Da Kiev e Mosca, passando per Istanbul e Teheran e guardando a Gerusalemme.
di Claudio Bertolotti.
Dall’intervista a Irene Cosul Cuffaro, per il quotidiano La Verità del 19 maggio 2025.
Si è conclusa la prima sessione dei negoziati tra Russia e Ucraina a Istanbul: colloqui che si sono limitati allo scambio di prigionieri. Un flop, o attorno a questo summit c’erano aspettative troppo alte?
Quelli di Istanbul sono i primi formali tra delegazioni russe e ucraine dal 2022, e se non possono essere letti come un fallimento non possono altrettanto essere considerati un progresso sostanziale. L’unico risultato concreto – lo scambio di 1.000 prigionieri per parte – è un segnale limitato ma significativo. Non tanto per il contenuto, quanto per il fatto che certifica l’apertura di un canale diplomatico tra Kiev e Mosca. E, in un contesto di guerra convenzionale prolungata e simmetrica, ciò rappresenta già un dato politico rilevante.
Le aspettative attorno al summit erano indubbiamente elevate, e forse mal calibrate. È utile ricordare che nei conflitti armati i leader non si incontrano per definire un accordo, ma per formalizzare intese già costruite a monte, nelle sedi tecniche. La mancata partecipazione di Putin e Zelensky ha confermato la natura interlocutoria dell’incontro: un primo contatto operativo, non ancora un terreno di mediazione strategica.
Dal punto di vista russo, l’iniziativa risponde a una logica di lungo periodo: Mosca è consapevole di poter mantenere un vantaggio sia sul piano militare – consolidando le linee di contatto – sia su quello diplomatico, sfruttando la fatica dell’Occidente e la crescente ambivalenza di alcune cancellerie europee. In questo scenario, la disponibilità al dialogo si traduce in uno strumento di pressione, utile a presentare l’immagine di un attore razionale e disposto al compromesso, senza in realtà cedere nulla sul terreno.
In sintesi, lo scambio di prigionieri è un passo modesto, ma simbolicamente importante. È la conferma che un canale diretto esiste, e che il confronto non è solo militare ma anche – e sempre più – politico. Nulla di risolutivo, certo. Ma in una guerra di logoramento, anche le aperture minime vanno lette come indicatori di una possibile, futura transizione negoziale.
Evocare ulteriori sanzioni contro Mosca a tavoli aperti, come fatto da Ursula von der Leyen e Donald Trump, non è una mossa controproducente?
Evocare l’ipotesi di nuove sanzioni contro Mosca nel pieno di un tentativo di apertura negoziale – come hanno fatto Ursula von der Leyen e Donald Trump – rappresenta una mossa che rischia di rivelarsi, nel migliore dei casi, sterile. Nel peggiore, profondamente controproducente. È ormai un dato consolidato: il sistema sanzionatorio occidentale, per quanto articolato e pervasivo, non ha prodotto gli effetti strategici attesi. La Russia non ha subito un reale depotenziamento della propria capacità militare, né si è ritrovata isolata sul piano internazionale.
Mosca ha saputo dimostrarsi resiliente, ricalibrando le proprie linee di approvvigionamento e proiettandosi verso mercati alternativi, dalla Cina all’Iran, fino a partner africani e latinoamericani. Sul piano politico-diplomatico, la narrazione russa non solo non si è indebolita, ma ha saputo trovare nuove sponde, mantenendo margini di manovra significativi nei principali teatri internazionali. E anche sul fronte militare-industriale, nonostante le restrizioni, il sistema ha retto: adattamento, riconversione e triangolazioni commerciali hanno garantito continuità operativa. Il danno d’immagine, pur presente, non ha intaccato in modo decisivo la postura strategica del Cremlino.
In questo contesto, la minaccia di nuove sanzioni, soprattutto se lanciata mentre si tenta di aprire un canale diplomatico, rischia di generare l’effetto opposto: irrigidire le posizioni, rafforzare la retorica interna russa dell’accerchiamento, e offrire pretesti utili alla propaganda. Si tratta di un’iniziativa che – anche qualora non intenzionale – riduce lo spazio negoziale. Quando si parla di diplomazia, il tempismo è parte della strategia: e in questo caso, la dichiarazione arriva fuori tempo massimo.
A ottobre ci sarà un vertice russo con la Lega araba. Putin si è detto fiducioso che l’incontro contribuirà a “garantire la pace, la sicurezza e la stabilità nelle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa”. Una contromossa in risposta all’avvicinamento di Trump ai Paesi sunniti del Golfo?
L’annuncio del vertice tra Russia e Lega araba previsto per ottobre, accompagnato dalle dichiarazioni di Vladimir Putin sull’obiettivo di rafforzare “pace, sicurezza e stabilità” in Medio Oriente e Nord Africa, va letto attraverso una lente strategica che tiene conto del posizionamento russo nella regione e delle dinamiche competitive in atto – su tutte, quelle con gli Stati Uniti e la Turchia.
Più che una semplice iniziativa diplomatica, si tratta di una contromossa calibrata, in risposta al rinnovato attivismo americano sotto la guida di Donald Trump, che ha ripreso l’opera di ricompattamento con le monarchie sunnite del Golfo. In questo contesto, la Russia intende riaffermare il proprio ruolo di potenza extraregionale capace di interloquire con tutti gli attori – inclusi quelli arabi – senza vincoli ideologici o storici, come ha già dimostrato in Siria dove la competizione con la Turchia ha dato ragione a quest’ultima, con cui Mosca ora deve scendere a compromessi. Con Ankara, infatti, la relazione è ambivalente: cooperazione tattica in alcuni ambiti (come Astana), ma competizione strategica sul controllo delle leve di influenza regionali, dalla Libia al Caucaso, fino al Sahel.
Il vertice con la Lega araba è dunque un’operazione a doppio livello: da un lato, consolidare l’immagine di Mosca come attore di equilibrio in uno scenario mediorientale frammentato; dall’altro, sottrarre spazio all’influenza turca e americana, proponendosi come partner credibile in ambito sicurezza, energia e gestione delle crisi. Non è un progetto nuovo, ma oggi si rafforza nella consapevolezza che l’assenza di un chiaro ordine regionale postamericano apre margini d’azione a chi, come la Russia, ha saputo investire in modo opportunistico ma costante.
In definitiva, più che un vertice, quello di ottobre è un atto di posizionamento. Un segnale, indirizzato a Washington e Ankara, che il vuoto di potere nel mondo arabo è uno spazio ancora contendibile – e che Mosca non ha alcuna intenzione di lasciarlo agli altri.
Erdogan non resterà a guardare…
Il rapporto tra Erdogan e Putin è un esempio di realismo politico applicato: una relazione ibrida, fatta di cooperazione tattica e competizione strategica. Ankara e Mosca si trovano spesso su fronti opposti – dalla Siria al Caucaso – ma sanno riconoscere, e talvolta sfruttare, convergenze di breve periodo funzionali ai rispettivi interessi.
In Siria, la Turchia ha sostenuto l’opposizione armata, mentre la Russia ha salvaguardato la sopravvivenza del regime di Assad. Eppure, attraverso i processi di Astana e Soči, i due Paesi hanno costruito una coesistenza operativa: Ankara ha ottenuto libertà d’azione contro le milizie curde nel nord della Siria, mentre Mosca ha preservato l’integrità del proprio alleato a Damasco. Una logica di scambio, fondata sul rispetto delle rispettive aree di influenza, ma priva di una reale fiducia reciproca.
Sul piano energetico, il partenariato è più strutturato: gas, nucleare e infrastrutture rafforzano l’interdipendenza, ma non eliminano la volontà turca di affermarsi come attore autonomo, capace di giocare su più tavoli, compreso quello occidentale. Erdogan persegue una strategia multilivello che lo posiziona al centro delle dinamiche regionali, senza mai vincolarsi del tutto a un solo partner.
In questo senso, il rapporto con la Russia non è né alleanza né ostilità, ma una forma di equilibrio instabile e adattivo, dove Ankara si muove con audace lucidità, trasformando le ambiguità in leva politica.
Il presidente americano ha dichiarato che Usa e Iran si stanno avvicinando a un’intesa sul nucleare. Scenario plausibile, al di là delle dichiarazioni?
Tra calcolo tattico e sfiducia strategica, l’intesa nucleare USA-Iran resta possibile, ma sarà fragile, temporanea e priva di solide basi.
Dal punto di vista strategico, un riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran sul tema del nucleare non può essere escluso, ma va inquadrato con attenzione. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca costituisce un elemento chiave: è stato proprio lui, nel 2018, a ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare (JCPOA), firmato tre anni prima dall’amministrazione Obama. Se oggi si aprisse un nuovo negoziato sotto la sua presidenza, difficilmente si tratterebbe di un ritorno a quell’intesa. Più probabilmente, si punterebbe su un accordo parziale o temporaneo, finalizzato a obiettivi tattici – come porre limiti provvisori all’arricchimento dell’uranio o favorire scambi umanitari – piuttosto che su un’intesa strutturata e duratura.
Poi, ci sono motivazioni contingenti che potrebbero spingere entrambi i Paesi verso una forma di dialogo. Da un lato, l’Iran è sempre più sotto pressione a causa della crisi economica interna e del crescente malcontento popolare, e potrebbe considerare un’intesa come una boccata d’ossigeno, anche solo momentanea. Dall’altro lato, gli Stati Uniti potrebbero essere interessati a ridurre le tensioni in Medio Oriente per concentrare risorse e attenzione sul quadrante indo-pacifico, dove la sfida strategica con la Cina continua ad ampliarsi.
Rimangono però ostacoli concreti. La sfiducia reciproca è ancora elevata, il programma nucleare iraniano ha fatto notevoli progressi ed è oggi molto più vicino alla soglia militare rispetto al passato, e l’establishment conservatore di Teheran appare poco incline a fare concessioni che potrebbero essere percepite come un segno di debolezza interna.
Pertanto, ritengo che l’ipotesi di una “de-escalation negoziata” non sia fuori dalla realtà, ma più che un accordo organico e stabile, si tratterebbe verosimilmente di una soluzione limitata, fragile e potenzialmente reversibile.
E con che conseguenze per i rapporti tra Stati Uniti e Israele?
Ogni passo verso Teheran rischia di allontanare Washington da Gerusalemme, riaprendo una frattura strategica che Israele potrebbe colmare con azioni unilaterali. Perché giungo a questa conclusione?
Perché un possibile riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran sul nucleare rischierebbe di inasprire le tensioni con Israele, che considera Teheran una minaccia esistenziale. Anche un’intesa limitata verrebbe vista da Gerusalemme come una pericolosa concessione, capace di rafforzare l’Iran e le sue milizie alleate nella regione. Un allentamento della pressione americana potrebbe inoltre compromettere la capacità deterrente israeliana e incrinare ulteriormente la fiducia tra Washington e Gerusalemme. Già in passato, la relazione privilegiata tra Trump e Israele ha mostrato crepe ogni volta che si è affacciata l’ipotesi di un dialogo con l’Iran. Oggi, un’intesa – verosimilmente fragile e circoscritta – avrebbe conseguenze profonde, spingendo Israele verso un approccio sempre più autonomo, anche sul piano militare.