Negli ultimi anni l’Africa occidentale è tornata a occupare un ruolo centrale nelle dinamiche dell’instabilità globale. Una regione storicamente fragile, caratterizzata da istituzioni deboli, corruzione endemica e tensioni etniche, è divenuta oggi terreno d’azione privilegiato per attori non statali e potenze revisioniste. Due protagonisti ne incarnano le logiche più profonde: Hezbollah e il Gruppo Wagner, riorganizzato dopo la morte di Prigožin come Africa Corps sotto il diretto controllo del Ministero della Difesa russo. Apparentemente diversi, i due attori condividono una medesima strategia: proiettare potere e influenza attraverso canali non convenzionali, operando in quella zona grigia tra criminalità, politica e guerra per procura.
Hezbollah: la
colonizzazione silenziosa
Per Hezbollah, l’Africa occidentale non rappresenta un fronte militare, ma un centro logistico e finanziario essenziale. Sfruttando la fitta rete della diaspora libanese, l’organizzazione ha costruito nel tempo una infrastruttura economica parallela basata su società di comodo, traffici illeciti e attività di riciclaggio. I proventi del commercio di diamanti, oro e opere d’arte, insieme a donazioni spesso estorte, alimentano le operazioni in Libano e in Siria, compensando la progressiva riduzione del sostegno iraniano. Attraverso l’uso di coperture consolari e diplomatiche, Hezbollah riesce a muoversi con relativa impunità, infiltrandosi nei circuiti economici e politici locali.
Questa strategia
produce effetti profondamente corrosivi. La “colonizzazione economica” di
Hezbollah mina la sovranità degli Stati africani, corrompe funzionari e
imprenditori, e rende la distinzione tra legalità e illegalità sempre più
sfumata. Il gruppo non conquista territori, ma colonizza economie,
appropriandosi delle rendite e dei canali di intermediazione. È una
penetrazione silenziosa, difficilmente riconducibile a uno schema tradizionale
di minaccia terroristica, ma devastante nel lungo periodo perché erode
dall’interno la capacità dello Stato di governare.
Wagner: la
militarizzazione dell’influenza
Il Gruppo
Wagner rappresenta invece la dimensione opposta: visibile, coercitiva e
brutale. Operando in Mali, Sudan, Niger e Repubblica Centrafricana,
Wagner è divenuto lo strumento principale della proiezione di potenza russa
in Africa. Attraverso accordi formalmente commerciali o di sicurezza, offre
protezione militare e sostegno propagandistico a regimi isolati in cambio di concessioni
minerarie e influenza politica. Il caso del massacro di Moura nel
2022, in cui centinaia di civili furono uccisi, mostra come la presenza russa
non porti stabilità ma ulteriore violenza, alimentando la narrativa jihadista
del “nemico straniero”.
Con la trasformazione in Africa Corps, Mosca ha scelto di istituzionalizzare il modello Wagner, rendendolo parte integrante della propria architettura strategica. L’obiettivo è duplice: mantenere una presenza geopolitica diretta sul continente e al tempo stesso garantirsi un margine di negabilità politica. È una forma di imperialismo privatizzato, in cui la forza militare si fonde con la logica del profitto e del controllo delle risorse naturali.
La coesistenza di Hezbollah e Wagner trasforma l’Africa occidentale in un laboratorio di guerra ibrida, dove terrorismo, criminalità organizzata e geopolitica delle grandi potenze si sovrappongono. Entrambi gli attori sfruttano le stesse vulnerabilità strutturali—l’assenza di governance, la debolezza istituzionale, l’emarginazione economica—e finiscono per alimentarsi a vicenda. Da un lato, le reti finanziarie di Hezbollah corrodono la legittimità economica degli Stati; dall’altro, il mercenariato russo altera gli equilibri politici e di sicurezza. Il risultato è una destabilizzazione multilivello che travalica i confini regionali.
Le conseguenze
raggiungono anche l’Europa. Le reti di riciclaggio di Hezbollah si
intrecciano con banche e società europee, mentre la proiezione russa in Africa
fornisce a Mosca una leva strategica sulle catene di approvvigionamento
energetiche e minerarie. Ignorare questi processi significherebbe lasciare
che la periferia meridionale dell’Europa diventi un laboratorio di influenza
ostile.
Verso un
cambio di paradigma
La risposta
europea finora è stata frammentata e insufficiente. Né la cooperazione
militare né gli aiuti allo sviluppo possono da soli contrastare attori che
agiscono su piani economici, politici e cognitivi. Il Piano Mattei promosso dall’Italia può essere un punto di
partenza, ma deve evolvere in una strategia integrata che combini
sicurezza, governance e finanza internazionale. Servono strumenti per
rafforzare le istituzioni giudiziarie africane, migliorare i controlli contro
il riciclaggio, e affrontare le cause strutturali della vulnerabilità:
diseguaglianza, corruzione e dipendenza economica.
L’occasione
italiana
Per l’Italia, la
sfida è anche un’opportunità di leadership. Roma, grazie alla sua posizione
geopolitica e alla credibilità diplomatica nel Mediterraneo allargato, può guidare
una strategia europea verso l’Africa fondata su partenariati paritari e
duraturi. Oltre al contributo militare, occorre investire in infrastrutture,
formazione e sviluppo istituzionale, riducendo la dipendenza dei governi
africani da attori opachi e coercitivi.
In definitiva, l’Africa occidentale rappresenta oggi un microcosmo dell’ordine mondiale emergente: un sistema in cui la sovranità è negoziata, la violenza è esternalizzata e l’influenza si esercita attraverso reti ibride di potere. Hezbollah e Wagner ne sono il simbolo. Per restare un attore credibile, l’Europa deve riconoscere che la sicurezza africana è parte integrante della propria sicurezza. Trascurarla significherebbe cedere spazio a chi, nell’ombra, ha già compreso quanto strategica sia diventata l’instabilità africana per i propri interessi.
Perché il vertice di Budapest è destinato a saltare?
di Claudio Bertolotti.
Il vertice di Budapest, annunciato come possibile occasione di incontro tra Trump e Putin, si sta progressivamente svuotando di sostanza politica. Le ragioni sono tre. La prima è l’asimmetria negoziale: Mosca non accetta l’idea di un cessate il fuoco immediato e continua a proporre scambi territoriali che congelerebbero i propri vantaggi sul terreno; Washington, consapevole di questo squilibrio, ha deciso di rinviare qualsiasi summit fino a quando non si intravedrà un terreno comune. La seconda è di natura giuridico-politica: il mandato della Corte penale internazionale nei confronti di Putin rende logisticamente complessa e diplomaticamente tossica qualsiasi sua visita in territorio dell’Unione Europea. La terza ragione è l’ambiguità ungherese. Orbán, da un lato, proclama di lavorare per la pace; dall’altro, usa l’ipotesi del vertice per fini di politica interna, ben sapendo che né Washington né Mosca intendono legittimare un’iniziativa fuori dal loro controllo. In sintesi, Budapest è oggi più uno strumento narrativo che una reale agenda diplomatica.
Trump e Putin: chi domina il braccio di ferro?
Lo scontro tra Trump e Putin è un confronto tra due poteri diversi: quello della coercizione e quello dell’agenda. Putin controlla la dimensione tattica del conflitto — il terreno, il tempo strategico, la capacità di escalation — e per questo appare più forte nel breve periodo. Trump, invece, esercita un potere strategico: dispone delle leve sanzionatorie, dell’influenza sul sistema finanziario internazionale e della capacità di guidare o rallentare la coalizione occidentale. Si tratta dunque di due forze che si bilanciano. Putin può imporre fatti compiuti, ma Trump controlla il ritmo e i margini della trattativa. In questo equilibrio instabile, la forza non è solo militare: è anche comunicativa, economica e simbolica.
Come si muovono Zelensky e gli europei?
Zelensky mantiene una doppia linea d’azione: da un lato si dichiara disponibile al dialogo, dall’altro rifiuta qualsiasi riconoscimento delle conquiste territoriali russe. Sul piano operativo punta a mantenere la pressione sul fronte e a garantire continuità nei flussi di armi e finanziamenti occidentali. Gli europei, invece, mostrano stanchezza strategica. L’obiettivo comune è ottenere un cessate il fuoco “line-of-contact” che fermi i combattimenti senza tradursi in concessioni politiche. Dietro le quinte, Bruxelles lavora su un meccanismo che potremmo definire “freeze & fund”: congelare il fronte militare e finanziare la resilienza e la ricostruzione ucraina con gli asset russi congelati. È un compromesso di gestione, non ancora di pace.
Trump riuscirà davvero a mediare?
È possibile,
ma alle sue condizioni. Trump potrà presentarsi come mediatore solo se riuscirà
a ottenere un risultato spendibile sul piano interno: uno stop
temporaneo ai combattimenti, uno scambio di prigionieri, o un accordo
umanitario che possa rivendicare come “vittoria americana”.
Un vero accordo politico, invece, richiederebbe concessioni territoriali che
nessuna delle due parti è oggi disposta ad accettare. L’esito più probabile,
nel breve periodo, è un cessate il fuoco imperfetto: fragile,
reversibile, ma utile a entrambi per guadagnare tempo e consenso.
Perché Trump ha ottenuto una tregua in Medio Oriente
ma non in Ucraina?
Le differenze strutturali sono evidenti. Primo, la natura della mediazione: in Medio Oriente esiste un triangolo operativo stabile — Stati Uniti, Egitto e Qatar — che funziona su logiche transazionali, scambiando ostaggi e tregue in modo sequenziale. In Ucraina, invece, manca un broker accettato da entrambe le parti e non c’è un “bene scambiabile” immediato. Secondo, l’oggetto del conflitto: a Gaza si tratta di gestire il fuoco e il flusso umanitario; in Ucraina si tratta dell’architettura di sicurezza europea, una questione sistemica e non episodica. Terzo, i vincoli legali e di coalizione: il mandato ICC su Putin e la natura interstatuale del conflitto limitano margini e formati negoziali. Infine, la stabilità del cessate il fuoco: in Medio Oriente la tregua è fragile ma replicabile; in Ucraina, un congelamento della linea di contatto creerebbe nuove frontiere armate e un conflitto “ibernato” ma non risolto.
In conclusione
Budapest, oggi, è il simbolo di una diplomazia sospesa: un negoziato ancora senza negoziato. Mosca guadagna tempo, Washington costruisce pressione finanziaria e militare, l’Europa tenta di reggere la linea del “freeze & fund”. Trump potrebbe ancora imporsi come mediatore “a modo suo”, ma solo se riuscirà a trasformare l’apparenza di una pausa tattica in un successo politico immediato. Il Medio Oriente gli ha offerto un terreno di scambio; l’Ucraina, invece, richiede un’architettura di sicurezza. E quella non si improvvisa: richiede tempo, compromessi e la rinascita di una volontà politica che, per ora, nessuno dei protagonisti sembra voler realmente esercitare.
Ricostruire Gaza: costi, attori e implicazioni strategiche. 80 miliardi e dieci anni di tempo.
La ricostruzione della Striscia di Gaza rappresenta una delle operazioni post-conflitto più complesse del XXI secolo. Dopo due anni di guerra e devastazione, il territorio affronta un piano di ricostruzione stimato in 80 miliardi di dollari – pari a circa 46.000 dollari per abitante – che intreccia dimensioni ingegneristiche, politiche e di sicurezza. Con il 78% del patrimonio edilizio distrutto o danneggiato e oltre 40 milioni di tonnellate di macerie, il processo di ricostruzione si configura come un’impresa sistemica in cui il debris management diviene la variabile critica che condiziona tempi, costi e sicurezza operativa. La rimozione delle macerie, la riattivazione dei corridoi logistici e il ripristino delle reti vitali (acqua, energia, viabilità, sanità) costituiscono le precondizioni per qualsiasi strategia di stabilizzazione. Al contempo, la ricostruzione diventa un’arena di competizione geopolitica e industriale: il coordinamento tra la Banca Mondiale e l’Unione Europea – attraverso il Palestinian Health System Reform Project e la EU Gaza Facility – segnala l’intreccio tra governance economica e influenza politica. In questo scenario, la sicurezza è fattore abilitante e moltiplicatore di resilienza: senza corridoi protetti e standard di trasparenza, la ricostruzione rischia di rimanere un esercizio contabile, incapace di trasformarsi in capacità territoriale.
La ricostruzione della Striscia di Gaza è una delle sfide
più complesse del dopoguerra contemporaneo. Dopo due anni di conflitto e
devastazione, la regione si prepara a un piano di ricostruzione da 80 miliardi
di dollari, con un costo stimato di 46mila dollari per abitante. L’entità dei
danni e la quantità di risorse necessarie rendono l’impresa non solo un grande
sforzo economico ma anche politico, poiché il processo di “ricostruzione” (a
cui si associa quello di “stabilizzazione”) si configura come terreno di
competizione tra attori internazionali, governi e imprese.
Il
bilancio della distruzione
Secondo
l’analisi satellitare di UNOSAT, consolidata da OCHA, a inizio luglio 2025
risultano distrutte o danneggiate 192.812 strutture nella Striscia di Gaza: il
78% del patrimonio edilizio complessivo. Nel dettaglio: 102.067 edifici
distrutti, 17.421 gravemente danneggiati, 41.895 moderatamente danneggiati e
31.429 con danni potenziali. Si tratta di una stima frutto di un’analisi
eterogenea in termini di fonti e sulla base di serie temporali di immagini a
diversa risoluzione; il dato, per natura, è ovviamente dinamico e tende a
crescere con l’aggiornamento delle acquisizioni e della possibilità di
effettuare sopraluoghi (ad oggi ancora molto limitata). L’ordine di grandezza,
tuttavia, si presenta come consolidato e coerente con le ultime sintesi OCHA
basate sui rilevamenti UNOSAT pubblicati nell’estate 2025.[1]
Il bilancio umano rispecchia l’entità della distruzione, sebbene con numeri che sul piano meramente statistico sono i più bassi di tutti i conflitti urbani degli ultimi decenni, comparati ad analoghi casi come Mosul e Falluja in Iraq e Grozny in Cecenia. Le principali fonti che riportano il numero delle vittime palestinesi – in gran parte riconducibili alle autorità sanitarie di Gaza, cui fanno riferimento anche le agenzie ONU – indicano, alla metà di settembre 2025, 65.062 morti (di cui circa la metà appartenenti o affiliati a Hamas) e 165.697 feriti; valori ripresi da più testate internazionali e aggiornamenti d’agenzia, pur senza una piena possibilità di verifica indipendente. La forbice d’incertezza resta ampia: una quota dei decessi non è stata identificata, parte delle vittime è presumibilmente ancora sotto le macerie e alcuni decessi per cause indirette potrebbero essere sottostimati. Pur in un contesto di guerra, la continuità del sistema sanitario locale consente di considerare i dati raccolti come relativamente affidabili e coerenti nel confronto con gli anni precedenti. 100.000 le nascite riportate durante il periodo in esame, con un saldo finale positivo.
L’impatto
territoriale non è omogeneo. Le distruzioni più estese si concentrano nelle
aree urbane a più alta densità – Gaza City e Khan Yunis – dove il tessuto
urbano compatto e la prossimità di nodi logistici e di infrastrutture militari
sotterranee utilizzate da Hamas hanno alimentato cicli ripetuti di
combattimento, di fatto imponendo un rallentamento della manovra militare
israeliana. Le rilevazioni satellitari UNOSAT sulla rete viaria segnalano
migliaia di chilometri di strade distrutte o gravemente compromesse, un fattore
che condiziona tanto l’accesso umanitario quanto la futura cantierizzazione dei
lavori di rimozione macerie e ricostruzione. In assenza di corridoi terrestri
sicuri e di capacità meccaniche adeguate, la finestra temporale per la gestione
delle macerie (debris management) si
estende oltre il decennio stimato dalle principali valutazioni internazionali.
Da
un punto di vista metodologico, le categorie di danno utilizzate da UNOSAT
distinguono tra “distrutto”, “gravemente”, “moderatamente” e “potenzialmente”
danneggiato, con margini d’errore variabili a seconda della prospettiva e della
limitazione di acquisizione immagini. Per questo, i conteggi dovrebbero essere
letti come baseline operativa per
priorità di intervento: stabilizzazione delle macerie e safety clearance; ripristino dei corridoi stradali primari per la
logistica umanitaria; riabilitazione dei servizi essenziali
(acqua-energia-sanità) in prossimità degli insediamenti di sfollati. L’insieme
dei dati converge su un quadro: devastazione sistemica dell’ambiente antropico
e pressione prolungata sulle infrastrutture civili, con conseguenze cumulative
sulla capacità di gestione degli aiuti.
In
termini di policy, questa fotografia,
seppur parziale, non descrive solo l’entità del danno ma anche mappa delle
priorità. La densità delle strutture distrutte, la segmentazione della rete
viaria e l’elevato numero di feriti impongono una sequenza di interventi che
privilegi sicurezza dei cantieri, corridoi logistici e ripristino minimo
funzionale degli ospedali. Ogni ritardo nella rimozione delle macerie e nel
ripristino delle arterie principali amplifica le difficoltà delle comunità e
deprime la resilienza sociale, prolungando la dipendenza dagli aiuti e alzando
i costi futuri di ricostruzione.
I costi e
i tempi della ricostruzione: dieci anni e 80 miliardi
La
stima congiunta di Banca Mondiale e UNDP – circa 80 miliardi di dollari – non è
solo un mero dato numerico: è la misura di uno sforzo sistemico. All’interno di
quella cifra si collocano tre livelli di intervento che si sostengono a
vicenda: messa in sicurezza e rimozione delle macerie; ripristino funzionale
delle reti vitali (acqua, elettricità, sanità, viabilità primaria);
ricostruzione del tessuto residenziale, scolastico e produttivo. Senza il primo
livello, gli altri due non partono; senza il secondo, il terzo non è
sostenibile nel tempo.
La
variabile che determina tempi e costi è il debris
management. Oltre 40 milioni di tonnellate di macerie equivalgono a
un’operazione civile-militare continuativa, soggetta a vincoli di sicurezza,
carburante, accessi di frontiera, disponibilità di mezzi pesanti e siti di
conferimento. Una stima “di banco” aiuta a capire gli ordini di grandezza: se
un autocarro trasporta 20 tonnellate a viaggio, per spostare 40.000.000
tonnellate servono 2.000.000 di viaggi. Con 500 camion operativi che effettuano
2 viaggi al giorno, si ottengono 1.000 viaggi/giorno; 1.000 moltiplicato 20
tonnellate fa 20.000 tonnellate/giorno. Dividendo 40.000.000 per 20.000 si
ottengono 2.000 giorni di lavoro netto, ossia circa 5 anni e mezzo in
condizioni ideali. Ogni attrito reale – strade interrotte, bonifica da ordigni
inesplosi, soste ai valichi, guasti, indisponibilità di carburante – allunga il
cronoprogramma verso l’ordine del decennio. Ecco perché le valutazioni
proiettano un orizzonte temporale superiore a dieci anni.
In
più va tenuto conto del fatto che non tutte le macerie sono uguali. Una quota
rilevante è mista (cemento, metallo, legno, plastica, amianto), con rischi
ambientali e sanitari che impongono triage,
frantumazione controllata e riciclo in aggregati per sottofondi stradali. Una
gestione “circolare” riduce i costi logistici e di importazione dei materiali,
ma richiede impianti mobili di frantumazione, aree sicure di stoccaggio e una
rete viaria praticabile. In assenza di questi fattori, i costi unitari
aumentano e il cronoprogramma slitta.
7 i miliardi
indicati per il ripristino dei servizi militari e di sicurezza vanno letti come
componente abilitante. Sicurezza del cantiere, scorta ai convogli, bonifica
EOD/UXO, controllo degli accessi, protezione di ospedali e snodi logistici sono
prerequisiti; senza di essi, assicurazioni e appalti non partono, i premi di
rischio lievitano e la filiera resta incompleta. In tutti i teatri
post-bellici, la sicurezza è un moltiplicatore: abbassa i costi indiretti,
accelera i flussi e riduce la mortalità evitabile.
Sul piano finanziario, gli 80 miliardi dovranno essere investiti in fasi e strumenti diversi.
La fase 0-1 (0–12 mesi) assorbe le donazioni per
stabilizzazione, macerie e servizi essenziali;
la fase 2 (12–36 mesi) richiede blending tra donatori, banche multilaterali e garanzie per lavori
su reti idriche, elettriche e trasporti;
la fase 3 (oltre 36 mesi) apre a PPP mirati su edilizia
sociale, energia distribuita e waste management.
Qui si giocheranno le partite dei grandi appalti: procurement trasparente, antifrode, clausole sociali minime, filiere locali e indicatori di performance misurabili (giorni-uomo in sicurezza, chilometri di arterie viarie riaperte, megawatt ripristinati, metri cubi d’acqua trattati).
Tre
rischi possono erodere la stima iniziale: inflazione dei materiali e della
logistica (cemento, acciaio, bitume), colli di bottiglia ai valichi e
volatilità del cambio per gli input importati. Tre leve, al contrario, possono
contenerla: riciclo degli inerti in situ, micro-reti elettriche modulari per
ridurre perdite e furti, standardizzazione dei moduli abitativi e sanitari per
economie di scala.
In
estrema sintesi: gli 80 miliardi descrivono la dimensione di un progetto di
ricostruzione che è insieme ingegneristico e politico. Senza un corridoio di
sicurezza stabile, la bonifica delle oltre 40 milioni di tonnellate di macerie resterà
il collo di bottiglia che congela il resto. L’allocazione di 7 miliardi alla
funzione sicurezza non sottrae risorse: le abilita, perché consente a cantieri,
assicurazioni e supply chain di
operare con continuità e a costi prevedibili.
La
dimensione infrastrutturale
L’impatto
sulle infrastrutture civili è sistemico e spezza la continuità funzionale del
territorio. La rete viaria – 3.479 chilometri tra distrutti e gravemente
danneggiati – non è solo un’informazione ingegneristica: è l’indicatore che
misura la capacità del sistema di respirare. Dove le strade non esistono o sono
interrotte, l’assistenza non arriva, i cantieri non si aprono, i materiali non
si trasferiscono né distribuiscono. La geografia del danno è asimmetrica: i
picchi di distruzione si addensano nei nodi urbani e logistici a maggiore
densità, con 442 km distrutti a Khan Yunis e 363 km nell’area di Gaza City.
Qui, il tessuto urbano compatto, la sovrapposizione tra tessuto residenziale e
infrastrutture critiche, e l’uso militare del sottosuolo da parte di Hamas hanno
moltiplicato la vulnerabilità.
La
cifra di 30 miliardi di dollari per il ripristino delle reti idriche,
elettriche e viarie va letta come costo di ri-funzionalizzazione del sistema,
non come semplice somma di lavori pubblici. Idrico, elettrico e stradale sono
sottosistemi interdipendenti: senza viabilità primaria non si posano condotte e
cavi; senza energia non si pompano acqua e reflui; senza acqua non regge
l’igiene dei campi e degli ospedali. Il primo obiettivo non è dunque
“ricostruire tutto”, ma ristabilire corridoi di servizio minimi che
garantiscano una capacità operativa di base al territorio. In termini
operativi, significa riaprire in sequenza le arterie A-B (corridoi est–ovest e
nord–sud), creare hub di logistica in
aree relativamente indenni, e collegare a stella gli insediamenti più popolati,
anche con soluzioni provvisorie (ponti bailey,
bypass su sottofondi stabilizzati, pavimentazioni temporanee).
Sul
fronte idrico, la perdita fisica e commerciale (NRW) tenderà a esplodere per
rotture diffuse, furti e mancanza di telemetria. Il ripristino “a parità”
sarebbe inefficiente: conviene procedere per distretti idrici (DMA), con
riduzioni di pressione, valvole di settore e misurazione a monte, privilegiando
la riattivazione dei pozzi e delle condotte che alimentano ospedali, strutture
collettive e scuole. Per l’elettrico, la priorità è la maglia di media
tensione, i centri di trasformazione e le protezioni: linee provvisorie aeree,
micro-reti modulari in prossimità degli insediamenti, generazione ibrida
(diesel+fotovoltaico) per ridurre la dipendenza dal carburante e limitare le
perdite di rete.
Sulle
strade, i 3.479 km danneggiati non hanno lo stesso peso strategico. Un
chilometro di arteria primaria riaperta vale più di dieci di strade locali se
consente il transito di convogli pesanti e il trasporto di inerti riciclati
dalle macerie. La logica deve essere quella della rete essenziale: clearance
EOD/UXO, ripristino delle pavimentazioni collassate, posa di griglie e
sottofondi riciclati, bitumatura a caldo solo dove la portanza lo richiede;
altrove, trattamenti superficiali a freddo. In parallelo, ponti e tombini: sono
i colli di bottiglia che, se non trattati, interrompono catene logistiche
altrimenti funzionanti. La ricostruzione “perfetta” viene dopo: prima serve la
transitabilità sicura, con standard uniformi di segnaletica e controllo
accessi.
La
dimensione economica conferma questa sequenza. Dentro i 30 miliardi, le voci
che pesano sono gli impianti di trattamento acqua e reflui, i trasformatori e
gli switchgear di media tensione, gli
aggregati per pavimentazioni e la meccanizzazione leggera per cantieri diffusi.
Qui si vincono o si perdono anni e miliardi: standardizzare capitolati,
favorire il riuso in situ degli inerti, centralizzare gli acquisti di
componentistica elettrica, suddividere i lotti stradali in pacchetti
cantierabili da imprese locali supervisionate da prime contractor. Una governance chiara – corridoi sicuri,
assicurazioni accessibili, pagamenti certi, anticorruzione – riduce il premio
di rischio e sposta risorse dal “costo della frizione” al “costo del
risultato”.
In
sintesi: i numeri descrivono una devastazione estesa, ma soprattutto indicano
una rotta. Ripartire dalle arterie vitali, dai distretti idrici e dalle
micro-reti elettriche non è un compromesso al ribasso: è la condizione per evitare
che la ricostruzione resti ostaggio della geografia del danno. Se i corridoi
logistici reggono, i 30 miliardi diventano investimento in resilienza; se
saltano, si trasformano in spesa ciclica, destinata a inseguire emergenze senza
chiuderne nessuna.
Gli
attori economici
Tra
le imprese potenzialmente coinvolte nella ricostruzione figurano grandi gruppi
internazionali, tra cui: Orascom e Arab Contractors (Egitto), CCC (Grecia),
Organi, Limak e Tekfen (Turchia), Webuild, Cementir e Buzzi (Italia), Vinci, Bouygues,
Saint-Gobain, Holcim, Heidelberg Materials, Vicat, Imerys, Veolia, Suez, EDF
(Francia e Germania), e Siemens Energy, RWE (Germania). Nel settore energetico
e delle risorse naturali sono coinvolte compagnie come Amar, Leviathan, Karish
e Newmed (Israele), Chevron (USA), Energean (Regno Unito), Eni (Italia),
British Petroleum (Regno Unito), Socar (Azerbaijan), Dana Petroleum (Scozia) e
Ratio Energies (Israele).
Governance
e finanziamenti internazionali
La
scansione temporale conta. Il 13 ottobre 2025 la Banca Mondiale ha reso
operativo il quadro di gara del Palestinian
Health System Reform Project (PHSRP) pubblicando il Procurement Plan 2025-2027 (codice P508917): attuatore il Ministero
della Salute palestinese, strumentazione STEP e capitolati standard WB, con
prima tornata di lotti su apparecchiature mediche, cliniche mobili e servizi
consulenziali per la riorganizzazione della medicina di famiglia e della
farmacovigilanza. È il “capo-ponte” sanitario della ricostruzione: non solo
acquisti, ma architettura di spesa e governance
(procurement centralizzato, criteri
di trasparenza, calendario lotti) per trasformare fondi eterogenei in servizi
effettivi.
Sul
lato europeo, Bruxelles ha valutato un investimento triennale fino a 1,6 miliardi di euro (2025-2027): sovvenzioni
dirette alla PA (circa 620 mln), dotazione per progetti di resilienza e recovery in Cisgiordania e Gaza (circa
580 mln, “quando le condizioni lo consentiranno”) e una facility EIB da 400 mln
in prestiti garantiti dalla Commissione, dedicata al tessuto produttivo. Non è
un fondo unico, ma un programma a “tre tasche” che chiede coordinamento: BEI
(Banca europea per gli investimenti) per credito e garanzie, DG (Direzione
generale) vicinato per le sovvenzioni, agenzie nazionali per l’esecuzione nei
settori energia, acqua e rifiuti. La logica è di blending sequenziale: donazioni per l’avvio (stabilizzazione e
servizi minimi), poi leva creditizia per scalare investimenti con ritorno.
Il
nesso strategico tra i due pilastri è evidente. Sanità: il Palestinian Health
System Reform Project (PHSRP) agisce sulla “funzionalità di base” (procurement sanitario, cliniche mobili,
percorsi di cura) che permette di assorbire meglio i flussi infrastrutturali
futuri. Infrastrutture: la EU Gaza Facility – nel suo disegno –
alloca capitali verso reti idriche, elettriche e gestione rifiuti,
precondizione per far funzionare ospedali, catene del freddo e impianti di
trattamento. Quando il piano sanitario dispone acquisti e standard,
l’infrastrutturale può agganciarsi con cantieri compatibili, evitando i
“progetti orfani” (ospedali senza energia o acqua). È la differenza tra spesa e
capacità: senza programmazione congiunta, gli euro e i dollari evaporano in
attriti logistici.
Tre
elementi meritano attenzione operativa:
Sequenziamento. Il
calendario gare WB (ott-dic 2025) va sincronizzato con corridoi logistici,
clearance EOD/UXO e ripristino
MT/BT, per non immobilizzare forniture negli hub di ingresso.
Trasparenza e
rischio. L’uso di STEP e dei documenti standard WB riduce il premio di
rischio per i fornitori; sul versante UE-EIB, le garanzie di Bruxelles
de-rischizzano i prestiti alle PMI locali, ampliando la platea di
esecutori e manutentori.
Allineamento
settoriale. Acquisti in sanità (diagnostica, mobilità clinica,
farmaci essenziali) devono riflettere la gerarchia infrastrutturale UE:
priorità a strutture coperte da micro-reti e da distretti idrici
funzionanti, per massimizzare l’uptime dei servizi.
In
sintesi, PHSRP e EU Gaza Facility non sono “due
notizie”, ma i due lati della stessa strategia: lo standard di spesa (WB) che
rende sostenibile l’investimento (UE-EIB) e, viceversa, la massa critica
finanziaria europea che rende scalabile la riforma sanitaria. Dove i due flussi
si incrociano – procurement
trasparente e capitale a lungo termine – la ricostruzione smette di essere un
elenco di progetti e diventa capability
territoriale.
Le gare
di ricostruzione
La
Striscia di Gaza beneficia dello status “special
conflict-affected” della Banca Mondiale, che consente l’accesso agevolato
di imprese europee ai bandi multilaterali. L’UNDP/PAPP, programma ONU per
l’assistenza al popolo palestinese, ha avviato una gara internazionale per la
fornitura e installazione di unità prefabbricate (scadenza: 20 ottobre 2025).
L’OMS ha aperto un bando per apparecchiature mediche destinate agli ospedali
palestinesi (scadenza: 15 ottobre 2025).
Considerazioni
strategiche: la ricostruzione come strumento d’influenza
La ricostruzione di Gaza non può essere ovviamente letta solo in termini economici; al contrario, rappresenta un banco di prova per la governance internazionale e per la cooperazione tra istituzioni multilaterali e Stati. Il coinvolgimento di attori privati, la competizione per i contratti e la presenza di fondi congiunti UE–World Bank indicano una dimensione geopolitica emergente in cui la ricostruzione diviene strumento di influenza. In questo quadro, l’Italia potrebbe giocare un ruolo significativo attraverso le proprie imprese e l’esperienza maturata nei contesti di post-conflitto, in particolare con le proprie capacità militare (in particolare le capacità Stability & Reconstruction, e Security Force Assistance) e di cooperazione internazionale, rafforzando la propria presenza strategica nel Mediterraneo allargato.
È inoltre fondamentale sottolineare che le implicazioni strategiche e le dinamiche economiche fanno parte di un quadro più ampio; resta il dato umano di una popolazione chiamata a ricominciare in condizioni di profonda fragilità. La ricostruzione di Gaza non sarà solo una questione di risorse o governance, ma anche di capacità collettiva di restituire normalità, sicurezza e prospettive di vita a una comunità duramente colpita. La stabilità futura dell’area passerà dalla capacità di integrare sicurezza, sviluppo e dignità umana in un unico percorso sostenibile.
di Melissa de Tefféda Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)
LA NUOVA GEOGRAFIA TRUMPIANA
Che dir si voglia, Trump ha rivoluzionato il mondo,
dando un calcio alla scacchiera internazionale e obbligando tutti a un cambio.
Seppur nei suoi modi da John Wayne, non possiamo non constatare che gli stalli
non fanno bene a nessuno e che provare nuove strade non è poi né disdicevole,
né infruttuoso. C’è sempre da imparare.
A Trump, tuttavia, resta da combattere la peggiore delle guerre: quella interna
agli Stati Uniti.
L’America che oggi si presenta agli occhi del
visitatore è un Paese stanco, svuotato di entusiasmo e immaginazione. Una
società che sembra aver perso la propria scintilla creativa, incapace di ridere
di sé stessa e di rigenerarsi culturalmente. Persino la comicità — un tempo
motore del pensiero critico — si è spenta: Jimmy Kimmel, un esempio tra tutti, protetto dal
sistema hollywoodiano, nonostante le ingenti
perdite finanziarie della Disney, suo datore, continua a rappresentare una satira prevedibile e autocompiaciuta,
salvato più dal conformismo dell’ambiente che dal talento. “Cane non mangia
cane”, si direbbe: chi appartiene al cerchio giusto non rischia mai.
Così come il panorama dell’intrattenimento (talk show ripetitivi, serie televisive popolate da eroi intercambiabili e una Hollywood ormai piegata alla logica del politically correct e dei supereroi riciclati, incapace di innovare), la stessa apatia attraversa il mondo universitario. Il campus americano, un tempo laboratorio di idee e di libertà, è divenuto il simbolo di una cultura che si autocensura, dove la diversità di opinioni è tollerata solo se conforme al pensiero dominante. Da sempre cuore pulsante dell’innovazione intellettuale americana, oggi le università, anche quelle più prestigiose, sono più impegnate a ridefinire i pronomi corretti che a coltivare un pensiero critico capace di misurarsi con la complessità del reale.
L’America oggi non è più la
“terra dell’audacia”, ma un laboratorio di disillusione collettiva. La patria
del “I have a dream”sembra incapace di sorridere o di sorprendere,
imprigionata in una identità frantumata tra nostalgie,
contraddizioni, e simulacri.
Rientrata da New York dopo la kermesse delle Nazioni Unite, ho trovato una
città dove impera l’odore di marijuana, di urina e sporcizie. I mille
negozietti da scoprire sono spariti, vuoti bui in cerca di nuovi affittuari; i
grandi magazzini, stile Rinascente, una volta affollati di mercanzie made in
the USA hanno qualche bancone con le solite firme che tutti conosciamo perché
principalmente nostre, inavvicinabili per i prezzi e ancora una volta
noiosamente ripetitivi. Infine, l’immagine più straziante, ad eccezione del
quadrilatero ricco, i marciapiedi dal lato dei palazzi ospitano giovani maschi
tra i 30 e i 40 buttati a terra, fatti o meno, dormienti, che non chiedono
nemmeno le elemosine. Un quadro devastante.
Ma spostiamo ad altre realtà. Portland, dove Trump ha inviato la Guardia
Nazionale non è diversa, anzi peggio. Negozi con le serrande a metà, scaffali
mezzi vuoti, è una città fantasma. Denver, idem. La strada principale vuota, i
palazzi in centro bui perché inutilizzati ad eccezione di quelli pubblici. La
maggioranza degli impiegati lavora da casa e quindi, di conseguenza ristoranti
e bar falliti o no hanno chiuso, e chi si è impadronito delle strade sono i
senza tetto, di cui molti drogati.
LA DROGA IL MALE DI TUTTI I MALI
Diversi Stati,
per ridurre o contenere lo spaccio di droghe leggere, come la marjuana, l’hanno
legalizzata sperando di ottenere risultati soddisfacenti. Se da un lato la
legalizzazione ha portato soldi alle casse dello Stato, diminuito gli arresti e
quindi alleggerito polizia e tribunali, dall’altro ne è aumentato l’uso
esponenzialmente. (Nuovo studio della Carnegie Mellon / dati
da sondaggi (2008–2022). Tra il 2008 e
il 2022, il tasso di segnalazione dell’uso di cannabis nell’ultimo anno è
aumentato del 120%.
Chicago, altra
metropoli di cui si parla da settimane, non è lontana da questa realtà, ma in
più, rispetto a Portland soffre delle guerre tra gang. Dopo Washington DC, che
è stata negli anni 90 la città con più assassinii del mondo (e io c’ero),
Chicago oggi la segue, ma secondo il suo governatore, non è vero, anzi gli
omicidi sono diminuiti. La polizia infatti che ha
sempre compilato un rapporto annuale sullo stato delle cose, dal 2023 ha deciso
di non registrare più nel suo database gli omicidi per mano di gangs. A guida
democratica da più di 90 anni, (fu infatti il polo vincente per Kennedy durante
le presidenziali del 1960) i repubblicani ne contestano la gestione,
accusando il partito di aver trasformato la città in un laboratorio di
politiche progressiste inefficaci, incapaci di affrontare in modo
strutturale la criminalità, la povertà e la fuga della classe media.
Dopo la stagione dei diritti civili degli anni 60 dove giustamente l’esecutivo di Washington ha spinto per l’integrazione razziale a tutti i livelli, la sinistra americana, si è man mano, appropriata di questo canale per affondare radici lontane dal credo fondante statunitense, trasformandola in un campo di battaglia ideologico.
È di questo periodo, in cui il dibattito pubblico si irrigidisce e la politica tende a confondere giustizia con appartenenza, che Caroline Kennedy, seguendo le orme del padre, riporta l’attenzione sull’essenza autentica del coraggio civile pubblicando il libro “Profiles in Courage for Our Time “ – (2002): una raccolta di tredici saggi dedicati a uomini e donne che, in epoche diverse, hanno anteposto la coscienza e la verità morale al calcolo politico.
“Il coraggio politico non appartiene al
passato. Ogni epoca produce uomini e donne disposti a rischiare tutto pur di
rimanere fedeli alla verità.” — Caroline Kennedy, Introduzione (2002)
Ma negli anni successivi, il legittimo desiderio di giustizia e inclusione ha lasciato spazio a una nuova forma di radicalismo — il cosiddetto woke movement — che, pur nascendo da istanze egualitarie, ha finito per imporre regole e dialoghi che hanno reinterpretato la libertà di espressione in un terreno di scontro più che di progresso.
Ma è giusto
l’uso della forza militare internamente ?
Il giuramento delle forze armate recita: “I do solemnly
swear that I will support and defend the Constitution of the United States
against all enemies, foreign and domestic; that I will bear true faith
and allegiance to the same; and that I will obey the orders of the President of
the United States and the orders of the officers appointed over me, according
to regulations and the Uniform Code of Military Justice. So, help me
God.”
L’uso dell’esercito per azioni di polizia all’interno del Paese è vietato dal Posse Comitatus Act (1878) per evitare che il governo federale possa usare le forze armate come strumento politico o repressivo (salvo eccezioni : Little Rock, 1957: Eisenhower per garantire l’integrazione scolastica; Los Angeles Riots, 1992: Bush Sr. autorizzò l’intervento dell’esercito per ristabilire l’ordine pubblico).
La realtà oggi è un’altra. Se da un lato la Guardia Nazionale è stata dislocata a Portland e a Chicago per difendere i palazzi dove risiedono gli impiegati ICE (l’Agenzia per l’immigrazione e le dogane) è perché l’amministrazione Trump ha giustificato tali interventi come azioni necessarie per proteggere le infrastrutture federali e garantire la sicurezza del personale governativo, in risposta a episodi di vandalismo, disordini e proteste anti-immigrazione che avevano preso di mira questi uffici. Secondo la Casa Bianca, l’obiettivo non è reprimere il dissenso politico, ma difendere la sovranità delle istituzioni federali di fronte a governi locali considerati “inerti” o “troppo permissivi” nel proteggere la presenza di immigrati illegali.
Tuttavia, per la sinistra americana e
gran parte dell’opinione pubblica, tali azioni rappresentano una grave
forzatura del principio di autonomia statale e un uso politico della
forza federale. In molti hanno denunciato la presenza della Guardia
Nazionale e di agenti armati non identificati come una deriva autoritaria,
tesa più a intimidire che a proteggere, in netto contrasto con lo spirito del Posse
Comitatus Act, che limita l’impiego delle forze armate in ambito civile.
Ma dopo anni di
laissez-faire le immagini e le esperienze quotidiane portano conclusioni
lontane dalle lamentazioni della sinistra.
Parlando con un veterano militare “William”, appartenuto alla US Army Airborne, forze d’assalto dietro le linee nemiche andato in missione in Iraq ben due volte, mi racconta che non si riconosce in questa America, polarizzata, drogata, e lontana dal credo di onore, coraggio, onestà e trasparenza. Gli chiedo se si immagina una guerra civile nello stile 2025 e mi cita l’insurrezione del 6 gennaio, sulla quale ridiamo ambedue perché quella, per noi, non è una insurrezione ma una mascherata da Halloween. E noi europei abbiamo visto ben altro il secolo scorso. E Charlie Kirk allora? Non resisto a chiedere. “Sicuramente un perfetto omicidio su commissione”. Pondero ma ambedue non sappiamo da chi? L’estrema sinistra che ha visto un mago (Charlie) trasformare i campus universitari in una possibile nuova America conservatrice? Il Mossad? Perché Charlie ha voltato le spalle a Netanyahu? Oppure gli stessi repubblicani perché Kirk chiese anche lui di mostrare i files di Epstein. Insomma, le teorie volano e noi le lasciamo correre.
In conclusione,
la nuova geografia trumpiana non è soltanto una riedizione di vecchie battaglie
politiche: è la fotografia di un Paese che si confronta con la rottura tra
narrazione e realtà. Da un lato c’è la retorica della sicurezza, dell’ordine e
del ritorno alla normalità; dall’altro c’è la vita quotidiana di città
svuotate, quartieri senza negozi, veterani che non riconoscono più la patria
per cui hanno servito. Quando le leve del potere vengono usate per proteggere
istituzioni federali — e contemporaneamente vengono denunciate come strumento
di intimidazione politica — la democrazia rischia di perdere la fiducia
necessaria per funzionare. Il coraggio evocato da Caroline Kennedy rimane la
bussola: non è nell’uso della forza fine a sé stessa, ma nella capacità dei
leader di cambiare il discorso politico per ristabilire una normalità più che
necessaria senza sacrificare libertà civili e autonomia locale.
Sul piano economico, il quadro è altrettanto complesso. L’inflazione, unita alle politiche di tassazione sulle importazioni e all’idea di “ricreare una manifattura statunitense”, rappresenta un lungo progetto di sovranità produttiva che però, nel breve periodo, tampona da un lato e soffoca dall’altro. Le tariffe introdotte per proteggere il mercato interno finiscono per alzare i costi: le imprese importatrici trasferiscono i sovrapprezzi ai cittadini, che vedono lievitare i prezzi quotidiani. Secondo la Federal Reserve Bank di San Francisco, un dazio uniforme del 25 % comporterebbe un aumento del 2,2 % dei beni di consumo e fino al 9,5 % dei beni d’investimento . Lo Yale Budget Lab stima che le misure tariffarie introdotte nel 2025 abbiano già spinto i prezzi dell’abbigliamento dell’8 % solo per il provvedimento del 2 aprile e del 17 % considerando l’intero pacchetto dell’anno. Anche la Boston Fed conferma che gli aumenti dei prezzi di importazione non restano confinati ai confini commerciali ma si propagano nel paniere dei beni di consumo, mentre J.P. Morgan avverte che le imprese americane, dopo aver inizialmente assorbito l’impatto, tenderanno inevitabilmente a scaricarlo sui consumatori finali. Il Financial Times osserva che i rincari si fanno già sentire su hardware, abbigliamento e beni elettronici.
Di fatto, le
misure pensate per “salvare” l’economia americana stanno colpendo chi la
sostiene ogni giorno: i cittadini. La crisi dei centri urbani, aggravata dallo
smart working, dalla chiusura di attività locali e dall’aumento del costo della
vita, ha eroso la base fiscale e indebolito il tessuto sociale. Servono
interventi strutturali: investimenti pubblici e privati per riqualificare
infrastrutture e housing, incentivi fiscali che favoriscano la riconversione
produttiva, programmi di sostegno per i lavoratori e per le comunità colpite.
Possiamo solo sperare che queste nuove politiche economiche trasformino e
restituiscano a questa “immensa isola” la dignità, l’autonomia e il dinamismo
che l’hanno resa grande.
Questa è la vera guerra di Trump:
troverà l’America la sua pace?
Italia: il Documento Programmatico della Difesa (2025-2027)
Orientamenti strategici e sfide per la sicurezza nazionale
di Andrea Molle
Il Documento
Programmatico Pluriennale della Difesa 2025–2027 si colloca in una fase di
transizione geopolitica e strategica di grande complessità per l’Italia e per
l’Europa. Dopo il consolidamento della postura NATO in Europa orientale e la
crescente instabilità in Africa e nel Mediterraneo allargato, la Difesa italiana
punta a un rafforzamento complessivo della propria capacità di deterrenza,
interoperabilità e resilienza. Il DPP 2025 non introduce discontinuità rispetto
agli anni precedenti, ma consolida una traiettoria già avviata: una
modernizzazione graduale, tecnologicamente avanzata e sempre più interconnessa
con l’industria nazionale della difesa.
Il documento
insiste sulla necessità di mantenere una proiezione credibile e autonoma
nel quadro europeo, pur riconoscendo la centralità del legame atlantico.
L’obiettivo è duplice: rafforzare la partecipazione italiana ai programmi di
difesa comuni UE (come l’EDF e il PESCO) e, al tempo stesso, garantire la
coerenza con le esigenze operative NATO. Questa duplice appartenenza implica un
aumento della spesa in conto capitale — non tanto in nuovi fondi, quanto nella
stabilizzazione di quelli già approvati — destinata a piattaforme ad alta
tecnologia, capacità cyber e spaziali, e infrastrutture di comando e controllo
integrate.
Sotto il profilo
economico, il DPP conferma un bilancio della Difesa che nel 2025 supera i 31
miliardi di euro, con una ripartizione che tende a privilegiare
investimenti piuttosto che spese correnti. Tuttavia, dietro questo apparente
consolidamento si cela una tensione tra necessità di sostenibilità
finanziaria e ambizione strategica: la crescita della spesa militare
resta ancorata a vincoli di bilancio complessivi, e gran parte dei programmi
dipende dal mantenimento dei fondi già autorizzati dal Parlamento. La
prospettiva di raggiungere il 5% del PIL richiesto dalla NATO è evocata come
obiettivo politico, ma appare ancora più una traiettoria che un traguardo
immediato.
L’accento sulla trasformazione
digitale è un tratto distintivo del documento. Le Forze Armate vengono
descritte come attori in un processo di “digitalizzazione operativa”, che
comprende l’adozione di sistemi C4ISR avanzati, capacità di difesa cibernetica
e integrazione dei domini spaziale e marittimo. In questo senso, il DPP
prosegue nel solco dell’“integrazione multidominio”, non solo tecnologica ma
anche concettuale: il futuro della difesa italiana passa per la capacità di
agire simultaneamente su più teatri — terrestre, navale, aereo, cibernetico,
cognitivo e spaziale — con coerenza dottrinale.
Sul piano
politico, il DPP 2025 mostra un forte allineamento con la strategia del governo
nel Mediterraneo e in Africa. L’Italia intende rafforzare la sua presenza
militare e diplomatica nel “Mediterraneo allargato”, da Gibilterra al Mar
Rosso, quale area vitale per la sicurezza energetica, le rotte commerciali e la
stabilità regionale. Le missioni in Libano, Iraq, Sahel e Corno d’Africa sono
confermate, ma con un progressivo riequilibrio in funzione della disponibilità
di forze e risorse.
Non mancano però
le ambiguità. Diverse analisi sottolineano che il DPP 2025 risulta meno
trasparente dei precedenti: fornisce meno dettagli sulle allocazioni specifiche
e riduce la granularità informativa sui singoli programmi d’armamento. Questa
scelta, interpretata da alcuni come volontà di semplificare la comunicazione
pubblica, è letta da altri come un passo indietro nella rendicontazione
democratica della spesa militare.
L’Allegato
tecnico, parte integrante del DPP, completa il quadro offrendo una
mappatura dei programmi in corso e futuri. Vi si trovano i piani di sviluppo
per l’Esercito (nuovi veicoli da combattimento e capacità anti-drone), la
Marina (modernizzazione delle FREMM, sottomarini U212NFS, nuovi pattugliatori e
unità anfibie) e l’Aeronautica (potenziamento della componente F-35, droni MALE
e capacità di difesa aerea). A questi si aggiungono i programmi spaziali, in
particolare per la sorveglianza e il posizionamento satellitare, ambiti in cui
l’Italia mira a consolidare un’autonomia strategica parziale ma significativa.
In termini di
filosofia generale, il DPP 2025 conferma la tendenza della Difesa italiana a
considerarsi non solo strumento militare ma infrastruttura nazionale di
sicurezza integrata, in grado di operare anche in ambiti civili (protezione
civile, sanità, emergenze ambientali). Questa impostazione “dual use” risponde
sia a esigenze di efficienza interna sia al tentativo di accrescere il consenso
sociale verso la spesa militare, legittimandola come investimento per la
collettività.
Nel complesso, il
DPP 2025–2027 rappresenta dunque un documento di continuità e consolidamento,
più che di rottura. Ambizioso nelle intenzioni, prudente nelle allocazioni, e
orientato a mantenere l’Italia nel gruppo di testa europeo in termini di
capacità tecnologiche e industriali della difesa. Resta aperta, tuttavia, la
questione della trasparenza e del controllo democratico su una spesa che si
muove ormai verso livelli strutturalmente elevati, e la cui giustificazione
dipende sempre più da una narrativa di “emergenza permanente” nel contesto
internazionale.
Il DPP
2025–2027 conferma dunque la tendenza della politica della difesa italiana
a essere al tempo stesso reattiva e conservatrice piuttosto che pienamente
strategica. È reattiva perché si adatta alle nuove minacce — guerra ibrida,
cyber-attacchi, competizione nello spazio e nei mari — ma è conservatrice nella
struttura decisionale e nei meccanismi di allocazione delle risorse. La
pianificazione resta in larga misura incrementale, cioè basata
sull’aggiustamento di programmi pluriennali già avviati più che su una
ridefinizione strategica delle priorità. In questo senso, il DPP 2025 è più un
documento di gestione che di visione.
Dal punto di
vista strategico, la Difesa italiana continua invece a muoversi su un
doppio binario: da un lato la piena integrazione nella NATO e nel suo
dispositivo orientato alla deterrenza convenzionale verso la Russia;
dall’altro, la volontà di preservare una specificità mediterranea che
consenta all’Italia di restare un attore di primo piano nel Nord Africa e nel
Medio Oriente. Questa duplice direttrice produce talvolta un effetto di
dispersione: le forze e i bilanci vengono divisi tra teatri lontani e missioni
di natura diversa (proiezione, stabilizzazione, deterrenza, sostegno civile).
Il risultato è una postura globale coerente ma non sempre efficace in termini
di concentrazione dello sforzo.
Dal punto di
vista industriale, il DPP prosegue nella strategia di integrazione tra
sistema militare e sistema produttivo nazionale. Il complesso della difesa
viene descritto come un “ecosistema tecnologico” in cui le grandi imprese
(Leonardo, Fincantieri, MBDA, Iveco Defence) assumono un ruolo di cerniera tra
capacità operative e innovazione industriale. Questa scelta è coerente con la
logica europea dell’EDF e della PESCO, ma comporta un rischio crescente di dipendenza
politica dalle esigenze di mantenimento delle filiere e dei distretti
industriali, più che dalle reali priorità strategiche. In altre parole, la
pianificazione rischia di essere guidata dalla “logica dell’offerta”
industriale piuttosto che da una domanda operativa chiara.
Un secondo
elemento critico, che emerge in filigrana nel DPP 2025–2027, riguarda la
persistente assenza di un paradigma di “difesa totale” o di sicurezza
nazionale integrata, sul modello nordico. Nonostante la crescente
consapevolezza delle minacce ibride — cyber, infrastrutturali, cognitive e
sociali — il documento continua a leggere la resilienza quasi esclusivamente in
chiave militare o tecnico-istituzionale, trascurando la dimensione sociale e
civile della difesa. In altri termini, manca una visione che concepisca il
cittadino, l’impresa e il territorio come parte attiva del sistema di sicurezza
nazionale. In questo senso, gli investimenti restano concentrati sullo
strumento militare e sulla sua proiezione esterna, ma poco si fa per costruire
una resilienza diffusa, capace di rendere la società italiana meno
vulnerabile alle crisi energetiche, informative e logistiche. Il riferimento al
modello “total defense” — che in Paesi come Svezia, Finlandia o Norvegia
integra difesa, protezione civile, comunicazione strategica e formazione civica
— evidenzia quanto l’Italia sia ancora ancorata a una concezione verticale
della sicurezza, affidata allo Stato più che condivisa con la società. Il
rischio è quello di un sistema di difesa moderno, dual use, ma isolato dal
suo tessuto civile, incapace di trasformare la sicurezza in una cultura
collettiva.
Un terzo elemento
critico riguarda la trasparenza e la legittimazione democratica.
Rispetto ai DPP precedenti, quello del 2025 riduce il livello di dettaglio
pubblico sulle spese e sui singoli programmi, rendendo più difficile un
controllo parlamentare e civico. Ciò potrebbe derivare da ragioni tecniche — la
semplificazione della comunicazione — ma sul piano politico è sintomo di un
trend più generale: la normalizzazione di un livello di spesa elevato,
giustificato dal contesto geopolitico, ma sottratto in parte al dibattito
pubblico o da una strategia di resilienza diffusa. La difesa tende così a
diventare un “ambito protetto” del bilancio, in cui il consenso viene costruito
più attraverso la retorica della sicurezza che attraverso la verifica dei
risultati.
Sotto il profilo europeo,
il DPP 2025 riflette un tentativo di allineamento con il paradigma emergente
del “re-armamento europeo” (ReArm Europe), ma resta timido nel promuovere una
vera integrazione industriale o operativa. L’Italia si presenta come un
contributore affidabile ma non come un leader concettuale: segue la traiettoria
franco-tedesca, adattandola ai propri interessi nel Mediterraneo e nel settore
navale-aerospaziale.
Nel complesso, il
documento esprime un equilibrio pragmatico: un compromesso fra vincoli di
bilancio, esigenze di interoperabilità e aspirazioni di autonomia strategica.
Tuttavia, l’impressione generale è che manchi una visione coerente del ruolo
dell’Italia nel sistema internazionale della sicurezza. L’aumento della
spesa, la digitalizzazione e la cooperazione industriale sono strumenti, non
fini: e il DPP 2025, pur ben strutturato tecnicamente, non articola in modo
convincente quale debba essere il fine politico — se deterrenza, stabilità
regionale, proiezione globale o solo continuità istituzionale.
In questo senso, il DPP 2025–2027 è un documento necessario, ma non ancora sufficiente. Segna il consolidamento di una politica di difesa moderna, tecnologicamente avanzata e integrata con l’Europa, ma lascia aperta la domanda più profonda: quale modello di potenza l’Italia intende essere nel mondo che si prepara alla competizione permanente tra grandi attori?
LO SHUTDOWN CHE VORREBBE RIDISEGNARE L’AMERICA – DUE LATI DELLA STESSA MEDAGLIA
di Melissa de Tefféda Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)
Il cosiddetto government shutdown non è una novità per gli Stati
Uniti. Dal 1980 ad oggi, il governo federale ha visto e superato oltre 20
episodi di chiusura parziale o totale delle proprie attività, causati
dall’impossibilità del Congresso e della Casa Bianca di raggiungere un accordo
sui bilanci annuali o su leggi di spesa temporanee (Continuing Resolutions).
Le origini
Il meccanismo affonda le radici nell’Antideficiency
Act, una legge federale che
proibisce alle agenzie governative di impegnare fondi se non esiste
un’esplicita approvazione da parte del Congresso. Quando il budget scade senza
rinnovo, i dipendenti (ad eccezione di quelli indispensabili, come i
controllori di volo ad esempio) vengono messi in furlough – sospensione
temporanea (o come molti la soprannominano, “in vacanza”), mentre i servizi
fondamentali vengono comunque garantiti.
Gli episodi più significativi
Anni ’90 (era Clinton): diversi
shutdown dovuti ai contrasti con il Congresso a maggioranza repubblicana sulla
spesa pubblica e il deficit. Quello del 1995–1996 durò
complessivamente 27 giorni.
Ottobre 2013
(era Obama): 16 giorni di blocco, frutto dello
scontro sull’Obamacare, con oltre 800.000 dipendenti federali in furlough.
Dicembre 2018 –
Gennaio 2019 (era Trump): il più lungo della storia moderna, 35
giorni, legato al finanziamento del muro al confine con il Messico.
Altri episodi – più brevi
– hanno spesso riguardato divergenze su tasse, sanità, difesa, welfare e
immigrazione.
Lo shutdown è quindi diventato un vero
e proprio strumento di pressione politica, usato da entrambe le parti
come leva negoziale. Ogni episodio ha sofferto di non poche conseguenze:
perdita economica, innumerevoli disagi per i cittadini, calo della fiducia
nelle istituzioni. L’unica nota positiva, il rafforzamento della narrazione politica
per chi ne esce percepito come “vincitore”.
Lo shutdown oggi e i
fondi Biden nel mirino
Lo shutdown del 1° ottobre è il risultato di uno scontro politico sugli stanziamenti già approvati sotto Biden; infatti, non si tratta di nuove spese o del bilancio statale stilato dall’amministrazione Trump, bensì sulle spese già predisposte dall’amministrazione precedente. Avendo quindi questa amministrazione cancellato alcune delle voci di spesa ecco perché è nato questo dissidio nel Congresso dove i democratici non hanno accettato queste revisioni.
Due narrazioni a confronto: La
posizione repubblicana
Per i
Repubblicani non ci sono dubbi: la responsabilità dello shutdown ricade
interamente sui Democratici del Senato. Il punto di partenza è la Continuing
Resolution(CR), ossia quell’atto legislativo che avrebbe permesso di
evitare la chiusura e che meno di sei mesi fa è stata approvata dalla Camera
dei deputati, e che avrebbe garantito la continuità dei finanziamenti federali
fino al 21 novembre. Un provvedimento che, secondo la leadership GOP, era del
tutto “pulito”, praticamente identico a quello che i Democratici stessi avevano
approvato in passato durante la presidenza Biden,e che era stato
approvato senza opposizioni, se non per un adeguamento dovuto all’inflazione.
Purtroppo, una volta al Senato, i democratici hanno respinto in blocco la
proposta. Per la Casa Bianca, la spiegazione è una sola: i Democratici volevano
re- inserire i benefit sanitari per gli immigrati illegali, un onere che i
Repubblicani giudicano insostenibile per un Paese già gravato da 37 trilioni di
dollari di debito.
Dal podio della Sala Stampa, la portavoce Karoline Leavitt insieme al Vicepresidente JD Vance, ha scandito chiaramente l’accusa: i Democratici hanno scelto di “chiudere il governo per difendere il diritto a un’assistenza gratuita per chi ha violato la legge entrando illegalmente”, obbligando tutti a sacrificare programmi necessari e fondamentali per i cittadini americani. Lo shutdown interrompe i finanziamenti a programmi cruciali come Medicare, il sostegno WIC (Women, Infants and Children, che garantisce alimenti e assistenza nutrizionale a donne in gravidanza, neomamme e bambini piccoli), i Community Health Centers e altri servizi sanitari che dipendono dai fondi federali.
La diffidenza
repubblicana nasce anche da situazioni di emergenza che hanno visto stati a
guida democratica e città santuario utilizzare fondi federali per ospitare
immigrati illegali, pur trattandosi di risorse che — contrariamente al
mandato originario — avrebbero dovuto servire a proteggere la nazione dagli
ingressi non autorizzati e a sostenere la sicurezza delle frontiere. Per il
GOP, questo rappresenta un tradimento delle finalità di spesa approvate dal
Congresso e un ulteriore segnale di come i Democratici abbiano anteposto la
gestione dell’immigrazione irregolare alla tutela dei cittadini.
La narrazione
repubblicana si intreccia con la rivendicazione dei risultati dell’amministrazione Trump. Proprio
mentre i Democratici “bloccavano il Paese”, il Presidente firmava un accordo
con Pfizer per ridurre il
prezzo dei farmaci e un executive order per accelerare la ricerca sul
cancro pediatrico attraverso l’intelligenza artificiale, misure che per la Casa
Bianca sono “azioni concrete a favore degli americani”, in contrapposizione
alla scelta dei Democratici di mettere in primo piano i migranti irregolari.
Caroline ha infine ricordato che il mondo conservatore non è il solo a sostiene questa linea. Attori come i Teamsters (il sindacato dei lavoratori pubblici) — il cui leader, Shaun O’Brien ha ammonito: “i lavoratori americani non possono essere ostaggi di giochi politici” — e la Camera di Commercio, la più grande organizzazione imprenditoriale del Paese, hanno chiesto al Senato di approvare senza ulteriori rinvii la CR repubblicana. Il messaggio è chiaro: riaprire subito il governo, evitare il prolungarsi di uno shutdown che rischia di danneggiare l’economia, la sicurezza nazionale e milioni di famiglie.
La posizione democratica: le ragioni del “no”
I Democratici
respingono con forza l’idea che la loro scelta contro la CR (Risoluzione
Continua, ossia il prolungamento della finanziaria) proposta dai Repubblicani,
sia stato un semplice atto di “sabotaggio”. Per loro, il testo avanzato era
carente, sbilanciato e politicamente inaccettabile in quanto non difende i
diritti sociali che non sono negoziabili. La proposta del GOP non prevedeva il
rinnovo dei sussidi dell’Affordable Care Act (Obamacare) né un
ampliamento di Medicaid, due misure che per i Democratici sono fondamentali per
evitare che milioni di americani vedano aumentare le spese sanitarie. Inoltre,
mancavano le risorse per gli aiuti internazionali, incluso il sostegno
all’Ucraina — una spesa che i Democratici considerano parte della sicurezza e
della proiezione globale americana.
All’interno del Partito Democratico si è aperto un vero braccio di ferro. Da un lato Chuck Schumer, capogruppo di minoranza al Senato, ha cercato di tenere una linea istituzionale e di compromesso, dichiarando in conferenza stampa: “Democrats do not want a shutdown … We stand ready to work with Republicans to find a bipartisan compromise, and the ball is in their court.” Dall’altro lato Alexandria Ocasio-Cortez, deputata di New York e volto dell’ala progressista nota come the Squad, ha spinto con forza i colleghi a respingere la CR repubblicana, accusata di sacrificare sanità e welfare pur di ottenere un’estensione temporanea dei fondi. Per Ocasio-Cortez e i progressisti, infatti, la partita sul bilancio non riguarda solo i conti pubblici ma anche la difesa dei diritti dei migranti: in particolare i beneficiari di DACA, i cosiddetti Dreamers, (i Dreamers devono il loro nome al DREAM Act del 2001, una proposta di legge mai approvata dal Congresso; dal 2012 hanno trovato protezione temporanea grazie al programma DACA voluto da Obama, e più recentemente l’amministrazione Biden ha cercato di estendere loro anche l’accesso ai sussidi sanitari dell’Affordable Care Act) giovani arrivati da bambini negli Stati Uniti senza documenti ma cresciuti come americani. L’inclusione dei Dreamers nelle coperture sanitarie è divenuto il simbolo della battaglia, trasformando lo shutdown in uno scontro identitario sul futuro stesso dell’America. Alexandria Ocasio-Cortez e altri progressisti hanno spinto affinché i Democratici non cedessero a compromessi che tagliassero fondi essenziali. Lei ha più volte ribadito che non ci si deve “ammorbidire” davanti a tattiche negoziali forzate dei Repubblicani. Si è creato così, all’interno del partito democratico, un vero e proprio scontro: da una parte Schumer e la leadership del Senato, che desiderano evitare che lo shutdown si prolunghi e causare danni politici irreparabili, dall’altra la base progressista, che insiste sul fatto che, cedere oggi, significherebbe rinunciare a battaglie future su sanità, equità e diritti sociali. Alla fine, la posizione dura ha prevalso e la maggioranza dei senatori Dem ha votato contro la CR repubblicana, convinti che una legge di bilancio viziata non è accettabile.
Nel fumo della battaglia per lo shutdown…
Visto il
blocco, Trump ha deciso di approfittarne e non perdere questa occasione
politica per portare avanti uno degli obiettivi principali: ridurre le
dimensioni gargantuesche del governo federale.
Il 2 ottobre 2025, su Truth Social,
ha scritto: “We are looking at which
DEMOCRAT agencies and wasteful projects to CUT. There could be permanent cuts,
there could be firings – and that’s their fault. The shutdown is a chance to
finally shrink Washington and put America First.”
Inolte Trump
ha annunciato un incontro con l’OMB (Office of Management and Budget) per
discutere tagli mirati: “we could cut projects …
permanently cut”.
Queste
dichiarazioni hanno alimentato la preoccupazione dei sindacati federali. L’AFSCME
(American Federation of State, County and Municipal Employees) ha denunciato
che l’amministrazione sta cercando di usare lo shutdown per “licenziare in massa i
lavoratori federali in violazione della legge”, ricordando che finora i
precedenti shutdown avevano sempre previsto sospensioni temporanee con diritto
a back pay, (paga arretrata) non licenziamenti permanenti.
I tentativi di rendere
permanenti i tagli durante una fase di blocco potrebbero violare leggi federali
come l’Antideficiency Act, che disciplina le attività consentite in
assenza di stanziamenti approvati dal Congresso.
Se da un lato
Donald Trump sfrutta lo shutdown come occasione per snellire lo Stato
federale, riducendo agenzie e spesa pubblica, dall’altro il confronto mette
a nudo due filosofie politiche inconciliabili.
I Democratici continuano a difendere un
modello che prevede alti livelli di finanziamenti anche all’estero —
dall’Ucraina ai programmi multilaterali — rischiando però di apparire quasi
ciechi di fronte a un’America che, agli occhi di molti, sembra solo l’ombra
della potenza che fu.
I Repubblicani, invece, attraverso la
linea dura di Trump, tentano di “tirare i remi in barca” e concentrare le
risorse sul fronte interno, nella convinzione che un Paese con un debito da 37
trilioni di dollari non possa più permettersi sprechi o “vacanze italiane”,
ma debba tornare a investire sulla
sicurezza nazionale, sul lavoro e sui cittadini americani.
Lo shutdown del
2025 va oltre la questione di bilancio: racconta un’America spaccata tra chi
guarda ancora al ruolo globale all’estensione del welfare inclusivo e chi,
invece, vuole concentrare risorse e forze sul fronte interno.
📌#ReaCT2023 The 4th annual Report on Terrorism and Radicalisation in Europe ⬇📈launches on 23rd May. Don't miss it! 📊📚Numbers, trends, analyses, books, interviews👇 pic.twitter.com/KLIWWlrJXS
🔴📚 OUT SOON! #ReaCT2023 Annual Report on Terrorism and Radicalisation in Europe | Start Insight ⬇ 16 articles by different authors discuss current trends and numbers. Available in Italian and English startinsight.eu/en/out-soon-r…
🔴@cbertolotti1 a FanPage sulle varie ipotesi dell'attacco👉"(...) non si tratterebbe di droni in grado di fare danni significativi, ma piuttosto di una tipologia di equipaggiamento in grado di fare danni limitati con l'obiettivo di portare l'attenzione mediatica sulla questione" twitter.com/cbertolotti1/s…
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.