Tre palestinesi arrestati a L’Aquila per terrorismo: “Attentati per conto delle Brigate Tulkarem” (al-Aqsa).
di Claudio Bertolotti
La Polizia di Stato italiana
ha arrestato a L’Aquila tre cittadini palestinesi – tra cui Anan Yaeesh, 37 enne palestinese
attualmente in carcere a Terni dopo essere stato arrestato il 27 gennaio scorso
su richiesta delle autorità israeliane che ne chiedono l’estradizione –
accusati di aver pianificato attacchi terroristici, nell’ambito di
un’operazione contro l’estremismo. Sono stati presi in custodia in seguito
all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare per il reato di
associazione con scopi di terrorismo, inclusi obiettivi internazionali, e
sovversione dell’ordine democratico. Secondo le forze dell’ordine, gli
arrestati erano coinvolti in attività di proselitismo e divulgazione a favore
dell’organizzazione e avevano l’intento di compiere attacchi, incluso il
sacrificio personale, contro bersagli civili e militari fuori dai confini
nazionali. Il ministro dell’Interno, Matteo
Piantedosi, ha espresso la sua soddisfazione per l’arresto dei tre
individui ritenuti estremamente pericolosi, sottolineando l’impegno e
l’eccellenza investigativa delle forze dell’ordine italiane. Questa operazione
dimostra, secondo il ministro, l’efficace vigilanza e l’azione preventiva
contro l’estremismo e la radicalizzazione, per cui ha esteso i suoi
ringraziamenti alla polizia e alla magistratura per il significativo successo
ottenuto, che evidenzia la costante attenzione alle minacce alla sicurezza
interna.
Chi sono e quali le origini e gli obiettivi Brigate
dei Martiri di Al-Aqsa?
Le “Brigate dei Martiri di Al-Aqsa” rappresentano un’ala militante del movimento Fatah, fondato nel tardo 1950 da Yasser Arafat e altri leader palestinesi. Emerse all’inizio dell’Intifada di Al-Aqsa nel settembre 2000, questo gruppo ha giocato un ruolo significativo nel conflitto israelo-palestinese, conducendo attacchi contro obiettivi israeliani sia militari che civili. Le Brigate hanno dichiarato di voler combattere l’occupazione israeliana e hanno rivendicato responsabilità per numerosi attacchi suicidi, sparatorie e lanci di missili.
All’interno di questa organizzazione, il “Gruppo di Risposta Rapida –
Brigate Tulkarem” rappresenta una specifica articolazione operativa che
opera principalmente nell’area di Tulkarem, una città situata nella parte
occidentale della Cisgiordania. Questo gruppo specifico è stato costituito con
l’obiettivo di fornire una risposta rapida alle incursioni militari israeliane,
sfruttando la conoscenza del terreno locale e la capacità di mobilitare
rapidamente i suoi membri in caso di conflitto.
La natura del “Gruppo di Risposta Rapida” si caratterizza per la
sua agilità operativa e la capacità di condurre attacchi mirati. Il gruppo
utilizza tattiche di guerriglia urbana e si adatta rapidamente alle dinamiche
del campo di battaglia, il che lo rende una componente efficace all’interno
della più ampia strategia delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. La loro
attività è volta a creare un senso di insicurezza continua tra le forze
israeliane, cercando di impedire o rallentare le operazioni militari nella loro
area di influenza.
Nonostante la loro determinazione, l’azione di gruppi come il “Gruppo
di Risposta Rapida – Brigate Tulkarem” solleva questioni significative
riguardo al ciclo di violenza nel conflitto israelo-palestinese. Le loro operazioni,
spesso dirette contro obiettivi civili, hanno portato a condanne internazionali
e hanno accentuato la sofferenza umana su entrambi i lati del conflitto. La
complessità della loro esistenza e operazioni riflette l’intricata rete di
cause, identità e lealtà che caratterizzano il lungo e doloroso scontro tra
israeliani e palestinesi.
La presenza e le azioni di gruppi come le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa e
il loro “Gruppo di Risposta Rapida – Brigate Tulkarem” in Italia
come, è possibile valutare, sia in Europa che negli Stati Uniti, sono testimoni
della profonda capacità di permeazione da parte del terrorismo jihadista associato
ad Hamas che, attraverso una serie di appelli alla “rabbia” dei musulmani ha
chiamato i suoi accoliti a colpire, in difesa dell’Islam. Di fatto spingendo
verso quel fenomeno ormai consolidato di terrorismo emulativo, improvvisato e
prevalentemente individuale che ha ormai imposta le proprie presenza e volontà
d’azione, in Europa, dall’avvento del fenomeno Stato Islamico (già ISIS) negli anni 2014/2017. Oggi, quel
terrorismo di fatto autonomo e spesso fallimentare, si è inserito in una nuova
dinamica competitiva tra i brand Stato islamico e il “nuovo” attore del jihad,
Hamas, che pur ponendosi come “movimento di liberazione nazionale” non ha
mancato di estendere sul piano comunicativo, ideologico e propagandistico la propria
visione e l’appello a colpire ovunque, con atti di “jihad” atti a difendere l’islam
dalla corruzione e dalla violenza dell’occidente.
Biden: lo stato dell’Unione.
di Melissa de Teffé
Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione al Congresso, il Presidente Joe Biden ha sorpreso tutti per il tono combattivo e aggressivo, in netto contrasto con le sue consuete apparizioni sempre pacate.
Come noto il secondo articolo della Costituzione americana richiede al capo dell’esecutivo di presentare un rapporto scritto, letto a camere unite, sullo Stato dell’Unione, non solo raccontando i successi ottenuti, ma elencando quali misure adottare per risolvere sfide e problematiche nazionali. Biden invece ha fatto una scelta comunicativa insolita, mirata a dissipare i dubbi sulla sua idoneità al ruolo, dati i suoi 81 anni, è attualmente il presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti. Una delle battute più divertenti seppur sarcastica, dei media americani è stata: “Qualunque cosa abbiano dato a Biden, ogni uomo, donna e qualsiasi altra persona americana dovrebbe essere autorizzato a prender-lo,” insomma un po’ di pesante ironia nei confronti di 68 “intensi” minuti di discorso, ma che in realtà sono stati più un’ accalorata arringa contro l’amministrazione precedente che la consueta, storica presentazione a cui siamo abituati.
Biden ha aperto il suo discorso paragonando l’attuale periodo storico sia a quello di Lincoln durante la guerra civile che al discorso di Delano Roosevelt del 1941, in piena seconda guerra mondiale. Questa audace dichiarazione, che sembra quasi un j’accuse contro i repubblicani, parrebbe voler definirsi come l’unico vero paladino, difensore supremo, della “vera” democrazia.
Tra i temi principali affrontati, spicca in primis, la richiesta d’inviare il prima possibile i finanziamenti all’Ucraina, (60 miliardi di $) che erano inclusi nella legge sull’immigrazione e l’asilo politico, bocciata il mese scorso; proseguendo, altro punto molto antipatico e scottante è stata la critica ai giudici della Corte Suprema, per altro presenti come gesto di rispetto e cortesia, e seduti in prima fila, per aver ribaltato il famosissimo caso Roe vs Wade sull’aborto, promettendo che, se rieletto, sarebbe certamente riuscito a influenzare la Corte Costituzionale e a capovolgere la loro decisione. Sicuramente” non solo un affronto ma una manifestazione arrogante da parte di un presidente”, dice il noto commentatore politico Ben Shapiro.
Altro punto chiave riguarda la lotta contro l’inflazione, dove Biden certo del prossimo abbassamento dei tassi di interesse incentiverebbe il settore immobiliare con una regalia mensile di $400 per due anni consecutivi sugli acquisti di nuove proprietà. Inoltre Biden non si fa sfuggire l’opportunità di attribuire il problema dell’inflazione al suo predecessore. Pure il Wall Street Journal non ne è convinto, infatti la “shrinkinflation” ossia l’inflazione ristretta, così definita da Biden, che porta come esempio la riduzione dei quantitativi di patatine o pezzetti di dolcetti da parte dei produttori di merendine e patatine, senza però aver cambiato la grandezza del sacchetto, viene denigrata da questo titolo: “Il Presidente non sa nulla su come funzioni l’economia privata”.
Sul fronte dell’immigrazione, il Presidente afferma che gli immigrati sono anch’essi cittadini americani e ancora una volta attribuisce la crisi al confine alla precedente amministrazione. Durante l’amministrazione del presidente Joe Biden, oltre 7,2 milioni di migranti sono entrati illegalmente negli Stati Uniti. Questa cifra supera la popolazione di 36 stati degli Stati Uniti. (fonte CBP- Customs and Border Protection, Factcheck.org ecc.)
Il numero di 7,3 milioni rappresenta una parte significativa della popolazione di diversi stati di grandi dimensioni: 18,7% della popolazione della California (39 milioni di abitanti); 23,9% della popolazione del Texas (circa 31 milioni di residenti), 32,3% della popolazione della Florida, 37,3% della popolazione di New York. È importante notare che questa cifra totale di 7,3 mill. non include un ulteriore (stimato) 1,6 milioni di immigrati indocumentati che sono entrati negli Stati Uniti da altre località, né 1,8 milioni di “fuggitivi” noti, sfuggiti alle forze dell’ordine. Considerando questi numeri aggiuntivi, il totale sarebbe persino superiore alla popolazione di New York.
I critici dell’amministrazione Biden sostengono che questo aumento senza precedenti dell’immigrazione illegale non sia casuale, ma piuttosto il risultato di scelte politiche deliberate . Oltre ai vari applausi che hanno visto il vicepresidente alzarsi quasi ad ogni frase per applaudire, la prima interrompere al discorso è stata della rappresentante Marjorie Taylor Greene (R-Ga.) che ha gridato: “e l’omicidio di Laken Raley?”, che Biden forse già stanco, la ribattezza Lincoln Riley, un noto allenatore di football recentemente su tutti i giornali per i recenti successi sportivi.
Non poteva mancare un accenno alle politiche transgender che stanno da mesi infiammando gli animi di questa nazione per la partecipazione di maschi transgender fra le fila sportive femminili Anche qui, Biden le supporta facendo uno specifico accenno anche alle politiche di “trasformazione, o cambio di sesso”, dedicate ai più giovani. La broche di chiusura al discorso è ovviamente una ennesima critica al suo rivale politico, su quanto avvenuto il 6 gennaio di tre anni fa, prima del giuramento presidenziale, paragonando l’insurrezione all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.
Da giovedì tutte le affermazioni di Biden sono oggetto di dubbi e controversie, specialmente in relazione alle dichiarazioni sulla diminuzione della criminalità. Questa posizione è stata messa in discussione da fatti evidenti, come la decisione da parte del governatore dello Stato di New York insieme al sindaco di New York, Adams, di aumentare il numero delle forze dell’ordine soprattutto lungo i diversi percorsi della metropolitana, oggi soggetti a rapine e illeciti di ogni tipo. Il governatore in concerto con il sindaco, oltre aver aumentato il numero degli agenti di polizia, ha aggiunto 1000 soldati della guardia nazionale. Inoltre tutte le forze dell’ordine sono state autorizzare a perquisire qualsiasi borsa o valigia. Queste misure di sicurezza sono in risposta all’ aumento del 45% dei reati registrati questo gennaio rispetto all’anno precedente.
Ultimo a intervenire dal pubblico interrompendo il discorso del presidente urlando: “ Si ricordi di Abbey Gate”, è stato il padre di uno dei 13 marines uccisi durante la tragica evacuazione dall’Afghanistan). Allontanato subito dall’aula e arrestato, il grido è caduto nel vuoto. Più fortunati invece alcune decine di manifestanti che hanno tentato di bloccare l’accesso al Capitol in difesa dei palestinesi. Nessuno è stato ammonito o ammanettato.
L’infelice stato dell’Unione, definito così da molti è purtroppo facile da constatare, basti guardare la quantità di senza tetto, drogati e malati mentali in diverse città dell’unione, da Los Angeles, a Philadelphia, da Portland a San Francisco, da Chicago a Austin; l’assenza di una politica migratoria, le dimostrazioni anti-semite nei più prestigiosi campus universitari, che hanno visto il licenziamento dei rispettivi presidenti; ancora le feroci sparatorie su innocenti durante festeggiamenti, l’inflazione alta e un mercato immobiliare fermo.
Analizzando i sondaggi a ridosso del discorso presidenziale, secondo Hanson, classicista, storico militare e opinionista politico, Trump è in testa, soprattutto considerando quelle fasce di elettori che storicamente hanno sempre votato democratico. Questi risultati positivi per Trump tra gli afroamericani, i latinos e le donne delle zone rurali o suburbane sono una reazione alle insufficienze di questa amministrazione. Nel paese si percepisce un’atmosfera di malessere e dolore che politicamente si riflette sul presidente, da sempre individuato come il colpevole principale.
L’immigrazione tema di campagna elettorale negli Stati Uniti.
di Melissa de Teffé
Articolo originale pubblicato su Panoràmica Latinoamericana, plataforma informativa, de investigación y análisis, especializada en las relaciones birregionales Unión europea-América Latina y Caribe o CELAC-UE.
Entrambi il presidente Joe Biden e l’ex presidente Donald Trump hanno fatto visita al confine meridionale giovedì, per affrontare quello che oggi è considerato il problema cruciale di questa campagna presidenziale del 2024: l’immigrazione e il traffico di esseri umani.
Ad aprire le danze politiche, con mezz’ora di differenza è Trump, che da Eagle Pass, Texas, ormai simbolo di questa sfida politica, circondato da agenti federali e dal Governatore Greg Abbott, dopo un iniziale elogio per i risultati ottenuti dalle azioni di forza dei federali locali, ha proseguito citando alcune statistiche non verificabili: “milioni e milioni di persone hanno attraversato i nostri confini; potrebbero essere 15 milioni, potrebbero essere 18 milioni entro la fine del mandato presidenziale (di Biden). ….L’anno scorso quasi la metà di tutti gli arresti effettuati dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE) riguardavano criminali imputati, più di 33.000 aggressioni, 3.000 rapine, 6.900 furti, 7.500 crimini legati ad armi, 4.300 reati sessuali, 1.600 sequestri e 1.700 omicidi: questi sono i crimini commessi dalle persone che stanno entrando nel nostro paese e provengono dalle carceri, dalle prigioni, dagli istituti mentali e dagli ospedali psichiatrici. Sono terroristi a cui è permesso entrare nel nostro paese ed è terribile. Non solo dal Sud America, ma da tutto il mondo: dal Congo, con una popolazione molto numerosa che proviene dalle carceri, Cina, Iran, paesi non amici degli Stati Uniti.”
Per appesantire le accuse contro Biden, Trump cita l’orribile assassinio di Laken Riley, una studentessa di 22 anni laureata in infermieristica, uccisa il 22 febbraio, mentre faceva jogging vicino all’Università della Georgia, perpetrato da un illegale. Prima di giungere a Eagle Pass, Texas, l’ex presidente ha fatto visita ai genitori della giovane. Dopo aver dialogato con i Riley, ha dichiarato: «Sono individui straordinari profondamente colpiti al di là di ogni immaginazione».
Ma sono molti i conservatori del resto degli Stati Uniti che hanno identificato nella morte di Riley un esempio di crimine commesso da migranti, dopo che l’assassino, un venezuelano senza documenti, entrato illegalmente, è stato accusato in relazione alla morte della ragazza. Trump ha anche definito la crisi migratoria come «L’invasione di Joe Biden» è una «violazione brutale del nostro paese».
Biden, invece, dopo aver ringraziato gli agenti di frontiera per il loro lavoro, ha promesso che avrebbe inviato più risorse a supporto della crisi frontaliera. «È passato molto tempo dall’ultimo intervento», ha detto, aggiungendo che il controllo delle frontiere ha «disperatamente» bisogno di più risorse.
Biden ha continuato lanciando un appello diretto a Trump, invitandolo a unirsi a lui nell’esortare il Congresso a ratificare il disegno di legge. Quest’ultimo era stato bloccato quando Trump aveva mobilitato i suoi sostenitori nel Congresso contro di esso. «Tu e io sappiamo che è il disegno di legge sulla sicurezza delle frontiere più difficile, efficiente ed efficace che questo paese abbia mai visto», ha detto Biden. «Quindi, anziché fare politica usando questo problema, perché non ci uniamo e lo facciamo?”
Biden ha elogiato il disegno di legge bipartisan sulla frontiera come «una vittoria per il popolo americano», definendolo un «iniziativa veramente bipartisan». Ha esortato il Senato a riesaminare il disegno di legge, chiedendo ai senatori di «mettere da parte la politica» e a Mike Johnson, R-La., presidente della Camera, di portare il disegno di legge in aula. «Dobbiamo agire», ha detto Biden, aggiungendo che i repubblicani al Congresso devono «mostrare un po’ di fermezza».
La tanto attesa proposta di legge del Senato di 118 miliardi di dollari sulla “Sicurezza delle frontiere e aiuti in tempo di guerra», pubblicata domenica 4 febbraio, a cui si riferisce Biden è stata affondata. Insieme al finanziamento per l’Ucraina e Israele, così come all’assistenza umanitaria per le persone che fuggono da Gaza, questo disegno di legge rappresenta una riscrittura drammatica del sistema di asilo statunitense.
Dei 118$ miliardi, 60$ andrebbero all’Ucraina, 14,1$ a Israele, 4,83$ alla regione Indo-Pacifico, 10$ per aiuti umanitari per Ucraina, Israele, Gaza e pochi altri, 20$ per migliorare la sicurezza al confine americano, 2, 72$ per l’arricchimento dell’uranio. La maggior parte dei fondi destinati all’Ucraina, tuttavia, non verrà devoluta, invece, decine di miliardi di dollari affluiranno nelle casse del Pentagono per acquistare nuove armi da aziende statunitensi al fine di rimpinguare le riserve intaccate per aiutare l’Ucraina, finanziare operazioni militari e stipulare contratti per nuove armi per Kiev. Il senatore Rand Paul (R-Ky.), contrario a ulteriori finanziamenti per assistere l’Ucraina, ha scritto sui social media: «Quello che sappiamo ad oggi è: 60$ miliardi per il regime corrotto ucraino e nessuna vera sicurezza delle frontiere per il nostro paese». «Questo deve finire.» E supportando quanto scritto da Paul, prosegue il senatore Mike Lee (R-Utah) con tono sarcastico- «un fatto curioso: «... il bilancio del Corpo dei Marines degli Stati Uniti nell’anno fiscale 2023 era di 53,8 miliardi di dollari. Questo disegno di legge darebbe all’Ucraina più di 60 miliardi di dollari».
Dopo il discorso di Biden, la risposta di Trump attraverso il suo portavoce Karoline Leavitt, non si è fatta aspettare, ribattendo all’appello di Biden così: «Anziché scaricare la colpa su tutti tranne che su se stesso, Joe Biden dovrebbe assumersi la responsabilità della crisi al confine, delle morti e delle distruzioni che le sue politiche hanno causato, il come Laken Riley e utilizzare il suo potere esecutivo per chiudere il confine oggi».
Un sondaggio della NBC News di gennaio ha rilevato che il 57% degli elettori registrati ha dichiarato che Trump sarebbe più idoneo ad occuparsi della sicurezza al confine, mentre solo il 22% ha detto lo stesso riguardo a Biden. Essendo stato bocciato il progetto di legge che disciplina l’immigrazione, Biden sta valutando se usare il “Presidential Executive Order” o provvedimento presidenziale, per limitare le regole sull’asilo bypassando il Congresso. I sostenitori per una immigrazione “umana” dei migranti e democratici progressisti lo hanno esortato a non seguire questa strada, sostenendo che renderebbe più difficile per gli immigrati richiedere asilo, esponendoli a situazioni e condizioni pericolose in Messico.
Due anni di guerra russo-ucraina
di Claudio Bertolotti
Abstract
A due anni dall’inizio del conflitto russo-ucraino, la
situazione rimane critica, con un apparente stallo sul campo di battaglia che
cela complesse dinamiche e gravi conseguenze. La Russia ha mantenuto il
vantaggio tattico acquisito, consolidando il controllo sui territori occupati e
mostrando disinteresse per le proprie perdite, in una strategia che privilegia
le vittorie di grande risonanza mediatica. Al contrario, l’Ucraina, nonostante
l’aiuto occidentale sotto forma di equipaggiamenti avanzati, si trova in
difficoltà a causa della quantità insufficiente di sostegni, limitando la sua
capacità di recuperare i territori occupati. La stanchezza dell’Occidente
rischia di minare il supporto all’Ucraina, ignorando le implicazioni
strategiche di lungo termine e potenzialmente consentendo alla Russia di usare
i successi ottenuti per rafforzare le sue ambizioni future. Il conflitto
sottolinea l’importanza di un impegno rinnovato e di una riflessione strategica
per preservare l’ordine internazionale.
Due
anni di guerra russo-ucraina
All’alba
del secondo anniversario della guerra russo-ucraina, il conflitto rimane una
ferita aperta nell’ordine mondiale. Nonostante gli sforzi incessanti e gli
appelli internazionali alla pace, la situazione sul campo di battaglia riflette
una realtà segnata da un apparente stallo operativo che, tuttavia, nasconde
dinamiche complesse e conseguenze profonde.
Il vantaggio tattico inizialmente guadagnato dalla Russia è stato mantenuto nel corso di questi due anni, evidenziando una strategia militare che, nonostante le gravi perdite, ha permesso a Mosca di consolidare le sue posizioni nei territori occupati. Questo dominio tattico si è manifestato non solo attraverso la conquista territoriale ma anche tramite la capacità russa di infliggere significative perdite all’Ucraina, pur mostrando un disinteresse quasi totale per le proprie perdite. Questa indifferenza verso le perdite tra i soldati si inserisce in una narrazione più ampia che privilegia la vittoria in battaglie di alto impatto simbolico ed emotivo, mirando a rafforzare il sostegno interno e a intimidire la comunità internazionale.
Dall’altro lato, l’Ucraina, sostenuta da equipaggiamenti e munizioni di alto livello qualitativo forniti dall’Occidente, si trova di fronte a un’amara realtà. Nonostante la superiorità tecnologica di alcuni degli armamenti ricevuti, la quantità di questi sostegni si è rivelata insufficiente per ribaltare le sorti del conflitto. La scarsità di risorse ha limitato le capacità ucraine di lanciare offensive significative per liberare i territori occupati, congelando di fatto il conflitto in una logorante guerra di posizione.
L’impossibilità dell’Ucraina di avanzare significativamente sul campo di battaglia solleva ampi interrogativi sulla sostenibilità del sostegno occidentale. La stanchezza dei Paesi europei e dei contribuenti statunitensi si manifesta in una crescente riluttanza a investire in un conflitto che appare senza fine e, in ultima analisi, a svantaggio dell’Ucraina. Questa visione, seppur comprensibile alla luce degli ingenti costi umani ed economici, rischia di trascurare le implicazioni strategiche di lungo termine. La Russia, interpretando ogni cedimento o concessione occidentale come una vittoria, potrebbe utilizzare i successi territoriali e politici ottenuti per alimentare le sue future ambizioni, modificando irreversibilmente l’equilibrio geopolitico a suo favore.
Il fronte
Le truppe russe hanno intrapreso un’azione offensiva coordinata su vari fronti per raggiungere un traguardo operativamente significativo in Ucraina, un evento che non si verificava da oltre diciotto mesi. L’esito di questa avanzata nel settore Kharkiv-Luhansk rimane incerto, tuttavia, la pianificazione e l’implementazione iniziale di questa offensiva indicano cambiamenti importanti nella strategia operativa russa (Fonte ISW).
Fin dalla primavera del 2022, gli sforzi russi volti a conquistare città e villaggi di dimensioni ridotte nell’est dell’Ucraina non hanno raggiunto traguardi operativi di rilievo, nonostante tali azioni abbiano causato intensi combattimenti e gravi perdite sia per l’Ucraina che per la Russia. Durante l’offensiva di inverno-primavera del 2023, le forze russe hanno apparentemente puntato a obiettivi operativamente più ambiziosi, ma l’inefficacia della pianificazione e della realizzazione di tale offensiva ha impedito progressi significativi, di fatto non raggiungendo la maggior parte degli obiettivi prefissati.
Il disegno dell’offensiva russa
Fino ad ora, le offensive russe si sono concentrate sullo sforzo di grandi quantità di truppe contro singoli obiettivi (come Bakhmut e Avdiivka) o hanno compreso attacchi simultanei lungo linee di avanzamento troppo distanti per fornire reciproco sostegno e/o divergenti tra di loro. Al contrario, l’offensiva in atto nel settore Kharkiv-Luhansk si è sviluppata su attacchi lungo quattro direttrici parallele, strutturate in maniera coordinata al fine di collaborare vicendevolmente per raggiungere obiettivi multipli che, se conseguiti, potrebbero portare a vantaggi operativi determinanti per il proseguimento dell’azione offensiva. In particolare, il processo di pianificazione operativa di questa offensiva merita un’attenzione particolare poiché confermerebbe la capacità dei comandi russi di far tesoro delle lezioni apprese nelle più recenti battaglie, sia di successo che fallimentari (Fonte ISW). Tuttavia, le abilità tattiche russe in questa area non sembrano aver subito miglioramenti sostanziali rispetto al passato, almeno dal punto di vista tattico; un elemento che potrebbe contribuire, non tanto al fallimento dell’operazione complessiva, ma ad aumentarne i già elevati costi in termini di risorse materiali e umane.
Avdiivka: quanto è grave la caduta di questa
cittadina?
Avdiivka non è mai stata un obiettivo strategico, lo è su quello della propaganda strategica come lo è sul piano operativo e tattico. La sua caduta in mano russa ha avuto un forte impatto emotivo per gli ucraini, poiché è la prima città conquistata dai russi dopo Bakhmut, e segue la sfortunata offensiva ucraina lanciata prima dell’estate dello scorso anno. La sua conquista ha richiesto circa 4 mesi ai russi, a fronte di un elevato dispendio di risorse: ma è comunque una vittoria russa e una sconfitta ucraina e questo peserà sia sull’opinione pubblica russa, sia sul morale dei soldati ucraini.
L’importanza tattica di Avdiivka sta nell’essere a pochi chilometri dalla città di Donetsk, e da li le forze ucraine potevano colpire con l’artiglieria il capoluogo del bacino minerario del Donbass, di fatto rendendo la città il perno di manovra del dispositivo militare ucraino sul fronte di Donetsk. Ora questo è venuto meno, e le posizioni arretrate che le forze di Kiev hanno dovuto assumere sono sia uno svantaggio tattico per gli ucraini sia, e questo deve preoccuparci, la conferma di un indebolimento progressivo del fronte ucraino, anche in conseguenza delle disponibilità in termini di uomini e munizioni.
Potrebbe essere l’inizio di un’offensiva più vasta?
È la
lenta avanzata russa, che non si è mai fermata e che concentra in punti chiave
il proprio sforzo. I russi sono numericamente superiori in termini di
personale, artiglieria e aviazione. La quantità russa prevale sulla qualità
ucraina.
Il nord è un fronte che almeno al momento non sembra essere interessato dall’ipotesi di una nuova offensiva. Ma non si può escluderlo, e questo per la Russia è un vantaggio perché l’Ucraina è obbligata a tenere truppe ferme in attesa di contenere una qualsiasi minaccia su quel settore del fronte.
Oggi però
la grande offensiva russa è duplice: comunicativa e sul campo di battaglia. In
entrambi gli ambiti la Russia è molto aggressiva e capace di ottenere risultati
favorevoli. La disinformazione, la propaganda, il fatto che intellettuali e
giornalisti occidentali facciano da cassa di risonanza alla propaganda russa
sono elementi che confermano la scelta vincente di Mosca. Poi c’è l’offensiva
sul campo di battaglia: l’obiettivo primario di Mosca è l’Oblast’ di Luhansk,
per poi spingersi verso ovest nell’Oblast’ di Kharkiv orientale e, da qui,
circondare l’Oblast’ di Donetsk settentrionale e occuparlo.
Le direttrici dell’offensiva russa
La
campagna offensiva russa sta procedendo attualmente su quattro assi, da nord a
sud, includendo le aree intorno a Kupyansk e Synkivka; da Tabaivka a
Kruhlyakivka; da Makiivka a Raihorodka e/o Borova; e da Kreminna a Drobysheve
e/o Lyman.
Il
contingente militare russo dislocato nella regione occidentale ha amplificato
le sue attività offensive lungo l’asse Kupyansk-Svatove-Kreminna, concentrando
i suoi sforzi su quattro principali direzioni di movimento. Queste forze stanno
avanzando in maniera offensiva a nord-est di Kupyansk, a nord-ovest e a
sud-ovest di Svatove, nonché a ovest di Kreminna. Il raggruppamento occidentale
russo, che si compone principalmente di unità del distretto militare
occidentale (WMD), ha assunto la responsabilità dell’asse Kharkiv-Luhansk dopo
che la linea del fronte si è stabilizzata a seguito della riuscita
controffensiva ucraina nell’area di Kharkiv nell’autunno del 2022 (Fonte
ISW).
Il comando centrale delle forze (prevalentemente costituito da unità del Distretto Militare Centrale [CMD]) ha gestito la sezione meridionale di questo fronte in direzione di Lyman fino all’autunno del 2023, momento in cui il WMD avrebbe preso il comando della zona settentrionale vicino a Lyman, a seguito del trasferimento di un significativo contingente di truppe del CMD per supportare, all’inizio di ottobre 2023, l’attacco offensivo su Avdiivka nella regione di Donetsk.
Il 6
ottobre 2023, la 6ª Armata Combinata (CAA) e la 1ª Armata Corazzata della
Guardia (1ª GTA) del WMD hanno rilanciato un’offensiva localizzata a nord-est
di Kupyansk, incrementando sporadicamente le operazioni in altre aree vicino a
Kupyansk. Questo tentativo offensivo russo di avanzare verso Kupyansk da
nord-est ha tuttavia portato solamente a modesti successi tattici entro gennaio
2024 (Fonte
ISW).
A gennaio 2024, le autorità ucraine hanno segnalato con crescente frequenza che le forze russe stavano preparando il terreno per un’offensiva di più ampia portata sia nella direzione di Kupyansk che di Lyman. Le unità WMD hanno iniziato a intensificare le operazioni su quattro fronti lungo l’asse all’inizio di gennaio, e il capo della Direzione principale dell’intelligence militare (GUR) ucraina, il tenente generale Kyrylo Budanov, ha confermato l’inizio dell’offensiva russa d’inverno-primavera 2024 sull’asse Kharkiv-Luhansk, scattata il 30 gennaio (Fonte ISW).
Il tema delle armi: forniture di aerei F16 e
mancanza munizioni.
Dopo aver superato le varie linee rosse rispetto alle quali inizialmente era stato detto che non si sarebbe mai andati oltre, dalla fornitura prima di artiglieria, poi dei sistemi missilistici a medio raggio, e poi ancora i carri armati pesanti, è giunta l’ora degli aerei da caccia F16, che saranno un sollievo per Kiev, ma non determinanti se non accompagnati da un massiccio rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti pesanti.
Se Fino
allo scorso anno la qualità degli equipaggiamenti militari forniti
dall’Occidente e l’addestramento fornito ai soldati ucraini hanno compensato la
quantità degli arsenali russi che, per quanto obsoleti hanno comunque ottenuto
lo scopo di garantire alla Russia un vantaggio tattico pressoché costante in
questa lenta guerra di attrito e logoramento.
Ad oggi
l’Ucraina non ha più le forze sufficienti per la condotta di operazioni
offensive su media e larga scala. Di fatto archiviando qualunque ipotesi di
liberazione dei territori ucraini occupati dalla Russia. Gli aiuti militari
occidentali, che fino a oggi hanno consentito a Kiev di tenere il fronte,
conducendo una controffensiva lo scorso anno che si è rivelata molto
sfortunata, ma non sotto le aspettative
Quanto pesa non ricevere armi a sufficienza?
Gli aiuti
Occidentali sono stati e sono determinanti per l’esito della guerra. Se
proseguisse l’aiuto occidentale in maniera coerente con quanto fatto nei due
anni appena trascorsi, l’Ucraina potrebbe continuare a difendersi, tenendo le
attuali posizioni, ma nulla di più. Se diminuissero anche solo di poco,
l’Ucraina sarebbe destinata a soccombere alla pressione Russa, con un pericolo
concreto di crollo del fronte e avanzata di Mosca. Per consentire all’Ucraina
di imporre la propria volontà sul campo di battaglia e anche per non uscire
sconfitta all’eventuale tavolo negoziale, è necessario uno sforzo di molto
superiore a quanto fatto sino a oggi.
Gli avvicendamenti allo stato maggiore: indicatore
di forza o debolezza della politica di Zelensky?
Il cambio
ai vertici della difesa ucraina imposto da Zelensky è frutto di un braccio di
ferro tra due gruppi di pensiero. Da una parte l’entourage presidenziale che
insiste sul cambiamento, ad uso e consumo dell’opinione pubblica interna e
degli alleati all’estero, con un “cambiamento” da realizzare. E
dall’altra parte c’è “l’entourage della Difesa, che insieme alla massa dei
soldati, guardava a Valerii Zaluzhny come punto di riferimento
importante”, un “uomo straordinario perché è riuscito a fare
moltissimo con poco” ed è “riuscito a impiegare in maniera
estremamente razionale le truppe sul terreno nonostante le direttive politiche
a cui si è dovuto piegare” archiviando “la dottrina militare
ereditata dall’Unione sovietica e sposando fin da subito l’approccio
occidentale della Nato, anche rispetto alla struttura delle Forze Armate
ucraine”. Con la nomina a capo di stato maggiore della difesa del generale
Oleksandr Syrsky, appartenente alla generazione precedente rispetto Zaluzhny,
il rischio è quello di tornare a vedere meno innovazione ma, elemento di
maggior conto, vedere diminuire l’entusiasmo dei soldati così come lo abbiamo
visto con il suo predecessore. Ma un cambiamento, almeno sul piano politico,
era opportuno, e così è stato.
Lotte intestine sul reclutamento di migliaia di
giovani che Zelensky a quanto pare non vuole.
La
mancanza di armi e munizioni è un problema, ma oggi, a due anni dall’inizio
della guerra, il problema più grande è la diminuzione del potenziale umano.
Mancano i soldati, specialmente i giovani. Chi è al fronte ha un’età media
molto elevata, con soldati di 45 anni che combattono da due anni, molti con
brevi periodi di riposo, altri senza mai essere stati sostituiti.
Preoccupa
l’elevato dato di possibili renitenti alla leva tra i più giovani, forse
800.000, molti dei quali fuggiti all’estero. Una chiamata di massa potrebbe
rivelarsi un boomerang per un Zelensky nei confronti del quale il sostegno
entusiastico dell’opinione pubblica, ucraina e straniera, ha cominciato a
ridursi progressivamente. Lo scontro è prevalentemente politico, tra chi spinge
per un accordo negoziale e chi invece vuole proseguire la guerra a oltranza.
In
conclusione, il secondo anniversario della guerra russo-ucraina non è soltanto
un tragico promemoria della persistente violenza e instabilità nella regione,
ma anche un monito sulle sfide future che attendono la comunità internazionale.
Affrontare queste sfide richiederà non solo un rinnovato impegno verso
l’Ucraina ma anche una riflessione strategica più ampia su come preservare
l’ordine internazionale di fronte a un aggressore determinato a riscrivere le
regole attraverso la forza.
Il petrolio ombra di Mosca: il segreto della buona economia russa.
di Andrea Molle
Abstract (Italian)
Questo articolo esamina l’origine della robusta condizione finanziaria della Russia alle soglie del terzo anno del conflitto in Ucraina, rilevando come il sostanziale afflusso di denaro dalle esportazioni di petrolio, in particolare all’India, abbia rafforzato le casse dello Stato russo. L’Autore, discute inoltre sul ruolo della Flotta Ombra del Cremlino, una forza marittima clandestina che elude le normative internazionali, facilitando il commercio di petrolio e oro insanguinato e contribuendo a mantenere il flusso di entrate verso la Russia. Infine, viene analizzata la dipendenza dell’India dal petrolio russo come strategia per mantenere stabili i prezzi globali del petrolio, nonostante le critiche internazionali.
Keywords:
Petrolio, flotta ombra, economia russa
L’economia
russa è robusta
La Russia, nel terzo anno del conflitto in Ucraina, si
trova in una posizione finanziaria robusta, con le casse dello Stato rifornite
da un notevole afflusso di denaro. Nel 2023, le entrate federali della Russia
hanno raggiunto un record di 320 miliardi di dollari e si prevede che
continueranno ad aumentare. Secondo alcuni analisti, circa un terzo di queste
entrate è stato destinato alla guerra in Ucraina l’anno precedente, mentre una
percentuale ancora maggiore finanzierà il conflitto nel 2024. I notevoli fondi
a disposizione del Cremlino posizionano Mosca in una posizione più favorevole
per sostenere una guerra prolungata rispetto a Kiev, che lotta per mantenere il
vitale flusso di denaro occidentale.
Oltre all’oro insanguinato proveniente dall’Africa,
questo incremento di entrate è stato alimentato dalle vendite eccezionali di
petrolio grezzo all’India. Transazioni che hanno generato introiti stimati
intorno ai 37 miliardi di dollari a cui si aggiungono circa 1 miliardo di
dollari provienienti dal petrolio raffinato in India e poi esportato negli
Stati Uniti. Tale flusso di entrate è il risultato diretto dell’aumento degli
acquisti di petrolio russo da parte di Delhi, che secondo un’analisi del Centre
for Research on Energy and Clean Air (CREA), riportata di recente dalla CNN,
ora superano di 13 volte i livelli prebellici.
L’analisi delle
rotte di trasporto del greggio
L’analisi delle rotte di trasporto del greggio suggerisce
inoltre un coinvolgimento della cosiddetta Flotta Ombra del Cremlino. Con
questo termine ci si riferisce a una forza marittima clandestina russa,
composta da navi che operano al di fuori delle norme marittime internazionali.
L’indagine sulla Flotta Ombra è iniziata nei primi anni 2010, quando le
principali agenzie di intelligence occidentali e diversi analisti marittimi
hanno notato comportamenti sospetti in navi russe o battenti bandiere di
paradisi fiscali. Queste navi sono spesso osservate ad operare in aree
strategicamente significative, come vicino a cavi di comunicazione sottomarini
e installazioni militari, spesso spegnendo i loro sistemi di identificazione
automatica per sfuggire al monitoraggio. Le implicazioni della Flotta Ombra
russa sono molteplici e tutte potenzialmente pericolose. In primo luogo, c’è
preoccupazione per il suo ruolo nel sostenere le operazioni militari russe e
nel violare le norme internazionali e le leggi marittime. La presenza di questa
flotta mina la sicurezza e la stabilità marittime globali, complicando gli
sforzi affinchè la Russia sia tenuta a rispondere delle sue azioni illegali in
mare. Una delle attività tipiche della Flotta Ombra nel settore petrolifero è
lo scambio di greggio tra due navi con l’obiettivo di mascherarne l’origine e
la destinazione finale, confondendo le autorità riguardo alla provenienza e
all’acquirente finale. Decine di tali trasferimenti avvengono ad esempio ogni settimana
nel Golfo Laconico in Grecia, un punto di passaggio strategico verso il Canale
di Suez e i mercati asiatici. Alla fine del 2022, con il supporto di diversi
paesi, gli Stati Uniti hanno imposto un limite di prezzo, impegnandosi a non
acquistare petrolio russo oltre i 60 dollari al barile.
La flotta ombra
Questi paesi hanno anche vietato alle proprie compagnie
di navigazione e di assicurazione, attori chiave nel trasporto marittimo
globale, di facilitare il commercio di petrolio russo oltre tale prezzo.
Tuttavia, questo limite di prezzo ha paradossalmente alimentato la creazione
della Flotta Ombra. Con catene di approvvigionamento più lunghe, è infatti più
difficile individuare i trasferimenti da nave a nave e determinare il costo
effettivo di un barile di petrolio russo e diventa facile aggirare le sanzioni.
La Flotta Ombra ha pertanto consentito alla Russia di creare una rete di
navigazione fantasma parallela a quella legale, in grado di eludere il
monitoriaggio e aggirare le sanzioni occidentali, con centinaia di petroliere
la cui proprietà non è chiara e che seguono rotte così complicate da risultare
impossibili da seguire. Secondo le analisi effettuate grazie all’intelligenza
artificiale della società di analisi marittima Windward, questa flotta è
cresciuta fino a includere nel 2023 circa 1.800 navi.
In questo quadro, gli acquisti di petrolio da parte
dell’India hanno avuto l’effetto di alleviare la pressione delle sanzioni sulla
Russia. L’India difende le sue politiche di approvvigionamento energetico da
Mosca come un modo per mantenere i prezzi globali del petrolio più stabili,
evitando di competere con le nazioni occidentali per il petrolio del Medio
Oriente. Il governo di Delhi ha dichiarato che qualora l’India dovesse smettere
di comprare greggio da Mosca e più petrolio dal Medio Oriente, il prezzo del
petrolio salirebbe a 150 dollari avviando una spirale di aumento dei costi che
il mondo non può permettersi. Ma una parte di questo petrolio grezzo viene
raffinato nelle raffinerie lungo la costa occidentale dell’India e
successivamente esportato negli Stati Uniti e in altri paesi che hanno imposto
sanzioni sul petrolio russo. Questi prodotti raffinati, non essendo soggetti a
sanzioni, costituiscono ciò che gli analisti chiamano la “scappatoia delle
raffinerie”. Sempre secondo l’analisi del CREA, gli Stati Uniti sono stati
il principale acquirente di prodotti raffinati dall’India derivati dal petrolio
grezzo russo nel 2023, per un valore di 1,3 miliardi di dollari. E il valore di
queste esportazioni di prodotti petroliferi aumenta notevolmente quando si
considerano anche gli alleati degli Stati Uniti che applicano sanzioni contro
la Russia. Il CREA ha stimato che questi paesi abbiano importato prodotti
petroliferi dal petrolio grezzo russo per un valore di 9,1 miliardi di dollari
nel 2023, registrando un aumento del 44% rispetto all’anno precedente.
Mosca ha beneficiato di questo processo sia attraverso la
tassazione diretta delle esportazioni che attraverso i profitti ottenuti da
Rosneft, la società petrolifera di stato russa, nell’ambito della raffinazione
e dalla rivendita ai paesi occidentali.
Entrate e spese
russe: un record
Secondo un’analisi condotta dal think tank RAND sui conti
del Ministero delle Finanze russo, nel 2023 le entrate e le spese federali
della Russia hanno raggiunto entrambe livelli record. Sebbene per adesso Mosca
non sia ancora arrivata al pareggio di bilancio, a causa del pesante costo
della guerra e delle perdite di entrate dovute in generale alle sanzioni il
deficit di bilancio federale è in tendenza decrescente. Le imposte interne
sulla produzione e sull’importazione sono entrambe significative ed efficienti,
il che implica che la popolazione russa è pesantemente tassata per finanziare
il conflitto. Tuttavia, gli analisti avvertono che in questo quadro economico
anche la più piccola violazione delle sanzioni contro la Russia può generare
ingenti profitti, date le enormi somme coinvolte nel commercio petrolifero e
dell’oro, e questo potrebbe portare il regime a diminuire la pressione fiscale
generando un maggior supporto per le operazioni militari correnti e future. Per
questo è di primaria importanza affrontare efficacemente questa minaccia con
una maggiore vigilanza, cooperazione e impegno diplomatico internazionale che
includa nuove misure contro le navi della Flotta Ombra e le aziende sospettate
di agevolare il trasporto illegale del petrolio e dell’oro russo.
Proxy War: il ruolo di Teheran nello scacchiere mediorientale
di Andrea Molle
La teoria della guerra
per procura, o Proxy War Theory, si basa sull’idea che gli attori statali
egemoni, noti come “mandanti” o “principali”, possano
perseguire i propri interessi attraverso attori non statali, chiamati
“agenti”, che agiscono come intermediari per conto dei mandanti.
Questo modello è spesso associato alle guerre, dove gli attori principali
cercano di raggiungere i propri obiettivi senza coinvolgimento diretto in
azioni ostili. Tuttavia, questa dinamica può estendersi anche a periodi di pace
relativa, evidenziando la complessità delle relazioni internazionali. La teoria
mette in luce il ruolo degli attori intermediari nel facilitare o esacerbare le
tensioni internazionali. Gli Stati possono influenzare gli eventi globali
attraverso questi proxies, che possono essere gruppi ribelli, milizie o altre
entità non statali. L’approccio analitico implicito a questa teoria offre una
prospettiva approfondita sulla natura delle alleanze, dei conflitti e delle
strategie di potere a livello globale. In sostanza, la Proxy War Theory
fornisce un quadro concettuale per comprendere come gli attori statali possano
agire indirettamente attraverso terze parti per perseguire i propri interessi,
sia durante i periodi di conflitto aperto che in tempi di relativa pace. La sua
applicazione consente di esaminare in modo critico le dinamiche complesse delle
relazioni internazionali, evidenziando le connessioni e le influenze nascoste
che possono sfuggire a una visione superficiale degli eventi globali.
Sotto il profilo formale,
un elemento cruciale della Proxy War Theory è la complessità delle relazioni
tra gli agenti e i principali. A un livello di base, gli Stati detti principali
possono fornire sostegno finanziario, militare o politico agli agenti non
statali, consentendo loro di operare più efficacemente sul territorio.
Tuttavia, questa dinamica è spesso caratterizzata da un’asimmetria di potere e
di informazioni, creando un contesto in cui il principale cerca di massimizzare
il proprio controllo, guidando le azioni dell’agente in linea con i propri
interessi. In generale, la decisione di impiegare proxy può derivare da diverse
decisioni o condizioni strategiche. Ciò può includere il desiderio di mantenere
una certa distanza da azioni dirette, come quelle di natura militare, o
risolvere impasse diplomatiche. L’utilizzo di agenti non statali può anche
offrire l’opportunità di sfruttare risorse locali e competenze specifiche dei
gruppi coinvolti, consentendo al principale di perseguire obiettivi attraverso
terzi attori senza esporsi direttamente. Inoltre, situazioni in cui il
principale non dispone delle risorse necessarie per perseguire autonomamente i
propri obiettivi possono motivare l’adozione di questa strategia indiretta.
Attualmente, chiunque
osservi il coinvolgimento dell’Iran nel Medio Oriente non può ignorare le
complesse dinamiche in atto. Nel corso degli anni, Teheran ha sostenuto diversi
gruppi regionali, influenzando gli sviluppi nel teatro mediorientale senza farsi
coinvolgere direttamente in operazioni militari. Con astuzia, l’Iran ha tessuto
una rete intricata di proxies in vari paesi, utilizzandoli come strumenti per
perseguire i propri interessi strategici a medio e lungo termine. Questi
intermediari, costituiscono attualmente un elemento cruciale nella politica
estera iraniana, permettendo a Teheran di estendere la sua influenza e avere un
impatto significativo sulle dinamiche regionali senza esporsi direttamente o impegnare
risorse che attualmente potrebbero non essere disponibili.
Tra i gruppi attualmente controllati a diversi livelli dalla Repubblica Islamica, è importante menzionare innanzitutto Hezbollah. Fondato nel 1982 durante l’occupazione israeliana del Libano, il movimento sciita Hezbollah è attualmente il principale agente dell’Iran. Questa organizzazione è nota sia per le sue capacità militari che per la sua ostilità verso Israele ed ha guadagnato notevole sostegno, sia politico che sociale, in Libano. Hezbollah è stato coinvolto direttamente in conflitti regionali, incluso il sostegno al regime di Bashar al-Assad nella guerra in Siria. Le milizie Houthi, conosciute anche come Ansar Allah, sono anch’esse sostenute dall’Iran nella lotta contro il governo yemenita appoggiato dall’Arabia Saudita. Il sostegno iraniano include forniture di armi e addestramento, alimentando oggi il conflitto nello Yemen e le tensioni nel Mar Rosso. In Iraq, diverse milizie paramilitari sostenute dall’Iran operano con una certa autonomia, emergendo durante l’occupazione statunitense e consolidando la loro presenza nel tempo, partecipando anche alle operazioni in Siria e in altri contesti regionali. In Siria, l’Iran ha offerto sostegno a diverse milizie e gruppi armati locali che combattono al fianco del regime di Bashar al-Assad nella guerra civile. Infine, Hamas. La relazione tra l’Iran e Hamas è complessa. Nonostante il sostegno finanziario e logistico evidente, la natura di questa connessione non è così chiara come nei casi di altri gruppi. Mentre ci sono prove di un livello di supporto iraniano, la relazione non è così diretta come nel caso di Hezbollah o dei gruppi in Iraq e Yemen. Alcuni analisti notano variazioni nel sostegno iraniano a Hamas nel tempo, con fasi di collaborazione e distanziamento. Pertanto, la definizione di Hamas come proxy dell’Iran richiede un approccio più sfumato rispetto ad altri gruppi nella regione.
Mentre l’Iran vede
indubbiamente in questi gruppi lo strumento ideale per perseguire i propri
interessi strategici in Medio Oriente, l’analisi di queste relazioni rivela
dinamiche complesse e sfide legate alla gestione delle alleanze e alla ricerca
di una coerenza di obiettivi tra Teheran e i suoi proxies. La presenza e
l’azione di questi proxies contribuiscono certamente a ridefinire gli equilibri
di potere nella regione e ad influenzare le dinamiche geopolitiche su scala
globale. Tuttavia, sottostà a un rapporto complesso in cui Teheran, nonostante
il sostegno finanziario e militare fornito ai suoi proxies, sembra non poter
contare sul loro completo controllo. L’intelligence statunitense stima infatti
che diversi gruppi, tra cui le milizie Houthi e quelle operanti in Iraq e
Siria, agiscano ormai in modo relativamente autonomo, mostrando interessi e
ambizioni divergenti da quelli di Teheran e rischiando di portare il paese
sull’orlo di un conflitto che non può certamente permettersi.
Chi si avvicina a queste
problematiche con l’idea che esista una relazione deterministica e gerarchica
esclusiva tra il principale e l’agente fatica a comprendere le ragioni di
questa contingenza, ma per la Scienza Politica, ciò non rappresenta certo una
novità. L’emergere di conflitti di interessi tra il principale e i proxies può
generare divergenze operative e decisioni autonome da parte di questi ultimi.
Inoltre, informazioni asimmetriche e mancanza di controllo sui processi
decisionali possono complicare la gestione delle esigenze operative a breve
termine e generare incertezze nelle risposte di tutti gli attori coinvolti,
compresa la comunità internazionale.
Questa situazione è
conosciuta in Economia come il “problema principale-agente”, in cui
possono emergere conflitti di interessi dovuti a divergenze di priorità che
portano gli agenti a agire in modo autonomo e indipendente dal principale. Le
potenziali implicazioni della mancanza di controllo sono significative sia per
la situazione geopolitica della regione che per determinare i parametri di
risposta delle potenze occidentali, ad esempio nel caso degli attacchi alle
imbarcazioni commerciali o contro le loro truppe presenti nel teatro operativo.
L’intelligence americana
e dei paesi NATO, pur riconoscendo il sostegno iraniano e la natura della
relazione principale-agente, non attribuisce pertanto direttamente a Teheran la
progettazione e l’esecuzione di tali attacchi. Ciò genera incertezza sulle contromisure
da adottare, poiché non è chiaro fino a che punto l’Iran sia coinvolto o
responsabile, ma allo stesso tempo riduce la probabilità di un coinvolgimento
diretto degli Stati Uniti e dell’Europa in un conflitto aperto con l’Iran.
Questo scenario complica comunque la reazione politica e le decisioni operative
degli attori occidentali, che devono considerare la disparità di interessi tra
Teheran e i suoi proxies. Infine, la mancanza di un controllo totale su gruppi
come gli Houthi suggerisce che la cessazione di conflitti specifici, come
quello a Gaza, potrebbe non portare automaticamente a una pausa delle ostilità
da parte dei proxies iraniani.
Questa riflessione è di
estrema importanza poiché mette in discussione alcuni concetti consolidati
diventati dogmi nell’analisi geopolitica dei conflitti in Medio Oriente. Un’applicazione
accorta della Proxy War Theory mina in particolare la presunta relazione
causale tra gli attacchi nel Mar Rosso e in Iraq e la guerra tra Israele e
Hamas. Sebbene l’avvio delle operazioni dell’IDF nella Striscia di Gaza abbia
probabilmente contribuito all’estensione del conflitto, l’idea che la fine
delle ostilità tra Israele e i palestinesi porti automaticamente alla
cessazione dei conflitti nelle zone circostanti è ingenua e priva di
fondamento. Esistono diversi motivi per questa conclusione.
Innanzitutto, il contesto
delle operazioni di questi agenti nel teatro precede gli eventi del 7 ottobre
2023, sebbene l’intensità e la natura dei loro obiettivi siano cambiate.
Inoltre, non si può escludere che l’Iran abbia interesse a prolungare gli
scontri per creare un nuovo status quo che gli permetta maggior spazio di
manovra sulla sua politica nucleare. È importante considerare anche che altri
attori internazionali, come Russia o Cina, che sono in qualche modo
“principali” dell’Iran, potrebbero trovare la situazione utile per
raggiungere i propri obiettivi strategici, come ad esempio indebolire le
economie occidentali o testare/erodere le capacità militari della NATO. Infine,
come emerge dalla discussione precedente, non è scontato che siano solo i
proxies iraniani a non essere influenzati da ragioni diplomatiche.
Attacco a Parigi: terrorismo emulativo ed effetti della guerra Israele-Hamas (#ReaCT2023)
di Claudio Bertolotti
Estratto dell’articolo pubblicato sul 4° Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa, #ReaCT2023, ed. START InSight.
2 dicembre. Un uomo si è lanciato contro i passanti uccidendo una persona e ferendone altre a Parigi, nel quartiere di Grenelle, poco lontano dalla Tour Eiffel, gridando “Allah Akbar”. Lo ha reso noto il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin. L’assalitore è stato fermato dalle forze dell’ordine: l’aggressore ha 25 anni ed era schedato “S”, cioè a rischio radicalizzazione (ANSA).
Un evento, quello descritto, che può richiamare l’ondata di violenza jihadista associata all’appello dell’organizzazione palestinese “Hamas”, e subito ripresa dalla succursale afghana dello Stato islamico, che si inserisce nel filone di azioni terroristiche emulative, individuali e non organizzate che negli ultimi anni hanno più colpito la Francia, il Paese che si conferma essere tra i principali obiettivi del jihadismo in Europa.
La
violenza jihadista in Europa: una minaccia marginale ma persistente con
conseguenze devastanti.
A livello globale, il cosiddetto
gruppo Stato Islamico non ha più la
capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e
finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano
una minaccia non marginale. Anche se lo Stato
Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che
riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha
ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla
guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in
Afghanistan ha, a sua volta, alimentato la propaganda jihadista e la
competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere
l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. Un
effetto ancora maggiore deriverebbe dalla guerra Israele-Hamas, dall’appello
dei terroristi palestinesi a colpire Israele e tutti i suoi alleati e dall’adesione
individuale di terroristi improvvisati così come dall’adesione politica e
ideologica dello Stato islamico della
provincia di Khorasan in Afghanistan (Islamic
State Khorasan Province, ISKP), erede dello Stato islamico in Siria e Iraq (ISIS).
Guardando ai paesi dell’Unione
Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero
totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la
minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime ed
effetti diretti.
In seguito ai principali eventi
di terrorismo legati al gruppo Stato
Islamico in Europa, dal 2014 al 2023 si sono verificate oltre 200 azioni
jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 36 sono state
esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato
Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 236
terroristi (63 uccisi in azione); 432 vittime hanno perso la vita e 2.515 sono
rimaste ferite.
Rilevante è il numero di azioni
emulative: il 48% del totale nel 2020, salite al 56% nel 2021, diminuite al 17%
nel 2022, per poi tornare a salire in maniera rilevante nel 2023, in
concomitanza con gli appelli alla violenza di Hamas e della Jihad islamica palestinese, rilanciati con
efficacia dall’ISKP afghano. Il 2022-2023 ha confermato anche la predominanza
di azioni individuali, non organizzate, principalmente improvvisate e fallite
che sostituiscono di fatto le azioni strutturate e coordinate che avevano
caratterizzato il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni dal
2015 al 2017.
Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence
Il profilo dell’attentatore del 2 dicembre a Parigi,
già noto alle forze di sicurezza, precedentemente coinvolto in azioni
terroristiche e classificato come a “rischio di radicalizzazione”, è coerente
con quello di molti terroristi che hanno colpito in precedenza. Un fatto che
conferma come il ruolo giocato dai recidivi – individui già condannati per
terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro condanna detentiva
e, in alcuni casi, in prigione – non sia trascurabile; erano il 3% dei
terroristi nel 2018, poi saliti al 7% nel 2019, al 27% nel 2020. Un’evidenza
che confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una
condanna detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche;
questa evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei
prossimi anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi
attualmente detenuti.
In parallelo ai recidivi, START InSight ha
riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da
terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei
che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022,
nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.
Vi è una certa stabilità riguardo alla
partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in
carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11%
nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021,
33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma
l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.
Quale è oggi la capacità offensiva del terrorismo?
Ci sono alcuni fattori che indicano una possibile
riduzione della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento
delle misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore
cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle
strutture organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro
capacità di reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del
terrorismo, è necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si
sviluppa e opera: il livello strategico, operativo e tattico. La strategia
consiste nell’impiego del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego
delle truppe per la battaglia; il livello operativo si trova tra questi due.
Questa è una semplice sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale:
l’impiego di combattenti.
Il
successo a livello strategico è marginale
Come anticipato con il rapporto #ReaCT2022 e poi
richiamato in #ReaCT2023, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di
successo a livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze
strutturali consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale
e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di
vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le
limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti
solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una
progressiva riduzione della capacità ed efficacia con il passare del tempo.
Nel complesso, gli attacchi hanno attirato
l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello
nazionale, mentre le azioni commando
e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei
media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato
significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti
jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di
attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza
dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero
che questa attenzione tende a diminuire nel tempo poiché sono aumentate le
azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta intensità – che sono
diminuite – mentre le azioni a bassa e media intensità sono aumentate significativamente
dal 2017 al 2021.
Il
livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo
Assumendo che lo scopo degli
attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei
casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato
raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, si
rileva un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi
a bassa intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare. In
particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a
livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli
insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un
tasso di fallimento del 20%. Un trend
complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a
livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un
ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il
risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi
e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi
suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il
carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed
emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel
2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una
nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.
Anche quando fallisce, il terrorismo ottiene una vittoria
Il
vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco
funzionale”.
Anche
quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo
obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo
straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone
l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i
servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità
collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle
attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle
comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio
tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in
generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla
capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini
è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.
In
altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può
comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il
comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di
sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo
“blocco funzionale”.
Nonostante la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un “blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del 92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio è senza dubbio a favore del terrorismo.
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