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Perché il vertice di Budapest è destinato a saltare?

di Claudio Bertolotti.

Il vertice di Budapest, annunciato come possibile occasione di incontro tra Trump e Putin, si sta progressivamente svuotando di sostanza politica. Le ragioni sono tre.
La prima è l’asimmetria negoziale: Mosca non accetta l’idea di un cessate il fuoco immediato e continua a proporre scambi territoriali che congelerebbero i propri vantaggi sul terreno; Washington, consapevole di questo squilibrio, ha deciso di rinviare qualsiasi summit fino a quando non si intravedrà un terreno comune.
La seconda è di natura giuridico-politica: il mandato della Corte penale internazionale nei confronti di Putin rende logisticamente complessa e diplomaticamente tossica qualsiasi sua visita in territorio dell’Unione Europea.
La terza ragione è l’ambiguità ungherese. Orbán, da un lato, proclama di lavorare per la pace; dall’altro, usa l’ipotesi del vertice per fini di politica interna, ben sapendo che né Washington né Mosca intendono legittimare un’iniziativa fuori dal loro controllo. In sintesi, Budapest è oggi più uno strumento narrativo che una reale agenda diplomatica.

Trump e Putin: chi domina il braccio di ferro?

Lo scontro tra Trump e Putin è un confronto tra due poteri diversi: quello della coercizione e quello dell’agenda. Putin controlla la dimensione tattica del conflitto — il terreno, il tempo strategico, la capacità di escalation — e per questo appare più forte nel breve periodo. Trump, invece, esercita un potere strategico: dispone delle leve sanzionatorie, dell’influenza sul sistema finanziario internazionale e della capacità di guidare o rallentare la coalizione occidentale.
Si tratta dunque di due forze che si bilanciano. Putin può imporre fatti compiuti, ma Trump controlla il ritmo e i margini della trattativa. In questo equilibrio instabile, la forza non è solo militare: è anche comunicativa, economica e simbolica.

Come si muovono Zelensky e gli europei?

Zelensky mantiene una doppia linea d’azione: da un lato si dichiara disponibile al dialogo, dall’altro rifiuta qualsiasi riconoscimento delle conquiste territoriali russe. Sul piano operativo punta a mantenere la pressione sul fronte e a garantire continuità nei flussi di armi e finanziamenti occidentali.
Gli europei, invece, mostrano stanchezza strategica. L’obiettivo comune è ottenere un cessate il fuoco “line-of-contact” che fermi i combattimenti senza tradursi in concessioni politiche. Dietro le quinte, Bruxelles lavora su un meccanismo che potremmo definire “freeze & fund”: congelare il fronte militare e finanziare la resilienza e la ricostruzione ucraina con gli asset russi congelati. È un compromesso di gestione, non ancora di pace.

Trump riuscirà davvero a mediare?

È possibile, ma alle sue condizioni. Trump potrà presentarsi come mediatore solo se riuscirà a ottenere un risultato spendibile sul piano interno: uno stop temporaneo ai combattimenti, uno scambio di prigionieri, o un accordo umanitario che possa rivendicare come “vittoria americana”.
Un vero accordo politico, invece, richiederebbe concessioni territoriali che nessuna delle due parti è oggi disposta ad accettare. L’esito più probabile, nel breve periodo, è un cessate il fuoco imperfetto: fragile, reversibile, ma utile a entrambi per guadagnare tempo e consenso.

Perché Trump ha ottenuto una tregua in Medio Oriente ma non in Ucraina?

Le differenze strutturali sono evidenti.
Primo, la natura della mediazione: in Medio Oriente esiste un triangolo operativo stabile — Stati Uniti, Egitto e Qatar — che funziona su logiche transazionali, scambiando ostaggi e tregue in modo sequenziale. In Ucraina, invece, manca un broker accettato da entrambe le parti e non c’è un “bene scambiabile” immediato.
Secondo, l’oggetto del conflitto: a Gaza si tratta di gestire il fuoco e il flusso umanitario; in Ucraina si tratta dell’architettura di sicurezza europea, una questione sistemica e non episodica.
Terzo, i vincoli legali e di coalizione: il mandato ICC su Putin e la natura interstatuale del conflitto limitano margini e formati negoziali.
Infine, la stabilità del cessate il fuoco: in Medio Oriente la tregua è fragile ma replicabile; in Ucraina, un congelamento della linea di contatto creerebbe nuove frontiere armate e un conflitto “ibernato” ma non risolto.

In conclusione

Budapest, oggi, è il simbolo di una diplomazia sospesa: un negoziato ancora senza negoziato.
Mosca guadagna tempo, Washington costruisce pressione finanziaria e militare, l’Europa tenta di reggere la linea del “freeze & fund”. Trump potrebbe ancora imporsi come mediatore “a modo suo”, ma solo se riuscirà a trasformare l’apparenza di una pausa tattica in un successo politico immediato.
Il Medio Oriente gli ha offerto un terreno di scambio; l’Ucraina, invece, richiede un’architettura di sicurezza. E quella non si improvvisa: richiede tempo, compromessi e la rinascita di una volontà politica che, per ora, nessuno dei protagonisti sembra voler realmente esercitare.


Designare Antifa come un’organizzazione terroristica? Implicazioni legali, strategiche e politiche

di Andrea Molle dagli Stati Uniti

La recente decisione dell’amministrazione Trump di designare Antifa come organizzazione terroristica solleva DIVERSI interrogativi sull’uso degli strumenti dell’antiterrorismo nel contesto domestico. A differenza di gruppi stranieri tradizionalmente soggetti a tale designazione, Antifa non costituisce un’entità strutturata, provvista di un minimo livello di leadership centralizzata, di un’appartenenza ben definita o di un apparato finanziario coerente. È più appropriato descriverla come un movimento sociale decentralizzato, contraddistinto da un’auto-proclamata ideologia antifascista, da reti locali e da un repertorio eterogeneo di pratiche che spaziano da forme di protesta pacifica fino a modalità di confronto violento. Questa ambiguità strutturale è al centro delle sfide e delle controversie legate alla sua designazione.

Antifa non è un’organizzazione strutturata ma piuttosto un movimento sociale decentralizzato contraddistinto da un’auto-proclamata ideologia antifascista, da reti locali e da un repertorio eterogeneo di pratiche che spaziano da forme di protesta pacifica fino a modalità di confronto violento.

Dal punto di vista legale, la decisione si muove su un terreno controverso. Il quadro legislativo federale conferisce chiaramente l’autorità per designare organizzazioni terroristiche straniere ai sensi della Sezione 219 dell’Immigration and Nationality Act. Non esiste invece un quadro normativo del tutto equivalente sul versante domestico, anche se sia l’amministrazione Obama che quella Biden, hanno considerato il terrorismo interno una priorità fondamentale per la sicurezza nazionale. La National Strategy for Counterterrorism del 2011 dell’amministrazione Obama riconosceva esplicitamente la potenziale minaccia della violenza ideologicamente motivata all’interno degli Stati Uniti, pur evitando di proporre un quadro formale per tale designazione. Piuttosto, privilegiava l’impegno comunitario e le iniziative di contrasto alla radicalizzazione. L’amministrazione Biden, a sua volta, nel 2021 ha pubblicato la prima National Strategy for Countering Domestic Terrorism, che individuava l’estremismo violento a motivazione razziale o etnica, così come i movimenti anti-governativi e anarchici, come sfide urgenti. Quel documento destinava risorse al miglioramento della condivisione di intelligence, al coordinamento tra forze dell’ordine e ai programmi di prevenzione ma -aspetto cruciale- ribadiva che la legge statunitense vigente non prevede alcun meccanismo per designare gruppi domestici come organizzazioni terroristiche nello stesso modo in cui le entità straniere possono essere inserite nella lista, ai sensi della Sezione 219 dell’Immigration and Nationality Act. Questa continuità evidenzia il gap strutturale: amministrazioni di entrambi i partiti hanno riconosciuto la rilevanza della violenza estremista interna ma non hanno cercato di creare un quadro legale per tale designazione, in gran parte a causa di vincoli costituzionali e politici.

Applicare la designazione di “organizzazione terroristica” a un movimento informale interno implicherebbe probabilmente il fatto di dover ampiamente reinterpretare statuti già esistenti, come quelli relativi al sostegno materiale o alla cospirazione. Il Primo Emendamento limita fortemente la portata dell’azione governativa in quest’area: l’espressione di opinioni politiche, anche radicali o offensive, è protetta. Per reggere sul piano giudiziario, le accuse dovrebbero dimostrare un coinvolgimento concreto in atti di violenza o la fornitura di assistenza materiale ad attività illegali. Questa soglia probatoria elevata limita l’applicabilità pratica della designazione.

Sul piano strategico, la designazione offre comunque alcuni vantaggi. Invia un segnale di deterrenza, sia ai partecipanti sia a chi valuta un sostegno finanziario o logistico. Espande la gamma di strumenti investigativi a disposizione delle forze dell’ordine, tra cui un’autorità di sorveglianza ampliata e la possibilità di perseguire canali di finanziamento. Fornisce inoltre una vittoria simbolica a quei decisori politici che intendono dimostrare fermezza contro la violenza politica.

Allo stesso tempo, l’approccio comporta diversi rischi. Poiché Antifa manca di coesione organizzativa, la designazione potrebbe rivelarsi più simbolica che operativa. Eventuali procedimenti basati sulle leggi antiterrorismo rischiano di incontrare ostacoli costituzionali e di generare precedenti controversi. L’applicazione estesa dell’etichetta terroristica a un movimento che include anche attività di protesta legittime rischia di raffreddare il dissenso legittimo ed espandere la sorveglianza statale in modi difficili da contenere. Esiste inoltre un costo strategico di disallineamento: dare priorità ad Antifa potrebbe distogliere risorse dall’affrontare altre minacce statisticamente più significative.


Poiché Antifa manca di coesione organizzativa, la designazione potrebbe rivelarsi più simbolica che operativa.
L’applicazione estesa dell’etichetta terroristica a un movimento che include anche attività di protesta legittime rischia di raffreddare il dissenso legittimo ed espandere la sorveglianza statale in modi difficili da contenere.

Le implicazioni di policy si estendono anche agli ambienti digitali. Espressioni online di simpatia o identificazione con Antifa potrebbero, a seconda della discrezionalità dei procuratori, essere interpretate come “sostegno materiale”. Anche se i tribunali finissero per restringere la definizione, la percezione del rischio potrebbe scoraggiare individui dall’esercitare un diritto legittimo, producendo un effetto dissuasivo incompatibile con le norme democratiche. Questa dinamica evidenzia la tensione tra obiettivi di controterrorismo e protezione delle libertà civili quando strumenti concepiti per minacce estere vengono applicati al contesto interno.

Questa dinamica evidenzia la tensione tra obiettivi di controterrorismo e protezione delle libertà civili quando strumenti concepiti per minacce estere vengono applicati al contesto interno

In sintesi, dichiarare Antifa un’organizzazione terroristica mette in luce le difficoltà di adattare i quadri normativi antiterrorismo a movimenti diffusi, basati su reti e radicati all’interno di società democratiche. La policy potrà produrre benefici simbolici e in termini di deterrenza, ma si scontra con ostacoli giuridici, operativi e normativi rilevanti. L’impatto a lungo termine sarà determinato dall’interpretazione giuridica, dalle modalità di applicazione delle norme e dal fatto che questa misura riesca a contenere la violenza o finisca per accentuare la polarizzazione e compromettere le garanzie costituzionali.


L’inimmaginabile: Lutnick, Trump e la sfida delle tariffe per rifondare l’America

di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti
esperta di politica USA
accreditata presso il Dipartimento di Stato
per START InSight

THE BLITZKRIEG  – LA GUERRA LAMPO
È di questi giorni un sondaggio della NBC che rileva la percentuale di gradimento e non del presidente Trump. Sicuramente ha registrato il più alto consenso mai raggiunto durante i suoi due mandati, con una media del 47% di americani che approva il suo operato e il 44% che ritiene che il Paese stia procedendo nella giusta direzione. Un record personale per Trump.

Ma nonostante questi dati incoraggianti, la maggioranza degli americani continua a non sostenerlo, rendendo il suo indice di gradimento complessivamente negativo. Trump aveva iniziato la sua presidenza con un bilancio positivo, ma nelle ultime settimane la percentuale di consensi è tornata lentamente a ridursi e, e anche con l’attuale picco di popolarità, Trump rimane comunque il presidente meno apprezzato della storia moderna americana, rispetto a qualsiasi altro presidente nello stesso periodo iniziale. Mentre i consensi per il presidente Trump sono in calo, il Partito Democratico tenta di affrontare una crisi di popolarità ancora più grave: solo il 27% degli elettori registrati ha attualmente un’opinione positiva dei Democratici, a fronte del 55% che esprime giudizi negativi. È il livello più basso mai raggiunto dal partito, dove il 38% degli intervistati dichiara addirittura una visione “estremamente negativa”. 

Guardando i numeri al Congresso: i repubblicani detengono attualmente una maggioranza di 53-47 al Senato, mentre alla Camera detengono una maggioranza di 218-213, piccoli margini che hanno obbligato Trump a ritirare e quindi dover ripensare alla nomina ad ambasciatore presso le Nazioni Unite, di Alice Stefanick, deputata per lo Stato di New York. Ecco perché i primi cento giorni sono cruciali, non solo per poter usufruire del minimo risicato di maggioranza (qualsiasi Executive Order presidenziale deve essere approvato dal Congresso), ma anche per dimostrare che quanto promesso in campagna elettorale è vero e quindi aumentare il consenso del pubblico.

I NUMERI
Tralasciando le teatralità, parliamo di economia che è alla base di quasi tutte le decisioni politiche ad oggi prese per il paese. Gli Stati Uniti sono il Paese più ricco al mondo, con un bilancio annuale di 6.500 miliardi di dollari ed entrate per 4.500 miliardi, il che genera una perdita annuale di circa 2.000 miliardi. Con un PIL di 29.000 miliardi di dollari e un debito complessivo di 36.000 miliardi, gli USA possono però contare su un valore patrimoniale stimato tra i 500 e i 1.000 trilioni di dollari, un patrimonio che li rende estremamente solidi dal punto di vista economico.

“Secondo questa visione, non sarebbe necessario ridurre nemmeno di un centesimo i fondi destinati ai cittadini che hanno realmente diritto ai benefici sociali, come la previdenza (Social Security), Medicaid o Medicare. La vera sfida sarebbe invece quella di eliminare le inefficienze, smettendo di inviare denaro pubblico a chi approfitta del sistema assistenziale, ad esempio persone che ricevono assegni di invalidità per decenni pur svolgendo altre attività lavorative. In sintesi, gli Stati Uniti dovrebbero semplicemente iniziare a monetizzare e sfruttare in modo efficace i propri immensi asset per ristabilire la responsabilità fiscale”, racconta Lutnick, il neoeletto Segretario del Dipartimento per il commercio.

HOWARD LUTNICK
Ma chi è Lutnick? Howard Lutnick è un imprenditore di origini ebraiche noto principalmente come presidente e amministratore delegato della Cantor Fitzgerald, nota per essere una delle principali società di servizi finanziari a livello globale, oggi con oltre 12.500 dipendenti distribuiti in più di 60 uffici in 20 paesi. Riconosciuta come uno dei 24 operatori primari autorizzati a negoziare titoli di Stato con la Federal Reserve Bank di New York, occupava gli ultimi cinque piani di una delle Torri Gemelle quando, l’11 settembre 2001, fu tragicamente colpita dagli attentati terroristici, in cui morirono 658 dipendenti, inclusi il fratello Gary, e il suo migliore amico, Doug. Cantor Fitzgerald guadagnava circa un milione di dollari al giorno, ed era stata costruita sulla filosofia di assumere persone attraverso il passaparola dei dipendenti stessi, creando così un ambiente di lavoro coeso e motivato. Dopo la tragedia, il chairman Lutnick decise di aiutare economicamente tutte le famiglie delle vittime, donando il 25% degli utili aziendali. Nonostante l’impatto devastante, Lutnick è riuscito a ricostruire la società, principalmente grazie alla totale assenza di debiti. Questa sua esperienza di gestione delle crisi e il suo approccio pragmatico lo hanno reso una figura nota al pubblico, anche fuori dal settore finanziario.

Nel 2023 Trump, che lui chiama simpaticamente DJT, gli chiede di affiancarlo per risanare il debito pubblico americano. Lutnick, fino a quel momento non coinvolto nella politica, accetta, decidendo di impegnarsi personalmente e finanziariamente. Lutnick affronta l’incarico con sistematicità, studia, legge, s’informa su ogni dettaglio che spieghi il funzionamento della Casa Bianca, le politiche commerciali in essere e delinea così le strategie finanziarie necessarie per equilibrare il bilancio federale.

PRIMA IDEA – DOGE
Da imprenditore, decide di focalizzarsi su come risanare il bilancio federale, in particolare su una revisione approfondita della spesa pubblica, che è pari a circa quattro trilioni di dollari l’anno. Lutnick è certo che non essendoci mai stata verifica, almeno il 25% di queste spese potrebbero essere ridotte semplicemente eliminando errori o frodi, per un risparmio stimato di circa un trilione di dollari annuo. Inoltre, Lutnick ritiene possibile generare un ulteriore trilione di dollari attraverso nuove entrate, come i dazi doganali. È lui che decide di coinvolgere Elon Musk nel progetto, ed è lui che inventa l’acronimo DOGE (Department of Government Efficiency). Musk, la cui rapidità di azione e i cui tagli drastici una volta acquisito Twitter sono noti, accetta con entusiasmo, suggerendo una riduzione fino all’80% della forza lavoro governativa, paragonando la situazione del governo federale alla sua esperienza. Lutnick presenta DOGE come una fornitura gratuita di strumenti e tecnologie innovative al governo, senza dover passare per le tradizionali procedure burocratiche.

SECONDA IDEA – I DAZI DOGANALI
Storicamente, fino al 1913 gli Stati Uniti non avevano imposte sul reddito e questa tassazione viene introdotta per finanziare lo sforzo bellico per la Prima Guerra Mondiale. In seguito dopo la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, Truman con il Piano Marshall (1948), decide consapevolmente di abbassare i propri dazi doganali per favorire la ripresa economica degli altri Paesi devastati dal conflitto, accettando che questi ultimi imponessero tariffe elevate sui prodotti statunitensi.  Tuttavia, secondo Lutnick, “ci siamo dimenticati che questa era una strategia temporanea e l’abbiamo mantenuta anche quando non era più necessaria”. Esemplare è il caso del Kuwait, (qui tutti ricordano ancora la storia di Red Adair, eroe americano, il ‘pompiere’ dei pozzi petroliferi), che dopo essere stato liberato grazie all’aiuto militare con una spesa di cento miliardi di dollari, è il paese che, da allora, ha imposto le tariffe in assoluto più alte.

In questo contesto, Donald Trump emerge come l’unico politico americano ad aver compreso profondamente la necessità di cambiare rotta e inserisce sempre grazie a Lutnick un aspetto umano, perché il nonno di quest’ultimo lavorava nell’industria automobilistica, in stabilimenti situati nel Midwest. “Grazie a questi lavori, intere generazioni di operai come loro potevano godere di una vita stabile e dignitosa”. – “In tanti ricordano gli accordo NAFTA creati da Clinton, che permisero alle grandi aziende americane di trasferire le loro fabbriche in Messico, causando una devastante perdita di lavoro e dignità per intere generazioni di operai soprattutto nell’industria automobilistica del Midwest. È per difendere proprio queste persone, che Trump sostiene con convinzione la politica di reintrodurre tariffe adeguate, proteggendo così i lavoratori americani e favorendo il ritorno della produzione negli Stati Uniti”.  Secondo Lutnick, il concetto di commercio internazionale realmente “libero ed equo” non esiste, poiché ogni Paese protegge il proprio mercato con tariffe doganali, come ad esempio l’India, che applica una tariffa media del 50%, mentre gli Stati Uniti restano fermi ad appena il 4%. Anche la Cina è un esempio significativo: pur essendo una grande economia con un PIL di circa 10 trilioni di dollari, consuma principalmente i propri prodotti e applica alte tariffe ai beni importati, limitando fortemente l’accesso ai mercati esteri.

TARIFFE
Rispondendo alla preoccupazione che le tariffe possano causare inflazione, Lutnick precisa che quest’ultima deriva principalmente dall’aumento della quantità di moneta in circolazione, e non dalle tariffe in sé. La critica comune degli economisti secondo cui le tariffe porterebbero all’inflazione e alla recessione è, per Lutnick, basata su un contesto teorico di scambi liberi ed equi, che in realtà non esiste. Pur riconoscendo che alcuni prodotti importati possono diventare più costosi a causa delle tariffe, Lutnick afferma che ciò equivale semplicemente a una tassa sui consumi e non genera inflazione generalizzata. L’obiettivo centrale delle politiche tariffarie di Trump è infatti riportare la produzione negli Stati Uniti – reshoring –  creando posti di lavoro più qualificati e meglio retribuiti. Già nelle prime settimane della nuova amministrazione Trump, aziende come TSMC hanno investito circa 2 trilioni di dollari in nuovi impianti produttivi sul territorio per evitare le nuove tariffe.

Ad oggi ecco l’elenco delle principali aziende che hanno annunciato importanti investimenti in nuovi stabilimenti produttivi negli Stati Uniti, con i relativi importi:

  1. Apple: Ha annunciato nel febbraio 2025 un investimento complessivo di oltre 500 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni, in settori come l’intelligenza artificiale e l’ingegneria dei semiconduttori.
  2. Hyundai Motor Group: Nel marzo 2025 ha comunicato investimenti pari a circa 21 miliardi di dollari, inclusa la costruzione di una nuova acciaieria da 5,8 miliardi in Louisiana.
  3. TSMC (Taiwan Semiconductor): Sta investendo circa 100 miliardi di dollari per espandere la capacità produttiva negli Stati Uniti, concentrandosi sulla produzione di semiconduttori.
  4. Eli Lilly and Company: Ha deciso di raddoppiare gli investimenti negli stabilimenti americani, portandoli a 1,7 miliardi di dollari, con nuovi impianti in North Carolina e Indiana.
  5. Meta Platforms: Ha annunciato un investimento di 10 miliardi di dollari per la costruzione del suo più grande data center, situato in Louisiana.
  6. Samsung Electronics: Ha confermato la realizzazione di una fabbrica di semiconduttori in Texas, con un investimento pari a 17 miliardi di dollari, prevista operativa dalla seconda metà del 2024.
  7. Intel: Ha pianificato investimenti iniziali di circa 20 miliardi di dollari per la realizzazione di nuove fabbriche di semiconduttori in Ohio, con possibilità di espansione fino a 100 miliardi.
  8. Micron Technology: Ha annunciato la costruzione di un nuovo stabilimento produttivo di semiconduttori nello stato di New York con un investimento iniziale di 20 miliardi di dollari, potenzialmente espandibile a 100 miliardi in due decenni.
  9. Texas Instruments: Ha avviato investimenti che potrebbero raggiungere i 30 miliardi di dollari per nuovi impianti produttivi di semiconduttori in Texas.
  10. Wolfspeed: Nel settembre 2022, ha annunciato un investimento di circa 1,3 miliardi di dollari per realizzare la più grande fabbrica al mondo di semiconduttori al carburo di silicio, situata in North Carolina.

Infine, Lutnick riconosce che esiste una gamma limitata di prodotti altamente tecnologici e specializzati, come alcune attrezzature per semiconduttori prodotte da ASML, che non potranno essere prodotte facilmente negli Stati Uniti per almeno altri cinque o sei anni. Per queste specifiche categorie, suggerisce quindi di adottare soluzioni più mirate e flessibili, riconoscendo la necessità di un approccio tariffario più equilibrato per tali settori strategici.

Gli Stati Uniti sono la principale economia consumatrice globale, con un PIL di 29 trilioni di dollari, di cui ben 20 trilioni rappresentano acquisti effettuati dagli americani stessi. Questo rende l’America il principale cliente mondiale, essenziale per l’economia globale. Di conseguenza, gli altri paesi, che dipendono dal mercato statunitense, dovrebbero pagare tariffe per accedervi. Introducendo tariffe sui prodotti esteri, l’America potrebbe generare nuove entrate che permetterebbero al governo federale di ridurre le tasse interne per i cittadini americani. Questa nuova entrata esterna viene chiamata ironicamente da Lutnick “External Revenue Service”, (il fisco americano si chiama Internal Revenue Service), un’idea che ha presentato personalmente a Trump e che è stata accolta con entusiasmo. Lutnick vede in questo meccanismo un ritorno alla prosperità economica americana precedente al 1913, quando il paese prosperava attraverso tariffe, senza tasse sul reddito. Infine, abbassando le tasse interne, il costo effettivo del lavoro diminuirebbe, poiché i lavoratori sarebbero più motivati se gli stipendi fossero esentasse. Questa strategia potrebbe migliorare significativamente la competitività economica degli Stati Uniti e la qualità della vita dei suoi lavoratori.

Ma l’altra grande novità che con probabilità verrà istituita è l’introduzione di un nuovo sistema software per gestire le tariffe doganali: Lutnick vuole creare un sistema tecnologico avanzato basato sull’intelligenza artificiale (AI), progettato per automatizzare e semplificare radicalmente il processo di riscossione dei dazi doganali negli Stati Uniti. Il sistema funzionerà in questo modo:

  1. Identificazione automatica del prodotto:  Utilizzando tecnologie avanzate come il riconoscimento fotografico e l’intelligenza artificiale, il software sarà in grado di identificare rapidamente ogni prodotto importato, semplicemente analizzando un’immagine della merce.
  2. Calcolo automatico delle tariffe:  Una volta identificato il prodotto, il sistema consulterà automaticamente un database aggiornato per determinare la tariffa doganale appropriata da applicare, secondo la categoria merceologica e le regole commerciali vigenti.
  3. Misurazione precisa del peso:  Il sistema includerà bilance estremamente accurate, in grado di misurare il peso del prodotto con grande precisione (fino a 13 cifre decimali, come avviene per l’oro). Questo metodo assicurerà che non vi siano errori nel calcolo del peso e, di conseguenza, nelle tariffe applicate.
  4. Eliminazione delle verifiche manuali:  Grazie all’accuratezza dell’identificazione automatizzata e alla precisione delle bilance, non sarà più necessario aprire fisicamente i pacchi per verificare il contenuto, riducendo enormemente i tempi e aumentando l’efficienza.
  5. Collaborazione con aziende tecnologiche:  Lutnick ha già ottenuto l’impegno gratuito da parte delle principali aziende tecnologiche americane (tra cui Google, Amazon, Microsoft ed Elon Musk con le sue società) per sviluppare questo software. Queste aziende contribuiranno volontariamente, riconoscendo il vantaggio strategico di sviluppare tecnologie che, se adottate dagli Stati Uniti, potranno essere successivamente esportate in tutto il mondo.

In sintesi, questo sistema mira a rivoluzionare la gestione delle tariffe doganali, rendendo il processo più rapido, accurato e sicuro, aumentando contemporaneamente gli introiti per gli Stati Uniti, eliminando inefficienze e riducendo drasticamente le possibilità di frodi ed errori amministrativi.

L’annuncio di tariffe del 25% sulle auto importate ha provocato reazioni negative nei mercati finanziari globali, con gli analisti che prevedono un aumento dei prezzi e una possibile stagnazione della produzione. Inoltre, la volatilità dei mercati riflette l’incertezza generata da queste misure protezionistiche, con gli investitori che mettono in dubbio la sostenibilità di tali politiche nel lungo termine. Secondo un articolo del Wall Street Journal, l’imposizione di nuovi dazi su acciaio e alluminio ha significativamente perturbato le catene di approvvigionamento manifatturiere, aumentando i costi sia per i prodotti importati che per quelli domestici. I dirigenti del settore manifatturiero hanno espresso preoccupazione, evidenziando che gli Stati Uniti non dispongono di una capacità produttiva sufficiente per materiali come fili di acciaio, viti e altri elementi di fissaggio. WSJ

Concludendo, se l’espansione delle guerre commerciali ha portato a un aumento delle misure protezionistiche a livello globale, rallentando la crescita economica e indebolendo la cooperazione internazionale, tuttavia non l’ha annullata.
Chissà che questa strategia non rimanga solo un esercizio solitario, ma venga adottata anche da altri paesi nel tentativo di trovare soluzioni al debito pubblico, risollevando le rispettive economie..?