Nrc: le 10 crisi più trascurate al mondo sono tutte africane
di Marco Cochi
L’autorevole Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) ha
pubblicato l’annuale
rapporto che elenca le dieci crisi di sfollamento più trascurate, sia a
livello politico che mediatico, dalla comunità internazionale. Scorrendo
l’infausta graduatoria riferita al 2021, non costituisce una novità che molti
paesi africani siano in cima alla lista.
Come dimostra la crisi più dimenticata in assoluto, quella
della Repubblica democratica del Congo
(RdC), ormai diventata un esempio da manuale di abbandono con una presenza
fissa nelle precedenti cinque edizioni del report dell’Ong di Oslo (La RdC è
stata in cima alla classifica già due volte nel 2017 e 2020, mentre si è
classificata seconda nel 2016, 2018 e 2019).
Il nord-est della RdC è afflitto da tensioni e conflitti
intercomunitari, con un drammatico aumento degli attacchi ai campi profughi dal
novembre 2021, che uniti all’insicurezza alimentare, che ha raggiunto il livello
più alto mai registrato, hanno causato lo sfollamento di oltre 5,5 milioni di
persone all’interno del paese.
Secondo lo studio, l’aiuto fornito lo scorso anno alla RdC è
stato pari a meno di un dollaro a settimana per persona bisognosa e l’appello
umanitario è stato finanziato per meno della metà, non consentendo agli
operatori sul campo di decidere a cosa e a chi dare la priorità. Al contrario,
l’appello umanitario lanciato dall’Ucraina lo scorso primo marzo è stato quasi
interamente finanziato lo stesso giorno.
Non vanno meglio le cose per gli altri paesi africani: in Burkina Faso, seconda nazione della
graduatoria, nonostante un forte aumento di persone che fuggono dalle loro
case, durante l’intero 2021 la crisi degli sfollati burkinabe ha ricevuto una
copertura mediatica sostanzialmente inferiore, rispetto alla media che la
guerra in Ucraina ha ricevuto quotidianamente durante i primi tre mesi del
conflitto.
Nella speciale classifica stilata dall’Nrc, la RdC e il
Burkina Faso, sono seguite da Camerun,
Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia. Così, per la prima volta, tutte e dieci le crisi più
neglette dalla comunità internazionale sono nel continente africano. Un triste
primato che indica il fallimento cronico dei decisori, dei donatori e dei media
nell’affrontare i conflitti e le sofferenze umane nel continente.
L’Nrc ha sviluppato la lista delle dieci crisi più trascurate
basandosi su tre criteri. In primo luogo, ha tenuto conto del numero di
iniziative politiche e diplomatiche internazionali in corso per trovare
soluzioni durature.
Per esempio, negli
ultimi quattro anni, il Camerun è sempre nei primi posti della classifica a
causa della mancanza di impegno da parte della comunità internazionale per
risolvere gli annosi problemi, che affliggono la popolazione della parte
anglofona del paese africano.
Un altro criterio su cui i ricercatori della Ong norvegese hanno
basato lo studio è la mancanza di attenzione
riservata alle crisi dai media
internazionali, che coprono
raramente questi paesi, al di là di rapporti ad hoc su nuovi focolai di
violenza o malattie. Mentre in diversi Stati africani la mancanza di libertà di
stampa aggrava la carenza di attenzione mediatica.
Per indicare un esempio, dal 2019 i media hanno citato i
quasi due milioni gli sfollati in Burkina Faso causati dagli attacchi dei
gruppi islamisti, lo stesso numero di volte dei profughi ucraini durante i
primi tre mesi del conflitto.
Infine, l’Nrc si è concentrato sulla carenza di aiuti finanziari internazionali caratterizzata da una certa stanchezza dei donatori e il
fatto che molti paesi africani sono considerati di limitato interesse
geopolitico.
Il basso livello di finanziamento limita un adeguato
soccorso
Senza tralasciare, che il basso
livello di finanziamento limita in maniera significativa la capacità delle
organizzazioni umanitarie sia di fornire un adeguato soccorso alle popolazioni
sia di svolgere un’efficace attività di advocacy
e comunicazione per queste crisi, attivando un circolo vizioso.
Le conseguenze sono ben descritte
dai numeri, che raccontano come nel 2021, nella RdC erano necessari due miliardi di dollari
per coprire i bisogni primari del paese, di cui solo il 44% è stato coperto e
nel 2022 si stima che la copertura sarà limitata al 10%.
In risposta alla tragica crisi in Ucraina,
abbiamo assistito a un’imponente dimostrazione di umanità e solidarietà,
sostenuta dalla rapidità di azione da parte della politica. I paesi
donatori, le aziende private e le opinioni pubbliche hanno tutti contribuito
generosamente, mentre i media hanno seguito ininterrottamente lo scoppio della
guerra prodotta dall’aggressione militare della Russia. Allo stesso tempo, la
situazione si sta deteriorando per milioni di persone afflitte da crisi, che si
stanno profilando all’ombra del conflitto in corso in Ucraina.
I livelli di malnutrizione sono in
aumento nella maggior parte dei dieci paesi presenti nell’elenco delle crisi
trascurate, aggravate dall’aumento dei prezzi del grano e del carburante
causati dalla guerra in Ucraina. Le organizzazioni umanitarie hanno
lanciato costantemente l’allarme dall’inizio del 2022, ma la comunità
internazionale stenta a intraprendere l’azione necessaria.
Inoltre, i finanziamenti per queste
crisi trascurate sono in pericolo. Diversi paesi donatori stanno ora
decidendo di ridurre gli aiuti all’Africa e di reindirizzare i finanziamenti
verso la risposta dell’Ucraina e l’accoglienza dei rifugiati in Europa.
Una situazione perfettamente
descritta dal segretario generale dell’Nrc, Jan Egeland, che alla
presentazione del report ha affermato che «la guerra in Ucraina ha dimostrato
l’immenso divario tra ciò che è possibile fare quando la comunità
internazionale si unisce e la realtà quotidiana di milioni di persone che
soffrono in silenzio nel continente africano, che il mondo ha scelto di
ignorare».
Ucraina (D+95) Lotta per il Donbas: come i russi stanno imparando dai propri errori. Il commento del Generale Mick Ryan
di Mick Ryan, AM, Strategist, Leader & Author, Retired Army Major General
@WarintheFuture
Nei 95 giorni trascorsi dall’invasione della Russia in
#Ucraina, ho esplorato l’adattamento e il modo in cui le istituzioni militari
imparano durante la guerra. Oggi esamino ciò che le ultime due settimane nel
Donbas ci dicono su come i russi stanno imparando nella battaglia di
#adattamento in corso.
Sir Michael Howard ha scritto in “The
Uses and Abuses of Military History” (trad. Gli usi e gli abusi della storia militare) che le
istituzioni militari normalmente sbagliano la guerra successiva, per lo più per
ragioni che sfuggono al loro controllo. Pertanto, una virtù importante per le
organizzazioni militari deve essere l’adattabilità agli eventi inattesi.
A marzo ho esplorato il concetto di adattamento in guerra
e il modo in cui gli sforzi di trasformazione della Russia dal 2008 sembrano
aver ottenuto miglioramenti minimi a livello tattico e strategico. Nelle ultime
settimane, i russi hanno compiuto progressi costanti, anche se lenti, nella condotta
della loro offensiva orientale nel Donbas. Progressi che indicano comunque come
i russi stiano apprendendo dai loro precedenti fallimenti.
Prima di esplorare questo aspetto in dettaglio, è
necessaria una breve deviazione per definire un quadro di riferimento utile ad
esplorare dove i russi hanno appreso. Le organizzazioni militari utilizzano
questi principi per addestrare i soldati, sviluppare tattiche comuni e
organizzare le formazioni di combattimento e di supporto. Principi che si
traducono in direttive, di fatto “verità essenziali” sulla condotta pratica di
guerre, campagne militari e operazioni di successo. Nel contesto di questa analisi
dell’apprendimento russo, spiccano in particolare tre principi di guerra: la selezione e il mantenimento dell’obiettivo,
la concentrazione della forza e la cooperazione.
In qualsiasi azione militare, l’obiettivo deve essere semplice, ampiamente compreso e nei limiti
delle forze disponibili. Gli obiettivi bellici iniziali della Russia erano
di ampio respiro e non prevedevano un massiccio aiuto militare occidentale
all’Ucraina. È diventato presto chiaro che questi obiettivi erano al di là
delle capacità militari russe. I russi stavano usando un esercito d’invasione
più piccolo di quello dello Stato che stavano attaccando, e hanno fallito. Più
di recente – come evidenziato nei briefing degli alti ufficiali russi – hanno
consolidato le loro mire verso obiettivi più ristretti nell’est del Paese. E
hanno spostato le loro forze per avere maggiori possibilità di raggiungere
questi obiettivi strategici più limitati.
Concentrazione
degli sforzi. Il successo in guerra spesso dipende dalla concentrazione delle forze
militari nel momento e nel luogo più opportuno. Questa dovrebbe essere
supportata da sforzi come le operazioni informative e la diplomazia per
amplificare l’impatto delle forze militari. A livello più elevato, Mosca ha
nominato un alto generale come comandante generale della campagna ucraina. Egli
ha supervisionato un approccio brutale e distruttivo nella parte orientale, ma
è probabile che i russi vedano i loro limitati guadagni come grandi successi.
Ma sostenere l’apprendimento tattico per generare un
vantaggio operativo sarà una sfida significativa, date le altre carenze della
leadership russa. È troppo poco, e troppo tardi?
Ciò impone una questione più ampia: quale potrebbe essere
l’impatto di tale apprendimento tattico russo sulla condotta complessiva della
guerra? E data l’intensità delle operazioni orientali della Russia, saranno
ancora in grado di effettuare operazioni offensive dopo le prossime settimane?
Questo
dipende dalla logistica russa, dalla
strategia difensiva ucraina, dall’afflusso
di aiuti occidentali e dalla condotta di offensive ucraine altrove che
potrebbero distrarre le forze russe. E l’adattamento tattico a breve termine
(anche se difficile) è più semplice dell’adattamento strategico a lungo
termine. Murray, Knox e Bernstein hanno scritto: “È più importante prendere decisioni corrette a livello politico e
strategico che a livello tattico. Gli errori nelle operazioni e nelle tattiche
possono essere corretti, ma gli errori politici e strategici vivono per sempre“.
La Russia ha dimostrato una certa capacità di imparare
dai suoi fallimenti tattici. Ma la sua capacità nazionale di imparare e
adattarsi agli impatti economici, diplomatici, informativi e di altro tipo
della sua strategia fallimentare di invasione dell’Ucraina resta da vedere.
Questo probabilmente prolungherà la guerra.
Editore Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, @cbertolotti1
info@startinsight.eu
Ucraina: Generali sotto tiro e “terminator” in azione in Donbass (D+87)
di Luigi Chiapperini*
Punto di situazione sul conflitto russo-ucraino al
D+87
La fase più critica del
conflitto in Ucraina si sarebbe forse potuta chiudere in due o tre giorni solo
se il presidente Zelensky fosse fuggito e il governo ucraino fosse crollato. A
quel punto si sarebbe assistito all’inizio dell’occupazione russa con il molto
probabile avvio della resistenza ucraina sotto forma di guerriglia.
Ma tutto ciò non è avvenuto
e la situazione sul terreno è quella che un po’ tutti abbiamo imparato a
conoscere: il tentativo fallito di assedio a Kiev e la penetrazione nell’est
con attacchi reiterati su Kharkiv dall’esito anch’esso non positivo mentre a
sud la situazione, che ha visto le forze russe provenienti dalla Crimea e
quelle filo-russe del Donbass chiudere l’Ucraina in una sorta di enclave
terrestre (ad esclusione al momento di Odessa il cui porto peraltro è chiuso
con conseguenze drammatiche per l’approvvigionamento di cereali nel mondo),
sembra essersi cristallizzata da qualche settimana.
Colpa dei generali russi che
avrebbero pianificato male e condotto peggio l’operazione?
In un ambiente permeato
dalla cultura del capro espiatorio è stato alquanto normale “silurare” un certo
numero di vertici militari, tra i quali il generale Serhiy Kisel, che sarebbe
stato sospeso “per non essere riuscito a conquistare Karkhiv”, e il vice
ammiraglio Igor Osipov, che sarebbe stato licenziato “a seguito
dell’affondamento dell’incrociatore Moskva”. Probabilmente anche il capo di
stato maggiore russo, il Gen. Valeriy Gerasimov, non avrebbe più la totale
fiducia di Putin ma al momento sembra essere rimasto al suo posto.
Lo scopo dell’attacco, ma anche il modo con il quale
l’Ucraina è stata invasa il 24 febbraio scorso, ha fatto partorire discussioni
e teorie più o meno valide tra vecchi e nuovi geo-strateghi e analisti militari
(affidabili o presunti tali).
A nostro avviso quella russa è stata una penetrazione su
un fronte troppo ampio (ben 1.500 km. circa) verosimilmente non per un errore
operativo da parte dei decisori militari russi (sarebbe stato veramente
imperdonabile) ma per una scelta strategica da parte del vertice politico ben
precisa ancorché azzardata: indurre il panico nella popolazione e nelle
istituzioni e costringere il governo ucraino a capitolare in pochi giorni. O
almeno così si sperava.
Come sappiamo, ciò non è avvenuto e pertanto i russi
hanno dovuto dapprima, ma senza successo e con non pochi problemi di natura
essenzialmente logistica, immettere le seconde schiere e le unità in riserva e
successivamente riarticolare l’intero dispositivo abbandonando gli sforzi su
Kiev e più recentemente su Karkiv per assicurare una sufficiente gravitazione
delle forze nelle aree che possono essere considerate gli obiettivi
territoriali minimi di Putin: la regione completa del Donbass e l’area costiera
meridionale dell’Ucraina.
Il tutto naturalmente in funzione delle richieste russe
al tavolo delle trattative che si rifanno verosimilmente al discorso del
presidente Putin del 22 febbraio 2022: Ucraina neutrale, Crimea russa, Donbass
“libero”.
In realtà il numero dei cosiddetti BTG (Batalonnaja
Takticheskaja Gruppa), cioè delle Task Force russe di livello
battaglione impiegate (ognuna costituita da circa 800-1.000 soldati), è stato
sinora di circa 90 su 180 totali teoricamente disponibili nella Federazione
russa. Le sole forze di manovra russe in Ucraina sono pertanto formate da circa
80-90.000 soldati mentre il totale impiegato, comprese le milizie delle
autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk, raggiunge verosimilmente le
150.000 unità. Le forze armate ucraine dovrebbero invece aver ormai toccato,
tra forze regolari e milizie territoriali, le 200-250.000 unità dislocate però
sull’intero territorio nazionale, naturalmente con una maggiore concentrazione
nelle aree a contatto con quelle russe dove si presume siano impiegati circa
150.000 soldati e miliziani (non tutti impiegabili in un combattimento ad alta
intensità). Da questi numeri si può dedurre pertanto un rapporto di forza che
solo attualmente è di 1:1 mentre a inizio conflitto, stante la eccessiva
lunghezza del fronte, era verosimilmente sfavorevole alle forze attaccanti
russe la cui superiorità aerea e qualitativa di alcuni degli equipaggiamenti
non sembra peraltro essere stata decisiva. Se infatti esaminiamo quello che
nelle scuole di guerra si definisce “rapporto di spazio”, si scopre che a
inizio operazione, con il numero disponibile di BTG, che teoricamente avrebbero
potuto coprire circa 600 (massimo 900) km. sulla fronte, i russi hanno dovuto
invece attaccare gli ucraini su un’ampiezza non sostenibile in quanto pari
quasi al doppio di quanto previsto dalla dottrina.
Da qui, oltre ad altri fattori come l’ottima performance
dell’esercito ucraino (quadri preparati, soldati motivati, piani predisposti) e
l’aiuto che si è rivelato fondamentale da parte occidentale (in
particolare la presunta “assistenza” all’intelligence ucraina, armi
controcarro e sistemi d’arma contraerei moderni ed efficaci), è scaturito il
mancato raggiungimento di tutti gli obiettivi iniziali auspicati dalla leadership
russa.
La seconda fase, in atto, delle operazioni russe
Alla prima fase dell’attacco “generalizzato” che ha
coinvolto quasi la metà dell’intera frontiera terrestre ucraina, parzialmente
fallito, è seguita la fase attuale che vede i russi combattere su un fronte
molto più ristretto a sud-est e a sud. Ma le notizie che pervengono dalla linea
di contatto ci raccontano di una avanzata che, pur con successi locali,
continua ad essere ancora relativamente lenta. Molti commentatori ritengono che
anche in questa seconda fase l’offensiva russa abbia raggiunto il culminating
point (punto culmine), cioè una situazione in cui non sarebbe più in grado
di operare avendo immesso in combattimento tutto il suo potenziale bellico
senza aver completato la missione.
È veramente così? Probabilmente no. Bisogna tener conto del fatto che siamo di fronte ad un conflitto che almeno inizialmente aveva natura simmetrica, intesa come confronto tra forze convenzionali di qualità e consistenza pressoché similari e che grazie agli aiuti occidentali continuerà ancora ad essere tale. È vero che anche in questo quadrante le truppe russe hanno subito pesanti perdite come ad esempio nel tentativo di forzare il fiume Siverskyi Donets, ma è d’uopo evidenziare che oltre alla sin qui efficace resistenza degli ucraini che, non dimentichiamolo, conoscono molto bene l’area avendo operato negli ultimi otto anni contro i separatisti russofoni, l’offensiva delle forze russe e filo-russe risente negativamente di orografia, idrografia e presenza antropica che non consentono una agevole manovra, manovra che grazie ad alcuni importanti successi locali solo ora sembra iniziare a produrre risultati positivi in particolare a Izyum, a Popasna e nella stessa Severodonetsk.
Inoltre i russi possono contare ora non solo sulle forze
recuperate e già immesse nuovamente in combattimento dalle direttrici non più
operative del nord (Kiev) e del nord est (Sumy), ma anche sui circa 10 BTG che
erano impegnati a Mariupol. Questi ultimi, dopo un adeguato ricondizionamento,
potranno andare a rafforzare la gravitazione esercitata su Severodonetsk dando
la spallata decisiva alle forze ucraine in difesa oppure per andare a
ristabilire una linea del fronte che a Kherson-Mykolayiv continua a presentare
non pochi problemi.
Comunque lo sforzo principale in questa fase sembra
essere proprio quello in Donbass dove i BTG russi, come detto, operano nelle
aree di Izyum (per sfondare a sud-est verso Slovyansk) e di Popasna (per
raggiungere verso nord Severodonetsk e nord-ovest Kramatorsk), allo scopo di
assumere il controllo dell’autostrada M3 (E-40). Questa manovra di
accerchiamento chiuderebbe in una sacca i reparti ucraini (probabilmente una
ventina di BTG) impegnati nel saliente di
Izyum-Lyman-Severodonetsk-Hirske-Popasna.
Se la manovra di accerchiamento tra Izyum e Popasna
dovesse avere successo, sarebbe indubbiamente raggiunto e superato un punto
decisivo della linea di operazione il cui obiettivo è la conquista dell’intero
Donbass.
Sempre a sud, dopo ben 84 giorni di resistenza nelle
locali acciaierie, divenute ormai un ammasso di macerie, Mariupol è stata
definitivamente conquistata. I russi e le milizie del Donbass, oltre ad aver
liberato forze da poter impiegare altrove, hanno così assicurato quel continuum
territoriale con la penisola di Crimea che riveste grandissimo valore simbolico
oltre che economico. Inoltre, mentre continua lo sforzo verso nord per
raggiungere l’importante città di Zaporizhzia, a nord-ovest della penisola si
continua a combattere lungo la linea Kherson – Mykolayiv con esito alterno sin
dall’inizio del conflitto. La mancata acquisizione completa di questa area,
oltre alle perdite dell’incrociatore lanciamissili Moskva e di alcune navi
anfibie, è uno dei motivi per i quali i russi non sono ancora riusciti ad
attaccare Odessa, altra città simbolo dell’Ucraina e “porta da sfondare” per
congiungere la Russia alla Transnistria, regione moldava dichiaratasi anch’essa
autonoma e che nel 2014 ha chiesto l’adesione a quella che considerano la loro
“madrepatria”.
Riassumendo, concentrando l’attenzione agli “oblast”
meridionali dell’Ucraina, i russi intendono finalmente impiegare in maniera più
consona e rispondente ai principi basilari della dottrina militare le proprie
unità, almeno per quanto riguarda il giusto rapporto di forze e spazio. Il
fronte ha ora una lunghezza tale da poter essere investito con maggiore
efficacia dai BTG disponibili.
I russi hanno sicuramente subito perdite considerevoli,
ma gli ucraini hanno visto le proprie componenti corazzata e aerea quasi
completamente distrutte e una parte consistente del proprio territorio cadere
in mani russe. Solo i citati aiuti militari occidentali, compresi i carri
armati T-72 polacchi, e la loro grandissima motivazione, hanno consentito agli
ucraini di continuare a porre in atto una difesa alquanto efficace che potrebbe
portare eventualmente a un conflitto di attrito e quindi di lunga durata. Ecco
che per i russi potrebbe essere necessario passare alla fase 2.1, cioè vincere
in Donbass e nell’area di Odessa nel più breve tempo possibile impiegando nuovi
micidiali mezzi.
I possibili nuovi protagonisti dei campi di battaglia
in Ucraina
Per detti motivi, oltre a un impiego ancora più massiccio
dei migliori sistemi d’arma come i missili ipersonici ad alta precisione
aria-terra Khinzal e terra-terra Iskander con gittate rispettivamente di 2.000
e 500 km. o i micidiali TOS-1 (Buratino), sistemi montati su telai di carri
armati T-72 in grado di lanciare missili con testate termobariche, alcuni
ritengono che stiano per comparire sul campo di battaglia altri sistemi d’arma
russi modernissimi che per una serie di motivi, primo tra tutti proprio perché
da poco usciti dalle linee di montaggio, non sono stati ancora impiegati.
Ecco alcuni di questi nuovi mezzi, limitandoci a quelli
operanti nell’ambiente terrestre che è risultato essere stato sinora quello più
sanguinoso e che sarà decisivo per le sorti del conflitto.
Come detto, fondamentale risulta la capacità di acquisire
informazioni su entità, dislocazione natura e atteggiamento del nemico. Per
fare questo anche gli ucraini dispongono di droni (alcuni dei quali
probabilmente forniti dalle nazioni che stanno contribuendo alla sua difesa)
contro i quali sembra che negli ultimi giorni i russi abbiano utilizzato un
sistema d’arma laser, lo Zadira, che secondo il vice premier
russo Yuri Borisov è “capace di incenerire un drone ma anche altri mezzi a
5 km di distanza”.
Relativamente ai mezzi più “convenzionali”, sin
dall’inizio delle operazioni i russi impiegano i carri armati T-72B3M e quelli
delle serie T-80 e T-90, i quali sono equipaggiati con sistemi di protezione
ERA (Explosive Reactive Armour, cioè corazzature reattive esplosive) del
tipo Kontakt-5 e Relikt, considerate fino a febbraio molto avanzate ma che sono
risultate non sufficientemente idonee a fronteggiare le nuove minacce dei
temibili missili controcarri occidentali, ad esempio i Javelin.
Ecco perché la Russia potrebbe inviare in Ucraina i
mastodontici (rispetto agli standard dei veicoli sinora prodotti in oriente) T-14
Armata, mezzi con caratteristiche similari a quelle dei carri occidentali
sia in termini di dimensioni che di utilizzo esteso dell’elettronica ma che
avrebbero la capacità di sparare fino a dieci colpi da 125 mm. al minuto e
colpire bersagli a una distanza di sette chilometri.
Per dare un’idea di quanto sia potente l’ultimo nato in
casa russa, il carro armato statunitense M1 Abrams può sparare “solo” tre colpi
al minuto e ha una portata di “appena” 4.500 metri. Inoltre, il nuovo carro
dispone di corazza reattiva Malachit e di un sistema di protezione
attiva Afganit che include un radar a onde millimetriche per rilevare,
monitorare e intercettare munizioni anticarro in arrivo a similitudine
dell’avanzatissimo sistema israeliano Trophy. Di MBT (Main Battle Tank)
T-14, che ha avuto una genesi a dir poco travagliata proprio a causa della sua
complessità e dei costi di sviluppo e produzione molto elevati, ce ne sono al
momento disponibili relativamente pochi (alcune decine) nelle disponibilità di
una delle divisioni di punta dell’esercito russo, la 2^ Divisone della Guardia
“Tamanskaya”. La domanda è se i russi si fideranno ad immettere in
combattimento un veicolo sicuramente mobile, protetto e potente ma
verosimilmente non ancora maturo in quanto non testato a sufficienza.
Sui campi di battaglia dell’Ucraina potrebbe comparire
anche il nuovo mezzo da combattimento per la fanteria da affiancare al T-14.
Avendo la stessa piattaforma ha lo stesso nome, Armata, ma con codice
identificativo diverso: T-15. I fanti russi, che hanno subìto pesanti
perdite a seguito della distruzione di mezzi scarsamente protetti come i BMP-2
e 3, non vedono l’ora di riceverli ma non sarà così semplice. Come per i T-14,
ne sarebbero disponibili al momento poche decine di unità. Anche questo mezzo,
inoltre, potrebbe avere gli stessi problemi di “maturità” del fratello maggiore
T-14.
Un altro mezzo micidiale che è già stato dispiegato verso
la metà del mese di maggio 2022 in Donbass è il BMPT Terminator-2, un
veicolo idoneo ad affiancare i carri armati in particolare nei centri abitati
in quanto dispone di un set di armi composito: una mitragliatrice cal. 7,62 e
due lanciagranate anti personale, due cannoni da 30 mm contro veicoli blindati
e 4 lanciatori per missili guidati contro carri. Il modello che viene già
impiegato è su scafo T-72, quindi risalente all’epoca sovietica ancorché
migliorato. Un nuovo modello molto più protetto, più automatizzato e anche con
capacità contraerea è il BMPT-15 Terminator-3, un sistema d’arma su
scafo del citato Armata.
Grazie alla disponibilità di detti mezzi, i russi
potrebbero costituire alcuni BTG modernissimi con i quali dare l’ultima
spallata alla resistenza ucraina in Donbass e a Odessa.
* Generale di Corpo d’Armata dei lagunari Luigi Chiapperini, già pianificatore nel comando Kosovo Force della NATO, comandante dei contingenti nazionali NATO in Kosovo nel 2001 e ONU in Libano nel 2006 e del contingente multinazionale NATO in Afghanistan tra il 2012 e il 2013, Vice Capo del Reparto Pianificazione Generale e Direzione Strategica / Politica delle Alleanze presso lo Stato Maggiore Difesa, Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, attualmente membro del Centro Studi dell’Esercito e collaboratore del Campus universitario CIELS di Padova.
Ucraina: il paradosso dei prigionieri dell’Azovstal (Adnkronos).
Bertolotti (Ispi): “La Russia potrebbe ‘mediare’ per liberare i prigionieri Azovstal”
Tratto dall’articolo originale di Cristiano Camera per ADNKRONOS.
L’analista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, interpellato da ADNKRONOS, rileva il possibile paradosso, in sede di negoziati futuri, con Mosca che potrebbe trattare la scarcerazione dei militari detenuti nel Donetsk in cambio di concessioni.
La domanda vera sul lungo assedio dell’Azovstal e sulla sua resa, sulla caduta dell’ultimo baluardo della difesa di Mariupol, è cosa ne sarà dei militari che fino all’altro ieri erano asserragliati nell’ex acciaieria ucraina. Di cosa ne farà la Russia, se saranno più utili da vivi che da morti e se saranno sottoposti a un processo regolare e la loro detenzione rispetterà il diritto internazionale dei prigionieri di guerra oppure no, tutto questo dipenderà anche da un ragionamento di opportunità. Lo sostiene parlando con l’Adnkronos Claudio Bertolotti, analista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) e direttore di START InSight, secondo cui “il fatto che i prigionieri non siano detenuti in Russia, ma in due villaggi della Repubblica Popolare del Donetsk, potrebbe permettere a Mosca di non entrare direttamente nella questione, lasciando all’autoproclamata repubblica l’onere dell’eventuale gestione della sanzione o della pena. E’ una scelta di opportunità che la Russia potrebbe mettere sul tavolo negoziale proponendosi come intermediario facilitatore per la loro liberazione. Una situazione che potremmo definire paradossale e che sembra essere creata ‘ad hoc’ per escludere la Russia da ovvie conseguenze sul piano del diritto internazionale. Ma sappiamo che in guerra si coglie ogni opportunità, in questo caso quella di ottenere su un futuro tavolo negoziale una qualche concessione” (ADNKRONOS).
“Secondo il diritto internazionale – ricorda Bertolotti – i prigionieri di guerra non devono essere sottoposti a maltrattamenti e torture e dovrebbero essere posti sotto il controllo e interfacciarsi con il comitato internazionale della Croce Rossa. Questa è una responsabilità che le autorità che detengono i prigionieri di guerra devono rispettare, secondo la convenzione di Ginevra. Qui però sorge il vero problema, dato che la Russia non ha formalizzato lo stato di guerra con l’Ucraina, insistendo invece sempre sull’operazione militare speciale. Questo risolve i problemi di Mosca in termini di gestione politica interna del dossier Ucraina ma non sul piano del diritto internazionale, secondo cui la salvaguardia e la tutela della vita dei prigionieri spetta all’autorità di governo che detiene quelle persone”. Una responsabilità che, come detto, la Russia potrebbe delegare al Donetsk, salvo poi proporsi come mediatrice per una successiva liberazione dei prigionieri in cambio di concessioni al tavolo delle trattative. “Se però è vero che qui non si tratta formalmente di prigionieri di guerra – rileva l’analista- in quanto non c’è uno stato di guerra formale, siamo comunque di fronte a uno stato di guerra sostanziale. Tuttavia queste persone, pur non rientrando nella categoria di prigionieri di guerra, godono dei loro stessi diritti” (ADNKRONOS).
“Un altro aspetto importante – fa notare il ricercatore dell’Ispi – è che la Russia ha parlato spesso di ‘terroristi’ facendo riferimento ai combattenti di Mariupol e in particolare ai componenti del Battaglione Azov, che raccoglie al suo interno anche soggetti ideologicamente schierati su posizioni neonaziste. E la narrativa della guerra russa, dell’operazione speciale in Ucraina, ha insistito moltissimo sulla questione neonazista, sulla liberazione dal nazismo delle popolazioni dell’Ucraina. Questo non avrebbe in ogni caso nessuna conseguenza rispetto ai diritti di un trattamento equo e giusto. La Russia avrebbe comunque il dovere di tutelare le persone poste sotto la sua giurisdizione o tutela (ADNKRONOS).
Un altro scenario vedrebbe i prigionieri dell’Azovstal utilizzati come oggetto di scambio con i russi in mano ucraina, dando così un segnale positivo alle famiglie dei prigionieri russi e, di conseguenza, ottenere il favore dell’opinione pubblica russa.
Guardando al futuro, – sostiene Bertolotti – questi prigionieri serviranno alla Russia più vivi che morti, non fosse altro che per comminare ad alcuni di loro, i prigionieri più esposti in termini di responsabilità militare oppure da un punto di vista mediatico, pene esemplari. Lo stesso discorso vale anche per l’autorità della Repubblica Popolare del Donetsk, che ha le stesse responsabilità di chiunque detenga dei prigionieri” (ADNKRONOS).
Ucraina: la Russia di Putin e la visione di Macron
di Claudio Bertolotti
Il discorso del Presidente russo Vladimir Putin del 9 maggio, in occasione della parata per celebrare la vittoria sul nazismo nella seconda guerra mondiale, è stato volutamente rassicurante nei confronti dell’opinione pubblica russa, e volutamente contenuto. E al contempo è stato coerente con la visione russa di quanto sta accadendo e di come la sua classe dirigente, e con essa anche il suo popolo, percepisce l’ipotesi di una minaccia permanente. La frase pronunciata da Putin – cito – di un “pericolo cresciuto ogni giorno, la Russia ha dato un colpo preventivo” si colloca esattamente all’interno di questa percezione, che è nota come la sindrome da “fortezza sotto assedio”, una percezione storicamente presente all’interno della società russa e che per questo motivo ha definito la propria politica estera e scritto la dottrina strategica militare prevedendo “azioni preventive” in un’ottica difensiva. È una lettura interessante, che non si limita ad osservare quanto accade dal punto di vista ucraino o occidentale. Questo non vuol dire giustificare, ma offre uno strumento di lettura che spiega il relativo sostegno del sistema e del popolo russo a questa guerra.
Dal punto di vista operativo, lo scontro si è ormai
consolidato come guerra di attrito e logoramento e si sta trasformando in una sciagura
per la Russia, almeno rispetto alle aspettative iniziali. Russia che mantiene
il vantaggio tattico ma con un’Ucraina, sempre più sostenuta dagli Stati Uniti
e il Regno Unito e dagli altri paesi occidentali e della Nato, che si rafforza
sempre più e che, da una posizione di difesa, sta assumendo una postura attiva
caratterizzata da alcune azioni di contrattacco, non rilevanti sul piano
generale ma certamente significative e galvanizzanti per il morale delle truppe
di Kiev.
LE CONDIZIONI PER UN NEGOZIATO
E allora si guarda al negoziato, al momento lontano dal
potersi realizzare perché un negoziato, per essere tale, deve porre sullo
stesso piano, in posizione paritaria, i due contendenti; altrimenti è l’imposizione
della resa e come tale non verrà accettata da entrambi i soggetti. È necessario
trovare una soluzione mediata che consenta a Mosca e a Kiev di uscire a testa
alta nei confronti dei rispettivi cittadini. Detto in altri termini, la Russia –
e Putin per primo – non accetterà una soluzione che imponga un ritiro senza l’ottenimento
di un risultato concreto. Un risultato che non potrà escludere il controllo
della Crimea da parte della Russia, e con essa la continuità territoriale con
il Donbas.
MACRON: UNA RISPOSTA PRAGMATICA DA LEADER EUROPEO
Il presidente francese Emmanuel Macron ha dato una risposta da leader europeo, forte, pragmatica, razionale e molto lontana dall’idealismo di chi chiede il ritiro incondizionato della Russia e vuole una partecipazione europea che continui a insistere su un dialogo che parta dal presupposto dell’accordo politico come presupposto all’arresto delle manovre militari. Macron sa, e lo esplicita, che la Russia non farà un passo indietro che possa essere recepito o letto come un’umiliazione. Sostenere l’Ucraina affinchè la Russia non vinca è l’unica opzione per portare a uno stallo operativo da cui partire. Detto in altri termini: è dal campo di battaglia, e dai territori materialmente occupati, che si definisce la base di un accordo negoziale e non il contrario.
E Macron ha l’ardire, o l’onestà intellettuale, di
evidenziare un altro aspetto chiave: gli interessi dell’Unione europea non sono
gli stessi degli Stati Uniti. E questo spiega la ragione dei diversi approcci,
visioni, e partecipazione.
GLI INTERESSI DELL’UNIONE EUROPEA NON SONO QUELLI
STATUNITENSI
Guardando alla guerra in Ucraina, gli Stati Uniti hanno
una priorità: indebolire la Russia. Una volontà, quella di Washington (e dell’amministrazione
guidata da Joe Biden), che non
considera le priorità europee e che percepisce la guerra ucraina come un’occasione
per porre un freno, economico prima che militare, all’attivismo russo sul piano
delle relazioni internazionali; anche a costo di un prolungamento forzato della
stessa guerra. Non che la Russia rappresenti una minaccia diretta per gli Stati
Uniti, ma l’occasione è quella di rendere Mosca l’anello debole di una possibile
coalizione russo-cinese in un’ottica di competizione tra Washington e Pechino.
Una competizione che ha ormai da tempo spostato l’asse strategico sull’Oceano Pacifico,
relegando il Vecchio Continente in una posizione subordinata e secondaria, ma
comunque utile e funzionale agli obiettivi di medio-lungo periodo.
Al contrario, i buoni rapporti tra la Russia e l’Unione
Europea, o meglio con alcuni paesi dell’Unione europea – per ragioni
prevalentemente commerciali ed energetiche –, rappresentano un potenziale
ostacolo a una posizione europea unitaria in termini di sanzioni nei confronti
di Mosca. Questo è un limite che lo stesso presidente francese, Emmanuelle
Macron, ha posto in evidenza, ancora una volta, invitando gli alleati e i
partner ad agire in maniera coerente con quelli che sono i principi e gli interessi
di quella stessa Unione che, al contrario degli Stati uniti, ha molto da
perdere dal perdurare di un conflitto ai propri confini e che coinvolge un
paese, l’Ucraina, che ha espresso il desiderio di entrare a far parte dell’Unione.
La crescente presenza della Russia in Mali: tra sostegno politico e aiuto militare
di Marco Cochi
Mentre le forze d’invasione russe intensificano l’offensiva militare per conquistare le città ucraine, la giunta militare, al potere in Mali dall’agosto del 2020, lo scorso 17 aprile ha reso noto di aver ricevuto dalla Russia una nuova fornitura di equipaggiamenti militari. Si tratta di due elicotteri da combattimento e da trasporto truppe Mil Mi-24P, di un sistema radar aereo di quarta generazione e di altro materiale bellico.
Un altro lotto comprensivo di due elicotteri da combattimento e da
trasporto truppe Mil Mi-35P, un sistema radar aereo 59N6-TE e altre
attrezzature militari erano stato ricevute dal governo provvisorio di Bamako il 31 marzo, mentre lo scorso ottobre una fornitura di quattro elicotteri da trasporto
multiruolo Mil Mi-17 e una serie di armamenti, erano stati consegnati dai russi
all’aeroporto internazionale Modibo Keïta di Bamako.
Attraverso un comunicato stampa della Direzione dell’informazione e delle pubbliche relazioni delle Forze armate
(Dirpa), il capo di stato maggiore dell’esercito maliano, Oumar Diarra, non ha
mancato di manifestare il suo compiacimento per l’avvenuta consegna, che
comprova un partenariato assai fruttuoso con la Federazione russa.
Diarra ha poi aggiunto che lo stock appena ricevuto da Mosca «è anche la
manifestazione di una volontà politica molto forte di dotare l’esercito maliano
di mezzi più moderni affinché possa svolgere al meglio la sua missione di
difesa dell’integrità territoriale».
Secondo il generale Diarra, questo nuovo lotto di equipaggiamento
proveniente dalla Russia aiuterà sicuramente le Forze armate maliane (FAMa)
nella lotta quotidiana per sradicare il terrorismo su tutto il territorio
nazionale. L’alto ufficiale ha poi precisato che nell’ambito della cooperazione
tra Mali e Russia seguirà l’invio di altri equipaggiamenti militari, da parte
di Mosca.
Del resto, lo scorso 6 marzo, poco meno di due settimane dopo che la Russia
aveva invaso l’Ucraina, su Jeune Afrique
è stata pubblicata la notizia che il generale Diarra e il colonnelloSadio Camara, attuale ministro della Difesa del Mali, sono volati a Mosca per discutere l’ulteriore
consegna di equipaggiamento militare.
Sembra evidente, che i rapporti con il Cremlino hanno radici ben più
profonde di quanto dichiarato dalla propaganda della giunta militare presieduta
dal colonnello Assimi Goïta. Giunta che si ostina a non definire in maniera
chiara il calendario della transizione, che dovrebbe concludersi con le
elezioni e il passaggio dei poteri ai civili.
Un atteggiamento che ha creato a Bamako vari problemi con l’Ecowas, la
Comunità economica dell’Africa occidentale. Mentre ai vertici della Nazioni
Unite si stanno interrogando sull’opportunità di rinnovare il mandato in
scadenza della Minusma, la missione Onu che dal 2013 opera in Mali per aiutare
la stabilizzazione del paese.
Senza tralasciare, che lo scorso 2 marzo, il Mali è stato tra i 17 paesi
africani che si sono astenuti dal voto della risoluzione di condanna
dell’invasione russa dell’Ucraina approvata dall’Assemblea generale delle
Nazioni Unite (28 paesi africani hanno votato a favore della risoluzione, otto
paesi non hanno votato e l’Eritrea ha votato contro la risoluzione).
La Russia ha ampiamente mantenuto la sua presenza in Mali, nonostante il
Cremlino abbia richiamato molti suoi mercenari della società militare privata
Wagner attivi in Libia e nella Repubblica centrafricana per combattere accanto
alle truppe di Mosca in Ucraina. Come confermato da Stephen Townsend, capo
di AFRICOM, Comando militare per le operazioni USA nel continente africano, in
un’intervista esclusiva a VOA news il 17 marzo scorso.
In Mali, sono impegnati circa 1.000 effettivi russi, tra istruttori militari e contractor del
Gruppo Wagner. Mentre circa 200 militari maliani e nove agenti di polizia
stanno attualmente ricevendo formazione in Russia, come dichiarato lo scorso 7 aprile da Anna Evstigneeva, la vice rappresentante permanente della
missione russa presso le Nazioni Unite.
Inoltre, il quotidiano francese Libération e Human
Rights Watch hanno accusato i miliziani del gruppo
Wagnerdi aver perpetrato tra il 27 e il 31 marzo scorso
nella località di Moura, nella regione centrale di Mopti, il massacro di
centinaia di civili durante un’operazione militare.
Nel corso del raid, avvenuto durante lo svolgimento di una fiera del
bestiame, sono rimasti uccisi tra i 200 e i 400 civili mitragliatidagli
elicotteri oppure uccisi a sangue freddo nelle perquisizioni casa per casa
perché identificati come jihadisti. Un’identificazione motivata solo dalle
barbe lunghe o dell’accento che contraddistingue i pastori fulani, spesso
accusati di essere vicini ai gruppi islamisti attivi nel paese.
Tuttavia, la giunta militare ha respinto ogni accusa al mittente e ha affermato che più di 200 terroristi sono stati neutralizzati, a seguito di un’operazione
militare “su larga scala”. Inoltre, la portavoce del ministero degli
Esteri russo Maria Zakharova si è congratulata con le autorità maliane per questa importante vittoria nella lotta contro
la minaccia terroristica.
Zakharova ha poi negato le accuse secondo cui mercenari russi avrebbero
preso parte alla missione, affermando che queste accuse fanno parte di una
campagna di disinformazione messa in atto dall’Ucraina a danno della Russia.
Tutto ciò indica che, nonostante il sempre più pressante impegno militare
in Ucraina, Mosca sta cercando di preservare i suoi crescenti interessi
diplomatici e militari in Mali e anche nel resto dell’Africa, dove dal 2018 le
forze russe irregolari hanno fornito uomini e addestramento a governi e
movimenti ribelli.