (Banca europea per gli investimenti) per credito e garanzie, DG (Direzione generale) vicinato per le sovvenzioni, agenzie nazionali per l’esecuzione nei settori energia, acqua e rifiuti. La logica è di blending sequenziale: donazioni per l’avvio (stabilizzazione e servizi minimi), poi leva creditizia per scalare investimenti con ritorno.

Il nesso strategico tra i due pilastri è evidente. Sanità: il Palestinian Health System Reform Project (PHSRP) agisce sulla “funzionalità di base” (procurement sanitario, cliniche mobili, percorsi di cura) che permette di assorbire meglio i flussi infrastrutturali futuri. Infrastrutture: la EU Gaza Facility – nel suo disegno – alloca capitali verso reti idriche, elettriche e gestione rifiuti, precondizione per far funzionare ospedali, catene del freddo e impianti di trattamento. Quando il piano sanitario dispone acquisti e standard, l’infrastrutturale può agganciarsi con cantieri compatibili, evitando i “progetti orfani” (ospedali senza energia o acqua). È la differenza tra spesa e capacità: senza programmazione congiunta, gli euro e i dollari evaporano in attriti logistici.

Tre elementi meritano attenzione operativa:

  1. Sequenziamento. Il calendario gare WB (ott-dic 2025) va sincronizzato con corridoi logistici, clearance EOD/UXO e ripristino MT/BT, per non immobilizzare forniture negli hub di ingresso.
  2. Trasparenza e rischio. L’uso di STEP e dei documenti standard WB riduce il premio di rischio per i fornitori; sul versante UE-EIB, le garanzie di Bruxelles de-rischizzano i prestiti alle PMI locali, ampliando la platea di esecutori e manutentori.
  3. Allineamento settoriale. Acquisti in sanità (diagnostica, mobilità clinica, farmaci essenziali) devono riflettere la gerarchia infrastrutturale UE: priorità a strutture coperte da micro-reti e da distretti idrici funzionanti, per massimizzare l’uptime dei servizi.

In sintesi, PHSRP e EU Gaza Facility non sono “due notizie”, ma i due lati della stessa strategia: lo standard di spesa (WB) che rende sostenibile l’investimento (UE-EIB) e, viceversa, la massa critica finanziaria europea che rende scalabile la riforma sanitaria. Dove i due flussi si incrociano – procurement trasparente e capitale a lungo termine – la ricostruzione smette di essere un elenco di progetti e diventa capability territoriale.

Le gare di ricostruzione

La Striscia di Gaza beneficia dello status “special conflict-affected” della Banca Mondiale, che consente l’accesso agevolato di imprese europee ai bandi multilaterali. L’UNDP/PAPP, programma ONU per l’assistenza al popolo palestinese, ha avviato una gara internazionale per la fornitura e installazione di unità prefabbricate (scadenza: 20 ottobre 2025). L’OMS ha aperto un bando per apparecchiature mediche destinate agli ospedali palestinesi (scadenza: 15 ottobre 2025).

Considerazioni strategiche: la ricostruzione come strumento d’influenza

La ricostruzione di Gaza non può essere ovviamente letta solo in termini economici; al contrario, rappresenta un banco di prova per la governance internazionale e per la cooperazione tra istituzioni multilaterali e Stati. Il coinvolgimento di attori privati, la competizione per i contratti e la presenza di fondi congiunti UE–World Bank indicano una dimensione geopolitica emergente in cui la ricostruzione diviene strumento di influenza. In questo quadro, l’Italia potrebbe giocare un ruolo significativo attraverso le proprie imprese e l’esperienza maturata nei contesti di post-conflitto, in particolare con le proprie capacità militare (in particolare le capacità Stability & Reconstruction, e Security Force Assistance) e di cooperazione internazionale, rafforzando la propria presenza strategica nel Mediterraneo allargato.

È inoltre fondamentale sottolineare che le implicazioni strategiche e le dinamiche economiche fanno parte di un quadro più ampio; resta il dato umano di una popolazione chiamata a ricominciare in condizioni di profonda fragilità. La ricostruzione di Gaza non sarà solo una questione di risorse o governance, ma anche di capacità collettiva di restituire normalità, sicurezza e prospettive di vita a una comunità duramente colpita. La stabilità futura dell’area passerà dalla capacità di integrare sicurezza, sviluppo e dignità umana in un unico percorso sostenibile.


[1] Fonti principali: UNOSAT/OCHA damage assessment e road network (luglio–settembre 2025).


LA VERA GUERRA DI TRUMP

di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)

LA NUOVA GEOGRAFIA TRUMPIANA

Che dir si voglia, Trump ha rivoluzionato il mondo, dando un calcio alla scacchiera internazionale e obbligando tutti a un cambio. Seppur nei suoi modi da John Wayne, non possiamo non constatare che gli stalli non fanno bene a nessuno e che provare nuove strade non è poi né disdicevole, né infruttuoso. C’è sempre da imparare.
A Trump, tuttavia, resta da combattere la peggiore delle guerre: quella interna agli Stati Uniti.

L’America che oggi si presenta agli occhi del visitatore è un Paese stanco, svuotato di entusiasmo e immaginazione. Una società che sembra aver perso la propria scintilla creativa, incapace di ridere di sé stessa e di rigenerarsi culturalmente. Persino la comicità — un tempo motore del pensiero critico — si è spenta: Jimmy Kimmel, un esempio tra tutti, protetto dal sistema hollywoodiano, nonostante le ingenti perdite finanziarie della Disney, suo datore, continua a rappresentare una satira prevedibile e autocompiaciuta, salvato più dal conformismo dell’ambiente che dal talento. “Cane non mangia cane”, si direbbe: chi appartiene al cerchio giusto non rischia mai.

Così come il panorama dell’intrattenimento (talk show ripetitivi, serie televisive popolate da eroi intercambiabili e una Hollywood ormai piegata alla logica del politically correct e dei supereroi riciclati, incapace di innovare), la stessa apatia attraversa il mondo universitario. Il campus americano, un tempo laboratorio di idee e di libertà, è divenuto il simbolo di una cultura che si autocensura, dove la diversità di opinioni è tollerata solo se conforme al pensiero dominante. Da sempre cuore pulsante dell’innovazione intellettuale americana, oggi le università, anche quelle più prestigiose, sono più impegnate a ridefinire i pronomi corretti che a coltivare un pensiero critico capace di misurarsi con la complessità del reale. 

L’America oggi non è più la “terra dell’audacia”, ma un laboratorio di disillusione collettiva. La patria del “I have a dream” sembra incapace di sorridere o di sorprendere, imprigionata in una identità frantumata tra nostalgie, contraddizioni, e simulacri.

Rientrata da New York dopo la kermesse delle Nazioni Unite, ho trovato una città dove impera l’odore di marijuana, di urina e sporcizie. I mille negozietti da scoprire sono spariti, vuoti bui in cerca di nuovi affittuari; i grandi magazzini, stile Rinascente, una volta affollati di mercanzie made in the USA hanno qualche bancone con le solite firme che tutti conosciamo perché principalmente nostre, inavvicinabili per i prezzi e ancora una volta noiosamente ripetitivi. Infine, l’immagine più straziante, ad eccezione del quadrilatero ricco, i marciapiedi dal lato dei palazzi ospitano giovani maschi tra i 30 e i 40 buttati a terra, fatti o meno, dormienti, che non chiedono nemmeno le elemosine. Un quadro devastante.

Ma spostiamo ad altre realtà. Portland, dove Trump ha inviato la Guardia Nazionale non è diversa, anzi peggio. Negozi con le serrande a metà, scaffali mezzi vuoti, è una città fantasma. Denver, idem. La strada principale vuota, i palazzi in centro bui perché inutilizzati ad eccezione di quelli pubblici. La maggioranza degli impiegati lavora da casa e quindi, di conseguenza ristoranti e bar falliti o no hanno chiuso, e chi si è impadronito delle strade sono i senza tetto, di cui molti drogati.

LA DROGA IL MALE DI TUTTI I MALI

Diversi Stati, per ridurre o contenere lo spaccio di droghe leggere, come la marjuana, l’hanno legalizzata sperando di ottenere risultati soddisfacenti. Se da un lato la legalizzazione ha portato soldi alle casse dello Stato, diminuito gli arresti e quindi alleggerito polizia e tribunali, dall’altro ne è aumentato l’uso esponenzialmente. (Nuovo studio della Carnegie Mellon / dati da sondaggi (2008–2022). Tra il 2008 e il 2022, il tasso di segnalazione dell’uso di cannabis nell’ultimo anno è aumentato del 120%.

Chicago, altra metropoli di cui si parla da settimane, non è lontana da questa realtà, ma in più, rispetto a Portland soffre delle guerre tra gang. Dopo Washington DC, che è stata negli anni 90 la città con più assassinii del mondo (e io c’ero), Chicago oggi la segue, ma secondo il suo governatore, non è vero, anzi gli omicidi sono diminuiti. La polizia infatti che ha sempre compilato un rapporto annuale sullo stato delle cose, dal 2023 ha deciso di non registrare più nel suo database gli omicidi per mano di gangs. A guida democratica da più di 90 anni, (fu infatti il polo vincente per Kennedy durante le presidenziali del 1960) i repubblicani ne contestano la gestione, accusando il partito di aver trasformato la città in un laboratorio di politiche progressiste inefficaci, incapaci di affrontare in modo strutturale la criminalità, la povertà e la fuga della classe media.

Dopo la stagione dei diritti civili degli anni 60 dove giustamente l’esecutivo di Washington ha spinto per l’integrazione razziale a tutti i livelli, la sinistra americana, si è man mano, appropriata di questo canale per affondare radici lontane dal credo fondante statunitense, trasformandola in un campo di battaglia ideologico.

È di questo periodo, in cui il dibattito pubblico si irrigidisce e la politica tende a confondere giustizia con appartenenza, che Caroline Kennedy, seguendo le orme del padre, riporta l’attenzione sull’essenza autentica del coraggio civile pubblicando il libro “Profiles in Courage for Our Time “ – (2002): una raccolta di tredici saggi dedicati a uomini e donne che, in epoche diverse, hanno anteposto la coscienza e la verità morale al calcolo politico.

“Il coraggio politico non appartiene al passato. Ogni epoca produce uomini e donne disposti a rischiare tutto pur di rimanere fedeli alla verità.”  — Caroline Kennedy, Introduzione (2002)

Ma negli anni successivi, il legittimo desiderio di giustizia e inclusione ha lasciato spazio a una nuova forma di radicalismo — il cosiddetto woke movement — che, pur nascendo da istanze egualitarie, ha finito per imporre regole e dialoghi che hanno reinterpretato la libertà di espressione in un terreno di scontro più che di progresso.

Ma è giusto l’uso della forza militare internamente ?

Il giuramento delle forze armate recita: “I do solemnly swear that I will support and defend the Constitution of the United States against all enemies, foreign and domestic; that I will bear true faith and allegiance to the same; and that I will obey the orders of the President of the United States and the orders of the officers appointed over me, according to regulations and the Uniform Code of Military Justice. So, help me God.”

L’uso dell’esercito per azioni di polizia all’interno del Paese è vietato dal Posse Comitatus Act (1878) per evitare che il governo federale possa usare le forze armate come strumento politico o repressivo (salvo eccezioni : Little Rock, 1957: Eisenhower per garantire l’integrazione scolastica; Los Angeles Riots, 1992: Bush Sr. autorizzò l’intervento dell’esercito per ristabilire l’ordine pubblico).

La realtà oggi è un’altra. Se da un lato la Guardia Nazionale è stata dislocata a Portland e a Chicago per difendere i palazzi dove risiedono gli impiegati ICE (l’Agenzia per l’immigrazione e le dogane) è perché l’amministrazione Trump ha giustificato tali interventi come azioni necessarie per proteggere le infrastrutture federali e garantire la sicurezza del personale governativo, in risposta a episodi di vandalismo, disordini e proteste anti-immigrazione che avevano preso di mira questi uffici.
Secondo la Casa Bianca, l’obiettivo non è reprimere il dissenso politico, ma difendere la sovranità delle istituzioni federali di fronte a governi locali considerati “inerti” o “troppo permissivi” nel proteggere la presenza di immigrati illegali.

Tuttavia, per la sinistra americana e gran parte dell’opinione pubblica, tali azioni rappresentano una grave forzatura del principio di autonomia statale e un uso politico della forza federale. In molti hanno denunciato la presenza della Guardia Nazionale e di agenti armati non identificati come una deriva autoritaria, tesa più a intimidire che a proteggere, in netto contrasto con lo spirito del Posse Comitatus Act, che limita l’impiego delle forze armate in ambito civile.

Ma dopo anni di laissez-faire le immagini e le esperienze quotidiane portano conclusioni lontane dalle lamentazioni della sinistra.

Parlando con un veterano militare “William”, appartenuto alla US Army Airborne, forze d’assalto dietro le linee nemiche andato in missione in Iraq ben due volte, mi racconta che non si riconosce in questa America, polarizzata, drogata, e lontana dal credo di onore, coraggio, onestà e trasparenza. Gli chiedo se si immagina una guerra civile nello stile 2025 e mi cita l’insurrezione del 6 gennaio, sulla quale ridiamo ambedue perché quella, per noi, non è una insurrezione ma una mascherata da Halloween. E noi europei abbiamo visto ben altro il secolo scorso. E Charlie Kirk allora? Non resisto a chiedere. “Sicuramente un perfetto omicidio su commissione”. Pondero ma ambedue non sappiamo da chi? L’estrema sinistra che ha visto un mago (Charlie) trasformare i campus universitari in una possibile nuova America conservatrice? Il Mossad? Perché Charlie ha voltato le spalle a Netanyahu? Oppure gli stessi repubblicani perché Kirk chiese anche lui di mostrare i files di Epstein. Insomma, le teorie volano e noi le lasciamo correre.

In conclusione, la nuova geografia trumpiana non è soltanto una riedizione di vecchie battaglie politiche: è la fotografia di un Paese che si confronta con la rottura tra narrazione e realtà. Da un lato c’è la retorica della sicurezza, dell’ordine e del ritorno alla normalità; dall’altro c’è la vita quotidiana di città svuotate, quartieri senza negozi, veterani che non riconoscono più la patria per cui hanno servito. Quando le leve del potere vengono usate per proteggere istituzioni federali — e contemporaneamente vengono denunciate come strumento di intimidazione politica — la democrazia rischia di perdere la fiducia necessaria per funzionare. Il coraggio evocato da Caroline Kennedy rimane la bussola: non è nell’uso della forza fine a sé stessa, ma nella capacità dei leader di cambiare il discorso politico per ristabilire una normalità più che necessaria senza sacrificare libertà civili e autonomia locale.

Sul piano economico, il quadro è altrettanto complesso. L’inflazione, unita alle politiche di tassazione sulle importazioni e all’idea di “ricreare una manifattura statunitense”, rappresenta un lungo progetto di sovranità produttiva che però, nel breve periodo, tampona da un lato e soffoca dall’altro. Le tariffe introdotte per proteggere il mercato interno finiscono per alzare i costi: le imprese importatrici trasferiscono i sovrapprezzi ai cittadini, che vedono lievitare i prezzi quotidiani. Secondo la Federal Reserve Bank di San Francisco, un dazio uniforme del 25 % comporterebbe un aumento del 2,2 % dei beni di consumo e fino al 9,5 % dei beni d’investimento .
Lo Yale Budget Lab stima che le misure tariffarie introdotte nel 2025 abbiano già spinto i prezzi dell’abbigliamento dell’8 % solo per il provvedimento del 2 aprile e del 17 % considerando l’intero pacchetto dell’anno.
 Anche la Boston Fed conferma che gli aumenti dei prezzi di importazione non restano confinati ai confini commerciali ma si propagano nel paniere dei beni di consumo, mentre J.P. Morgan avverte che le imprese americane, dopo aver inizialmente assorbito l’impatto, tenderanno inevitabilmente a scaricarlo sui consumatori finali.
Il Financial Times osserva che i rincari si fanno già sentire su hardware, abbigliamento e beni elettronici.

Di fatto, le misure pensate per “salvare” l’economia americana stanno colpendo chi la sostiene ogni giorno: i cittadini. La crisi dei centri urbani, aggravata dallo smart working, dalla chiusura di attività locali e dall’aumento del costo della vita, ha eroso la base fiscale e indebolito il tessuto sociale. Servono interventi strutturali: investimenti pubblici e privati per riqualificare infrastrutture e housing, incentivi fiscali che favoriscano la riconversione produttiva, programmi di sostegno per i lavoratori e per le comunità colpite. Possiamo solo sperare che queste nuove politiche economiche trasformino e restituiscano a questa “immensa isola” la dignità, l’autonomia e il dinamismo che l’hanno resa grande.

Questa è la vera guerra di Trump: troverà l’America la sua pace?


Italia: il Documento Programmatico della Difesa (2025-2027)

Orientamenti strategici e sfide per la sicurezza nazionale

di Andrea Molle

Il Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2025–2027 si colloca in una fase di transizione geopolitica e strategica di grande complessità per l’Italia e per l’Europa. Dopo il consolidamento della postura NATO in Europa orientale e la crescente instabilità in Africa e nel Mediterraneo allargato, la Difesa italiana punta a un rafforzamento complessivo della propria capacità di deterrenza, interoperabilità e resilienza. Il DPP 2025 non introduce discontinuità rispetto agli anni precedenti, ma consolida una traiettoria già avviata: una modernizzazione graduale, tecnologicamente avanzata e sempre più interconnessa con l’industria nazionale della difesa.

Il documento insiste sulla necessità di mantenere una proiezione credibile e autonoma nel quadro europeo, pur riconoscendo la centralità del legame atlantico. L’obiettivo è duplice: rafforzare la partecipazione italiana ai programmi di difesa comuni UE (come l’EDF e il PESCO) e, al tempo stesso, garantire la coerenza con le esigenze operative NATO. Questa duplice appartenenza implica un aumento della spesa in conto capitale — non tanto in nuovi fondi, quanto nella stabilizzazione di quelli già approvati — destinata a piattaforme ad alta tecnologia, capacità cyber e spaziali, e infrastrutture di comando e controllo integrate.

Sotto il profilo economico, il DPP conferma un bilancio della Difesa che nel 2025 supera i 31 miliardi di euro, con una ripartizione che tende a privilegiare investimenti piuttosto che spese correnti. Tuttavia, dietro questo apparente consolidamento si cela una tensione tra necessità di sostenibilità finanziaria e ambizione strategica: la crescita della spesa militare resta ancorata a vincoli di bilancio complessivi, e gran parte dei programmi dipende dal mantenimento dei fondi già autorizzati dal Parlamento. La prospettiva di raggiungere il 5% del PIL richiesto dalla NATO è evocata come obiettivo politico, ma appare ancora più una traiettoria che un traguardo immediato.

L’accento sulla trasformazione digitale è un tratto distintivo del documento. Le Forze Armate vengono descritte come attori in un processo di “digitalizzazione operativa”, che comprende l’adozione di sistemi C4ISR avanzati, capacità di difesa cibernetica e integrazione dei domini spaziale e marittimo. In questo senso, il DPP prosegue nel solco dell’“integrazione multidominio”, non solo tecnologica ma anche concettuale: il futuro della difesa italiana passa per la capacità di agire simultaneamente su più teatri — terrestre, navale, aereo, cibernetico, cognitivo e spaziale — con coerenza dottrinale.

Sul piano politico, il DPP 2025 mostra un forte allineamento con la strategia del governo nel Mediterraneo e in Africa. L’Italia intende rafforzare la sua presenza militare e diplomatica nel “Mediterraneo allargato”, da Gibilterra al Mar Rosso, quale area vitale per la sicurezza energetica, le rotte commerciali e la stabilità regionale. Le missioni in Libano, Iraq, Sahel e Corno d’Africa sono confermate, ma con un progressivo riequilibrio in funzione della disponibilità di forze e risorse.

Non mancano però le ambiguità. Diverse analisi sottolineano che il DPP 2025 risulta meno trasparente dei precedenti: fornisce meno dettagli sulle allocazioni specifiche e riduce la granularità informativa sui singoli programmi d’armamento. Questa scelta, interpretata da alcuni come volontà di semplificare la comunicazione pubblica, è letta da altri come un passo indietro nella rendicontazione democratica della spesa militare.

L’Allegato tecnico, parte integrante del DPP, completa il quadro offrendo una mappatura dei programmi in corso e futuri. Vi si trovano i piani di sviluppo per l’Esercito (nuovi veicoli da combattimento e capacità anti-drone), la Marina (modernizzazione delle FREMM, sottomarini U212NFS, nuovi pattugliatori e unità anfibie) e l’Aeronautica (potenziamento della componente F-35, droni MALE e capacità di difesa aerea). A questi si aggiungono i programmi spaziali, in particolare per la sorveglianza e il posizionamento satellitare, ambiti in cui l’Italia mira a consolidare un’autonomia strategica parziale ma significativa.

In termini di filosofia generale, il DPP 2025 conferma la tendenza della Difesa italiana a considerarsi non solo strumento militare ma infrastruttura nazionale di sicurezza integrata, in grado di operare anche in ambiti civili (protezione civile, sanità, emergenze ambientali). Questa impostazione “dual use” risponde sia a esigenze di efficienza interna sia al tentativo di accrescere il consenso sociale verso la spesa militare, legittimandola come investimento per la collettività.

Nel complesso, il DPP 2025–2027 rappresenta dunque un documento di continuità e consolidamento, più che di rottura. Ambizioso nelle intenzioni, prudente nelle allocazioni, e orientato a mantenere l’Italia nel gruppo di testa europeo in termini di capacità tecnologiche e industriali della difesa. Resta aperta, tuttavia, la questione della trasparenza e del controllo democratico su una spesa che si muove ormai verso livelli strutturalmente elevati, e la cui giustificazione dipende sempre più da una narrativa di “emergenza permanente” nel contesto internazionale.

Il DPP 2025–2027 conferma dunque la tendenza della politica della difesa italiana a essere al tempo stesso reattiva e conservatrice piuttosto che pienamente strategica. È reattiva perché si adatta alle nuove minacce — guerra ibrida, cyber-attacchi, competizione nello spazio e nei mari — ma è conservatrice nella struttura decisionale e nei meccanismi di allocazione delle risorse. La pianificazione resta in larga misura incrementale, cioè basata sull’aggiustamento di programmi pluriennali già avviati più che su una ridefinizione strategica delle priorità. In questo senso, il DPP 2025 è più un documento di gestione che di visione.

Dal punto di vista strategico, la Difesa italiana continua invece a muoversi su un doppio binario: da un lato la piena integrazione nella NATO e nel suo dispositivo orientato alla deterrenza convenzionale verso la Russia; dall’altro, la volontà di preservare una specificità mediterranea che consenta all’Italia di restare un attore di primo piano nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Questa duplice direttrice produce talvolta un effetto di dispersione: le forze e i bilanci vengono divisi tra teatri lontani e missioni di natura diversa (proiezione, stabilizzazione, deterrenza, sostegno civile). Il risultato è una postura globale coerente ma non sempre efficace in termini di concentrazione dello sforzo.

Dal punto di vista industriale, il DPP prosegue nella strategia di integrazione tra sistema militare e sistema produttivo nazionale. Il complesso della difesa viene descritto come un “ecosistema tecnologico” in cui le grandi imprese (Leonardo, Fincantieri, MBDA, Iveco Defence) assumono un ruolo di cerniera tra capacità operative e innovazione industriale. Questa scelta è coerente con la logica europea dell’EDF e della PESCO, ma comporta un rischio crescente di dipendenza politica dalle esigenze di mantenimento delle filiere e dei distretti industriali, più che dalle reali priorità strategiche. In altre parole, la pianificazione rischia di essere guidata dalla “logica dell’offerta” industriale piuttosto che da una domanda operativa chiara.

Un secondo elemento critico, che emerge in filigrana nel DPP 2025–2027, riguarda la persistente assenza di un paradigma di “difesa totale” o di sicurezza nazionale integrata, sul modello nordico. Nonostante la crescente consapevolezza delle minacce ibride — cyber, infrastrutturali, cognitive e sociali — il documento continua a leggere la resilienza quasi esclusivamente in chiave militare o tecnico-istituzionale, trascurando la dimensione sociale e civile della difesa. In altri termini, manca una visione che concepisca il cittadino, l’impresa e il territorio come parte attiva del sistema di sicurezza nazionale. In questo senso, gli investimenti restano concentrati sullo strumento militare e sulla sua proiezione esterna, ma poco si fa per costruire una resilienza diffusa, capace di rendere la società italiana meno vulnerabile alle crisi energetiche, informative e logistiche. Il riferimento al modello “total defense” — che in Paesi come Svezia, Finlandia o Norvegia integra difesa, protezione civile, comunicazione strategica e formazione civica — evidenzia quanto l’Italia sia ancora ancorata a una concezione verticale della sicurezza, affidata allo Stato più che condivisa con la società. Il rischio è quello di un sistema di difesa moderno, dual use, ma isolato dal suo tessuto civile, incapace di trasformare la sicurezza in una cultura collettiva.

Un terzo elemento critico riguarda la trasparenza e la legittimazione democratica. Rispetto ai DPP precedenti, quello del 2025 riduce il livello di dettaglio pubblico sulle spese e sui singoli programmi, rendendo più difficile un controllo parlamentare e civico. Ciò potrebbe derivare da ragioni tecniche — la semplificazione della comunicazione — ma sul piano politico è sintomo di un trend più generale: la normalizzazione di un livello di spesa elevato, giustificato dal contesto geopolitico, ma sottratto in parte al dibattito pubblico o da una strategia di resilienza diffusa. La difesa tende così a diventare un “ambito protetto” del bilancio, in cui il consenso viene costruito più attraverso la retorica della sicurezza che attraverso la verifica dei risultati.

Sotto il profilo europeo, il DPP 2025 riflette un tentativo di allineamento con il paradigma emergente del “re-armamento europeo” (ReArm Europe), ma resta timido nel promuovere una vera integrazione industriale o operativa. L’Italia si presenta come un contributore affidabile ma non come un leader concettuale: segue la traiettoria franco-tedesca, adattandola ai propri interessi nel Mediterraneo e nel settore navale-aerospaziale.

Nel complesso, il documento esprime un equilibrio pragmatico: un compromesso fra vincoli di bilancio, esigenze di interoperabilità e aspirazioni di autonomia strategica. Tuttavia, l’impressione generale è che manchi una visione coerente del ruolo dell’Italia nel sistema internazionale della sicurezza. L’aumento della spesa, la digitalizzazione e la cooperazione industriale sono strumenti, non fini: e il DPP 2025, pur ben strutturato tecnicamente, non articola in modo convincente quale debba essere il fine politico — se deterrenza, stabilità regionale, proiezione globale o solo continuità istituzionale.

In questo senso, il DPP 2025–2027 è un documento necessario, ma non ancora sufficiente. Segna il consolidamento di una politica di difesa moderna, tecnologicamente avanzata e integrata con l’Europa, ma lascia aperta la domanda più profonda: quale modello di potenza l’Italia intende essere nel mondo che si prepara alla competizione permanente tra grandi attori?

Foto di Slim MARS su Unsplash


LO SHUTDOWN CHE VORREBBE RIDISEGNARE L’AMERICA – DUE LATI DELLA STESSA MEDAGLIA

di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)

Il cosiddetto government shutdown non è una novità per gli Stati Uniti. Dal 1980 ad oggi, il governo federale ha visto e superato oltre 20 episodi di chiusura parziale o totale delle proprie attività, causati dall’impossibilità del Congresso e della Casa Bianca di raggiungere un accordo sui bilanci annuali o su leggi di spesa temporanee (Continuing Resolutions).

Le origini

Il meccanismo affonda le radici nell’Antideficiency Act, una legge federale che proibisce alle agenzie governative di impegnare fondi se non esiste un’esplicita approvazione da parte del Congresso. Quando il budget scade senza rinnovo, i dipendenti (ad eccezione di quelli indispensabili, come i controllori di volo ad esempio) vengono messi in furlough – sospensione temporanea (o come molti la soprannominano, “in vacanza”), mentre i servizi fondamentali vengono comunque garantiti.

Gli episodi più significativi 

  • Anni ’90 (era Clinton): diversi shutdown dovuti ai contrasti con il Congresso a maggioranza repubblicana sulla spesa pubblica e il deficit. Quello del 1995–1996 durò complessivamente 27 giorni.
  • Ottobre 2013 (era Obama): 16 giorni di blocco, frutto dello scontro sull’Obamacare, con oltre 800.000 dipendenti federali in furlough.
  • Dicembre 2018 – Gennaio 2019 (era Trump): il più lungo della storia moderna, 35 giorni, legato al finanziamento del muro al confine con il Messico.
  • Altri episodi  – più brevi  – hanno spesso riguardato divergenze su tasse, sanità, difesa, welfare e immigrazione.

Lo shutdown è quindi diventato un vero e proprio strumento di pressione politica, usato da entrambe le parti come leva negoziale. Ogni episodio ha sofferto di non poche conseguenze: perdita economica, innumerevoli disagi per i cittadini, calo della fiducia nelle istituzioni. L’unica nota positiva, il rafforzamento della narrazione politica per chi ne esce percepito come “vincitore”.

Lo shutdown oggi e i fondi Biden nel mirino

Lo shutdown del 1° ottobre è il risultato di uno scontro politico sugli stanziamenti già approvati sotto Biden; infatti, non si tratta di nuove spese o del bilancio statale stilato dall’amministrazione Trump, bensì sulle spese già predisposte dall’amministrazione precedente. Avendo quindi questa amministrazione cancellato alcune delle voci di spesa ecco perché è nato questo dissidio nel Congresso dove i democratici non hanno accettato queste revisioni.

Due narrazioni a confronto: La posizione repubblicana

Per i Repubblicani non ci sono dubbi: la responsabilità dello shutdown ricade interamente sui Democratici del Senato. Il punto di partenza è la Continuing Resolution (CR), ossia quell’atto legislativo che avrebbe permesso di evitare la chiusura e che meno di sei mesi fa è stata approvata dalla Camera dei deputati, e che avrebbe garantito la continuità dei finanziamenti federali fino al 21 novembre. Un provvedimento che, secondo la leadership GOP, era del tutto “pulito”, praticamente identico a quello che i Democratici stessi avevano approvato in passato durante la presidenza Biden,e che era stato approvato senza opposizioni, se non per un adeguamento dovuto all’inflazione.

Purtroppo, una volta al Senato, i democratici hanno respinto in blocco la proposta. Per la Casa Bianca, la spiegazione è una sola: i Democratici volevano re- inserire i benefit sanitari per gli immigrati illegali, un onere che i Repubblicani giudicano insostenibile per un Paese già gravato da 37 trilioni di dollari di debito.

Dal podio della Sala Stampa, la portavoce Karoline Leavitt insieme al Vicepresidente JD Vance, ha scandito chiaramente l’accusa: i Democratici hanno scelto di “chiudere il governo per difendere il diritto a un’assistenza gratuita per chi ha violato la legge entrando illegalmente”, obbligando tutti a sacrificare programmi necessari e fondamentali per i cittadini americani. Lo shutdown interrompe i finanziamenti a programmi cruciali come Medicare, il sostegno WIC (Women, Infants and Children, che garantisce alimenti e assistenza nutrizionale a donne in gravidanza, neomamme e bambini piccoli), i Community Health Centers e altri servizi sanitari che dipendono dai fondi federali.

La diffidenza repubblicana nasce anche da situazioni di emergenza che hanno visto stati a guida democratica e città santuario utilizzare fondi federali per ospitare immigrati illegali, pur trattandosi di risorse che — contrariamente al mandato originario — avrebbero dovuto servire a proteggere la nazione dagli ingressi non autorizzati e a sostenere la sicurezza delle frontiere. Per il GOP, questo rappresenta un tradimento delle finalità di spesa approvate dal Congresso e un ulteriore segnale di come i Democratici abbiano anteposto la gestione dell’immigrazione irregolare alla tutela dei cittadini.

La narrazione repubblicana si intreccia con la rivendicazione dei risultati dell’amministrazione Trump. Proprio mentre i Democratici “bloccavano il Paese”, il Presidente firmava un accordo con Pfizer per ridurre il prezzo dei farmaci e un executive order per accelerare la ricerca sul cancro pediatrico attraverso l’intelligenza artificiale, misure che per la Casa Bianca sono “azioni concrete a favore degli americani”, in contrapposizione alla scelta dei Democratici di mettere in primo piano i migranti irregolari.

Caroline ha infine ricordato che il mondo conservatore non è il solo a sostiene questa linea. Attori come i Teamsters (il sindacato dei lavoratori pubblici) — il cui leader, Shaun O’Brien ha ammonito: “i lavoratori americani non possono essere ostaggi di giochi politici” — e la Camera di Commercio, la più grande organizzazione imprenditoriale del Paese, hanno chiesto al Senato di approvare senza ulteriori rinvii la CR repubblicana. Il messaggio è chiaro: riaprire subito il governo, evitare il prolungarsi di uno shutdown che rischia di danneggiare l’economia, la sicurezza nazionale e milioni di famiglie.

La posizione democratica: le ragioni del “no”

I Democratici respingono con forza l’idea che la loro scelta contro la CR (Risoluzione Continua, ossia il prolungamento della finanziaria) proposta dai Repubblicani, sia stato un semplice atto di “sabotaggio”. Per loro, il testo avanzato era carente, sbilanciato e politicamente inaccettabile in quanto non difende i diritti sociali che non sono negoziabili. La proposta del GOP non prevedeva il rinnovo dei sussidi dell’Affordable Care Act (Obamacare) né un ampliamento di Medicaid, due misure che per i Democratici sono fondamentali per evitare che milioni di americani vedano aumentare le spese sanitarie. Inoltre, mancavano le risorse per gli aiuti internazionali, incluso il sostegno all’Ucraina — una spesa che i Democratici considerano parte della sicurezza e della proiezione globale americana.

All’interno del Partito Democratico si è aperto un vero braccio di ferro. Da un lato Chuck Schumer, capogruppo di minoranza al Senato, ha cercato di tenere una linea istituzionale e di compromesso, dichiarando in conferenza stampa: “Democrats do not want a shutdown … We stand ready to work with Republicans to find a bipartisan compromise, and the ball is in their court.” Dall’altro lato Alexandria Ocasio-Cortez, deputata di New York e volto dell’ala progressista nota come the Squad, ha spinto con forza i colleghi a respingere la CR repubblicana, accusata di sacrificare sanità e welfare pur di ottenere un’estensione temporanea dei fondi. Per Ocasio-Cortez e i progressisti, infatti, la partita sul bilancio non riguarda solo i conti pubblici ma anche la difesa dei diritti dei migranti: in particolare i beneficiari di DACA, i cosiddetti Dreamers, (i Dreamers devono il loro nome al DREAM Act del 2001, una proposta di legge mai approvata dal Congresso; dal 2012 hanno trovato protezione temporanea grazie al programma DACA voluto da Obama, e più recentemente l’amministrazione Biden ha cercato di estendere loro anche l’accesso ai sussidi sanitari dell’Affordable Care Act)  giovani arrivati da bambini negli Stati Uniti senza documenti ma cresciuti come americani. L’inclusione dei Dreamers nelle coperture sanitarie è divenuto il simbolo della battaglia, trasformando lo shutdown in uno scontro identitario sul futuro stesso dell’America. Alexandria Ocasio-Cortez e altri progressisti hanno spinto affinché i Democratici non cedessero a compromessi che tagliassero fondi essenziali. Lei ha più volte ribadito che non ci si deve “ammorbidire” davanti a tattiche negoziali forzate dei Repubblicani.  Si è creato così, all’interno del partito democratico, un vero e proprio scontro: da una parte Schumer e la leadership del Senato, che desiderano evitare che lo shutdown si prolunghi e causare danni politici irreparabili, dall’altra la base progressista, che insiste sul fatto che, cedere oggi, significherebbe rinunciare a battaglie future su sanità, equità e diritti sociali. Alla fine, la posizione dura ha prevalso e la maggioranza dei senatori Dem ha votato contro la CR repubblicana, convinti che una legge di bilancio viziata non è accettabile.

Nel fumo della battaglia per lo shutdown…

Visto il blocco, Trump ha deciso di approfittarne e non perdere questa occasione politica per portare avanti uno degli obiettivi principali: ridurre le dimensioni gargantuesche del governo federale.

Il 2 ottobre 2025, su Truth Social, ha scritto: “We are looking at which DEMOCRAT agencies and wasteful projects to CUT. There could be permanent cuts, there could be firings – and that’s their fault. The shutdown is a chance to finally shrink Washington and put America First.”
Inolte Trump ha annunciato un incontro con l’OMB (Office of Management and Budget) per discutere tagli mirati: “we could cut projects … permanently cut”.

Queste dichiarazioni hanno alimentato la preoccupazione dei sindacati federali. L’AFSCME (American Federation of State, County and Municipal Employees) ha denunciato che l’amministrazione sta cercando di usare lo shutdown per “licenziare in massa i lavoratori federali in violazione della legge”, ricordando che finora i precedenti shutdown avevano sempre previsto sospensioni temporanee con diritto a back pay, (paga arretrata) non licenziamenti permanenti.

I tentativi di rendere permanenti i tagli durante una fase di blocco potrebbero violare leggi federali come l’Antideficiency Act, che disciplina le attività consentite in assenza di stanziamenti approvati dal Congresso.

Se da un lato Donald Trump sfrutta lo shutdown come occasione per snellire lo Stato federale, riducendo agenzie e spesa pubblica, dall’altro il confronto mette a nudo due filosofie politiche inconciliabili.

 I Democratici continuano a difendere un modello che prevede alti livelli di finanziamenti anche all’estero — dall’Ucraina ai programmi multilaterali — rischiando però di apparire quasi ciechi di fronte a un’America che, agli occhi di molti, sembra solo l’ombra della potenza che fu.

 I Repubblicani, invece, attraverso la linea dura di Trump, tentano di “tirare i remi in barca” e concentrare le risorse sul fronte interno, nella convinzione che un Paese con un debito da 37 trilioni di dollari non possa più permettersi sprechi o “vacanze italiane”, ma debba tornare a investire sulla sicurezza nazionale, sul lavoro e sui cittadini americani.

Lo shutdown del 2025 va oltre la questione di bilancio: racconta un’America spaccata tra chi guarda ancora al ruolo globale all’estensione del welfare inclusivo e chi, invece, vuole concentrare risorse e forze sul fronte interno.