Abstract: Questo articolo delinea un’ipotesi di riforma dell’intelligence italiana basata su recenti dibattiti teorici, nonché sulla storia del sistema informativo della Repubblica. Dopo aver illustrato le principali difficoltà a cui i servizi d’informazione occidentali si trovano a far fronte, discute alcuni costrutti teorici emersi negli ultimi anni per guidare riforme dei sistemi d’intelligence ed analizza brevemente alcuni episodi rilevanti tratti dalla storia dell’apparato informativo italiano nel periodo repubblicano. L’articolo conclude infine con alcune indicazioni su come procedere a riformare il sistema.
Alcune
settimane fa i quotidiani hanno riportato la notizia che il
sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Autorità delegata per la
sicurezza della Repubblica (AD) Alfredo Mantovano intende entro la fine dell’anno sottoporre al
Parlamento una bozza di riforma dell’apparato di intelligence.[1]
La materia è estremamente complessa non solo per via della segretezza che
circonda l’ambito delle informazioni per la sicurezza e di una generalizzata scarsa
familiarità con il tema, ma anche perché la riforma di un apparato informativo
presenta dilemmi di funzionalità ed efficacia, così come di controllo e
responsabilità democratica. Se questi ultimi si sono già profilati nelle poche
notizie riportate dai quotidiani, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda
i primi. La funzionalità e l’efficacia di un sistema di intelligence
rivestono tuttavia enorme importanza, dal momento che la decisione politica si
basa necessariamente sulla disponibilità di informazioni e che, in presenza di
un apparato disfunzionale, i decisori politici tenderanno a reperire altrove e
in autonomia le informazioni che ritengono necessarie all’esercizio del proprio
ruolo, con rischi tutt’altro che trascurabili per quanto riguarda il controllo
effettivamente esercitabile dalle autorità preposte circa la democraticità dei
processi attraverso cui tali informazioni vengono prodotte.
In un noto studio di alcuni anni fa lo storico di Harvard
Ernest May concluse che l’architettura organizzativa di un sistema di intelligence
non sembrava avere un impatto determinante sulla performance dello
stesso.[2] Negli
ultimi anni tuttavia tale conclusione, basata del resto sullo studio dei
periodi precedenti le due guerre mondiali, è stata sempre più spesso messa in
discussione, e attualmente il consenso tra gli studiosi è che l’organizzazione
sia una delle variabili chiave nel determinare l’efficacia di un sistema di intelligence
nel processo di raccolta e analisi delle informazioni, e dunque la sua capacità
di generare “conoscenza” utile a prendere decisioni politiche suscettibili di
avere un impatto sull’ambiente strategico di riferimento.[3]
Alla base di tale nuovo consensus vi sono due elementi: i rimarchevoli
cambiamenti intervenuti nel contesto strategico-operativo in cui gli apparati
informativi occidentali sono chiamati ad operare, ed un’evoluzione sempre più
rapida nelle tecnologie rilevanti per l’attività di raccolta e analisi delle
informazioni.[4] Da un lato, i servizi di
informazione operano oggi in un ambiente strategico instabile e soggetto a
mutamenti estremamente rapidi, il che produce significativi cambiamenti
nella natura del lavoro di intelligence, in particolare la necessità di identificare e monitorare
entità e minacce “nascoste”, e “processi emergenti”. Dall’altro, sono costretti a confrontarsi con un ciclo
di innovazione tecnologica estremamente rapido che a sua volta genera una sfida
di acquisizione, integrazione e innovazione particolarmente problematica per
organizzazioni di dimensioni medio-piccole.
E proprio problemi inerenti all’assetto organizzativo
sembrano essere alla base della proposta di riformare il sistema italiano
recentemente resa pubblica: come sottolineato in diverse occasioni da addetti
ai lavori infatti, l’efficacia dell’apparato informativo della Repubblica è
minata dalla persistente frammentazione tra le tre componenti del sistema.[5]
La soluzione individuata dall’AD per questo annoso problema si è orientata
dunque verso la “centralizzazione”, ovvero la creazione di un unico servizio
informazioni con competenze sia sul territorio nazionale che all’estero. Il
tema della centralizzazione non è nuovo al dibattito italiano sulla politica
dell’informazione per la sicurezza: una proposta per la creazione di un
servizio informativo unico fu infatti avanzata già nel 1993 da parte del
governo Ciampi.[6] Una riforma di questo tipo
appare tuttavia oggi di difficile realizzazione, non solo per i numerosi
ostacoli tecnici e burocratici a cui potrebbe andare incontro, ma anche alla
luce dei timori e resistenze che, sulla scorta della travagliata storia degli
apparati informativi nell’Italia repubblicana, la proposta di creare un
servizio informazioni unificato potrebbe generare in parte della classe
politica e dell’opinione pubblica.
In ogni caso la creazione di un servizio unico non
rappresenta la sola possibile soluzione al problema della frammentazione. La
recente letteratura di studi sull’intelligence, così come la storia dell’apparato
informativo italiano, offrono al contrario alcune preziose indicazioni per
sviluppare linee generali di riforma alternative mantenendo la attuale
struttura triangolare che, oltre a risolvere il problema della frammentazione, consentirebbero
di affrontare in maniera adeguata le sfide precedentemente menzionate ed assicurare
efficacia e rilevanza alla funzione d’intelligence nel contesto italiano
nei prossimi anni.
Un primo spunto potrebbe venire dal relativamente recente
concetto di “Revolution in Intelligence Affairs” (RIA) epigono del più
noto costrutto di “Revolution in Military Affairs” coniato negli anni
90. La nozione di RIA contiene tre prescrizioni fondamentali per riformare le strutture
delle organizzazioni di intelligence ed adattarle nella maniera migliore all’ambiente
informativo attuale e futuro. Anzitutto, acquisizione e integrazione su base
continuativa di intelligenza artificiale, sensori all’avanguardia e tecnologie
di automazione. In secondo luogo, promozione da parte dei vertici delle
organizzazioni di intelligence di cambiamenti organizzativi volti ad integrare
raccolta e analisi, generare un certo grado di ridondanza organizzativa tra le
varie componenti del sistema, e creare meccanismi più rapidi per la diffusione
in tempo reale ai decisori a tutti i livelli (oltre a sviluppare concetti
operativi per il teaming uomo-macchina che ottimizzino i punti di forza di ciascuno).
Da ultimo, i sostenitori della RIA ritengono che in futuro la maniera più
efficiente di operare per un sistema di intelligence sia ridurre la
sequenzialità delle operazioni a beneficio di una maggiore sincronia nelle
quattro funzioni fondamentali di pianificazione, raccolta, analisi e disseminazione.
Il concetto di RIA, per quanto utile come
costrutto-guida generale, potrebbe tuttavia in una certa misura risultare di
limitata rilevanza per un sistema di intelligence come quello italiano,
estremamente diverso per obiettivi, dimensioni, grado di tecnologizzazione, e
risorse da quello statunitense, in relazione a cui è stato sviluppato. Elementi
di riferimento più concreti potrebbero venire dal concetto di “integrazione” (Jointness)
applicato all’ambito informativo, dibattuto ed impiegato come principio guida
per vari cicli di riforme in seno all’intelligence israeliana. Esso si
fonda sull’ampio consenso esistente negli studi di teoria dell’organizzazione
circa la necessità, per un’organizzazione che
aspiri ad operare in maniera efficace in un ambiente complesso e mutevole, di
mantenere un alto livello di specializzazione delle varie componenti del
sistema nonché di assicurare meccanismi di interazione estremamente flessibili
tra le stesse al fine di integrare al massimo grado le competenze.[7]
Nel
dibattito israeliano con il concetto di “integrazione” si è inteso delineare un
nuovo tipo di assetto organizzativo per il sistema di intelligence che
si spingesse oltre la mera istituzionalizzazione di forme di collaborazione e
cooperazione, come ad esempio la condivisione di strutture e prodotti o i
tavoli di lavoro pianificati. L’“integrazione” si riferisce infatti alla
“creazione di nuove capacità sistemiche attraverso la fusione delle risorse e
delle competenze delle varie componenti dello stesso”.[8]
Tre
sono le linee di riforma ritenute essenziali per la creazione di tali capacità
sistemiche: ridondanza, riordino dei processi di lavoro, autonomia. La
ridondanza si riferisce alla generazione all’interno delle varie componenti del
sistema di surplus di competenze analoghe rispetto alle rispettive esigenze,
sia per quanto concerne metodologie di raccolta delle informazioni (in
particolare di raccolta tecnica), sia in relazione a tecniche analitiche (ad
esempio: strutturate, qualitative, quantitative) ed aree disciplinari (ad
esempio: analisi economica, social network analysis, studi
antropologico-culturali).
Il
secondo elemento, il riordino dei processi lavorativi, contempla invece che
all’interno delle varie componenti del sistema, accanto ai classici processi
lineari, paralleli e funzionalmente segmentati, si sviluppino anche in pari
misura processi “di rete” gestiti su base logica anziché funzionale che
eliminino la tradizionale separazione tra la raccolta e l’elaborazione delle
informazioni, ad esempio attraverso la creazione di gruppi di lavoro che, in relazione
a questioni emergenti, operino congiuntamente lungo l’intero “ciclo
dell’intelligence” per periodi di tempo prolungati.
Infine,
per quanto riguarda l’autonomia, ci si riferisce al trasferimento di autorità
pratica dai capi reparto ai sottoposti in un modello analogo al “mission
command” da tempo in uso proprio nelle forze armate israeliane, statunitensi,
britanniche, in cui i componenti di ogni unità godono della massima autonomia
nella gestione dei compiti affidati dai vertici che si limitano, da parte loro,
a operare come facilitatori, “abilitatori” e “sintetizzatori” dei prodotti
finali. In sintesi dunque l’“integrazione” crea le condizioni per una capacità
di continuo adattamento del sistema d’intelligence decentralizzando al
massimo il processo di produzione dell’intelligence e contemporaneamente
centralizzando il suo output, ovvero la conoscenza.
Tale nozione appare dunque decisamente più appropriata
come costrutto-guida per riformare il sistema informativo italiano poiché,
essendo incentrata sullo sviluppo e rafforzamento dei meccanismi di interazione
verticali e orizzontali tra le varie componenti organizzative del sistema, è
suscettibile di produrre quella moltiplicazione di forze che risulta essenziale
perché un sistema medio-piccolo e risorse limitate come quello italiano possa
superare i problemi di frammentazione di cui attualmente soffre e gestire
efficacemente le due sfide precedentemente menzionate. A questo punto è
necessario riflettere su “come” declinare tale costrutto-guida alla luce
dell’effettivo funzionamento del comparto intelligence.
Storicamente il sistema di intelligence della repubblica
italiana ha mostrato una più che buona predisposizione all’integrazione
orizzontale sia all’interno delle singole agenzie, sia nelle interazioni
esterne tra le stesse. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare
che già il primo apparato informativo militare della repubblica, il Servizio
Informazioni Forze Armate (SIFAR), era strutturato in due branche principali,
una offensiva e l’altra difensiva ognuna delle quali deputata alla gestione di
entrambe le funzioni principali, raccolta e analisi
delle informazioni, nei rispettivi ambiti di competenza. I successori del
SIFAR, il Servizio Informazioni Difesa (SID), il Servizio
Informazioni e Sicurezza Miliare (SISMI), così come poi il Servizio
Informazioni e Sicurezza Democratica (SISDE) pur sviluppando strutture più
articolate, hanno sempre mantenuto assetti organizzativi di tipo ibrido in cui
le funzioni di raccolta e analisi erano compartimentate in alcuni ambiti e fuse
in altri.[9]
Per quanto riguarda le interazioni tra le varie agenzie dalla
storia del sistema informativo italiano emerge chiaramente come, anche in
situazioni di accesa rivalità, le varie componenti abbiano dimostrato
eccellenti capacità sia di coordinamento che di cooperazione. Alcuni primi
esempi in tal senso possono trarsi già dal periodo 1949-1977, in cui il sistema
di intelligence, formalmente centralizzato con il servizio informazioni
militare unico organismo deputato alla raccolta, analisi e protezione delle
informazioni a tutela della sicurezza dello stato, di fatto operava come un
sistema binario, con la Divisione Affari Riservati (DAR) del Ministero
dell’Interno come servizio informativo civile. In particolar modo, tra il 1951
ed il 1954 SIFAR e DAR collaborarono efficacemente attraverso tavoli di lavoro
a scadenza regolare per coordinare le penetrazioni della rete informativa Los
Angeles, impiantata dall’intelligence militare USA nell’Italia
nordorientale e tentare di appropriarsene.[10]
Un ulteriore esempio potrebbe considerarsi la collaborazione avviata intorno alla
fine del 1963 in materia di raccolta tecnica. La DAR ottenne l’affidamento del
centro radio di Monterotondo, che fu destinato alla localizzazione e
l’intercettazione di emittenti clandestine, nonché di radiotrasmissioni
provenienti dai paesi comunisti dell’Europa orientale. SIFAR e DAR iniziarono
una stretta cooperazione, che sarebbe durata fin quasi al 1966, volta allo
sviluppo da parte del servizio civile di competenze specialistiche in materia,
non solo in relazione all’impiego di particolari attrezzature per
intercettazioni, ma anche per operazioni di bonifica.[11]
Altri, ancor più significativi esempi, possono
derivarsi dal periodo successivo alla riforma del sistema d’intelligence attuata
con la legge n. 801 del 1977.[12] La
documentazione disponibile sul caso del rapimento di Aldo Moro mostra, ancora
una volta, una notevole attitudine all’integrazione orizzontale da parte
dell’apparato informativo. Infatti, in una condizione di gravissima crisi, il Comitato
Esecutivo per le Informazioni e la Sicurezza – CESIS, il Servizio Informazioni
e Sicurezza Militare – SISMI, ed il Servizio Informazioni e Sicurezza
Democratica – SISDE, in diverse sedi (i noti “Comitati” istituiti dall’allora
Ministro dell’Interno Cossiga) cooperarono abbattendo de facto le
barriere tra raccolta ed analisi, condividendo non solo informazioni, ma in
molti casi comunicandone le fonti, e conducendo analisi congiunte di specifici
eventi, così come dell’evoluzione generale della situazione. Nonostante la
mancanza di risultati rispetto all’obiettivo primario di fornire informazioni
rilevanti per la liberazione dell’ostaggio, la collaborazione tra le componenti
del sistema informativo che ebbe luogo durante i quasi due mesi del sequestro
Moro si sarebbe rivelata di notevole importanza nel periodo immediatamente
successivo, non solo come “esperimento organizzativo” utile a definire percorsi
di cooperazione, ma anche per sviluppare il quadro informativo alla base delle
operazioni anti-terrorismo condotte sotto il comando del Generale Dalla Chiesa.[13] Ciò
emerge con chiarezza dall’analisi delle fonti archivistiche disponibili. Nella
seconda metà del 1978 il SISDE, di recente creazione, avrebbe dovuto essere la
principale agenzia deputata a produrre un flusso di informazioni a sostegno delle
operazioni anti-terrorismo. Essa tuttavia mancava ancora di una infrastruttura
sul territorio nazionale, non disponeva di un patrimonio informativo
organizzato, né di una consolidata rete di fonti. In tale circostanza il SISMI,
in quanto erede strutturale del SIFAR e del SID, non solo si adoperò per un
prolungato periodo di tempo per sopperire a tali carenze, fornendo costante
supporto informativo all’azione anti-terrorismo delle forze dell’ordine, ma
avviò attraverso la 1^ Divisione (ex ufficio “D” del SID), una strettissima
cooperazione con il SISDE. Essa si tradusse in una “coabitazione” delle due
agenzie nei Centri di Contro Spionaggio (CS) del SISMI, in particolare nelle
città di Milano, Torino e Genova, con condivisione di fonti, risorse e
metodologie di raccolta, al fine di costruire un surplus di capacità sistemiche
nel neonato SISDE.[14]
Al
contrario, la documentazione d’archivio disponibile in merito al funzionamento
del sistema d’intelligence creato dalla legge n. 801/1977 evidenzia importanti
lacune in relazione alla dimensione verticale dell’integrazione. Benché come
notato dalla Commissione Stragi nel 1993, e di nuovo nel “Primo rapporto sul
sistema di informazione e sicurezza” del 1995, il principale organo di
coordinamento e sintesi informativa, ovvero il CESIS, abbia nel corso degli
anni svolto un ruolo sempre più incisivo, per via della mancata applicazione di
numerosi regolamenti e disposizioni negli anni i poteri di quest’organo sono de
facto rimasti più circoscritti rispetto a quanto effettivamente previsto nella
disciplina di legge.[15] Ciò,
a sua volta, ha fatto sì che in ultimo l’efficacia del CESIS sia storicamente
rimasta molto legata alle capacità individuali del Segretario Generale (segretari
più efficaci nell’attività di sintesi informativa come Orazio Sparano si sono
alternati a figure meno in grado di porre in essere un effettivo coordinamento
nell’attività delle agenzie operative come Francesco Paolo Fulci).[16]
Trarre conclusioni circa la sussistenza o meno
nell’attuale assetto dei livelli di integrazione mostrati storicamente dal
sistema di intelligence italiano è estremamente difficile data la
segretezza che circonda la materia e la mancanza di documentazione relativa al
periodo successivo all’approvazione della legge n. 124/2007. È plausibile
ipotizzare che a seguito della più recente riforma del sistema informativo ed il
potenziamento dell’organo di coordinamento e sintesi informativa, con la
creazione del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) in luogo
del CESIS, le carenze in materia di integrazione verticale siano state almeno
in parte sanate. L’impressione tuttavia da dichiarazioni di ex vertici, eventi
trapelati sulla stampa, e fonti estere è che a livello di integrazione, sia
orizzontale che verticale, il sistema non abbia subito rilevanti
trasformazioni.
Come dunque procedere alla luce degli elementi di
analisi teorici e storici qui brevemente presentati? Due raccomandazioni base appaiono
di particolare importanza: espandere lo spazio di interazione delle due agenzie
operative, e consentire al DIS di
perseguire quelle che potremmo chiamare forme di “integrazione verticale a monte” sul processo di
produzione dell’intelligence.
Delle tre misure che la letteratura
teorica evidenzia come essenziali per infondere “integrazione” in un sistema d’intelligence,
autonomia, ridondanza, e riordino dei processi,
l’apparato informativo italiano necessità principalmente della prima. Come
visto in precedenza nella cultura organizzativa di entrambe le agenzie
operative esiste una forte attitudine alla fusione di raccolta e analisi, così
come, a mettere in pratica sia all’interno che all’esterno, processi di lavoro
congiunti e non lineari. Al fine di sfruttare nella maniera più produttiva
questo vantaggio comparato, la riforma del sistema dovrebbe puntare
sull’incrementare l’autonomia, spingendola quanto meno a livello di aree
(introdurre ridondanza è più semplice e può essere fatto attraverso il
reclutamento). Ciò rafforzerebbe ulteriormente l’integrazione orizzontale
creando dei potenziali spazi di lavoro congiunti tra le agenzie operative da
attivarsi in base alle necessità.
Per quanto riguarda l’integrazione verticale, in cui
invece come si è visto il sistema è relativamente debole, una soluzione
potrebbe essere rappresentata dal consentire al DIS di integrare all’interno delle proprie attività un
maggior numero di “passaggi intermedi” nel processo di produzione dell’intelligence.
In altre parole dovrebbe essere consentito al Dipartimento di esercitare un ruolo di coordinamento (operando di
fatto come “abilitatore”/”facilitatore”) sulle attività congiunte delle agenzie
operative fino al livello più basso a cui si intende spingere l’integrazione
orizzontale. Solo in tal modo sembra possibile lasciarsi definitivamente alle
spalle le lacune croniche di integrazione verticale di cui il sistema sembra
soffrire dal 1977.
Da ultimo, vale la pena ribadire che, come più volte
sottolineato, essenziale per il rafforzamento dell’integrazione e la creazione
di un surplus capacitivo è il reintegro del Reparto Informazioni per la Sicurezza
(RIS) nel sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica.[17]
Ciò alla luce del fatto che il RIS dispone di una serie di risorse per la
raccolta tecnica la cui condivisione in un sistema d’intelligence
relativamente piccolo come quello italiano potrebbe essere di
fondamentale importanza.
Niccolò Petrelli è Ricercatore presso
il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, dove insegna
Studi Strategici, e Senior Researcher per StartInsight.
[2] Ernest R. May (Ed.), Knowing One’s
Enemies: Intelligence Assessment Before the Two World Wars (Princeton:
Princeton UP, 1986).
[3] Thomas H. Hammond, ‘Intelligence
Organizations and the Organization of Intelligence’, International Journal
of Intelligence and CounterIntelligence, 23/4, (2010), 680-724
[4] Shay Hershkovitz, the Future of
National Intelligence: How Emerging Technologies Reshape Intelligence Communities
(New York: Rowman & Littlefield, 2023), 1-2.
[6]
Enzo Bianco, “Così è Cambiata l’Intelligence in Italia”, Gnosis – Rivista
Italiana di Intelligence, 13/3 (2007), 1.
[7] A titolo di
esempio: P. R. Lawrence and J. W. Lorsch, “Differentiation and Integration in
Complex Organizations,” Administrative Science Quarterly 12(1) (January
1967): 1-47; AAVV., Designing Organizations. 21st Century
Approaches (Berlin: Springer, 2008).
[8] Kobi Michael, David Siman-Tov, and
Oren Yoeli, ‘Jointness in Intelligence Organizations: Theory Put into Practice’,
INSS Cyber, Intelligence, and Security, 1/1 (January 2017), 5-30.
[9] Relazione del
Comitato Parlamentare per i Servizi di Informazione e Sicurezza e per il
Segreto di Stato, Primo Rapporto sul Sistema di Informazione e Sicurezza,
6 Aprile 1995.
[10] Niccolò Petrelli, ‘Through a Glass,
Darkly: US-Italian Intelligence Cooperation, Covert Operations and the Gladio
‘Stay-Behind’ Programme’, Diplomacy & Statecraft (in corso di
pubblicazione, Marzo 2024).
[11]
Aldo Giannuli, La Guerra Fredda delle Spie: L’Ufficio Affari Riservati
(Roma: Nuova Iniziativa Editoriale, 2005), 72-73.
[13]
Si vedano: Appunto 04/9344/E/1^ da SISMI a CESIS: “Attività
svolta in relazione al “Caso MORO””, 13 Maggio 1979, ACS Raccolte
speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/CESIS/5: Varie 1979. Corrispondenza –
appunti (1979)/10: Attività svolta in relazione al caso Moro: riscontri
informativi e relazioni; Appunto CESIS n. 2113.1.1: “Attività svolta dal SISDE
in relazione al caso MORO”, 15 Maggio 1979 ACS Raccolte speciali/Direttiva
Prodi (2008)/PCM/CESIS/5: Varie
1979. Corrispondenza – appunti (1979)/11: Attività
svolta in relazione al caso Moro: riscontri informativi e relazioni; Appunto
da Direttore 1^ Divisione SISDE a Direttore del Servizio, 20 Maggio 1980, ACS
Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/AISI/Servizio per le informazioni
e la sicurezza democratica – SISDE/Indagini, accertamenti sulla vicenda e
eventi collegati (durante il rapimento e dopo l’uccisione) [1978 – 2001]/3:
Atti diversi. Caso Moro (1978 – 2000)/104: Riunione ministero dell’interno
(1978 mar. 16).
[14]
Si vedano: Appunto 04/536/RR, da SISMI a Centri CS Tutti,
Comandante RCCS, Direttore SISDE: Ordinamento provvisorio del SISMI –
Collaborazione con Il Gen. D. CC. Carlo Alberto DALLA CHIESA, 31 agosto 1978,
ACS Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/Agenzia informazioni e
sicurezza esterna – AISE/Servizio per le informazioni e la sicurezza militare –
SISMI (primo versamento)/Collaborazione SISMI con il Gen. Carlo Alberto Dalla
Chiesa. Fascicoli nn. 118-136 [1978 – 1998]/1: Collaborazione SISMI con il Gen.
Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicolo n. 118 da n. 1 a n. 17 (1978 – 1980)/1:
Lettera (non firmata): Ordinamento provvisorio del SISMI – Collaborazione con
il Gen. Carlo Alberto dalla Chiesa (pag. 1) (1978 ago. 31); Appunto
SISMI 04/83/S: Collaborazione SISMI-SISDE – Utilizzazione dei
Centri C.S., 25 Ottobre 1978, ACS
Raccolte speciali/Direttiva Prodi (2008)/PCM/Agenzia
informazioni e sicurezza esterna – AISE/Servizio per le informazioni e la
sicurezza militare – SISMI (primo versamento)/Collaborazione SISMI con il Gen.
Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicoli nn. 118-136 [1978 – 1998]/1:
Collaborazione SISMI con il Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fascicolo n. 118
da n. 1 a n. 17 (1978 – 1980)/11: Lettera: Collaborazione SISMI – SISDE –
Utilizzazione dei Centri CS (1978 nov. 28)/2: Appunto: Cooperazione tra SISDE e
SISMI (1978 ott. 25); Appunto da Direttore SISDE a Segretario CESIS 20 gennaio
1979, ACS Raccolte speciali / Direttiva Renzi (2014)
/ Presidenza del Consiglio dei ministri / Dipartimento
delle informazioni per la sicurezza – DIS / Serie varie / 14: Attività Giudiziaria e di Polizia –
Strage di Piazza Fontana (Milano 12/12/1969): Giovanni Ventura (1979)
/ 3: DIS_f0014_d0002.pdf.
[15]
Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Terrorismo in Italia e sulle Cause
dalla Mancata Individuazione dei Responsabili delle Stragi, Resoconto della 13ª
SEDUTA, 30 Novembre 1993, 303-304; Relazione del Comitato Parlamentare per i
Servizi di Informazione e Sicurezza e per il Segreto di Stato, Primo
Rapporto sul Sistema di Informazione e Sicurezza, 6 Aprile 1995.
[16]
“Appunto
da Segretario CESIS a PCM, s.d.”, ACS Raccolte speciali/Direttiva Renzi (2014) PCM/DIS/Serie
varie/13: Attività Giudiziaria e di Polizia – Strage di Piazza Fontana (Milano
12/12/1969): Giovanni Ventura (1978)/4: DIS_f0013_documentazione.pdf.
Competizione NATO e Cina-Russia nel Mar del Giappone
di Andrea Molle
La reazione sino-russa
alla diplomazia NATO nell’indo-pacifico, che include anche i recenti sforzi
italiani, non si fa attendere. Dopo la conferma delle indiscrezioni di una
futura apertura di un liaison office dell’Alleanza in Giappone, ipotesi
peraltro volutamente omessa dalle dichiarazioni ufficiali dell’incontro di
Vilnius, i due paesi annunciano un’esercitazione navale comune nel Mar del
Giappone.
Il Mar del Giappone è un fondamentale
teatro strategico sia per la Cina che per la Russia. In particolare gli stretti
di Soya, di Tsushima e Tsugaru hanno importanti implicazioni per la sicurezza
nazionale di Beijin e Mosca. Sabato, il Ministro della Difesa cinese ha
dichiarato che forze navali e aeree russe prenderanno parte alle esercitazioni
militari “Northern/Interaction”, organizzate dal comando del teatro
settentrionale dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). Va precisato che le
relazioni militari tra i due paesi non sono una novità; basti ricordare, ad esempio,
che a partire dal 2018, la Cina ha partecipato regolarmente alle principali
esercitazioni annuali russe tra cui “Vostok 2018”, “Tsentr-2019” e “Kavkaz-2020”.
Nell’agosto 2021, la Russia ha anche preso parte all’esercitazione “Western/Interaction”,
condotta nella regione autonoma dello Ningxia Hui, nella Cina nord-occidentale,
la prima in cui la Cina ha invitato a partecipare forze armate straniere.
Successivamente, nel 2022, Beijin ha inviato componenti delle sue forze
terrestri, navali e aeree in Russia per partecipare alle esercitazioni “Vostok
2022” le cui attività si sono svolte in ben 13 siti addestrativi russi
e in diverse aree di interesse del Mar del Giappone.
Tuttavia, quest’ultima campagna
addestrativa comune, che si aggiunge all’attività di pattugliamento congiunto del Mar del Giappone
e del Mar Cinese Orientale da parte delle due Forze Armate iniziata lo scorso
giugno, sembra rappresentare un salto di qualità verso un vero e
proprio partenariato strategico. Il Ministero
della Difesa ha infatti sottolineato come questa esercitazione congiunta abbia
sì uno scopo
prettamente operativo, cioè di acquisire le capacità necessarie al mantenimento della
sicurezza delle rotte marittime strategiche, ma ha anche aggiunto che, tramite
lo sviluppo di più
strette relazioni militari, Cina e Russia intendono affermarsi politicamente
come i reali garanti della pace e della stabilità nella regione.
Diversi esperti militari prevedono
anche che queste attività addestrative andranno ad aumentare in futuro,
anche grazie alla probabile rotazione tra tutti e cinque i comandi del PLA che
potranno interessare diversi teatri strategici e scenari di conflitto tra i
quali naturalmente spicca l’isola di Taiwan.
Ancora non si conosce l’entità nè la configurazione del contingente navale russo, ma la componente navale cinese sembra includere i cacciatorpedinieri missilistici Qiqihar e Guiyang, le fregate missilistiche Zaozhuang e Rizhao e la nave da rifornimento Taihu, salpate dal porto di Qingdao, sito nella provincia dello Shandong nella Cina orientale.
Fotografia di Michael Afonso
Xi incontra Putin a Mosca: il peso della parola “amicizia”
di Claudio Bertolotti
Vladimir Putin ha incontrato il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping
Il messaggio di questa visita: Xi “caro amico di Putin” o più Xi “negoziatore”?
L’evento è la testimonianza concreta di un’amicizia
illimitata tra Pechino e Mosca, per la Cina, in particolare, è un passo avanti
nell’arena internazionale all’interno della quale intende imporsi come antagonista
agli Stati Uniti partendo dal Pacifico, che Washington ritiene essere il
pilastro primario della supremazia statunitense, all’Africa e all’Europa dove
oggi si sta combattendo una guerra convenzionale.
Vi è poi un aspetto interessante in cui alla visione strategica della Cina si sommano alcuni fattori personali. Interessante notare come il presidente Xi Jinping abbia definito Putin “caro amico”, il che significa dal punto di vista cinese, comunanza di visione politica del mondo, e non certo amicizia personale con Putin; a questo elemento dobbiamo aggiungere il radicato legame famigliare e affettivo di Xi Jinping con una Russia che ha avuto modo di conoscere grazie all’esperienza politica del padre e sua personale. Un risultato che fa del presidente cinese un leader con una visione strategica di lungo periodo.
La Cina sostiene sempre una politica estera indipendente. Consolidare e sviluppare bene le relazioni Cina-Russia è una scelta strategica che la Cina ha fatto sulla base dei propri interessi fondamentali e delle tendenze prevalenti del mondo.
Xi Jinping
Rischio o opportunità per gli Usa e per l’Ucraina?
La Cina sta tentando, in parte riuscendoci, di giocare con la Russia il ruolo che Washington gioca a favore dell’Ucraina senza però esporsi perchè non vuole essere coinvolta in uno scontro diretto, ma al tempo stesso non può permettere che la leadership di Putin venga danneggiata o peggio sostituita da una nuova classe politica che potrebbe avvicinare Mosca all’Occidente. Questo sarebbe lo scenario peggiore per la Cina, che perderebbe un alleato fondamentale.
La Cina ha pubblicato un documento sulla sua posizione sulla crisi ucraina, sostenendo la soluzione politica della crisi e rifiutando la mentalità della Guerra Fredda e le sanzioni unilaterali.
Xi Jinping
Al contempo la Cina continua a mantenere un atteggiamento ambiguo a fronte del quale si colloca la necessaria opportunità del presidente Joe Biden di concludere in qualche modo il conflitto prima dell’avvio della campagna elettorale che, negli Stati Uniti, si rivolge a quei contribuenti-elettori che mal volentieri guardano agli importanti aiuti dell’ordine di 40miliardi stanziati da Washington per l’Ucraina.
la Russia apprezza la Cina per aver costantemente sostenuto una posizione imparziale, obiettiva ed equilibrata e per aver sostenuto equità e giustizia sulle principali questioni internazionali. La Russia ha studiato attentamente il documento di posizione della Cina sulla soluzione politica della questione ucraina ed è aperta ai colloqui per la pace. La Russia accoglie con favore la Cina per svolgere un ruolo costruttivo in questo senso.
Vladimir Putin
La visita di Xi Jinping a Mosca ha innervosito Washington, e
questo è già un risultato importante. La dimostrazione è nell’immediata
risposta politica statunitense che non si è fatta attendere poichè concomitantemente
con l’arrivo del presidente cinese a Mosca, la Casa Bianca ha annunciato un
nuovo e importante pacchetto di aiuti militari.
E in tutto questo, Mosca e Kiev sembrano dipendere sempre
più da quelle che saranno le decisioni politiche dei loro rispettivi alleati.
Vent’anni fa la guerra in Iraq. L’anniversario scomodo di una guerra dalle conseguenze irreversibili per l’ordine internazionale
20 anni dall’invasione dell’Iraq: è un anniversario scomodo per l’Occidente e, se sì, perché?
La guerra in Iraq è una delle guerre più controverse e disastrose degli ultimi decenni; una guerra in cui gli effetti negativi hanno superato di gran lunga qualsiasi possibile risultato positivo.
Parte dell’opinione pubblica di allora ha oggi allontanato
le emozioni e i sentimenti provati e vissuti vent’anni fa in occasione della
guerra in Iraq che seguì, di poco, quella maggiormente coinvolgente in
Afghanistan. Un’altra parte dell’attuale opinione pubblica, per ragioni
generazionali, non ha vissuto quei momenti e colloca l’evento in un momento
storico privato della sua componente emotiva. Detto questo, credo che la
risposta sia: “sì, l’anniversario dell’invasione dell’Iraq del 20 marzo 2003 è
scomodo per l’Occidente, e lo è per diverse ragioni”.
La prima di queste ragioni è la consapevolezza di una
ricercata manipolazione dell’opinione pubblica volta a convincerla della
necessità e della bontà dell’intervento militare: ricordiamo tutti l’imbarazzo
del segretario di Stato Colin Powel davanti al Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite mostrare una provetta contenente borotalco, asserendo si
trattasse di antrace per
giustificare l’emergenza di un intervento militare Guerra basata su informazioni
sbagliate. L’invio delle truppe statunitensi in Iraq si basava principalmente
su informazioni errate o addirittura inventate sulle armi di distruzione di
massa (WMD) possedute dal regime di Saddam Hussein. Quando si scoprì che queste
informazioni erano false, molti accusarono l’amministrazione Bush di aver
manipolato l’opinione pubblica per giustificare la guerra.
Un’altra ragione sono i costi della guerra. L’invasione
dell’Iraq ha comportato un costo enorme in termini di vite umane e risorse
finanziarie. Secondo alcune stime, la guerra ha causato la morte di oltre
100.000 civili iracheni e più di 4.400 militari americani, oltre a un costo
stimato di 1,7 trilioni di dollari.
Una terza ragione è l’avvio di un periodo (ancora in corso)
di instabilità regionale. L’invasione dell’Iraq ha destabilizzato l’intera
regione del Medio Oriente, creando un vuoto di potere che ha permesso la
nascita di gruppi estremisti come lo Stato islamico (ISIS) Creando al contempo tensioni
tra i paesi dell’Occidente e quelli musulmani, alimentando il sentimento
anti-occidentale in molte parti del mondo.
Una quarta ragione, infine, è data dai dubbi sulla
legittimità dell’azione militare. La guerra in Iraq ha diviso l’opinione
pubblica sia negli Stati Uniti che in Europa. L’assenza di un mandato del
Consiglio di sicurezza dell’ONU e la mancanza di una minaccia imminente alla
sicurezza nazionale degli Stati Uniti hanno portato molti a chiedere il perché dell’avvio
della guerra.
E ancora oggi, per fortuna, la guerra in Iraq continua a
suscitare dibattiti sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo e sulla
giustificazione delle azioni militari unilaterali.
Le conseguenze della guerra in Iraq continuano ad avere ripercussioni sul Medioriente?
La guerra in Iraq, iniziata vent’anni fa, è un punto di
rottura sul piano delle relazioni internazionali e una svolta su quello degli
equilibri geopolitici a livello regionale e globale. Un fatto storico che ha
determinato l’impossibilità di ritorno all’ordine internazionale precedente,
come quello della Guerra Fredda o del primo periodo post-Guerra Fredda.
Parliamo di cambiamenti irreversibili tanto da determinare
ancora oggi i ritmi della politica regionale e le scelte in campo
internazionale in cui giocano ora tre attori determinanti: Stati Uniti,
Russia e Cina che determinano e sono condizionati dalla conflittualità competitiva
tra Arabia Saudita e Iran e dalle
dinamiche di allineamento degli altri attori minori che , a cui altri attori
sono obbligati ad adattarsi; e nelle sue istituzioni regionali, che mostrano
tutti marcati cambiamenti e nuovi orientamenti. Al contempo non dobbiamo
dimenticare il ruolo di influenza, non marginale, che la guerra in Iraq ha
avuto sui fenomeni rivoluzionari e insurrezionali delle cosiddette Primavere arabe
che si sarebbero sviluppati dopo pochi anni.
L’invasione dell’Iraq ha rappresentato un punto di rottura nell’ordine internazionale e ha portato a rapidi cambiamenti negli equilibri di potere regionali, che hanno costretto alla diversificazione delle alleanze e dei quadri istituzionali. Ciò è stato dimostrato dagli eventi più recenti, come la dipendenza dalla Cina e dalla Russia per le forniture di vaccini durante la pandemia di COVID-19 e l’emergere di nuove relazioni internazionali, come quella tra Iran e Russia e quella tra gli stati arabi e Israele riflessa negli accordi di Abramo del 2020. La guerra in Ucraina ha dimostrato come gli stati arabi filo-occidentali si siano astenuti dal criticare l’invasione russa, mentre altri stati si sono avvicinati a Mosca.
Qual è oggi la situazione dell’Iraq, sia a livello politico che di sicurezza?
L’Iraq è un paese in difficoltà, ma ci sono anche segnali di
progresso. La situazione politica e di sicurezza rimane instabile, ma ci sono
sforzi in corso per migliorare la situazione.
L’instabilità politica e di sicurezza evidenzia il permanere
di numerosi problemi da affrontare e risolvere. Sul piano politico, il paese ha
affrontato numerose crisi, compresa la recente crisi costituzionale del
2019-2020, caratterizzata da proteste popolari e dimissioni di funzionari
governativi. Inoltre, la situazione è complicata dalla divisione tra le fazioni
politiche e le tensioni etniche e religiose.
Dal punto di vista della sicurezza, l’Iraq si trova ancora
sotto la minaccia del terrorismo e delle milizie armate. Sebbene lo Stato
Islamico sia stato sconfitto in gran parte del paese, ancora perpetrano
attacchi terroristici. Inoltre, le milizie armate filo-iraniane ancora presenti,
rappresentano una minaccia per la stabilità del paese.
L’Iraq ha anche affrontato una serie di sfide economiche e
sociali, inclusa la carenza di servizi essenziali, la disoccupazione e la
corruzione. Tuttavia, il paese ha anche fatto progressi in alcuni settori, come
l’energia, e sta cercando di attirare investimenti stranieri per stimolare la
crescita economica.
In tale contesto non dobbiamo sottovalutare l’assertività di
tre importanti attori: Russia, Cina e Iran, che cercando di aumentare la loro
influenza in Iraq attraverso diverse azioni.
In primo luogo, la Russia sta cercando di espandere la sua
presenza economica in Iraq, soprattutto nel settore energetico. Mosca ha
stretto accordi con il governo iracheno per l’estrazione di petrolio e gas, e
ha fornito assistenza militare sotto forma di armi e consiglieri militari.
Anche la Cina sta cercando di espandere la propria influenza
economica e commerciale, offrendo investimenti e assistenza tecnica in diversi
settori. Pechino ha inoltre stretto accordi energetici con l’Iraq, e ha
recentemente firmato un accordo per costruire una linea ferroviaria ad alta
velocità tra Baghdad e Basra.
L’Iran, invece, ha mantenuto una forte presenza politica,
economica e militare, e ha sostenuto attivamente il governo iracheno nella
lotta contro l’ISIS poi evoluto nel fenomeno “Stato islamico” dal 2014. Teheran
ha inoltre stretto accordi commerciali e di sicurezza con il governo iracheno,
e ha supportato diverse milizie sciite in Iraq.
In generale, i tre paesi cercano di aumentare la loro influenza nel paese attraverso investimenti, aiuti economici e militari, e accordi commerciali. Tuttavia, la presenza e l’influenza degli Stati Uniti in Iraq rimane forte, e gli sforzi di Russia, Cina e Iran potrebbero essere ostacolati da una crescente opposizione irachena alle ingerenze straniere.
Timeline della guerra in Iraq (CNN)
CNN (original article) — Here’s a look at the Iraq War which was known as Operation Iraqi Freedom until September 2010, when it was renamed Operation New Dawn. In December 2011, the last US troops in Iraq crossed the border into Kuwait, marking the end of the almost-nine year war.
November 8, 2002 – The UN Security Council adopts Resolution 1441, giving Iraq a final chance to comply with its “disarmament obligations” and outlining strict new weapons inspections with the goal of completing the disarmament process. The resolution threatens “serious consequences” as a result of Iraq’s “continued violations of its obligations.”
February 14, 2003 – UN Chief Weapons Inspector Hans Blix reports to the UN Security Council that his team has found no weapons of mass destruction in Iraq.
March 17, 2003 – Bush issues an ultimatum to Hussein and his family – leave Iraq within 48 hours or face military action.
March 19, 2003 – Bush announces US and coalition forces have begun military action against Iraq.
March 20, 2003 – Hussein speaks on Iraqi TV, calling the coalition’s attacks “shameful crimes against Iraq and humanity.”
April 9, 2003 – Coalition forces take Baghdad. A large statue of Hussein is toppled in Firdos Square. The White House declares “the regime is gone.”
May 1, 2003 – Speaking on the USS Abraham Lincoln, Bush declares “major combat operations” over, although some fighting continues.
May 22, 2003 – The UN Security Council approves a resolution acknowledging the US and Great Britain’s right to occupy Iraq.
July 22, 2003 – Hussein’s sons, Uday and Qusay, are killed by US forces.
December 13, 2003 – Hussein is captured in Tikrit.
June 28, 2004 – The handover of sovereignty to the interim Iraqi government takes place two days before the June 30 deadline previously announced by the US-led coalition.
June 30, 2004 – The coalition turns over legal control of Hussein and 11 other former top Iraqi officials to the interim Iraqi government. The United States retains physical custody of the men.
September 6, 2004 – The number of US troops killed in Iraq reaches 1,000.
November 2004 – US and Iraqi forces battle insurgents in Falluja. About 2,000 insurgents are killed. On November 14, Falluja is declared to be liberated.
October 25, 2005 – The number of US troops killed in Iraq reaches 2,000.
November 5, 2006 – The Iraqi High Tribunal reaches a verdict in the 1982 Dujail massacre case. Hussein is found guilty and sentenced to death by hanging, pending appeal.
December 30, 2006 – Hussein is hanged.
December 30, 2006 – The number of US troops killed in Iraq reaches 3,000.
January 10, 2007 – A troop surge begins, eventually increasing US troop levels to more than 150,000.
September 3, 2007 – Basra is turned over to local authorities after British troops withdraw from their last military base in Iraq to an airport outside the city.
March 22, 2008 – The number of US troops killed in Iraq reaches 4,000.
July 16, 2008 – The surge officially ends, and troop levels are reduced.
December 4, 2008 – The Iraqi Presidential Council approves a security agreement that paves the way for the United States to withdraw completely from Iraq by 2011.
January 1, 2009 – The US military hands over control of Baghdad’s Green Zone to Iraqi authorities.
February 27, 2009 –US President Barack Obama announces a date for the end of US combat operations in Iraq: August 31, 2010.
June 30, 2009 – US troops pull back from Iraqi cities and towns and Iraqi troops take over responsibility for security operations.
August 19, 2010 – The last US combat brigade leaves Iraq. A total of 52,000 US troops remain in the country.
September 1, 2010 – Operation Iraqi Freedom is renamed Operation New Dawn to reflect the reduced role US troops will play in securing the country.
May 22, 2011 – The last British military forces in Iraq, 81 Royal Navy sailors patrolling in the Persian Gulf, withdraw from the country. A total of 179 British troops died during the country’s eight-year mission in Iraq.
October 17, 2011 – A senior US military official tells CNN that the United States and Iraq have been unable to come to an agreement regarding legal immunity for US troops who would remain in Iraq after the end of the year, effectively ending discussion of maintaining an American force presence after the end of 2011.
October 21, 2011 – Obama announces that virtually all US troops will come home from Iraq by the end of the year. According to a US official, about 150 of the 39,000 troops currently in Iraq will remain to assist in arms sales. The rest will be out of Iraq by December 31.
December 15, 2011 – American troops lower the flag of command that flies over Baghdad, officially ending the US military mission in Iraq.
December 18, 2011 – The last US troops in Iraq cross the border into Kuwait.
Offensiva russa in Ucraina? I limiti dell’Occidente che la Russia sfrutterà
di Claudio Bertolotti
Le battaglie stanno prosciugando le scorte di armi da entrambe le parti.
Jens Stoltenberg, Segretario generale della Nato
Le battaglie stanno prosciugando le scorte di armi da entrambe le parti. Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha avvertito all’inizio di questa settimana che l’Ucraina sta consumando le munizioni molto più velocemente di quanto i suoi alleati possano fornirle.
L’amara constatazione del Segretario generale dell’Alleanza atlantica, a conclusione della riunione dei ministri della Difesa della Nato avvenuta il 14-15 febbraio, suggerisce un quadro non favorevole a Kiev in relazione agli sviluppi della guerra russo-ucraina iniziata quasi un anno fa.
L’analisi del quadro complessivo non può tener conto di quattro fattori, da cui discendono le future prospettive e le possibili opzioni.
Il primo elemento chiave consiste nel fatto che la Russia ha la volontà politica (imposta dalla necessità della sua leadership) di proseguire la guerra fino a quando non avrà raggiunto i propri obiettivi strategici minimi, ed ha la capacità militare di proseguire una guerra di media intensità per un tempo ancora indefinito, indipendentemente dalle perdite sul campo di battaglia. L’esperienza decennale della guerra in Cecenia ne è una conferma.
Il secondo fattore è dato dalla volontà politica ucraina di proseguire sulla linea della resistenza armata, ma la sua limitata capacità militare dipende in toto dall’aiuto esterno, in primis, da parte degli Stati Uniti e, a seguire, dai Paesi e dalle organizzazioni del blocco occidentale (Unione Europea e Nato): a fronte dell’attuale ritmo di rifornimento militare, se Kiev continuerà a perseguire la linea della resistenza a oltranza come sta facendo da tempo (in particolare nell’area orientale di Bakhmut) non potrà in alcun modo condurre azioni controffensive.
Terzo fattore: la NATO. L’Alleanza fornisce un sostegno limitato, proporzionale alle sue capacità e disponibilità dei singoli Paesi aderenti, e non ha intenzione di essere trascinata in un conflitto allargato che sarebbe devastante e senza via d’uscita, se non attraverso il confronto diretto con la Russia e l’escalation di violenza che ne conseguirebbe. Un prezzo che l’Alleanza non è disposta a pagare. Dunque, si rilevano limiti politici di volontà associati a una capacità di sostegno che metterebbe in crisi il sistema industriale dei membri dell’Alleanza, la maggior parte dei quali sono anche membri di un’Unione europea politicamente debole e divisa.
Infine, il quarto fattore: gli Stati Uniti. Washington ha una limitata volontà politica e una significativa, ma condizionata, capacità di sostegno militare nel breve-medio periodo ma nessuna intenzione di sostenere una guerra sul lungo periodo rischiando un impegno simile a quello sostenuto nella guerra in Afghanistan.
Questi quattro fattori mettono in evidenza la principale criticità dell’intero meccanismo di sostegno all’Ucraina: la divergenza tra limitata volontà/capacità occidentale, propensa a un accordo negoziale in cui Kiev dovrebbe rinunciare a parte della propria sovranità territoriale, e la determinata volontà e significativa capacità russa di sostenere una guerra a media intensità sul lungo periodo per annettere (non importa in quanto tempo) l’intero territorio ucraino.
Il quadro che si è definito continua a essere a vantaggio di una Russia che, per quanto indebolita sul piano delle Relazioni internazionali, fiaccata militarmente ed economicamente impoverita, non farà alcun passo indietro, né militarmente né politicamente, così come non lo fece nel 2014/2015. E’ un deja vu: lasciare spazio di manovra negoziale a Mosca significa ripetere gli errori della prima guerra di Ucraina, che aprì le porte alla seconda fase, iniziata il 24 febbraio 2022.
Sicurezza energetica e accesso all’acqua: la sicurezza del Mediterraneo secondo la “5+5”
La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.
Coerentemente con questo principio e nell’ottica di cooperare per la sicurezza e la stabilità del Mediterraneo, i Ministri della Difesa aderenti alla “5+5 Defense initiative” (Italia, Francia, Spagna, Malta, Portogallo, Mauritania, Marocco, Libia, Algeria, Tunisia) in occasione della riunione ministeriale tenuta a Rabat (Marocco) lo scorso 16 dicembre, hanno discusso e approvato il documento di ricerca, e gli indirizzi di policy in esso contenuti, dal titolo: “Risorse idriche e energia rinnovabile come strategia per la stabilità futura nello spazio 5+5“. Il documento, a cui ha contribuito il ricercatore senior e rappresentante unico per l’Italia Claudio Bertolotti, direttore di START InSight, è stato illustrato al Sottosegretario di Stato alla Difesa Matteo Perego di Cremnago.
Non c’è dubbio che il “sistema Mediterraneo” sia attualmente sottoposto a un forte stress. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.
Così come non c’è dubbio che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, sono e saranno sempre più gli elementi in grado di determinare il livello di stabilità o instabilità dell’area mediterranea.
Questo intreccio di ambizioni, aspettative legittime, a cui si aggiungono i fattori della geopolitica, spesso appaiono inconciliabili tra loro, ma sono queste le sfide che la nostra generazione ha di fronte e deve risolvere.
Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di acqua e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti interregionali. Dall’altro lato, gli stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.
Relativamente al contesto energetico, lo spazio mediterraneo è caratterizzato da un notevole aumento delle importazioni di energia convenzionale, l’80% dei paesi appartenenti all’area del Mediterraneo occidentale, sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico ed evitare la produzione di gas serra.
In particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di energia, esistono approcci contrastanti sugli aspetti di accesso e sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali); dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una base puramente temporale.
Governi e decisori politici dovranno attuare politiche realistiche che devono essere economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, lo sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini di contenimento dell’inquinamento globale.
I contenuti del documento di ricerca 2022 della “5+5 defense initiative”
Il tema di
ricerca 2022 “Water Resources and Renewable Energy as a Strategy for Future Stability
in the 5+5 Space” è strategico e di estrema attualità dato che
l’acqua e le energie rinnovabili sono sempre più consumate, di fatto
rappresentando una questione politica ed economica di primaria importanza.
“Acqua
pulita e accessibile per tutti” è l’obiettivo numero 6 nell’elenco degli
obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015.
Di vitale importanza per la vita umana, e coerentemente con il principio
enunciato dalle nazioni Unite, i dieci paesi dello spazio 5+5, le loro
popolazioni, gli agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono grande
importanza all’acqua.
Per quanto
riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica) che
sono inesauribili e sostenibili ma che richiedono ancora elevati costi di
produzione, il loro interesse sta diventando sempre più rilevante in
conseguenza dei cambiamenti climatici e della scarsità di combustibili fossili.
Oggi il mondo
si trova di fronte a un importante punto di svolta della sua storia poichè la
crescita demografica e lo sviluppo industriale stanno imponendo un elevato e
crescente consumo di risorse energetiche e idriche.
Risorse idriche. I Paesi
dell’area 5+5 dispongono di notevoli risorse idriche, ma il 90% della
disponibilità è locata nei Paesi settentrionali dell’area; al contrario, Aleria,
Marocco e Tunisia sono in situazione di penuria. Alcuni paesi come Malta e la
Libia sono caratterizzate da un consumo superiore alla capacità delle loro
risorse rinnovabili e sono tra i 10 paesi con meno risorse idriche al mondo.
Fabbisogno energetico. Il contesto
energetico dell’area 5+5 è caratterizzato da un notevole aumento dell’importazione
di energia convenzionale; l’80% dei suoi paesi sono grandi importatori. Si
tratta di una situazione che impone la ricerca di soluzioni alternative per
soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico e allo stesso tempo evitare un
aumento della produzione di gas serra. È quindi essenziale promuovere lo
sviluppo e l’utilizzo di energie rinnovabili. In particolare, l’abbondanza di
risorse energetiche solari ed eoliche è un fattore che accomuna i paesi della
sponda sud dell’area 5+5.
Idroneno verde (Green hydrogene): L’idrogeno
verde, prodotto dall’elettrolisi dell’acqua alimentata da fonti energetiche
rinnovabili, può essere utilizzato per contribuire alla decarbonizzazione dei settori
e delle aree produttive più difficili da elettrificare.
Energia nucleare. Lo sviluppo
del nucleare ha contribuito alla riduzione degli effetti negativi del
cambiamento climatico sui paesi industrializzati. Nel 2018, l’energia nucleare
ha contribuito per il 10,1% alla produzione mondiale di elettricità,
imponendosi quindi come terza più grande fonte di produzione di elettricità al
mondo.
Quali gli
aspetti di rilievo evidenziati dalla ricerca?
1. Risorse
idriche, criticità dell’area “5+5”:
a) Almeno 3 paesi (Algeria,
Marocco, Tunisia) si trovano in una situazione critica (≤ 1.000 m3/hbt/anno),
b) sfruttamento eccessivo delle
acque sotterranee (fossili), perdite nelle reti e sprechi,
c) inquinamento delle risorse e
impatto del cambiamento climatico,
d) carenze in alcuni quadri
giuridici e scarso sviluppo delle capacità.
2. Risorse idriche, punti di forza dell’area
“5+5”:
a) Ricchezza di risorse naturali,
b) Diversi partenariati a livello di istituzioni internazionali,
c) Reale volontà dei governi di attuare il diritto all’acqua e il suo
accesso per tutti,
d) Grande potenziale in termini di energia sostenibile.
3. Energie rinnovabili, criticità dai Paesi dell’area “5+5”:
a) Mancanza di incentivi nei quadri legislativi esistenti,
b) Debolezza dei programmi di capacity building,
c) Mancanza di integrazione regionale dei mercati dell’energia e delle
reti elettriche,
d) Affidamento a materiali e minerali rari per la produzione di
tecnologie a basse emissioni di carbonio.
4. Il potenziale dei paesi membri nelle energie
rinnovabili
a) Importanti capacità umane e materiali per investimenti nel settore delle
energie rinnovabili,
b) Disponibilità di importanti risorse rinnovabili,
c) Il continuo sostegno dello Stato al nuovo settore energetico,
d) Il riconoscimento dell’accesso alle fonti energetiche come «priorità
di sviluppo nazionale».
Alcune
raccomandazioni condivise dai ricercatori con i Ministri della Difesa
dell’iniziativa “5+5”
I limiti nella parte meridionale dell’area 5+5 possono essere superati attraverso
l’elaborazione di una strategia nazionale organica specifica per lo sviluppo
delle energie rinnovabili, basata principalmente su:
Istituzione di
un quadro giuridico e normativo attraente per gli investitori privati;
Creazione di un
quadro istituzionale che copra i diversi aspetti del settore;
Capacity
building nella ricerca scientifica e nelle tecniche innovative nei settori
delle Energie Rinnovabili e dell’Idrogeno;
Elaborazione di
un quadro finanziario e di incentivi;
Istituzione di
una piattaforma di assistenza tecnica comprendente:
sensibilizzazione e formazione dei consumatori;
filiera e servizi di gestione e manutenzione di impianti solari ed
eolici; e
standard per i fornitori di apparecchiature e servizi (tecnici e
distributori di prodotti di energia rinnovabile) al fine dell’efficientamento
del sistema in termini di costo-efficacia;
Istituzione di
un programma di trasporto e distribuzione dell’energia elettrica che promuova
il commercio e l’interconnessione dell’energia per migliorare l’integrazione
regionale;
dipendenza
dell’accesso all’energia da processi produttivi redditizi che contribuiscano
alla creazione di posti di lavoro e alla riduzione della povertà;
Sfida all’ordine internazionale liberale: analisi e futuro dell’asse Russia-Cina-Iran
L’ordine internazionale liberale si trova di fronte ad una nuova minaccia, forse una delle più grandi e temibili dalla fine della guerra fredda: un asse tripartito che unisce Pechino, Mosca e Teheran. Si può parlare davvero di un’alleanza tra questi tre paesi? Cosa unisce tre stati così diversi tra loro? Ma soprattutto, il sistema internazionale vigente saprà reggere l’urto e rimanere saldo al suo posto o crollerà sotto i colpi di questa inusuale alleanza?
Le
sanzioni imposte dall’occidente a Mosca a seguito dell’invasione russa in
Ucraina sono state, fin dalla loro prima attuazione, oggetto di grande
dibattito sia nel mondo politico europeo che in quello statunitense. Il
contesto europeo si è rivelato chiaramente più sensibile su questo tema, dato
che le conseguenze del sistema sanzionatorio sono ricadute principalmente sugli
stati del vecchio continente. Le principali criticità riguardo le sanzioni, a
detta di molti, sono inerenti proprio all’efficacia delle stesse sul lungo
periodo; il punto centrale è comprendere se le misure adottate non si riveleranno
maggiormente negative per i sanzionatori piuttosto che per il sanzionato. Tuttavia,
vi è un effetto sul quale tutti gli osservatori (politici, economici, attori
della sicurezza) concordano: le misure imposte alla Russia, oltre a quelle già
esistenti e antecedenti allo scoppio della guerra, hanno isolato ancora di più
il Cremlino a livello internazionale. Mosca si è trovata dunque ulteriormente
emarginata dalla composizione dell’attuale scacchiere internazionale e, secondo
il terzo principio della dinamica applicato alle relazioni internazionali, ha
intensificato con la stessa rapidità e decisione i rapporti con due paesi che
erano già partner della Russia, ma che adesso diventano due player ancora più
chiave nelle strategie russe: Cina e
Iran. Entrambi i paesi, infatti, condividono con la Russia il fatto di non
essere i migliori amici di Washington e Bruxelles, per usare un eufemismo.
Se Pechino è vista come la grande minaccia a livello economico per gli anni a
venire che può minare la leadership mondiale americana, le preoccupazioni circa
Teheran riguardano la sfera della sicurezza internazionale, in particolar modo
sul nucleare con tutte le vicende relative al JCPOA e il ritiro americano
dall’accordo del 2018.
Per
cercare di capire meglio come si stia sviluppando l’asse tripartito
Mosca-Pechino-Teheran è fondamentale analizzare e comprendere le reazioni di
Cina ed Iran non solo allo scoppio della guerra, ma anche nei confronti delle
sanzioni imposte alla Russia. L’Iran, dal canto suo,
ha visto l’inizio delle ostilità in Ucraina essenzialmente come un’opportunità
per rafforzare i suoi rapporti con Mosca ed aumentare il suo leverage
nei confronti della Russia nell’ambito delle relazioni russo-iraniane: questo è
avvenuto (e continua anche oggi) soprattutto attraverso la vendita di droni
iraniani al Cremlino, armi che vengono utilizzati ormai regolarmente nel
conflitto e che si sono rivelate uno strumento di grande aiuto per la Russia. L’Iran
nel luglio 2022 è inoltre diventato il principale acquirente di grano russo e
la speranza generale di Teheran è che l’attenzione dell’occidente sulla guerra
alle porte dell’Europa distragga gli Stati Uniti e l’Unione Europea dal
processo di espansionismo iraniano avviato in Medio Oriente. A riprova del
consolidamento della relazioni tra i due paesi, nel 2022 è stato registrato un
numero record di incontri tra alti funzionari russi e iraniani, tra cui una
visita a Teheran del presidente russo Vladimir
Putin. Tali visite sono state rivolte dal punto di vista russo anche e
specialmente a livello domestico, per mostrare al popolo russo che il paese non
è così isolato come l’Occidente vuole far credere.
Pechino,
invece, per ovvie ragioni si trova in una situazione totalmente differente
rispetto all’Iran. La Cina
ha avuto una reazione, sia alle sanzioni che allo scoppio del conflitto, in
linea con la sua politica estera e con la sua strategia diplomatica. La
responsabilità della guerra, nell’ottica cinese, non è da attribuirsi solamente
alla Russia, ma anche agli Stati Uniti che hanno ignorato per molto tempo le
considerazione russe in materia di sicurezza nazionale; per quanto concerne le
sanzioni, Pechino non condivide le misure imposte dall’occidente alla Russia ma
non tanto in quanto segno di supporto a Mosca ma piuttosto perché supportare
tali provvedimenti significherebbe piegarsi alla volontà di Washington, posizione
inaccettabile per la Cina di Xi. Dal punto di vista delle considerazioni
geopolitiche, invece, la Cina ha molto da guadagnare dalla guerra in Ucraina.
In primo luogo, il conflitto e lo status internazionale che si sta profilando
per la Russia da qui agli anni a venire contribuisce a rendere Mosca sempre più
uno junior partner nelle relazioni bilaterali con Pechino, scenario che
corrisponde esattamente a come il regime di Xi Jinping ha da sempre visto il rapporto tra i due paesi; inoltre
la Cina sta assistendo con i suoi occhi ai meccanismi di risposta dell’occidente,
utili per comprendere come l’Europa e gli Stati Uniti reagirebbero di fronte a
un simile attacco militare effettuato da Pechino (leggasi Taiwan).
Alla
luce delle considerazioni e delle riflessioni svolte finora, si può tentare
adesso di comprendere la dinamica che guida i rapporti tra questi tre paesi,
che alcuni analisti
hanno già definito come un triangolo di interessi che mira a generare un ordine
mondiale alternativo a quello vigente. Questa “alleanza”, infatti, non rispetta
i canoni delle alleanze classiche e formalizzate; tale mancanza di conformità
alla definizione di alleanza come essa è intesa a Washington e nell’Europa
occidentale è perfettamente in linea con le posizioni dei suoi componenti, che
ripudiano la visione occidentale dell’ordine internazionale e compongono un
fronte unico (almeno all’apparenza) contrapposto all’ampio blocco
filoccidentale e statunitense. Oltre a questo primo elemento già di per sé
significativo, le relazioni tra Pechino, Mosca e Teheran sono molto più
complesse e intricate di quanto possano sembrare a un primo sguardo: si tratta
di una vera e propria matassa geopolitica, dove numerosi interessi coesistono
e, a volte, competono per uno stesso obiettivo. In assenza di obiettivi
formalizzati comuni, infatti, gli interessi nazionali di ciascun paese sono
quelli che continuano a essere i driver principali che guidano le azioni
di politica estera, cercando in qualche caso una sorta di convergenza, ove
questa appare possibile.
La
guerra in Ucraina, ad esempio, ha reso la Russia il paese più sanzionato al
mondo, primato che condivide proprio con l’Iran; se da una parte, proprio con
l’intenzione di intensificare i rapporti come accennato in precedenza, i due
paesi si sono sensibilmente avvicinati, questo è avvenuto comunque in chiave
strumentale. La Russia di Putin ha cercato, nelle vare riunioni svolte, di
comprendere come meglio poter aggirare le sanzioni dell’Occidente, pratica
nella quale il governo di Raisi è ormai molto abile, offrendo in cambio
supporto al programma satellitare iraniano, da sempre deficitario e carente di
risorse. Allo stesso tempo, però, sempre a seguito delle sanzioni la Russia ha
visto diminuite notevolmente le vendite del suo gas ai paesi europei e si è dunque
rivolta verso il mercato dell’Asia centrale, vendendo a prezzi stracciati;
tutto ciò è andato a danno proprio dell’Iran, suo (teorico) partner e
principale fornitore di gas agli stati di questa regione. Anche la Cina ha
diminuito in maniera significativa le importazioni di gas iraniano
sostituendolo con quello russo: questa scelta da parte del governo cinese potrà
rivelarsi centrale nelle sorti dell’economia di Teheran, perché erano proprio le
esportazioni di gas verso la Cina che hanno tenuto a galla l’economia del paese
nonostante le sanzioni occidentali.
Un
ulteriore elemento chiave nelle relazioni di questo alternative triangle,
oltre alla dimensione commerciale, è sicuramente l’aspetto della difesa e della
sicurezza.
Teheran infatti si sta avvicinando sempre di più all’asse securitario
russo-cinese: nel 2021, ad esempio, l’Iran ha firmato con la Cina una
partnership strategica della durata di 25 anni ed ha in programma di firmare un
accordo simile con la Russia, come ribadito nella visita di Raisi a Mosca
all’inizio del 2022. Un segnale chiaro e tangibile dell’avvicinamento tra i tre
paesi nemici dell’occidente è avvenuto a settembre del 2022, quando l’Iran ha
firmato un memorandum che gli garantirà nel vicino futuro piena membership
nella Shangai Cooperation Organization (SCO), un gruppo regionale di
sicurezza guidato proprio da Mosca e Pechino. Un fattore da tenere in
considerazione è sicuramente quello del tempismo: l’Iran, infatti, era in
attesa di essere ammesso nella SCO da circa 15 anni e non è di certo un caso
che l’intero processo si sia velocizzato proprio in questi mesi, alla luce dei
recenti sviluppi internazionali. Nell’ambito della riflessione sulla sicurezza sull’asse
tripartito, una menzione merita chiaramente anche la questione nucleare iraniana:
con il fallimento del JPCOA e il ritiro americano dall’accordo, infatti, il
tema è tornato di centrale importanza nello scacchiere internazionale. Dal
canto loro, Russia e Cina hanno tutto l’interesse a far sì che un accordo sul
nucleare iraniano venga raggiunto (svolta che porterebbe a un alleggerimento
delle sanzioni e a un abbassamento della tensione nella regione), ma alle loro
condizioni e sicuramente non sottostando alla volontà americana; questo è
testimoniato, ad esempio, da alcune votazioni avvenute in seno alla IAEA
(Internartional Atomic Energy Agency), durante le quali Pechino e Mosca hanno
votato contro delle risoluzioni di censura verso Teheran per non aver risposto
a delle domande su siti nucleari non dichiarati. Le risoluzioni sono passate
comunque, ma si è trattato di un chiaro segnale della posizione delle due
potenze: sostenere l’alleato in maniera strumentale e contemporaneamente
rendere la vita più difficile al blocco a guida americana sulla questione
nucleare.
Cercando
di trarre delle riflessioni conclusive sull’analisi dell’asse
Pechino-Mosca-Teheran, vi sono delle domande essenziali che è necessario porsi
se si vogliono fare delle previsioni sul futuro dell’ordine internazionale
costituito. In primo luogo, questo famigerato asse esiste veramente o si tratta
solo di contingenze politiche-economiche che hanno avvicinato stati così
diversi tra di loro? È plausibile una formalizzazione delle relazioni in un’alleanza
canonica? Le risposte a tali quesiti si potranno avere solamente tra diversi
anni e in base ai futuri sviluppi geopolitici, ma al momento è possibile
affermare come è difficile pronosticare un’alleanza strutturata tra Russia,
Cina e Iran in chiave anti occidentale e anti americana, in particolare per
motivi interni a ciascuno di questi paesi: l’Iran sta attraversando proprio in
queste settimane uno dei momenti più difficili dal ’79 ad oggi e la Russia ha
ben altri problemi a cui pensare, principalmente a livello economico. Per la
Cina, d’altro canto, vi sarebbero forse più svantaggi che vantaggi ad allearsi
in maniera così chiara con due stati estremamente instabili e la priorità negli
anni a venire per Pechino ha un nome ben preciso: Taiwan.
L’ultimo
interrogativo al quale è importante rispondere è collegato a quanto appena
detto: dato che questo asse si sviluppa solamente attorno agli interessi di
ciascuno e non si presenta in una forma strutturata, può comunque rappresentare
una minaccia per l’ordine internazionale vigente? La risposta in questo caso è
più semplice che nel precedente: una comunanza di azioni tra i tre regimi
analizzati, anche se solo strumentale, può e deve preoccupare il mondo
occidentale per un serie di ragioni, partendo proprio dal fatto che il sistema
attuale è di per sé già in crisi. Gli Stati Uniti convivono costantemente con
un grado elevatissimo di divisioni a livello sia sociale che politico e la loro
immagine a livello internazionale si sta deteriorando sempre di più; gli stati
europei, inoltre, sono estremamente frammentati fra di loro, l’Unione Europea
appare sempre più debole e incapace di reagire alle difficoltà e la crisi
energetica sta contribuendo a peggiorare sempre di più la situazione. Se a
queste debolezze si aggiungono il timore di un conflitto nucleare causato dalla
Russia, i dubbi e le incertezze circa gli sviluppi e le intenzioni iraniane
riguardo il nucleare e una Cina sempre più forte economicamente e che sta
espandendo la propria influenza, lo scenario internazionale appare più incerto che
mai. In un contesto così insicuro e con un numero così ampio di minacce, tutte
diverse tra loro, solamente il tempo potrà dirci se l’ordine liberale
internazionale saprà reggere e rimanere ben saldo al suo posto.
Cyber warfare nel conflitto russo-ucraino: strategie cyber, lessons learned e implicazioni per il futuro
Il conflitto russo-ucraino è stato definito in parte come la prima guerra del futuro, a causa della centralità della dimensione digitale e del nuovo cyber warfare. Come si è applicato al contesto bellico questa nuovo dominio e quali sono le maggiori implicazioni per il futuro dell’internet e dei conflitti armati?
Il
24 febbraio 2022 la Russia ha ufficialmente dato il via all’invasione su larga
scala del territorio sovrano ucraino, con lo scopo di liberare (secondo la
narrativa di Mosca) le regioni del Donbass, la cui popolazione si sentirebbe di
appartenere più alla Russia che all’Ucraina, in una sorta di lotta, si direbbe
in altri casi, per l’autodeterminazione dei popoli. La guerra è stata
dunque cominciata con pretesti visti e rivisti nel corso della storia, con
mezzi e strategie militari tipiche del più classico warfare e, almeno
nella mente dei russi, con delle tempistiche di completamento decisamente
brevi; se l’ultimo punto si è rivelato drasticamente errato, ai primi due si è
aggiunto un elemento che permette di classificare il conflitto russo ucraino
come il primo esempio di guerra del futuro.
La
dimensione cyber dello scontro armato, infatti, rappresenta un fattore di
significativa novità e soprattutto di enorme centralità nelle dinamiche della
guerra: oltre a essere il primo caso dove gli attacchi cibernetici sono molto
sofisticati e diretti alle infrastrutture sensibili di entrambe le parti in causa,
il moderno cyber warfare aggiunge un nuovo dominio a quelli classici
della terra, dell’aria e del mare, spostando in maniera decisiva l’asse delle
forze in gioco. Le battaglie non si combatteranno più unicamente sul terreno,
anzi, gli attacchi decisivi per determinare l’esito di un conflitto armato
potrebbero avvenire senza sparare più un singolo proiettile.
Questo
è quanto avvenuto, chiaramente solo in parte, nel caso russo ucraino. Proprio il
giorno prima dell’inizio delle ostilità da parte di Mosca, infatti, il Cremlino
ha attaccato la rete digitale infrastrutturale ucraina con un malware che è
stato indicato da Microsoft, in uno studio redatto dalla
stessa compagnia pochi giorni dopo l’inizio del conflitto, con il nome di
FOXBLADE; senza entrare nelle specifiche del malware (anche perché Microsoft
non le ha rilasciate per ragioni di sicurezza), FOXBLADE rappresenta una
cyberweapon in grado di far partire attacchi DDoS dal proprio computer
senza che l’utilizzatore ne sia a conoscenza. La sigla DDos sta per Distributed
Denial of Service, si tratta di un’arma di sicurezza informatica che mira a
interrompere le attività aziendali o a estorcere denaro alle organizzazioni
prese di mira e che agisce utilizzando enormi volumi di traffico digitale
sovraccaricando così i server o le connessioni di rete, rendendoli
inutilizzabili. La dimensione dei cyber attacchi ha dunque giocato un ruolo
primario fin dall’inizio del conflitto armato ed ha continuato a ricoprire una
funzione centrale anche nelle fasi successive. Come riportato da Stas Prybytko,
il responsabile dello sviluppo della banda larga mobile nel Ministero della
trasformazione digitale ucraino, il modus operandi dei russi una volta
conquistati ed occupati nuovi territori prevedeva una priorità su tutte:
tagliare e sconnettere le reti digitali della regione occupata, così che le
persone residenti in quell’area non potessero sapere cosa succedeva nelle zone
circostanti e non potessero descrivere la reale situazione nei territori
occupati.
Dall’altra
parte, l’Ucraina del Presidente Zelensky ha cercato di rispondere alle minacce
e agli attacchi digitali russi cercando, in primo luogo, di estromettere la
Russia
dall’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), entità che
rappresenta sostanzialmente la governance internazionale di internet. Questa
richiesta è arrivata praticamente all’inizio della guerra, il 28 febbraio, a
testimonianza di come anche gli ucraini avessero bene in mente il ruolo
fondamentale del dominio digitale fin dalle primissime fasi dello scontro. La
richiesta ucraina è stata tuttavia respinta al mittente dal Presidente
dell’ICANN Goran Murphy, con la motivazione che tale organizzazione non detiene
l’autorità di esprimere sanzioni in materia e che il compito di ICANN è
semplicemente sorvegliare che il funzionamento dell’internet rimanga esterno
alle dinamiche politiche; accogliere l’istanza ucraina, secondo la visione di
Murphy, avrebbe dunque significato andare contro i principi base dell’ICANN
stessa.
Fra
le due parti in conflitto Mosca è sicuramente quella che dispone delle maggiori
capacità di sferrare cyber attacchi significativi. Questo è dovuto sicuramente
alla grande rete di hacker russi ma anche alla tendenza del Cremlino di
manipolare le informazioni, sia a livello domestico sia quelle dirette al mondo
esterno, che ha fornito ai russi una notevole expertise in questo campo.
Il già citato studio svolto da Microsoft, dal nome “Defending Ukraine: Early
Lesson from the Cyber War”, evidenzia come la Russia abbia utilizzato una
sofisticata strategia cyber che si compone di tre sforzi principali, distinti
ma utilizzati anche simultaneamente. Si tratta nello specifico di attacchi
informatici di tipo distruttivo rivolti all’interno dell’Ucraina, di operazioni
di penetrazione e spionaggio all’esterno dell’Ucraina e infine di azioni di cyber-influenza
che prendono di mira le persone di tutto il globo. Alcuni esempi lampanti di
tale strategia sono state sicuramente le campagne di disinformazione e di
manipolazione della narrativa sul conflitto operata da Mosca fin dall’inizio
della guerra; ma anche attacchi concreti alle infrastrutture vitali ucraine,
come quello del 28 febbraio, definito da alcuni analisti come il più
severo dall’inizio della guerra. Questo cyber attacco ha colpito Ukrtelecom, la
compagnia di telecomunicazioni nazionale ucraina, ed ha portato a delle
significative interruzioni di internet nel paese per circa 15 ore che hanno
colpito principalmente gli utenti privati e le aziende.
Kiev,
dal canto suo, ha potuto contare praticamente dall’inizio degli scontri su uno
strumento che si è rivelato essenziale finora per la resistenza dell’esercito
ucraino, ovvero il sistema Starlink, offerto gratuitamente dal magnate Elon
Musk su richiesta del Primo Ministro ucraino Mykhaylo Fedorov. Il ruolo giocato
da Starlink testimonia una volta di più la centralità dei sistemi
tecnologici-cibernetici applicati ai moderni contesti bellici: senza il
supporto di Starlink, infatti, l’Ucraina molto probabilmente sarebbe già caduta
sotto i colpi dei carri armati russi. Starlink è un complesso sistema che fornisce
Internet alle regioni con scarse infrastrutture di telecomunicazioni, come in
mare aperto, in aree remote lontane dalle città o in regioni in cui l’accesso a
Internet è limitato dai governi e che funziona grazie a una vera e propria
costellazione di satelliti (circa 3000) che SpaceX, la società aerospaziale
privata di Elon Musk, ha rilasciato nella parte bassa dell’orbita terrestre.
L’utilizzo di Starlink in Ucraina, dunque, ha avuto importanti applicazioni sia
in ambito civile, in quanto ha permesso che le reti di comunicazioni venissero
ripristinate in tempi record, ma soprattutto in ambito militare: grazie
all’enorme numero di terminali Starlink dispiegati sul territorio ucraino, ad
esempio, l’esercito ha potuto utilizzare droni da ricognizione collegati ai
terminali Starlink per inviare informazioni di puntamento all’artiglieria, è riuscito
ad individuare l’esatta posizione di mezzi pesanti russi ed è stato in grado di
mantenere le comunicazioni aperte anche con propri soldati che si trovavano in
prima linea durante uno scontro con i russi.
Analizzate le principali
caratteristiche e strategie cyber utilizzate nei primi 8 mesi di guerra, è
possibile trarre qualche indicazioni per il futuro dei conflitti armati e del
ruolo della dimensione digitale applicato alle guerre. In primis si può
affermare come la strada intrapresa con l’inizio del conflitto russo-ucraino è
destinata a diventare la tendenza preponderante per le guerre che verranno: il
classico warfare rimarrà sicuramente al centro delle strategie e delle
considerazioni militari, ma sarà accompagnato sempre di più dalle cyber
weapon e dagli attacchi cibernetici, che potrebbero diventare l’arma
decisiva nelle sorti di un conflitto armato. Sarà necessario inoltre rafforzare
i sistemi di intelligence, con l’obiettivo di creare dei team di professionisti
che sappiano valutare le reali capacità cyber di un determinato attore: nel
caso russo, ad esempio, la maggior parte degli analisti politici aveva
sovrastimato le capacità militari russe ed è possibile che lo stesso sia successo
con le capacità cibernetiche attribuite a Mosca, che non è riuscita nel lungo
periodo a causare danni significativi alle reti ucraine. Infine, stiamo
assistendo a un significativo cambiamento strutturale di quelle che sono le front
lines di uno scontro armato: non più solamente soldati con fucili impegnati
al fronte, ma orde di hacker e informatici devono rappresentare ormai una
priorità per i governi quando si discute di sicurezza nazionale. Investire in
questa nuova tipologia di “addestramento” digitale può prefigurarsi dunque come
la strategia madre per arrivare preparati alle guerre del futuro, che sono
molto più prossime e vicine di quanto si creda.
Ucraina: la mobilitazione dei russi. Come leggere il discorso di Putin? (TeleTicino)
Il commento del Direttore Claudio Bertolotti a TeleTicino (edizione del 21.09.2022, ore 18.25)
La presa di posizione di Putin è coerente con quella di un leader sotto pressione che cerca di mantenere un equilibrio tra le istanze dei falchi intransigenti, il voler compiacere i militari, dare l’impressione di non perdere la guerra e la necessità di rafforzare il consenso interno che tende sempre più a essere precario e ad indebolirsi con il progredire della guerra in Ucraina. Il presidente russo ha parlato della necessità di difendere i confini della Madrepatria presentando la guerra di aggressione in una guerra per la difesa della Russia, di fatto attribuendone la responsabilità agli ucraini e ai loro alleati occidentali, in primo luogo agli Stati Uniti e alla Nato. Di fatto Putin ha adottato un cambio di tono più che di retorica ribadendo il concetto di “difesa del popolo e della sovranità territoriale”, che è il tema ricorrente nella narrativa russa, e lo ha fatto nel tentativo di rafforzare una posizione politica che si è notevolmente indebolita.
Con i referendum di
Putin cresce la minaccia di una guerra nucleare?
Quella di Putin è una scelta strategicamente cinica, quasi
diabolica perché Le autoproclamate repubbliche
autonome del Donbass, Lugansk e Donetsk, e le province di Kherson e
Zaporizhzhia quando saranno annesse alla Russia, di fatto saranno territorio
nazionale russo e dunque, qualunque azione militare contro di essi sarebbe
considerata un’aggressione diretta a Mosca: una circostanza che, secondo la
dottrina militare russa prevede l’impiego dell’arsenale nucleari per difendere
“l’esistenza dello Stato, la sovranità e l’integrità territoriale del Paese”.
Dunque ci troviamo di fronte a un’opzione molto pericolosa
Il discorso di
stamattina mostra un Putin in difficoltà?
Putin è in oggettiva difficoltà, la Russia sta pagando un
prezzo altissimo sia sul fronte ucraino, in termini di risorse umane e
materiali, sia sul fronte interno dove si sta facendo ogni sforzo per contenere
gli effetti deleteri di un’economia di guerra e di una finanza che sono di
fatto fortemente limitate e che stanno avendo un impatto rilevante sulla
quotidianità dei russi. Ora, a fronte di questa scelta di forza dobbiamo però
prendere atto del fatto che – dal punto di vista della leadership russa – forse
non c’erano molte altre alternative. Un passo indietro significherebbe
ammettere la sconfitta e questo determinerebbe la fine politica di Putin. Da qui
la necessità di aumentare la pressione, seguendo i consigli dei falchi del Cremlino,
e tentare la carta della mobilitazione generale per la difesa dei confini che,
tra qualche giorno, si estenderanno ai territori ucraini attualmente tenuti
dalle forze russe.
C’è la famosa
immagine del topo nell’angolo, non è rischioso avere Putin con le spalle al
muro?
Un Putin con le spalle al muro è certamente lo scenario
peggiore che potrebbe prospettarsi le cui conseguenze andrebbero ben oltre i
confini ucraini. Putin in questo momento è in una posizione estremamente
precaria e qualunque azione di forza che possa consentirgli di uscire dal
pantano ucraino verrà perseguita. L’annessione via referendum e la minaccia
nucleare sono un’opzione che Putin ha perseguito a causa della mancanza di
tutte le opzioni a lui favorevoli: l’assenza di una vittoria lampo su Kiev, il
mancato collasso delle forze armate ucraine, la divisione dell’occidente a
supporto dell’ucraina. Putin non ha ottenuto nulla di tutto ciò, e dunque si
prepara ad attuare l’unica opzione perseguibile, in alternativa alla sua non del
tutto impossibile uscita di scena.
Settimana scorsa c’è
stato il vertice di Samarcanda. E anche qui la Russia non sembra aver trovato
appoggi incondizionati da parte di Cina e India.
L’india e la Cina sono state elegantemente perentorie nella
presa di posizione nei confronti della guerra di Putin in Ucraina: Pechino ha
negato la possibilità di aiuti militari alla Russia in Ucraina, tanto che si è
parlato di richieste di Mosca alla Corea del Nord (per razzi e proiettili) e
all’Iran (per i droni); e Nuova Dehli, storicamente molto vicina alla Russia,
non ha lasciato adito a dubbi nell’affermare che questo non è il momento della
guerra e la pace deve essere l’obiettivo primario. Dunque Putin, che guardava a
Samarcanda come a un’occasione per cercare di rafforzare la propria posizione
ha invece incassato un risultato molto più negativo di quanto non si
aspettasse. È forse l’inizio di un isolamento che sino a poche settimane fa
vedeva solo l’Occidente chiudere lo scambio commerciale e la collaborazione con
Mosca ma che ora comincia a interessare anche quegli storici alleati e amici
che dalla guerra sono toccati in termini economici, commerciali e finanziari.
Ucraina, Afghanistan: facciamo il punto – RADIO 24
L’analisi del Direttore Claudio Bertolotti a Radio 24 – Nessun luogo è Lontano, ospite di Giampaolo Musumeci (puntata del 7 settembre 2022)
Ieri l’Aiea ha pubblicato il rapporto sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Dal documento si evince che nonostante i diversi danni alla struttura, i livelli di radiazione nella zona sono “rimasti normali”. Ciononostante l’agenzia è “gravemente preoccupata per la situazione”. Ne abbiamo parlato con Marco Sumini, professore di Fisica dei reattori nucleari all’Università di Bologna.
A poco più di un anno dalla presa del potere da parte dei talebani, torniamo a Kabul con voci esclusive per raccontare ancora un paese che sembra essere nuovamente dimenticato dalla maggior parte dei media e dell’opinione pubblica. Il racconto con Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight, e con le voci raccolte da Morteza Pajhwok, giornalista a Kabul.
Ascolta il Commento di C. Bertolotti a Radio 24 – Nessun luogo è lontano (dal minuto 25)
Possibile intesa sul Nucleare con cappello ONU come accordo sul grano? Di necessità virtù? E forse prodromo a un ulteriore tassello di pace? Cioè singoli dossier molto verticali sui quali si trova accordo (grano, nucleare, ecc) e che magari sommati alla lunga portano verso la pace
Ecco, questo è certamente un fatto di importanza rilevante. Il
Segretario generale dell’Onu António Guterres, di fatto ha ribadito in
forma edulcorata e accettabile per i russi, quanto già aveva auspicato all’inizio
di agosto, e lo ha fatto definendo una precisa priorità, ossia che: “Le
forze russe e ucraine debbano impegnarsi a non intraprendere alcuna operazione
militare verso o dal sito della centrale. Come secondo passo, dovrebbe
essere garantito un accordo su un perimetro smilitarizzato“. Il
fatto interessante è che come nel primo passo auspicato non sia fatto esplicito
riferimento all’abbandono dell’area da parte delle forze russe che, sì, non
potrebbero usare l’area per intraprendere attività offensive ma potrebbero
collocarvi, o mantenervi, all’interno assetti importanti per le attività di
comando, controllo e comunicazione. Il che sarebbe un grande vantaggio per la
Russia, non per l’Ucraina, ma che tranquillizzerebbe le opinioni pubbliche
occidentali e dunque le cancellerie europee. E forse sarebbe l’unica opzione
accettabile dalla Russia che in questo momento continua a mantenere, come ha
fatto per tutta la guerra, il vantaggio tattico pur a fronte di grandi perdite,
umane e materiali. Può essere un tassello verso un possibile negoziato, a
piccolissimi passi.
Un suo personale bilancio su questo primo anno di governo talebano in Afghanistan
A un anno dalla
presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan è un paese
fallito, in preda a una crisi alimentare ed agricola senza
precedenti e con un governo incapace di rispondere alle più elementari
necessità del suo popolo, dalla salute alla sicurezza, e che, nonostante la
crisi economica e sociale, impone un’economia di guerra e una sempre più severa
restrizione dei diritti individuali, a partire dalle donne, sempre più a
margine della vita sociale. Però va detto che l’Afghanistan è oggi
un paese sostanzialmente più sicuro di quanto non lo fosse un anno fa. Una
sicurezza che si traduce in numeri di vittime civili e militari che si sono
ridotti a una minima frazione di quelli registrati durante la guerra dei
vent’anni. Ma non per questo l’Afghanistan è divenuto un posto migliore in cui
vivere, anzi… è divenuto un incubatore di realtà jihadiste, nuove e vecchie,
che hanno la possibilità di collaborare o anche di combattersi a vicenda.
Dunque parliamo di una sicurezza relativa e di breve durata. E le premesse non
aprono ad alcuna prospettiva di miglioramento nel breve periodo; al contrario,
aumenta la presenza, l’attivismo, la capacità organizzativa e operativa dei gruppi
jihadisti che in questo paese hanno ritrovato una base sicura per
colpire all’interno dei confini afghani (dove si impone la competizione tra i
talebani al governo e il gruppo terrorista “Stato islamico Khorasan”), nei
paesi della regione (i talebani pakistani, il movimento islamico
dell’Uzbekistan, i jihadisti uiguri che guardano alla Cina come obiettivo da
colpire) ma anche più lontano, in Occidente, in Africa e nel Sud-Est asiatico.
Una situazione dinamica che ci consegna un paese più pericoloso e
fertile per il jihadismo internazionale di quanto non lo fosse prima
dell’intervento statunitense contro al-Qa’ida, responsabile degli attacchi
agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 e ospitata dai talebani afghani.
Dopo la presa del potere dei Talebani, in molti temevano una ondata di profughi afghani cercare rifugio in Europa. Così non è stato; come mai?
L’unica certezza per poter espatriare dall’Afghanistan è
quella irregolare, o illegale, dal momento che i talebani hanno vietato l’espatrio
se non per motivi particolari, con esclusione delle donne che non possono
lasciare il paese se non accompagnate da un uomo. Una situazione in cui
aumentano dunque i pericoli di un viaggio che non garantisce certezze ma che ha
costi molto elevati in pochi possono permettersi. Due le rotte migratorie principali:
l’Iran e il Pakistan, dove da ottobre a gennaio il numero di attraversamenti sarebbe
quadruplicato rispetto ai dati dell’anno precedenti. E parliamo di cifre che si
attestano a 4/5000 persone al giorno. Il fatto che non arrivino profughi
afghani in Europa non significa che non ci siano afghani che vogliano
raggiungerla, bensì è conseguenza della determinazione dell’Unione europea a
contenere i migranti nella regione. Unione
europea che lo scorso autunno ha promesso oltre 1 miliardo di dollari in aiuti umanitari per l’Afghanistan e i paesi vicini
che ospitano gli afghani che sono fuggiti.
L’Afghanistan dei Talebani continua ad essere isolato dal punto di vista diplomatico; la situazione è destinata a rimanere la stessa?
L’isolamento diplomatico è solamente una questione di
prospettiva. Se guardiamo con lo sguardo da occidente sì, l’Afghanistan è
isolato sul piano formale, anche se su quello sostanziale non mancano gli
indizi che suggeriscono un dialogo costante con gli Stati Uniti – dialogo che
ha avuto un momento di tensione con l’uccisione del capo di al-Qa’ida, ayman
al-Zawairi, proprio nel centro di Kabul, con questo confermando il solido
legame con la frangia talebana più estremista, quella del gruppo Haqqani il cui
leader è oggi il potente ministro degli interni. Ma di isolamento non possiamo
proprio parlare se guardiamo da una prospettiva orientale e mediorientale.
Palista, Uzbekistan, Qatar, Arabia Saudita sono paesi che hanno avviato
rapporti sempre più intensi con l’Emirato talebano, in particolare in tema di
scambi commerciali e supporto. Ma oltre a questi paesi di medio e piccolo peso
se uniscono die pesi massimi: la Cina e la Russia. La prima interessata a
tutelare i propri investimenti fatti in Afghanistan nel settore estrattivo
minerario, la seconda, Mosca, che ospita i talebani a tutti gli eventi di
natura commerciale che organizza. Dunque attenzione a parlare di isolamento, perché
questo in realtà è sempre meno concreto ed efficace.
La guerra in Ucraina ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica e delle cancellerie internazionali; l’Afghanistan è destinato a scivolare sempre più al margine dello scacchiere internazionale?
Purtroppo sì. Quella afghana è una guerra che l’Occidente
guidato dagli Stati Uniti ha perso. E le sconfitte devono essere dimenticate,
chiuse negli archivi della storia e lontane dall’opinione pubblica. Si guarda
oltre, alle priorità immediate: ora è la guerra in Ucraina che focalizza la
nostra attenzione, ma un giorno tornerà l’Afghanistan, insieme al sahel, all’Africa
sub sahariana ad attirare la nostra attenzione su conflitti che sono già in
corso ma che sono fuori dall’attenzione massmediatica e politica.
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