Azione di Israele in Libano via mare: perché? Il commento di C. Bertolotti a RaiNews 24

di Claudio Bertolotti.

Azione di Israele in Libano via mare: perché? Il commento di C. Bertolotti a RaiNews 24 – Focus (puntata dell’8 ottobre 2024)

In primo luogo va detto che la capacità difensiva di Hezbollah si fonda su un sostegno militare e finanziario dell’Iran che sta facendo del Libano il fronte di scontro diretto con Israele, non volendo Teheran essere direttamente coinvolta. Un sostegno militare che garantisce a Hezbollah una capacità militare offensiva – messa in atto dal 7 ottobre di un anno fa a danno di Israele, in violazione della risoluzione 1701 del CdS dell’ONU – e una difensiva. E proprio la capacità difensiva, la resistenza di Hezbollah sul fronte terrestre a sud, ha suggerito alle forze israeliane di optare per l’apertura di un secondo fronte, non presidiato da postazioni organizzate, bunker e tunnel, lungo la costa. Questo offre un doppio vantaggio: il primo è la dispersione delle forze di Hezbollah, così costretto a dividersi e a diluirsi su due settori; il secondo è una minore esposizione delle forze israeliane alla difesa organizzata così come lo è a sud, riuscendo così a prendere le posizioni tenute da Hezbollah con minori rischi.

Le forze armate libanesi non sono coinvolte nel conflitto, che è uno scontro tra Israele e Hezbollah, e non contro il Libano. Come confermano la posizione del governo libanese e delle forze armate nazionali (il generale Joseph Aoun, ha fatto visita al presidente del parlamento Nabih Berri), che di fatto risponderanno solo nel caso in cui i soldati libanesi fossero oggetto del fuoco israeliano, di fatto dando carta bianca a Israele per contenere o eliminare Hezbollah. A ciò si contrappone però il rischio di un collasso dello stato libanese, poiché l’indebolimento di Hezbollah o la sua scomparse determinerebbe il riaccendersi di competizioni tra gruppi di potere su base settaria. Insomma il rischio di una nuova guerra civile.


Elezioni USA: il dibattito tra i due candidati vice-presidenti.

di Melissa de Teffè.

Un vero dibattito politico

Ieri sera abbiamo finalmente assistito a un dibattito che ha rievocato un’epoca passata della politica americana, più moderata e cortese. Tim Walz e JD Vance, i due candidati alla vicepresidenza americana, si sono concentrati soprattutto nel presentare i rispettivi candidati sotto migliori luci, cercando di attenuare le loro debolezze e mettendo in risalto i loro successi. Il tutto si è svolto sullo sfondo di una crescente guerra regionale in Medio Oriente con gli attacchi missilistici iraniani su Israele e il recentissimo disastro climatico dell’uragano Helene, che ha devastato diversi stati a partire dalla Florida. Il dibattito, tenutosi a New York, negli splendidi studios della CBS, durante le ultime battute di una campagna elettorale caratterizzata da attacchi personali taglienti e momenti storici tumultuosi, tra cui il ritiro di un candidato e due tentativi di assassinio, ci ha regalato la possibilità di riflettere e forse capire un po’ meglio le linee politiche dei candidati non sempre opposte. Ad oggi i sondaggi mostrano un testa a testa tra Harris e Trump, ed essendo già aperte le urne in tutto il Paese, questo rende ancora più importante ogni situazione in grado di influenzare gli elettori indecisi, inclusa quindi la prestazione dei candidati alla vicepresidenza.

Nonostante il tono più disteso del dibattito, non sono mancate le tensioni che riflettono le profonde divisioni politiche di questo paese.

L’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, e la retorica di Trump che nega la legittima vittoria di Joe Biden alle elezioni del 2020, insieme alla legge sull’aborto sono stati i due argomenti che più hanno mostrato le disuguaglianze. Mentre Vance ha cercato di minimizzare i fatti di gennaio Walz ha minimizzato il “non fatto” dell’amministrazione Biden-Harris in tema di medicare portando come bandiera di successo che la Harris è riuscita a far abbassare il prezzo di dieci farmaci.

Per gran parte della serata, i due politici del Midwest hanno adottato un tono visibilmente più cordiale rispetto al confronto tra Trump e Harris, o rispetto allo scontro tra Trump e Biden all’inizio di quest’anno, prima che Biden si ritirasse dalla corsa dopo una performance disastrosa.

In un momento particolarmente toccante, Walz ha raccontato che suo figlio adolescente aveva assistito a una sparatoria in un centro comunitario, e subito Vance ha espresso empatia rispondendo: “Mi dispiace, che il Signore abbia pietà,” ha detto. – e Walz ha replicato“Lo apprezzo molto”.

Bisogna concedere che è stato Vance a stabilire il ritmo della serata, eliminando critiche inutili, mantenendo un tono educato, e portando con astuzia il suo avversario ad annuire spesso e volentieri alle idee da lui espresse.  Le risposte sono state per lo più dirette, con una certa disponibilità a sottolineare i punti di comunanza dove entrambe le parti erano d’accordo. L’assenza di acrimonia ha reso le risposte più fluide, chiare e senza troppe circonlocuzioni.

Dopo un inizio aggressivo e orientato all’attacco, Walz ha rapidamente seguito l’esempio di Vance, adottandone il tono e cercando di trasmettere calma.

Vance ha cercato di smussare i toni aggressivi, moderando la sua solita retorica e riconoscendo che parte del pubblico potrebbe non condividere le sue posizioni o quelle di Trump. Ha presentato le idee dell’ex presidente con diplomazia, evitando di essere incalzato sui punti più controversi del suo operato, una mossa che voleva compiacere i sostenitori di Trump.

Walz, da parte sua, ha descritto Trump come inefficace e caotico. Sebbene abbia inciampato in alcuni passaggi, compreso un infelice lapsus in cui ha detto “Sono diventato amico degli autori di sparatorie nelle scuole” anziché riferirsi ai sopravvissuti, ha comunque fatto leva su temi centrali per i democratici, come il diritto all’aborto e la difesa della democrazia. Tuttavia, non ha usato il termine “strano,” il soprannome che Harris aveva affibbiato a Trump durante il loro dibattito tre settimane prima.

Il tema di apertura è stato il conflitto in Medio Oriente, dove le forze israeliane sono impegnate contro Hezbollah in Libano, e il lancio di missili su Israele da parte dell’Iran. “Ciò che conta in questo momento è una leadership stabile” ha dichiarato Walz. “Tutti abbiamo visto, durante un dibattito di qualche settimana fa, quando Donald Trump, quasi ottantenne, parla del numero dei presenti al suo comizio! Non ne abbiamo bisogno oggi.”

Vance ha replicato sostenendo che Trump è di suo una figura intimidatoria, la cui sola presenza sulla scena internazionale funge da deterrente. “”Il governatore Walz può criticare i tweet di Donald Trump, ma la diplomazia efficace e intelligente e la pace attraverso la forza sono il modo per riportare stabilità in un mondo molto fratturato,” ha detto.

Sull’aborto, entrambi hanno condiviso storie personali di donne. Walz ha parlato di Amanda Zurawski, una donna del Texas a cui è stato negato l’aborto nonostante avesse sviluppato un’infezione potenzialmente letale. Vance ha parlato di una cara amica che, gli avrebbe confidato la necessità di abortire perchè “la sua vita sarebbe stata distrutta avendo una relazione abusiva.”

Il senatore ha anche affermato di non aver mai sostenuto un divieto nazionale sull’aborto quando si era candidato per il seggio al Senato nel 2022.  Nel frattempo, Trump ha pubblicato sul suo sito social durante il dibattito che avrebbe posto il veto a un divieto nazionale sull’aborto, pur avendo rivendicato il merito della decisione della Corte Suprema di ribaltare la sentenza Roe vs. Wade, aprendo la strada agli Stati conservatori di vietare o limitare la procedura.

Walz e Vance hanno anche discusso di politiche abitative, (negli USA oggi mancano più di 4 milioni di case), economia e cambiamento climatico in seguito all’uragano Helene, che ha devastato diversi stati e causato almeno 160 morti.

“Sono certo che il governatore Walz si unisca a me nell’inviare il nostro cordoglio a quelle persone innocenti. Le nostre preghiere sono con loro,” ha detto Vance, dando una risposta molto diversa dal suo compagno di corsa, che ha accusato Biden e Harris di politicizzare la situazione.

Il dibattito è durato più dei 90 minuti previsti, eppure alcuni temi chiave non sono stati affrontati dai moderatori: l’Ucraina, i casi penali di Trump, l’ammissione dei trans-uomini alle competizioni femminili, ecc.

Non dimentichiamoci dei moderatori. Sebbene le giornaliste di CBS abbiano dimostrato maggiore correttezza rispetto ai loro colleghi di ABC durante il dibattito presidenziale, c’è stato un momento in cui Vance ha tentato di correggere Margareth Brennan nella verifica dei fatti riguardo l’immigrazione. L’inciampo è avvenuto ancora una volta, sui 15.000 haitiani residenti a Springfield e causa di molti problemi abitativi, economici, problemi che l’amministrazione Biden-Harris ha ignorato. Brennan, però, sosteneva che questi godessero di uno status legale. Mentre Vance cercava di spiegare la legge e Brennan cercava di passare ad altro argomento, i microfoni dei candidati sono stati chiusi. Peccato, perché sarebbe stato interessante approfondire l’argomento, “il dibattito” politico soprattutto considerando le premesse di cortesia e correttezza dimostrate da ambo.

Il ruolo di un candidato alla vicepresidenza è tipicamente quello di fare da “attaccante” per il candidato presidenziale, criticando l’avversario e il suo rappresentante sul palco. Sia Vance che Walz hanno eseguito alla lettera il mandato, tuttavia, in un periodo storico come questo dove la politica non sembra conoscere le le scuse, ieri sera a gran sorpresa, sia Walz che Vance hanno ammesso alcuni dei loro errori e citato vulnerabilità.

A Vance è stato chiesto di spiegare le sue passate dure critiche nei confronti dell’ex presidente, incluso quando aveva suggerito che Trump sarebbe stato “l’Hitler americano”. – “Quando sbagli e cambi idea, dovresti essere onesto con il popolo americano”, ha detto.

Walz, invece gli è stato chiesto di rivedere la sua affermazione durante un’intervista su NPR (la radio pubblica nazionale) dove sosteneva di essere stato molte volte in Cina, e soprattutto di essere stato a Hong Kong durante i disordini legati al massacro di Piazza Tiananmen nel 1989.

Di fronte alle sue dichiarazioni inesatte sui viaggi in Cina di anni fa, Walz si è difeso dicendo: “Non sono perfetto, a volte sono uno sciocco”. Infine, ha ammesso di aver sbagliato a parlare del suo passato.  Il dibattito ha mostrato molti momenti di cordialità che non ci aspettavamo. Concludendo Walz ha dichiarato: “ho apprezzato il dibattito di stasera, e credo ci siano molti punti in comune”. – “Anche io, amico,” ha risposto Vance.


L’attacco di Israele a Hezbollah: tra politica e strategia militare

di Claudio Bertolotti.

Sul piano politico-strategico Israele persegue l’obiettivo di distruggere l’asse della resistenza, che è la prima minaccia che incombe su Israele (forse non più). Una scelta che determinerà, in primis, una ridefinizione degli equilibri in Medioriente, con una progressiva erosione della minaccia attraverso l’indebolimento o la disarticolazione irreversibile dei suoi attori di prossimità (Hamas, Hezbollah, Ansar-Allah yemeniti, milizie sciite irachene, Siria). Aspetto prioritario rimane il proseguimento del processo di normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi avviato con gli “Accordi di Abramo”, sponsorizzato dagli Stati Uniti che, sebbene rallentato dal conflitto in atto, rimane la priorità condivisa da Washington, Gerusalemme e Riad.

Sul piano strategico-militare l’azione contro Hezbollah ha un intento preventivo a un’eventuale minaccia simultanea da parte del cd. “Asse della Resistenza” guidato da Teheran che metterebbe in crisi il sistema contraereo Iron Dome israeliano in conseguenza della saturazione della capacità di risposta (più attacchi rispetto alla capacità di reazione israeliana). Questo coerentemente con la visione israeliana che percepisce la minaccia iraniana come esistenziale e adotta un approccio preventivo.

Scelte, quella politica e quella militare, che concretizzano l’approccio teorico e di prontezza operativa definito nei documenti di “Strategia per la sicurezza nazionale” e la “Dottrina strategica militare”.

Con la serie di azioni a danno di Hezbollah, Israele è riuscito a scardinare non tanto la sostanza di un’alleanza, ma la sua illusione di potenza e deterrenza. L’Iran ormai è nudo, è debole, e i suoi alleati pregiati, da Hamas e Hezbollah sono stati drasticamente ridimensionati sia sul piano politico (uccisioni targeting) sia militare. Hamas è ormai ridotto ai minimi termini militarmente parlando, Hezbollah è privo di capacita di comando, controllo e comunicazione, e questo dimostra come la retorica iraniana sia ormai stata smentita dai fatti.

E la preoccupazione di Teheran aumenta con l’avvicinarsi delle elezioni statunitensi. Oggi gli Stati Uniti sostengono senza sé e senza ma Gerusalemme. E se è comprensibile una certa ritrosia dell’amministrazione democratica a un’intensificazione dello scontro regionale (a cui Washington non farebbe comunque mancare il proprio appoggio), un’eventuale vittoria repubblicana di fatto rafforzerebbe la linea politica israeliana già consolidata.


Elezioni USA. Trump-Harris: Un dibattito al ritmo di colpi e contraccolpi.

di Melissa de Teffè.

Finito il dibattito il primo commento che balza alla mente è che la Harris è stata per Trump pruriginosa. Dopo una breve introduzione in cui racconta d’essere cresciuta con solo la mamma divorziata che l’ha mantenuta fino alla fine degli studi, si è subito lanciata nel suo “programma” politico incentrato nel voler sollevare la classe media, la stessa di sua provenienza, dalle pressanti difficoltà economiche in cui versa. La strategia della squadra Harris è stata quella di irritare il più possibile Trump, obbligandolo di fatto a stare sulla difensiva. Non c’è stato un momento in cui Trump non sia stato in qualche modo denigrato o preso in giro, come quando gli è stato detto che durante la sua presidenza si scambiava lettere d’amore con il presidente Kim della Corea del Nord, o che la guerra tra Russia e Ucraina finirebbe per i suoi interessi compiacenti con Putin. Oppure ancora che molti capi di Stato lo considerano un personaggio “vergognoso”.  Queste solo alcune delle critiche, farcite per altro da evidenti gesti continui con la testa, di disapprovazione, di sfottò e di presa in giro.

Trump dal canto suo ha dimostrato, confrontando altri momenti di suoi exploit, molto controllato, ma sempre sulla difensiva. Insomma, tanti colpi bassi, tante denigrazioni, ma pochissima sostanza. 

Partirei quindi dalle conclusioni di ambo i candidati che danno una chiara visione di questa battaglia politica in stallo. 

Harris: “Quindi, penso che questa sera abbiate sentito due visioni molto diverse per il nostro Paese: una concentrata sul futuro, e l’altra concentrata sul passato e su un tentativo di riportarci indietro. 

Ma noi non torneremo indietro, e credo davvero che il popolo americano sappia che abbiamo molto più in comune di quanto ci divida, e possiamo tracciare una nuova strada in avanti, una visione che includa avere un piano, il capire le aspirazioni, i sogni, le speranze e le ambizioni del popolo americano. 

Ecco perché intendo creare un’economia di opportunità, investendo nelle piccole imprese, nelle nuove famiglie, e in ciò che possiamo fare per proteggere gli anziani, ciò che possiamo fare per dare sollievo a chi lavora duramente e ridurre il costo della vita. Credo in ciò che possiamo fare insieme per sostenere la posizione dell’America nel mondo e garantire il rispetto che meritiamo, incluso il rispetto per il nostro esercito e l’assicurazione di avere l’esercito più letale al mondo.

Sarò un presidente che proteggerà i nostri diritti e le nostre libertà fondamentali, incluso il diritto di una donna di prendere decisioni sul proprio corpo senza che il governo le dica cosa fare.

 Vi dico che ho iniziato la mia carriera come procuratrice. Sono stata procuratrice distrettuale, procuratrice generale, senatrice degli Stati Uniti e ora vicepresidente. 

 Ho avuto solo un cliente: il popolo. E vi dico, come procuratrice, non ho mai chiesto a una vittima o a un testimone: ‘Sei repubblicano o democratico?’ L’unica cosa che ho mai chiesto è stata: ‘Stai bene?’ E questo è il tipo di presidente di cui abbiamo bisogno in questo momento, qualcuno che si preoccupi di voi e che non metta sé stesso al primo posto. 

Intendo essere un presidente per tutti gli americani e concentrarmi su ciò che possiamo fare nei prossimi 10 e 20 anni per ricostruire il nostro Paese, investendo ora in voi, il popolo americano.”

Trump: “Ha appena iniziato dicendo che farà questo, farà quello. Farà tutte queste cose meravigliose.  Perché non le ha fatte? È lì da tre anni e mezzo. 

Hanno avuto tre anni e mezzo per sistemare il confine. Hanno avuto tre anni e mezzo per creare posti di lavoro e fare tutte le cose di cui abbiamo parlato. Perché non le ha fatte?

Dovrebbe uscire di qui e andare subito in quella bellissima Casa Bianca, andare al Campidoglio, radunare tutti e fare le cose che vuole fare.  Ma non l’ha fatto, e non lo farà perché crede in cose in cui il popolo americano non crede. 

Crede in cose come ‘non trivelleremo, non utilizzeremo i combustibili fossili, non faremo cose che ci renderanno forti’, che vi piaccia o no. La Germania lo ha fatto, e nel giro di un anno sono tornati a costruire centrali energetiche tradizionali… Non possiamo sacrificare il nostro Paese per una visione sbagliata.

Ma faccio solo una semplice domanda: perché non lo ha fatto?  Siamo una nazione in declino. Siamo una nazione che sta vivendo un grave declino.

Ci deridono in tutto il mondo, in tutto il mondo. Ridono di noi. Conosco molto bene i leader. Vengono a trovarmi. Mi chiamano. Ci deridono in tutto il mondo. Non capiscono cosa ci sia successo, come nazione, non siamo più leader, non abbiamo idea di cosa ci stia succedendo.

Abbiamo guerre in corso in Medio Oriente, abbiamo guerre in corso tra Russia e Ucraina. Finiremo in una Terza Guerra Mondiale, e sarà una guerra come nessun’altra, a causa delle armi nucleari, della potenza bellica.   

Io ho ricostruito tutto il nostro esercito. Lei ne ha regalato una gran parte ai talebani. L’ha dato all’Afghanistan.  Quello che queste persone (Biden-Harris ndt), hanno fatto al nostro Paese, e forse la cosa più difficile di tutte, è permettere a milioni di persone di entrare nel nostro Paese. 

Molti di loro sono criminali e stanno distruggendo il nostro Paese. Il peggior presidente, la peggiore vicepresidente nella storia del nostro Paese.”

In queste due chiusure si riassume una visione e un’idea di ciascun candidato. Rimane sicuramente il rammarico dal punto di vista giornalistico dove gli interessi politici personali hanno preso il sopravvento e ambo candidati non sono stati intervistati dai moderatori su fatti e programmi in dettaglio per capire come porterebbero l’America di oggi fuori dall’inflazione, come cercherebbero di arginare il problema migratorio illegale, e come infine si porrebbero di fronte a due guerre che non vedono al momento soluzione alcuna. Infatti, se da un lato abbiamo tutti avuto la possibilità di vedere Trump al lavoro con i Talebani, i Cinesi, le due Coree, in termini non solo economici ma anche di equilibri internazionali, ad oggi l’amministrazione Biden-Harris non è riuscita a portare a casa alcun successo diplomatico e Harris avendo detto con enfasi, diverse volte, che lei non è Biden, discostandosi quindi da quella politica più a sinistra, non ci è ancora chiaro come si confronterebbe con le complessità interne ed internazionali che dovrebbe affrontare nell’eventualità di una vittoria. I moderatori hanno quindi fallito nel non farci raccontare attraverso domande argute e puntuali, quali strade i candidati percorrerebbero per soddisfare le richieste di un paese che è disperatamente alla ricerca di un leader.

Quindi per concludere non sembrano esserci né vinti né vincitori: i Trumpiani speravano in un Trump più brillante, gli Harris gioiscono per aver fatto una buona figura, date le premesse, e a distanza di qualche ora dal fatidico 11 settembre, nessuno se n’è appropriato. Una svista?   


Medioriente: l’operazione antiterrorismo di Israele in Cisgiordania.

Il commendo del Direttore Claudio Bertolotti a TIMELINE SKY TG 24 (30 agosto 2024, dal minuto 13′).

Quanto sta accadendo oggi in Medioriente presenta due aspetti significativi. Il primo riguarda l’operazione militare anti-terrorismo avviata da Israele in Cisgiordania, un’operazione che è la conseguenza dell’attentato suicida a Tel Aviv, rivendicato da Hamas, e seguito dalla minaccia di Khaled Meshal (leader di Hamas all’estero) di lanciare una vasta campagna di attacchi suicidi in Israele, partendo proprio dalla Cisgiordania. Il secondo aspetto riguarda le tensioni interne tra i gruppi islamisti e terroristi palestinesi, con l’ipotesi di un possibile colpo di stato per destituire Hamas e porre fine al conflitto con Israele.

Due fattori che si sommano all’attesa rappresaglia iraniana (e l’attesa stessa è un’arma psicologica usata da Teheran per mantenere in apprensione l’opinione pubblica israeliana) e l’ipotesi di una tregua umanitaria nella Striscia di Gaza; una tregua, svincolata dall’ipotesi di cessate il fuoco in discussione a Doha, che però Hamas certamente utilizzerebbe per riorganizzare le proprie forze.

E, dal punto di vista tattico e operativo, Hamas starebbe dimostrando di aver perso in termini di capacità di colpire e coordinare il proprio sforzo contro Israele. Un aspetto non secondario, che confermerebbe l’efficacia dell’azione militare israeliana.


PRESIDENZIALI USA: UNA CORSA IMPERVIA. DUE VICEPRESIDENTI AGLI ESTREMI.

di Melissa de Teffè.

Il duello per le presidenziali americane si sta inasprendo e posiziona i due candidati agli estremi dell’arco politico attraverso la scelta dei due Vice. Dopo il tanto atteso dibattito tra Kamala Harris e Donald Trump che li vedrà confrontarsi a settembre, Vance e Walz, si incontreranno per un faccia a faccia il primo ottobre prossimo. L’evento è organizzato dalla rete televisiva CBS.

Scrive Vance su X: “Il popolo americano merita il maggior numero possibile di dibattiti, ed è per questo che il Presidente Trump sfiderà Kamala in tre momenti diversi. Non solo accetto il dibattito della CBS del 1° ottobre, ma accetto anche il dibattito della CNN del 18 settembre. Non vedo l’ora di vederti a entrambi!”
Dei due compagni di squadra, conosciamo meglio, James David Vance o J.D. Vance, grazie alla sua autobiografia “Elegia americana – (Ed Harper, 2016 – Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis- la biografia di una famiglia e una cultura in crisi) e in seguito alla trasposizione su schermo per la regia di Ron Howard, con Glenn Close ed Amy Adams. Per chi non ha voglia di leggersi il libro, il film visionabile su Netflix, racconta la vita di questo giovane uomo che riesce a conquistare con enormi fatiche, mille rischi e facili inciampi, una posizione nella società, superando il maltrattamento psico-fisico di una madre alcolizzata, drogata, con quattro matrimoni falliti alle spalle, in un contesto sociale poverissimo e ignorante. Per sfuggire a questi orrori, si arruola nei Marines dal 2007 al 2013, e viene subito stanziato in Iraq. Al rientro si laurea in soli 2 anni in Scienze Politiche e filosofia con il massimo dei voti per poi proseguire grazie anche a una borsa di studio alla Yale University e diventa avvocato. Qui conosce sua moglie Usha, di origini indiane, e prima generazione americana. Ma a Vance non piace fare l’avvocato e abbandona quasi subito trasferendosi nella West Coast dove viene assunto come dirigente in una società di investimenti specializzata nelle tecnologie. Prosegue in questo ambiente e da San Francisco ritorna nell’Ohio, dove è cresciuto e qui tenta, fallendo, diverse imprese societarie. Entra poi in politica e viene eletto senatore a gennaio dell’anno scorso, 2023.
Sensibile al sociale segue linee politiche per aiutare chi, come lui e sua madre, viene da ceti bassi e fa fatica a trovare lavoro, e cade nel giro della droga, soprattutto il Fentanil, prodotto in Cina e venduto in grandi quantità a basso prezzo, anche grazie all’importazione attraverso l’immigrazione illegale gestita dai cartelli sudamericani della tratta di esseri umani.

Dall’altro lato dello spettro il Vice Presidente Harris, settimana scorsa, ha scelto come suo Vice, Tim Walz, governatore del Minnesota. È un veterano militare che non è mai andato in guerra. Anzi è proprio in questi giorni che ha dovuto ritrattare una sua dichiarazione su CNN “d’essere orgoglioso d’aver portato la pistola in guerra”, imbellettandosi e Vance, molto attento, lo ha chiamato fuori immediatamente, obbligandolo a spiegare l’affermazione.
Insegnante ed allenatore di football in un liceo pubblico, è entrato in politica come governatore nel 2018, rieletto come governatore per due mandati.
In una recente intervista, Michael Whatley, presidente del Comitato Nazionale Repubblicano ha dichiarato: “Tim Walz è davvero l’anima gemella ideologica (della Harris, ndt).” Progressista e socialista le sue politiche governatoriali sono pro-immigrazione. Infatti, ha più volte ha espresso la volontà di voler investire in una “fabbrica di scale da 30 piedi” per aiutare i migranti a scavalcare il muro di confine dell’ex presidente Trump; inoltre è il primo ad aver dato tutto il suo sostegno elargendo assistenza sanitaria e patenti di guida ai migrati senza documenti e presenti nel suo Stato. Invece Michael Tyler, uno dei portavoce della campagna di Harris, ha detto che scegliendo Walz, Harris ha “cementato la posizione politica offrendo un contrasto fondamentale in questa corsa tra il ticket Harris-Walz che lotta per le famiglie lavoratrici, mentre l’agenda Trump-Vance, al contrario causerebbe danni ineguagliabili in tutto il paese.” Ma fra le iniziative da applaudire c’è sicuramente la detassazione sui prodotti femminili per l’igiene intima così come la distribuzione di tamponi in tutti i bagni delle scuole pubbliche, inclusi quelli maschili, così da accontentare la comunità LGBTQ+, ma che gli è valso il nomignolo di Tampon Tim.
Ad ogni modo Walz è un candidato che può piacere molto, soprattutto nel Midwest. La sua parlata semplice, l’approccio diretto e una biografia da piccolo paese, ne spiega il fascino.

Nei prossimi mesi, la coppia Harris-Walz, viaggerà per il paese proponendo di “rafforzare la classe media invece di tagliare le tasse per i ricchi, e combattere per le libertà fondamentali, inclusa la libertà di abortive fino all’ultimo giorno di gestazione, di dare ai bambini la possibilità di scegliere di cambiare sesso senza avere necessariamente il permesso dei genitori, di naturalizzare immigranti illegali, supportare qualsiasi metodo di fecondazione.” Quando il presidente Biden ha annunciato il suo ritiro, Walz è stato velocissimo nel sostenere Harris, emergendo così come una sorta di pioniere per i Democratici. Poi i suoi attacchi al senatore J.D. Vance non appena nominato da Trump, soprannominandolo uno “strano.” – “Eppure,” controbatte Vance, “alla fine di un importante comizio, io ho abbracciato e baciato mia moglie, mentre Walz le ha stretto la mano come se fosse un’elettrice qualsiasi”. “Non le pare “strano” questo comportamento?”
Così la parola “strano” divenuta la parola d’ordine dei Democratici per il ticket repubblicano, vuole raccontare che se la scelta cadesse su Trump-Vance sarebbe una minaccia per la democrazia, perché insoliti, e fuori dal contesto dell’America stessa.
Quindi per ora la sinistra gode di un raro allineamento. Tutti, infatti, dalla rappresentante di New York Alexandria Ocasio-Cortez al senatore indipendente della Virginia Occidentale Joe Manchin, hanno elogiato la scelta di Walz, come ulteriore prova che i Democratici si sono “spostati così tanto a sinistra nel loro insieme che candidati estremi come Kamala Harris e Tim Walz, oggi, sono considerati mainstream,” – dice Whatley.

E per il capo del partito Democratico la piattaforma politica rimane invariata adesso che Walz è parte del “ticket”. Dietro le quinte i Repubblicani sono quasi entusiasti per questa scelta, invece, ad esempio, del governatore della Pennsylvania Josh Shapiro, che a parer loro, avrebbe reso la corsa alla Casa Bianca molto più ardua.
Infine, come ultima notizia, Tulsi Gabbard, deputata per le Hawaii, ex democratica, e veterana militare, e riservista, ha deciso di citare in giudizio l’amministrazione Biden-Harris, per aver scoperto, grazie ad informatori anonimi della Federal Air Marshal (Sezione di polizia federale dell’aviazione) che è stata segnalata e inserita nella lista di possibili individui pericolosi, secondo il programma Quiet Skies, facente parte del TSA (Transportation-Security-Administration) che ha il compito di identificare i viaggiatori che potrebbero rappresentare un rischio per la sicurezza dell’aviazione. Quelli in lista, possono volare, ma sono soggetti a controlli più stretti, messi sotto “scorta” non identificabile durante il transito, e, anonimamente, sono affiancati da uno Sceriffo armato quando in volo.
Nel caso di Gabbard, ogni volta che viaggia in aereo, viene automaticamente monitorata da: due squadre cinofile per la rilevazione di esplosivi, un addetto della sicurezza dei trasporti, anche lui specializzato in esplosivi, un supervisore della TSA in abiti civili e tre Sceriffi federali dell’aviazione. Che si sappia, non esistono motivi per cui Gabbard dovrebbe essere sulla lista di sorveglianza. A sua difesa, Gabbard ha pubblicato un video spiegando perché ha intrapreso le vie legali, sottolineando con queste parole il suo disgusto: “Il mio stesso governo, il mio presidente, il mio comandante in capo mi ha preso di mira come potenziale target terrorista. La parola che mi viene in mente è totale tradimento.” – “Dopo aver servito per oltre 21 anni e continuando a servire nelle forze armate del nostro paese, il mio stesso governo” ha aggiunto “usa gli Air Marshall come armi e pedine per perseguire i loro avversari politici.” “Ovviamente, non mi è stata fornita alcuna spiegazione, ed è per questo che stiamo ricorrendo alle vie legali,” ha sottolineato. “Ho parlato molto apertamente dei pericoli che l’amministrazione Biden-Harris rappresenta per la nostra democrazia, la nostra libertà e la nostra sicurezza nazionale. Queste le conseguenze” ha concluso.

Possiamo concludere usando le parole di Vance tratte dal suo libro già nel lontano 2016 che sembrano adatte a questo momento storico: “Questo paese è segregato per razza, geografia e reddito in un modo che non si vedeva da molto, moltissimo tempo.”
Possiamo solo augurarci che vinca la moderazione, per ora non c’è traccia.


Il valore dell’azione ucraina a Kursk: ma la Russia mantiene il vantaggio sul campo

di Claudio Bertolotti

Quella ucraina a Kursk non è un’offensiva né una controffensiva. È un atto tattico che ha permesso alle forze ucraine di prendere temporaneamente l’iniziativa sul campo di battaglia ma che, non potendo essere determinante ai fini della guerra, ha un duplice scopo: il primo alleggerire il fronte sud imponendo alla Russia di spostare e impegnare le proprie riserve altrimenti disponibili sul fronte di Zaporizhzhia– come fatto mesi fa dalla Russia aprendo il fronte di Karkiv –, mentre il secondo scopo è consentire a Zaleski di insistere sul piano politico in un momento di grande difficoltà, tenuto conto della prospettiva presidenziale statunitense del 2025 e del concomitante sostegno di Washington a Israele.

Questo però non significa che sia un atto improduttivo o inutile, al contrario, la Russia è stata così costretta a ripensare lo schieramento delle riserve e ad avviare un processo di pianificazione operativa che preveda la difesa dei confini russi da possibili ulteriori puntate offensive ucraine.

Detto in altri termini: l’operazione di Kursk, per quanto politicamente e mediaticamente rilevante, non cambia gli equilibri al fronte e ci ricorda ancora una volta che in termini di mezzi, uomini e materiali l’Ucraina non ha la capacità di condurre operazioni offensive su larga scala o comunque determinanti ai fini del conflitto.

Perché questo? In primo luogo cominciano a mancare gli uomini al fronte, e l’ipotesi di mobilitazione generale è un dilemma che sta assillando il presidente Zelensky poiché potrebbe rivelare una partecipazione inferiore alle aspettative. In secondo luogo l’aiuto occidentale, in primis statunitense e poi quello europeo, è sempre stato strutturato in modo tale da dare a Kiev lo stretto necessario per difendersi e sostenere il peso della guerra di logoramento russa ma non per cambiarne gli equilibri e dunque non per imporre una sconfitta a Mosca (la cui tenuta statale rimane un punto saldo nel sostegno occidentale all’Ucraina).


Chi è l’ultra radicale Yahya Sinwar, nuovo capo di Hamas: archiviato l’impossibile negoziato?

di Claudio Bertolotti

Estratto dal volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.

Hamas è organizzata in una serie di organi direttivi che gestiscono diverse funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità principale, che si occupa dell’agenda politica e strategica del movimento, è rappresentata dal consiglio della shura di Hamas, il vertice della leadership organizzativa, che opera in esilio. Tuttavia, le attività quotidiane del gruppo sono gestite dal bureau politico, mentre le operazioni militari sono sotto la responsabilità delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio militare del gruppo, che gode di un’ampia autonomia operativa. I comitati locali gestiscono le questioni di base nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Se fino ad oggi Hamas è stato caratterizzato da una dualità che ha visto contrapporsi l’anima politica esterna alla Striscia di Gaza a quella politico-militare a Gaza in un rapporto di sempre più accesa competizione, la nomina di Yahya Sinwar alla guida del movimento potrebbe aver di fatto archiviato l’opzione di un gruppo pragmatico – al netto delle posizioni radicali e violente – per lasciar posto in via esclusiva all’anima movimentista radicale, razionalmente violenta di orientamento jihadista votata alla causa massimalista: la distruzione di Israele, come premessa a qualunque opzione politica.

Chi è il nuovo capo di Hamas?

Fino al momento della sua morte, Ismail Haniyeh ha ricoperto il ruolo di capo politico mentre Yahya Sinwar ha gestito le questioni ordinarie a Gaza.

Conosciuto anche come Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, dal 2017 è il capo di Hamas nella Striscia di Gaza e uno dei primi architetti del braccio armato di Hamas: è sospettato di essere una delle menti dietro gli attacchi del 7 ottobre 2023.[1]

Nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Younis, Striscia di Gaza, da genitori sfollati da Ashkelon durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo aver frequentato le scuole primarie grazie al sostegno dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa), all’inizio degli anni Ottanta si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove lo studio della lingua araba contribuì a plasmare la sua carismatica autopresentazione. Entrò all’università in un momento in cui molti giovani palestinesi della Striscia di Gaza guardavano all’islamismo come strumento di soluzione al conflitto israelo-palestinese, dopo decenni di panarabismo rivelatosi fallimentare. Nel 1982 fu arrestato per la sua partecipazione alle prime organizzazioni islamiste anti-israeliane.

Nel 1985, ancor prima della formazione di Hamas, Sinwar contribuì all’organizzazione di “al-Majd” (in arabo “gloria”, ma anche acronimo di Munazzamat al-Jihad wa al-Da’wah, “Organizzazione per il jihad e da’wah”). Al-Majd era una rete di giovani islamisti con il compito di smascherare il crescente numero di informatori palestinesi reclutati da Israele. Quando Hamas venne fondata nel 1987, al-Majd fu inglobata nei suoi quadri di sicurezza. Nel 1988 si scoprì che la rete era in possesso di armi e Sinwar fu detenuto da Israele per diverse settimane. L’anno successivo venne condannato a quattro ergastoli per l’omicidio di palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele.

Durante la sua lunga incarcerazione, Sinwar mantenne una forte influenza sui suoi compagni di prigionia, usando tattiche di abuso e manipolazione e godendo del supporto dei suoi contatti al di fuori del carcere. Si impegnò a punire i compagni di prigionia che sospettava di essere informatori e una volta costrinse circa 1.600 prigionieri a intraprendere uno sciopero della fame. Trascorse anche gran parte del suo tempo libero studiando ciò che poteva sui suoi nemici israeliani, leggendo giornali israeliani e imparando l’ebraico.

Il rilascio di Sinwar avvenne nell’ambito dello scambio di prigionieri di alto profilo con Gilad Shalit, il soldato israeliano che era stato rapito da Hamas nel 2006 mentre era di stanza a un valico di frontiera. Dopo diversi tentativi falliti di mediare la libertà di Shalit, l’Egitto e la Germania si prodigarono per il suo rilascio nell’ottobre 2011. Il fratello di Sinwar, Mohammed, che era stato assegnato a sorvegliare Shalit, insistette affinché Sinwar fosse incluso nello scambio. Lo stesso giorno in cui Shalit venne rilasciato in Israele, Sinwar fu tra i primi prigionieri palestinesi a essere rimpatriati nella Striscia di Gaza.

Nell’aprile 2012, pochi mesi dopo il suo rilascio, Sinwar fu eletto membro dell’ufficio politico di Hamas nella Striscia di Gaza. Mise a frutto la sua esperienza come leader carcerario e si guadagnò velocemente un’ottima reputazione all’interno di Hamas per aver riunito le sue fazioni attraverso un compromesso. La retorica infuocata di Sinwar conquistò da subito gli elementi più oltranzisti del movimento; in tale cornice dinamica, pur prospettando l’avvio di un’era guidata dall’ala militante, nei suoi primi anni da leader Sinwar tenne un basso profilo e mostrò un lato pragmatico che gli consentì di alleggerire lo stato di isolamento di Hamas. Mesi dopo la sua ascesa come leader del movimento, Hamas strinse un accordo di riconciliazione con l’Anp e, per la prima volta dal 2007, cedette il controllo di gran parte della Striscia di Gaza all’Autorità Palestinese, seppur per un breve periodo. Anche le relazioni con l’Egitto tesero a migliorare, tanto da portare Il Cairo ad allentare le restrizioni al valico di frontiera.

Al contempo, a conferma di una visione estremamente razionale e pragmatica, il gruppo avviò una politica di dialogo e avvicinamento all’Iran che portò in breve al reinserimento di Hamas nella rete di alleati di Teheran e al conseguente sostegno militare e finanziario.

Sebbene alla fine del 2018, con l’avvio degli “Accordi di Abramo” sostenuti dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, si prospettasse un periodo di calma frutto del possibile processo di reciproco riconoscimento tra Israele e uno stato palestinese, nel maggio 2021 ci fu un ritorno all’ostilità aperta di Hamas nei confronti di Gerusalemme. La popolarità di Sinwar aumentò con il conflitto, e la sua autorevolezza si rafforzò in maniera significativa.

L’operazione battezzata “alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, mostra i segni distintivi delle tattiche di Sinwar, e la presa di ostaggi rimanda all’importanza da lui data agli scambi di prigionieri. Sinwar, le cui immagini diffuse dalle Idf a febbraio 2024 confermano che si sia nascosto nella rete dei tunnel sotterranei di Gaza utilizzando la propria famiglia come “scudo umano”, è stato classificato come obiettivo primario di Israele e definito, secondo un portavoce militare israeliano, come “un morto che cammina”.


[1] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.


Ucciso Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas. Chi sarà il suo sostituto?

di Claudio Bertolotti

Estratto dal volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.

La struttura politica di Hamas

Hamas è strutturata su una serie di organi direttivi che svolgono varie funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità in capo, responsabile dell’agenda politica e strategica del movimento, appartiene al consiglio della shura di Hamas, l’organo di leadership al vertice della catena organizzativa di comando,[1] che opera in esilio.  Tuttavia, le operazioni quotidiane del gruppo rientrano nell’ambito del bureau politico, così come le operazioni militari fanno capo più specificamente al braccio militare del gruppo, le brigate Izz ad-Din al-Qassam, organo che gode di un alto grado di autonomia operativa.[2] I comitati locali gestiscono le questioni di base a Gaza e in Cisgiordania.

Quali sono i leader più importanti di Hamas a cui Israele dà la caccia? Tre i soggetti chiave del movimento: Khaled Meshaal, ex capo politico del movimento e ora capo ufficio politico estero, Yahya Sinwar, capo dell’ala militare di Hamas e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico del gruppo a Gaza, ucciso da Israele il 30 luglio 2024 in Iran, nella sua residenza di Teheran, a seguito di un probabile raid aereo con droni.

Storia, pregresso e ruolo politico di Ismail Haniyeh

Ismail Haniyeh[3], conosciuto anche come Isma’il Haniyyah e Ismail Haniya, assurse al ruolo di primo ministro dell’Anp in seguito alla vittoria elettorale di Hamas del 2006; dopo i violenti scontri tra fazioni con la rivale Fatah, che portarono alla dissoluzione del governo e all’istituzione di un’amministrazione autonoma guidata da Hamas nella Striscia di Gaza, Haniyeh assunse il ruolo di leader del governo de facto nella Striscia (2007-14) e, nel 2017, fu scelto per sostituire Khaled Meshaal come capo dell’ufficio politico.

Figlio di genitori arabi palestinesi sfollati dal loro villaggio vicino ad Ashqelon (in quello che oggi è Israele) nel 1948, Haniyeh nacque nel 1962 nel campo profughi di Al-Shati’, Striscia di Gaza, dove trascorse i primi anni della sua vita. Come per la maggior parte dei minori rifugiati, Haniyeh fu educato nelle scuole gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa). Nel 1981 si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove studiò letteratura araba e iniziò l’attivismo politico studentesco, guidando un’associazione islamista affiliata ai Fratelli Musulmani. Quando Hamas si formò, nel 1988 Haniyeh era tra i suoi membri fondatori più giovani, avendo sviluppato stretti legami con il leader spirituale del gruppo, lo sceicco Ahmed Yassin. Haniyeh fu arrestato dalle autorità israeliane nel 1988 e imprigionato per sei mesi per la sua partecipazione alla Prima intifada. Arrestato di nuovo nel 1989, rimase in prigione fino a quando Israele lo deportò nel sud del Libano nel 1992 insieme a circa quattrocento altri islamisti. Tornò poi a Gaza nel 1993, in seguito agli accordi di Oslo, e fu nominato decano dell’Università islamica.

Il ruolo di leadership di Haniyeh in Hamas si radicò nel 1997, quando fu nominato segretario personale di Yassin, divenendone uno stretto confidente. I due furono bersaglio di un primo fallito tentativo di assassinio da parte di Israele nel 2003; una seconda operazione mirata israeliana portò alla morte di Yassin pochi mesi dopo. Nel 2006 Hamas partecipò alle elezioni legislative palestinesi, con Haniyeh in testa alla lista. Il gruppo ottenne la maggioranza dei seggi in parlamento e Haniyeh divenne primo ministro dell’Anp. La comunità internazionale reagì alla leadership di Hamas congelando gli aiuti all’Autorità Palestinese, con ciò mettendo a dura prova l’organo di governo. Nel giugno 2007, dopo mesi di tensione e un violento conflitto armato tra le fazioni, il presidente Mahmoud Abbas del partito Fatah destituì Haniyeh e ne sciolse il governo. La conseguenza fu l’istituzione di un governo autonomo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza, con Haniyeh a capo della compagine governativa. Poco dopo, Israele attuò un pacchetto di sanzioni e restrizioni alla Striscia di Gaza, con il supporto e la collaborazione dell’Egitto.

Nel gennaio 2008 un attacco con decine di razzi venne lanciato dalla Striscia di Gaza verso Israele; come pronta risposta Israele intensificò il suo blocco. Ciononostante, Hamas mantenne il controllo della Striscia di Gaza e il suo governo oscillò tra occasionali successi politici e battute d’arresto. Per quanto riguarda l’ottenimento di concessioni da Israele, Hamas ottenne il rilascio di oltre mille prigionieri palestinesi detenuti da Israele in cambio del soldato israeliano rapito Gilad Shalit. Un altro successo presentato all’opinione pubblica palestinese fu la performance di Hamas nella guerra contro Israele nell’estate del 2014 sebbene, a causa del blocco, le condizioni di vita all’interno della Striscia stessero progressivamente peggiorando. Nel frattempo, ci furono una serie di tentativi di riconciliazione tra Hamas nella Striscia di Gaza e l’Autorità Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania. In uno di questi tentativi, nel 2014, il governo di Hamas si dimise formalmente per far posto a un governo di unità nazionale con Fatah. Così facendo, Haniyeh rinunciò al suo incarico di primo ministro pur mantenendo quello di capo politico locale, fino a quando non venne sostituito da Yahya Sinwar nel 2017. Dopo pochi mesi, Haniyeh venne eletto capo dell’ufficio politico di Hamas, in sostituzione di Khaled Meshaal.

Nel dicembre 2019 Haniyeh lasciò la Striscia di Gaza, trasferendosi all’estero, tra Turchia e Qatar, facilitando la sua capacità di rappresentare Hamas all’estero. Tra le sue visite più importanti si citano il funerale di Qassem Soleimani, un alto comandante del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche iraniane (Irgc) ucciso da un attacco di droni statunitensi nel gennaio 2020, l’insediamento del presidente iraniano Ebrahim Raisi nell’agosto 2021 e il suo funerale il 23 maggio 2024. Nello stesso anno, mentre le truppe statunitensi si ritiravano dall’Afghanistan, Haniyeh chiamò il capo dell’ufficio politico e negoziatore dei talebani, Abdul Ghani Baradar, per congratularsi con lui per il successo nell’aver posto termine all’occupazione statunitense nel Paese. Nell’ottobre 2022 Haniyeh incontrò il presidente siriano Bashar al-Assad; quello fu il primo incontro tra i leader di Hamas e della Siria dalla rottura all’inizio della guerra civile nel 2011. In un raid israeliano a Gaza, il 10 aprile 2024, morirono tre dei suoi figli; un altro era morto in un precedente attacco israeliano il 17 ottobre 2023.

Mahmoud Zahar: il possibile sostituto di Ismail Haniyeh

La decisione di nominare il nuovo capo politico di Hamas spetta al consiglio della shura del movimento. Molto dipenderà dai nuovi equilibri politici determinati dal peso della rinforzata leadership militare che guida le brigate di HamasIzz ad-Din al-Qassam nella Striscia di Gaza.

Mahmoud Zahar è considerato uno dei leader più importanti di Hamas e membro della leadership politica del movimento: è uno dei principali candidati a sostituire Ismail Haniyeh. Frequentò la scuola a Gaza e l’università al Cairo, per poi lavorare come medico a Gaza e Khan Younis, fino a quando le autorità israeliane lo licenziarono in relazione al suo ruolo politico. Detenuto nelle carceri israeliane nel 1988, nel 1992 fu tra i deportati da Israele nella terra di nessuno, in Libano, dove vi trascorse un anno. Con la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, Zahar entrò a far parte del Ministero degli Affari Esteri nel nuovo governo del primo ministro Ismail Haniyeh.[4] Israele tentò di eliminarlo nel 2003, quando un aereo bombardò la sua casa nella città di Gaza. Sopravvisse all’attacco, nel quale però morì il figlio maggiore, Khaled. Il suo secondo figlio, Hossam, che era un membro delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, venne ucciso in un successivo attacco aereo a Gaza nel 2008.

Per la lettura completa dell’analisi, vai al volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.


[1] Berti B. (2013), Armed Political Organizations: From Conflict to Integration, Johns Hopkins University Press.

[2] Hroub K. (2010), Hamas: A Beginner’s Guide, London: Pluto Press.

[3] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, pp. 40-44.

[4] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, p. 40-44.


La nuova strategia di intelligence USA: implicazioni per il Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica.

di Niccolò Petrelli, START InSight, Assistant Professor, Strategic Studies

Nell’Agosto 2023 l’US Office of the Director of National Intelligence (ODNI) ha pubblicato una National Intelligence Strategy (NIS) incentrata sulla nuova era di competizione con la Cina che nel corso degli ultimi mesi ha iniziato ad essere attuata.[1] Uno degli elementi centrali del documento, che essenzialmente delinea la visione per il futuro dell’ODNI più che una vera e propria strategia, è la decisione di rafforzare ed espandere la rete internazionale di “collegamenti” con altri servizi informativi (nonché con vari tipi di attori privati).[2] Quale l’eventuale impatto sul Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica (SISR)? Esiste la possibilità che la strategia di collegamento USA si traduca in opportunità per il sistema d’intelligence italiano?

Per rispondere a queste domande è possibile partire da un precedente analogo nella storia dell’intelligence USA. Tra la seconda metà del 1945 e la prima metà del 1947 infatti, l’emergere della competizione con l’Unione Sovietica spinse l’apparato informativo statunitense ad investire in maniera sistematica risorse, capacità, expertise, e relazioni personali nella creazione di una massiccia e stratificata infrastruttura di collegamenti con i servizi segreti di numerosi paesi dell’Europa occidentale.[3] In un primo momento a guidare tale strategia furono principalmente requisiti di “accesso” e ampliamento della raccolta informativa sull’URSS e i suoi “alleati” in Europa orientale: i paesi dell’Europa occidentale rappresentavano infatti quella che potremmo definire la più valida “piattaforma” per accedere a tali obiettivi informativi. Nel 1946 ad esempio fu raggiunto un tacito accordo in base al quale la MUST e la FRA, le due agenzie di intelligence militare svedesi, iniziarono a passare all’intelligence USA tutti le informazioni di HUMINT e SIGINT sulle attività militari sovietiche nella regione baltica in cambio di finanziamenti e equipaggiamento per la raccolta informativa tecnica. Un altro esempio, più noto, è quello dell’accordo UKUSA, sempre del 1946, in base a cui la State-Army-Navy Communications Intelligence Board degli Stati Uniti e la London SIGINT Board si impegnavano a condividere ogni prodotto informativo di raccolta tecnica, mettendo di fatto in piedi una ripartizione del lavoro che l’ex direttore del Government Communications Headquarters (GCHQ) David Omand ha definito basata sui “soldi statunitensi e cervelli britannici”.[4]

La situazione iniziò tuttavia a cambiare approssimativamente dal 1949. L’intelligence americana modificò progressivamente la propria azione di collegamento, strutturandola in base alla percezione della natura della competizione prevalente a Washington, ovvero quella di un confronto in primo luogo politico-ideologico con l’URSS. Ciò si riteneva richiedesse una fusione dei paradigmi strategici di “guerra” e “pace” in uno sforzo unitario e coordinato di political warfare,[5] come la definì George Kennan. Tanto la CIA quanto le varie componenti dell’intelligence militare intensificarono dunque le proprie attività di collegamento in Europa occidentale promuovendo, in modi e forme diverse a seconda delle circostanze, lo sviluppo di tutte quelle capacità ritenute essenziali per gestire il nuovo tipo di confronto: propaganda, guerra psicologica, sostegno clandestino a forze politiche locali e, qualora necessario, contro-guerriglia.[6] In Germania ad esempio, oltre alla creazione di diverse reti stay-behind (S/B), documentazione recentemente declassificata ha gettato luce sul sostegno fornito dalla CIA e dall’intelligence militare USA per attività clandestine condotte dall’Organizzazione Gehlen (la prima struttura di intelligence di quella che sarebbe diventata la Repubblica Federale Tedesca), al fine di minare la stabilità della zona di occupazione sovietica della Germania.[7] Dove si rivelò più difficile cooperare ad ampio spettro con le controparti locali la comunità di intelligence statunitense combinò attività di collegamento ad operazioni clandestine. Un approccio di questo tipo fu adottato ad esempio in Italia, dove dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l’intelligence americana operò simultaneamente a due diversi livelli: da un lato collaborando con i servizi segreti italiani, in particolare nel programma S/B, dall’altro sviluppando autonomamente reti clandestine per condurre attività di guerra psicologica, propaganda e destabilizzazione.

La strategia di collegamento USA generò dunque effetti trasformativi della struttura, capacità, e funzioni degli apparati informativi europei occidentali, rischi di vario tipo, basti pensare proprio al caso dell’Italia, ma anche opportunità, in particolare di beneficiare di finanziamenti, anche cospicui, nonché di forniture di equipaggiamento tecnologicamente avanzato. Non tutti i servizi europei occidentali tuttavia furono parimenti in grado di sfruttare tali opportunità. Ciò dipese da variabili di vario tipo legate al contesto, la natura delle relazioni diplomatiche con gli USA, il grado di fiducia esistente tra i decisori politici ed i vertici degli apparati informativi, la condizione politica prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale e, non da ultimo, la posizione geografica dei vari paesi rispetto agli obiettivi informativi di prioritario interesse per la comunità d’intelligence USA. Di cruciale importanza furono tuttavia anche taluni fattori squisitamente materiali, ovvero il grado di “interoperabilità” con il sistema d’intelligence statunitense, l’adattabilità e funzionalità delle capacità, esistenti e potenziali, dei servizi dell’Europa occidentale rispetto alle missioni affidate al sistema d’intelligence USA nel quadro della political warfare nei confronti del blocco comunista, e da ultimo la complementarietà di capacità e competenze rispetto a quelle espresse dalle varie componenti del sistema USA.

Il GCHQ britannico fu ad esempio in grado, capitalizzando sulle proprie competenze specifiche in termini di analisi politica del sistema internazionale e crittoanalisi, nonché sulla “interoperabilità” tecnica con il sistema USA, di massimizzare i vantaggi derivanti dalla strategia di collegamento attuata dagli USA arrivando, come visto sopra, a siglare un accordo che garantiva accesso ad ogni prodotto (in teoria) di raccolta tecnica statunitense. L’intelligence svedese, da parte sua, riuscì, in particolare in virtù delle proprie autonome capacità di raccolta tecnica in un’area di cruciale importanza strategica per gli USA, ad assicurarsi finanziamenti e equipaggiamento per rafforzare un settore di raccolta prioritario per la sicurezza nazionale del paese. Il caso italiano dimostra invece come, nonostante l’abilità dimostrata in diverse circostanze dai vertici dell’apparato informativo nello sfruttare a proprio vantaggio la propensione USA ad intensificare i collegamenti, come ad esempio nel caso del programma congiunto S/B Italia-USA “Gladio” avviato nel 1951, limiti capacitivi impedirono di cogliere ulteriori potenziali opportunità. Infatti, le scarse competenze analitiche dell’intelligence italiana, in particolare sotto il profilo economico, sociologico e politologico, e la conseguente incapacità di sviluppare analisi ad ampio spettro della base di sostegno e infrastruttura sociale del Partito Comunista Italiano (PCI) contribuì in maniera non trascurabile a far sì che l’intelligence USA procedesse in maniera autonoma sia alla raccolta informativa che ad una serie di attività operative di contrasto nei confronti del PCI.[8] Allo stesso modo la mancanza di una solida capacità di raccolta SIGINT da parte dell’apparato informativo italiano precluse l’opportunità, intorno alla metà degli anni ’50, nel momento in cui Washington era particolarmente interessata a monitorare l’intensificazione dell’attività navale sovietica nel Mediterraneo, di estendere i collegamenti con il sistema d’intelligence USA a condizioni vantaggiose per l’Italia, e rappresentò molto probabilmente una delle ragioni alla base della creazione da parte statunitense nel 1960 di una struttura SIGINT gestita dall’Air Force Security Group (USAFSS) a San Vito dei Normanni.[9]

Basandoci su quanto sopra, si può ipotizzare che l’attuazione della strategia di collegamento delineata nella NIS 2023 presenterà per l’apparato informativo italiano, con buona probabilità, opportunità analoghe a quelle che emersero al principio della Guerra Fredda. Due sono dunque gli elementi su cui concentrare l’attenzione per comprendere come esse potrebbero essere sfruttate nella maniera più efficace: il primo è la percezione USA della natura della competizione con la Cina, il secondo sono le capacità (a livello aggregato) che i vertici dell’intelligence USA stanno sviluppando ed intendono promuovere per i prossimi anni.

Per quanto riguarda il primo elemento, dopo un periodo piuttosto lungo di dibattito, la natura della competizione con la Cina ha iniziato ad essere definita con maggiore precisione. Benché l’assunto di partenza rimanga quello di una competizione globale in ogni ambito, economico, politico, sociale, dell’informazione, e militare, è recentemente emerso un consenso sempre più ampio circa il fatto che la componente centrale di tale competizione sia di natura tecnologico-economica.[10] In altre parole, si ritiene che essa sia incentrata sulla creazione di un vantaggio competitivo duraturo nelle principali tecnologie di frontiera, intelligenza artificiale generale, microprocessori e reti di comunicazione di prossima generazione, produzione avanzata, stoccaggio e produzione di energie, biotecnologie, al fine di poter plasmare l’economia globale della prossima generazione e definire gli standard di accesso e impiego a tali tecnologie.[11]

In merito al secondo elemento, per comprendere il tipo di capacità che l’ODNI intende promuovere nella comunità d’intelligence USA è possibile fare riferimento alla nozione di Revolution in Intelligence Affairs (RIA), da alcuni anni ormai popolare nel dibattito professionale e politico USA sull’intelligence. Benché nella NIS non vi siano espliciti riferimenti al concetto, appare evidente come la RIA rappresenti il costrutto-guida de facto impiegato per coordinare una serie di trasformazioni, nel procurement e integrazione di nuove tecnologie, nella struttura organizzativa, e nelle procedure operative del sistema d’intelligence USA, al fine di porlo nelle condizioni migliori per affrontare le sfide dei prossimi decenni, in primis quelle legate alla competizione con la Cina.

La trasformazione immaginata dall’ODNI prevede di procedere in primo luogo all’acquisizione e integrazione su vasta scala di intelligenza artificiale, sensori all’avanguardia e tecnologie di automazione, evitando approcci incrementali o settoriali. Simultaneamente, alla luce della velocità, della scala, e della complessità a cui opereranno queste tecnologie, verranno promossi rapidi cambiamenti organizzativi e operativi volti ad agevolare forme di integrazione tra raccolta e analisi, promuovere ridondanza tra le varie fasi del ciclo di intelligence, nonché a creare meccanismi più rapidi per la diffusione in tempo reale dei prodotti informativi. In altre parole, si intende promuovere un modus operandi “a rete” per il sistema di intelligence basato sulla fusione completa dei flussi di dati prodotti da ogni tipo di sensori e piattaforme, la sincronia e integrazione di tutte le attività operative, e la trasmissione rapida e continua di prodotti a operatori umani, macchine e decisori in tutti i dominii.[12]  

Quali dunque le capacità e competenze su cui il SISR dovrebbe puntare per essere in grado di cogliere le opportunità generate dalla strategia di collegamento dell’intelligence USA? Essenziale è che esse rispondano alla percezione della competizione come di un confronto essenzialmente tecno-economico, e che siano complementari alle capacità espresse dal sistema d’intelligence USA.

In primo luogo dunque il SISR dovrebbe rafforzare le proprie capacità di raccolta e analisi in ambito economico e tecnologico. La questione non è nuova, il dibattito sul rafforzamento dell’intelligence economica risale agli anni 90, con il lavoro delle commissioni Ortona (1992) e Jucci (1997).[13] Approssimativamente nello stesso periodo inoltre in seno al Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (CESIS) fu attivato un “gruppo permanente per l’intelligence economica”. Di recente l’ex direttore del SISDE Mori ha rilanciato l’idea di un organismo collegiale dove siano rappresentati il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS), le due agenzie (Aisi e Aise), i ministeri interessati e le associazioni degli imprenditori. Nel caso specifico tuttavia la questione chiave sarebbe, in coerenza con quello che è l’approccio USA all’intelligence economico-tecnologica, adottare una postura proattiva, che includa attività offensive su base continuativa nei confronti non solo della Cina e dei suoi principali partner economici e tecnologici, ma anche di imprese e enti privati riconducibili a quello che potremmo chiamare “l’ecosistema tecno-economico” cinese.

In secondo luogo, il SISR dovrebbe investire sullo sviluppo ulteriore delle proprie capacità operative in aree in cui gode di un vantaggio competitivo, ed in cui esse possano impiegarsi in maniera complementare a quelle del sistema d’intelligence statunitense. La scelta più logica appare l’area del Mediterraneo, dove da diversi decenni ormai il sistema d’intelligence italiano conduce attività operativa di ampio respiro. Proprio nel Mediterraneo infatti negli ultimi anni la Cina ha, con discrezione, ampliato la propria presenza attraverso grandi aziende private ​​(Shanghai International Port Group, China Merchants) e pubbliche (COSCO, China Communications and Construction Company) stipulando accordi commerciali di vario tipo, accordi per partecipazioni nei porti di paesi situati lungo rotte marittime vitali per la Belt and Road Initiative, e acquisendo aziende di medie dimensioni, spesso allo scopo di avere accesso a tecnologie Europee.[14]

Il necessario presupposto ovviamente, come evidenziano gli esempi di UK e Svezia durante la Guerra Fredda, è che il sistema d’intelligence italiano goda di un buon livello di “interoperabilità” con quello USA. Ciò, a sua volta, richiede che i vertici dell’apparato informativo proseguano, e auspicabilmente diano ulteriore impulso, a quel processo di acquisizione e integrazione di tecnologie dell’informazione di ultima generazione, sensori avanzati, Intelligenza Artificiale e sistemi di apprendimento automatico, che sembra essere iniziato da qualche anno.


[1] https://oversight.house.gov/wp-content/uploads/2024/05/05062024-ODNI-Letter.pdf.

[2] https://www.voanews.com/a/new-us-intelligence-strategy-calls-for-more-partners-more-sharing-/7220725.html

[3] Michael Warner AID

[4] https://media.defense.gov/2021/Jul/15/2002763709/-1/-1/0/AGREEMENT_OUTLINE_5MAR46.PDF; https://www.securityweek.com/britains-gchq-listening-post-tune-nsa.

[5] George F. Kennan, The Inauguration of Organized Political Warfare [Redacted Version], 30 aprile 1948, Woodrow Wilson Center, History and Public Policy Program Digital Archive, https://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/114320.pdf?v=94.

[6] US Department of State, Foreign Relations of the United States, 1951, Vol. I, National Security Affairs, Foreign Economic Policy, Washington DC, Government Printing Office, 1979 (FRUS 1951), Doc. 18 Attachment to Memorandum for the National Security Council by the Executive Secretary, 8 maggio 1951.

[7] https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/openness-russia-and-eastern-europe-intelligence/2022-05-11/secret-war-germany-cias.

[8] Niccolò Petrelli, “Alcide De Gasperi e le Origini del Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR)”, in Mario Caligiuri (a cura di) De Gasperi e L’Intelligence (in corso di pubblicazione).

[9] https://www.cia.gov/readingroom/docs/DOC_0000278476.pdf

[10] Intelligence Innovation. Repositioning for Future Technology Competition, Second Intelligence Interim Panel Report (IPR) of the Special Competitive Studies Project (SCSP), Aprile 2024.

[11] Brandon Kirk Williams, The Innovation Race: US-China Science and Technology Competition and the Quantum Revolution (Washington DC: Woodrow Wilson Center, 2023).

[12] Creating Cross-Domain Kill Webs in Real Time, DARPA (Sept. 18, 2020), https://www.darpa.mil/news-events/2020-09-18a e AI Fusion: Enabling Distributed Artificial Intelligence to Enhance Multi-Domain Operations & Real-Time Situational Awareness, Carnegie Mellon University (2020), http://www.cs.cmu.edu/~ai-fusion/overview.

[13] Gabriele Carrer, Perché all’Italia serve intelligence economica. Intervista al generale Mori, Formiche 9 Giugno 2024 https://formiche.net/2024/06/intervista-intelligence-economica-mario-mori/#content..

[14] Claudia De Martino, The Growing Chinese Presence in the Mediterranean, Med-Or Geopolitics, 22 April 2024, https://www.med-or.org/en/news/la-crescente-penetrazione-cinese-nel-mediterraneo.