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L’antica arte dietro le insurrezioni moderne.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

In un’epoca di sorveglianza satellitare, intelligenza artificiale e sciami di droni, potrebbe sembrare strano—addirittura anacronistico—cercare nei testi antichi indicazioni strategiche per comprendere le guerre di oggi. Eppure, gli attori non statali più agili e pericolosi non stanno necessariamente innovando. Più spesso, stanno riscoprendo. Che sia per scelta consapevole o per intuizione, gruppi come i Talebani, Hezbollah o i cartelli messicani si affidano a strategie che sarebbero immediatamente riconoscibili a un generale al servizio di un imperatore cinese, un console romano o un rajah indiano.

Basta guardare a come questi gruppi usano l’inganno come arma. Il grande stratega cinese Sun Tzu, oltre 2.500 anni fa, scriveva che “tutta la guerra si basa sull’inganno”—e le sue parole restano valide sul campo di battaglia digitale tanto quanto lo erano nelle foreste dell’antica Cina. L’ISIS ha dimostrato questo principio con una precisione spaventosa, simulando ritirate per attirare gli avversari in imboscate, gonfiando la propria forza attraverso video propagandistici ben costruiti, e spostando costantemente i propri leader e le proprie basi per evitare l’annientamento. In Afghanistan, i Talebani fornivano sistematicamente false informazioni alle truppe NATO attraverso intermediari locali—salvo poi sfruttare i varchi lasciati scoperti. Capivano, forse senza troppa filosofia, che sembrare deboli quando si è forti (e viceversa) paralizza il nemico. Il campo di battaglia diventa in questo modo psicologico e non solo fisico.

Questa preferenza per l’evasione rispetto allo scontro frontale ha radici profonde. Il generale romano Quinto Fabio Massimo, di fronte al genio militare di Annibale, evitò battaglie dirette e scelse invece di indebolire il nemico con tattiche di logoramento. Gli insurgents moderni operano allo stesso modo. Non hanno bisogno di vincere le battaglie—devono solo evitare di perderle. In Iraq e Afghanistan, le milizie usavano ordigni esplosivi improvvisati non per distruggere interi eserciti, ma per logorarne il morale e guadagnare tempo. In Yemen, i ribelli Houthi sfruttano la conoscenza del terreno montuoso per tendere imboscate e poi scomparire. Nel sud del Libano, Hezbollah ha trasformato interi villaggi in roccaforti, costruito reti di tunnel, e provocato l’intervento israeliano in incursioni sanguinose. Non controllano il territorio: controllano il tempo.

Ma l’antica arte della guerra non si fermava allo scontro diretto. Nell’Arthashastra, il trattato indiano scritto da Kautilya nel IV secolo a.C., la guerra è descritta come un gioco a più livelli: spionaggio, infiltrazione, sabotaggio economico. Oggi, molti attori non statali applicano tattiche simili attraverso un mix di attività militari, civili e politiche. Hezbollah, ad esempio, opera non solo come gruppo armato, ma anche come partito politico e fornitore di servizi sociali in Libano. Hamas fa lo stesso a Gaza. Questi gruppi hanno capito che il potere non deriva solo dalle armi, ma anche dalla fiducia—o dalla dipendenza—della popolazione. In Messico, i cartelli mantengono il controllo offrendo lavoro, favori, persino assistenza sociale, in cambio di lealtà o silenzio. La violenza, quando usata, è selettiva e spettacolare: più teatro che guerra.

Questa strategia si intreccia con un’altra verità senza tempo: il ruolo centrale della guerra psicologica. Tucidide, nel raccontare la Guerra del Peloponneso, sosteneva che le vere cause dei conflitti non fossero materiali, ma emotive—paura, onore, interesse. Gli attori non statali lo capiscono bene. Una bomba in un mercato, un attacco suicida in una città occidentale, non mirano a vincere militarmente ma a provocare panico, polarizzazione, e risposte sproporzionate. Gli attacchi dell’11 settembre, orchestrati da Al-Qaeda, erano pensati precisamente per questo: provocare una reazione eccessiva. Gli Stati Uniti furono in questo modo trascinati in due decenni di guerra e crisi interna. Per questi gruppi, la vittoria non si misura in territori conquistati, ma nel caos generato.

C’è poi la questione della forma—o meglio, della sua assenza. Il leggendario spadaccino giapponese Miyamoto Musashi, nel Libro dei Cinque Anelli, descrive il guerriero ideale come privo di forma fissa. La flessibilità è essa stessa una strategia. I gruppi non statali moderni mostrano una sorprendente capacità di adattamento. L’ISIS si è trasformato da insurrezione clandestina a pseudo-stato con entrate petrolifere e una propria burocrazia—per poi tornare nell’ombra come rete di cellule una volta perso il controllo territoriale. In Siria, milizie e gruppi estremisti hanno cambiato nome, alleanze, composizione, adattandosi al mutare delle circostanze. Questo mutamento costante li rende imprevedibili—e soprattutto, difficili da sradicare.

Per molti esperti occidentali di strategia, questo tipo di guerra è esasperante. Non segue le regole. Non ci sono uniformi, né fronti chiari, né battaglie decisive. Ma è proprio questo il punto. I movimenti insurrezionali più efficaci non cercano di imitare gli eserciti moderni: abbracciano i principi più antichi della guerra. Colpiscono nell’ombra, vincono il controllo della narrazione, usano il tempo come arma, e spariscono quando necessario.

Queste strategie possono essere antiche, ma non sono affatto obsolete. Anzi, la tecnologia contemporanea—i social media, le comunicazioni criptate, i deepfake—le ha rese ancora più potenti. Mentre gli eserciti tradizionali arrancano nell’adattarsi, gli attori non statali godono del vantaggio di una visione ideologica chiara, controllo narrativo e pazienza strategica. In un’epoca di instabilità cronica, farebbe bene smettere di considerare questi gruppi come semplici residui di stati falliti. Sono, a tutti gli effetti, eredi di una lunga tradizione di pensiero strategico raffinato. Il futuro della guerra irregolare è già qui—e somiglia sorprendentemente al passato.