Azione di Israele in Libano via mare: perché? Il commento di C. Bertolotti a RaiNews 24
di Claudio Bertolotti.
Azione di Israele in Libano via mare: perché? Il commento di C. Bertolotti a RaiNews 24 – Focus (puntata dell’8 ottobre 2024)
In primo luogo va detto che la capacità difensiva di
Hezbollah si fonda su un sostegno militare e finanziario dell’Iran che sta
facendo del Libano il fronte di scontro diretto con Israele, non volendo
Teheran essere direttamente coinvolta. Un sostegno militare che garantisce a
Hezbollah una capacità militare offensiva – messa in atto dal 7 ottobre di un
anno fa a danno di Israele, in violazione della risoluzione 1701 del CdS
dell’ONU – e una difensiva. E proprio la capacità difensiva, la resistenza di
Hezbollah sul fronte terrestre a sud, ha suggerito alle forze israeliane di
optare per l’apertura di un secondo fronte, non presidiato da postazioni
organizzate, bunker e tunnel, lungo la costa. Questo offre un doppio vantaggio:
il primo è la dispersione delle forze di Hezbollah, così costretto a dividersi
e a diluirsi su due settori; il secondo è una minore esposizione delle forze
israeliane alla difesa organizzata così come lo è a sud, riuscendo così a
prendere le posizioni tenute da Hezbollah con minori rischi.
Le forze armate libanesi non sono coinvolte nel conflitto,
che è uno scontro tra Israele e Hezbollah, e non contro il Libano. Come
confermano la posizione del governo libanese e delle forze armate nazionali (il
generale Joseph Aoun, ha fatto visita al presidente del parlamento Nabih Berri),
che di fatto risponderanno solo nel caso in cui i soldati libanesi fossero
oggetto del fuoco israeliano, di fatto dando carta bianca a Israele per contenere
o eliminare Hezbollah. A ciò si contrappone però il rischio di un collasso
dello stato libanese, poiché l’indebolimento di Hezbollah o la sua scomparse
determinerebbe il riaccendersi di competizioni tra gruppi di potere su base
settaria. Insomma il rischio di una nuova guerra civile.
L’attacco di Israele a Hezbollah: tra politica e strategia militare
di Claudio Bertolotti.
Sul piano politico-strategico Israele persegue l’obiettivo di distruggere l’asse della resistenza, che è la prima minaccia che incombe su Israele (forse non più). Una scelta che determinerà, in primis, una ridefinizione degli equilibri in Medioriente, con una progressiva erosione della minaccia attraverso l’indebolimento o la disarticolazione irreversibile dei suoi attori di prossimità (Hamas, Hezbollah, Ansar-Allah yemeniti, milizie sciite irachene, Siria). Aspetto prioritario rimane il proseguimento del processo di normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi avviato con gli “Accordi di Abramo”, sponsorizzato dagli Stati Uniti che, sebbene rallentato dal conflitto in atto, rimane la priorità condivisa da Washington, Gerusalemme e Riad.
Sul piano strategico-militare l’azione contro Hezbollah ha un intento preventivo a un’eventuale minaccia simultanea da parte del cd. “Asse della Resistenza” guidato da Teheran che metterebbe in crisi il sistema contraereo Iron Dome israeliano in conseguenza della saturazione della capacità di risposta (più attacchi rispetto alla capacità di reazione israeliana). Questo coerentemente con la visione israeliana che percepisce la minaccia iraniana come esistenziale e adotta un approccio preventivo.
Scelte, quella politica e quella militare, che concretizzano l’approccio teorico e di prontezza operativa definito nei documenti di “Strategia per la sicurezza nazionale” e la “Dottrina strategica militare”.
Con la serie di azioni a danno di Hezbollah, Israele è
riuscito a scardinare non tanto la sostanza di un’alleanza, ma la sua illusione
di potenza e deterrenza. L’Iran ormai è nudo, è debole, e i suoi alleati
pregiati, da Hamas e Hezbollah sono stati drasticamente ridimensionati sia sul
piano politico (uccisioni targeting) sia militare. Hamas è ormai ridotto ai
minimi termini militarmente parlando, Hezbollah è privo di capacita di comando,
controllo e comunicazione, e questo dimostra come la retorica iraniana sia
ormai stata smentita dai fatti.
E la preoccupazione di Teheran aumenta con l’avvicinarsi
delle elezioni statunitensi. Oggi gli Stati Uniti sostengono senza sé e senza
ma Gerusalemme. E se è comprensibile una certa ritrosia dell’amministrazione
democratica a un’intensificazione dello scontro regionale (a cui Washington non
farebbe comunque mancare il proprio appoggio), un’eventuale vittoria
repubblicana di fatto rafforzerebbe la linea politica israeliana già
consolidata.
Nasrallah morto nei raid israeliani. Intervista a C. Bertolotti
SkyTG24 del 28 settembre 2024. L’intervista al Direttore di START InSight a partire dal minuto 11.21
Cognitive warfare: manipolare i numeri per condizionare l’opinione pubblica globale. Come Hamas ha ingannato i media occidentali.
L’articolo analizza l’emergere della “guerra cognitiva” come strategia moderna che sfrutta tecnologie avanzate e tecniche psicologiche per manipolare la percezione pubblica, superando la tradizionale disinformazione. In questo contesto, Hamas ha adottato tali tattiche per influenzare l’opinione pubblica globale durante il conflitto con Israele. Utilizzando simboli, narrazioni emotive, e campagne mediatiche, Hamas ha manipolato le informazioni per ottenere supporto internazionale. L’articolo esamina anche la manipolazione dei dati sulle vittime del conflitto da parte di Hamas, evidenziando incongruenze statistiche che suggeriscono la falsificazione deliberata per confondere e condizionare la percezione globale degli eventi.
La guerra cognitiva e le sue potenzialità a favore del terrorismo di Hamas.
Nell’era digitale, la guerra non è più confinata ai campi di battaglia fisici. Al centro del conflitto contemporaneo emerge il concetto di “guerra cognitiva”, una strategia sofisticata che mira a influenzare, modellare e talvolta controllare la percezione e il comportamento umano. La guerra cognitiva si distingue per l’uso di tecnologie avanzate e tecniche psicologiche per infiltrarsi nelle menti degli individui. Questo approccio va oltre la semplice disinformazione o propaganda; «include l’uso di intelligenza artificiale, algoritmi di apprendimento automatico per influenzare il pensiero e le decisioni delle persone senza il loro consenso esplicito» (Farwell, J. 2020). Questo tipo di guerra si avvale della vulnerabilità delle società moderne all’overload informativo, utilizzando le stesse piattaforme che facilitano la comunicazione globale e l’accesso all’informazione per diffondere contenuti mirati a destabilizzare.
L’articolo che segue analizza come l’attore
para-statale Hamas abbia adottato strategie di guerra cognitiva per avanzare i suoi
obiettivi geopolitici, economici e sociali. Attraverso il caso studio della
guerra Israele-Hamas in corso e analisi teoriche, esploriamo come queste
tattiche vengano impiegate in uno scenario di conflitto ibrido, caratterizzato
dalla manipolazione.
Questa articolo, frutto di attività di ricerca e
tratto dal volume “Gaza Underground: la
guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas”, non solo mette in luce le
capacità distruttive della guerra cognitiva, ma promuove anche un dibattito
critico sulle norme internazionali e le politiche necessarie per regolamentare
l’uso delle tecnologie cognitive in contesti bellici.
La guerra cognitiva rappresenta una frontiera critica
e inquietante del conflitto moderno. La nostra comprensione di questo fenomeno
è essenziale per la salvaguardia delle democrazie e per il mantenimento della
pace e della stabilità globale.
L’influenza delle
opinioni pubbliche amiche e avversarie
Nel corso del conflitto con Israele, Hamas ha adottato
varie strategie di cognitive warfare
– la guerra cognitiva – per influenzare l’opinione pubblica, sia
arabo-musulmana che occidentale, al fine di ottenere sostegno per la propria
causa.
Un elemento chiave è stato l’uso di simboli e
narrazioni. Hamas ha adottato simboli e narrazioni tesi a suscitare empatia o
sostegno per la propria causa, cercando di creare un legame emotivo tra il
pubblico e la sua lotta. Una scelta che ha contribuito a plasmare le opinioni
delle persone attraverso un’identificazione emotiva con la causa di Hamas.
Le attività online
hanno rappresentato un’altra tattica importante. Hamas ha saputo ben sfruttare
le piattaforme in rete per diffondere messaggi, coinvolgere l’opinione pubblica
e coordinare attività di propaganda. Una presenza virtuale che ha garantito al
gruppo di raggiungere un vasto pubblico in tutto il mondo.
La messa in scena di eventi mediatici è un’altra
strategia impiegata da Hamas, che ha saputo organizzare con cinica maestria
eventi o situazioni mirate a generare un’ampia e favorevole copertura mediatica
o a suscitare emozioni di sdegno – verso Israele – e di solidarietà – verso i
palestinesi. Questi eventi sono stati progettati per influenzare l’opinione
pubblica attraverso una narrazione a supporto della causa di Hamas, volutamente
sovrapposta e confusa con la cosiddetta “causa palestinese”. Un target, quello di Hamas, che è solo
secondariamente interno poiché l’obiettivo primario è il coinvolgimento
dell’opinione pubblica internazionale. Hamas ha così tentato di ottenere
sostegno a livello globale coinvolgendo organizzazioni internazionali, governi
o gruppi di pressione: una strategia che ha mirato ad ampliare il sostegno
internazionale alla sua causa, influenzando così la percezione globale del
conflitto. In sintesi, attraverso l’uso coordinato di queste strategie, Hamas
ha cercato di modellare la percezione del pubblico a livello locale e
internazionale, puntando ad ottenere il più ampio sostegno possibile contro Israele
(Bachmann, 2024)
Una delle principali strategie è stata proprio la
propaganda mediatica, basata sull’utilizzo dei media per diffondere un’interpretazione favorevole della causa di
Hamas. Attraverso interviste, comunicati stampa e altri mezzi, i funzionari di
Hamas hanno cercato di plasmare la percezione del pubblico a loro favore. Nel
corso del conflitto Hamas ha così sfruttato i media per diffondere immagini e storie progettate per suscitare
empatia e sostenere la propria narrativa, inclusa la presentazione di immagini
di vittime civili o situazioni drammatiche, spesso senza contestualizzazione o
con informazioni frammentate.
Inoltre, aspetto maggiormente rilevante – e in parte
già accennato – Hamas ha adottato la disinformazione come “tecnica di combattimento”,
diffondendo deliberatamente informazioni false o fuorvianti per confondere e
manipolare la percezione degli eventi. Un approccio che ha creato un ambiente
caratterizzato da una verità sfocata, mettendo in dubbio la credibilità delle
fonti di informazione e complicando la comprensione dei fatti da parte del
pubblico.
Un esempio: il cosiddetto Ministero della Salute di
Gaza, di fatto controllato e gestito da Hamas, ha dichiarato, al 1 marzo 2024,
un numero di morti superiore a 30.000, principalmente donne e bambini. È
credibile? No, non lo è.
Abraham Wyner, professore di statistica e
data
science
presso la Wharton School dell’Università della Pennsylvania e condirettore
della facoltà di Sports Analytics and Business Initiative, ha condotto uno
studio sulla questione utilizzando i dati forniti da Hamas dal 26 ottobre al 10
novembre 2023, pubblicato in forma sintetica nell’articolo How the Gaza Ministry of Health Fakes Casualty Numbers. The evidence is in their own poorly
fabricated figures (Wyner, 2024), le cui conclusioni si riportano qui in
forma sintetica.
Il conteggio delle vittime civili a Gaza ha catturato
l’attenzione internazionale sin dall’inizio della guerra. La principale fonte
di dati a cui i media e la politica a
livello globale hanno fatto riferimento è stata il Ministero della Salute di
Gaza controllato da Hamas, il quale ha sostenuto – alla data del 1° marzo 2024
– un dato di oltre 30.000 morti, la maggioranza dei quali costituita da bambini
e donne. La stessa amministrazione statunitense, guidata dal presidente Joe
Biden, ha dato credibilità ai dati di Hamas. Durante un’audizione alla
commissione dei servizi armati della Camera alla fine di febbraio, il
Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha affermato che il numero di donne e
bambini palestinesi uccisi dal 7 ottobre fosse “oltre 25.000”; affermazione a
cui è seguita la pronta precisazione del Pentagono in cui si evidenziava che il
Segretario avesse citato «una stima del Ministero della Salute di Gaza
controllato da Hamas». Lo stesso presidente Biden aveva precedentemente
menzionato quella cifra, sottolineando che «troppi, degli oltre 27.000
palestinesi uccisi in questo conflitto [fossero]
civili innocenti e bambini». Affermazione, anche in questo caso, a cui è
seguita la nota stampa della Casa Bianca riportante il fatto che il presidente
avesse fatto «riferimento a dati pubblicamente disponibili sul numero totale di
vittime» (Wyner, 2024).
Il problema con questi dati è evidente: i numeri non
sono veritieri. Una considerazione che partendo dall’analisi di dati e
informazioni disponibili, suggerisce come le vittime non possano essere in
prevalenza donne e bambini ma, al contrario, combattenti di Hamas.Se i
numeri di Hamas sono in qualche modo alterati o fraudolenti, questo è
verificabile attraverso l’analisi degli stessi dati, i quali, anche se
limitati, sono comunque sufficienti. Vediamo come Wyner ha potuto verificarne
l’attendibilità.
Dal 26 ottobre al 10 novembre 2023, il Ministero della
Salute di Gaza ha pubblicato giornalmente cifre sulle vittime, includendo sia
il numero totale sia quello specifico di donne e bambini. Il primo elemento su
cui Wyner (2024) ha posto l’attenzione è il numero “totale” di morti riportato
che, come illustrato nel grafico in Figura
10, mostra un aumento costante nel tempo, quasi lineare.
Questa costanza nell’andamento delle morti mostra
elementi incoerenti che suggeriscono un elevato grado di non genuinità. In
altri termini, non sarebbero veritieri. Ci si aspetterebbe una certa variazione
giorno per giorno, ma la media del conteggio giornaliero delle vittime durante
il periodo in esame è di circa duecentosettanta, più o meno il quindici
percento: una variazione sorprendentemente minima perché ci si aspetterebbero
giorni con almeno il doppio della media (o più) e altri con la metà (o meno).
Ciò che emerge è la probabilità che il ministero di Gaza abbia diffuso numeri
giornalieri falsati, che variano troppo poco rispetto al normale andamento
statistico e ciò sarebbe conseguenza del fatto che, da parte di chi avrebbe
prodotto quei dati, vi sarebbe una mancanza di comprensione del comportamento
dei numeri che si verificano naturalmente. Pur a fronte dell’assenza di dati di
controllo verificati, i dettagli dei conteggi giornalieri rendono i numeri
quantomeno sospetti (Wyner, 2024).
Entrando più nel dettaglio, rileva Wyner, dovremmo
osservare variazioni nel numero di vittime bambini che seguono la variazione
nel numero di donne. Questo perché la fluttuazione giornaliera nei conteggi
delle morti è causata dalla variazione nel numero di attacchi su edifici residenziali
e contro i tunnel, il che dovrebbe risultare in una considerevole variabilità
nei totali ma con una variabilità inferiore nella percentuale di morti tra i
gruppi (uomini, donne, bambini): è un principio statistico basilare sulla
variabilità casuale. Di conseguenza, nei giorni con molte vittime donne
dovrebbero esserci grandi numeri di bambini vittime, e nei giorni in cui si
riporta un basso dato di donne uccise, dovrebbero essere riportati solo pochi
bambini. Questa relazione può essere misurata e quantificata dal coefficiente
di determinazione (R-quadrato) che indica quanto siano correlati i conteggi
giornalieri delle vittime donne con i conteggi giornalieri delle vittime
bambini. Se i numeri fossero reali, ci si aspetterebbe un R-quadrato sostanzialmente
maggiore di 0, tendendo più vicino a 1,0. Ma il coefficiente di determinazione
R-quadrato, indicato dal grafico in Figura
11, è 0,017, il che indica che sul piano statistico e sostanziale non
differisce da 0 (Wyner, 2024).
Questa assenza di correlazione costituisce il secondo
indizio circostanziale che confermerebbe la non autenticità dei numeri forniti
dal Ministero della Salute di Gaza.
Un’analisi approfondita richiede di considerare un
fattore aggiuntivo significativo: considerata la dinamica del conflitto, ci si
aspetterebbe un numero giornaliero di vittime di sesso femminile strettamente
legato al numero di vittime di sesso maschile, escludendo donne e minori.
Questa ipotesi si basa sul presupposto che le variazioni nella frequenza e
nell’intensità dei bombardamenti e degli attacchi influenzino uniformemente i
conteggi giornalieri di entrambi i sessi. Contrariamente a tale aspettativa,
l’analisi dei dati non rivela una correlazione diretta tra i due; anzi, emerge
una marcata correlazione inversa (come illustrato nel grafico in Figura 12). Questo risultato appare
incoerente con le previsioni e suggerisce ancora una volta che i dati riportati
potrebbero non riflettere la realtà, offrendo un terzo indizio a supporto della
possibile mancata autenticità delle cifre comunicate.
Wyner ha poi identificato ulteriori incongruenze nei
dati analizzati: ad esempio, le cifre relative alle vittime maschili del 29
ottobre sembrano contraddire quelle del giorno precedente, suggerendo il
paradosso che ventisei uomini siano tornati in vita o, piuttosto, la
discrepanza potrebbe derivare da errori di attribuzione o di registrazione.
Inoltre, ci sono giornate in cui il numero di uomini segnalati come vittime è
insolitamente basso, quasi nullo; se si trattasse di semplici errori di
registrazione, ci si aspetterebbe che, in queste occasioni, il numero di
vittime femminili fosse normale, almeno in media. Tuttavia, rileva Winer, si è
osservato che nei tre giorni in cui il conteggio degli uomini è vicino allo
zero, il che suggerisce un errore, il numero di vittime femminili è
insolitamente alto. Curiosamente, i tre picchi giornalieri più elevati di
vittime femminili coincidono proprio con queste anomalie, come evidenziato dal
grafico in Figura 13) (Wyner, 2024).
Cosa dovrebbero indurci a pensare queste osservazioni?
Anche se le evidenze non sono conclusive, sembra fortemente indicativo che i
numeri siano stati generati attraverso un metodo poco o per nulla legato alla
realtà effettiva. Sembra che ci sia stata una decisione arbitraria da parte del
Ministero della Salute di Hamas nel fissare un numero totale di vittime
giornaliero. Questo si deduce dall’eccessiva regolarità con cui i totali
giornalieri aumentano, il che rende poco credibile la loro autenticità.
Successivamente, sembra che abbiano attribuito casualmente circa il settanta
percento di queste cifre totali alle donne e ai bambini, variando questa
distribuzione di giorno in giorno. Infine, il numero delle vittime maschili è
stato adattato per raggiungere il totale prefissato. Questo spiegherebbe il
perché di dati così incoerenti e delle evidenti anomalie osservate.[1]
Vi sono anche altre evidenti “bandiere rosse”. Il
Ministero della Salute di Gaza ha costantemente sostenuto che circa il settanta
percento delle vittime siano donne o bambini, un dato molto più alto rispetto
ai numeri riportati nei conflitti precedenti con Israele. Inoltre, se il
settanta percento delle vittime sono donne e bambini e il venticinque percento
della popolazione è composto da uomini adulti, ciò suggerisce che i numeri
riportati siano almeno grossolanamente inaccurati e molto probabilmente
falsificati. Infine, il 15 febbraio, Hamas ha ammesso di aver perso 6.000
propri combattenti, un dato che corrisponde a più del venti percento del totale
delle vittime riportate, il che pone in evidenza ulteriori incongruenze. Detto
in altri termini: se Hamas riporta che il settanta percento delle vittime sono
donne e bambini, ma anche che il venti percento sono combattenti, lo scenario
descritto è alquanto improbabile da riscontrare in occasione di un confronto
armato in territorio urbano, a meno che Israele non abbia in qualche modo
volutamente evitato di uccidere uomini non combattenti, oppure che Hamas voglia
lasciar intendere che quasi tutti gli uomini di Gaza siano combattenti di
Hamas.
Ci sono numeri migliori a disposizione per chi vuole
verificare la veridicità dei dati forniti da Hamas? Alcuni osservatori
obiettivi hanno riconosciuto che i numeri di Hamas in precedenti conflitti con
Israele fossero relativamente accurati. Tuttavia, la guerra Israele-Hamas
iniziata nel 2023 si è imposta come un qualcosa di completamente diverso dagli
eventi che l’hanno preceduta, per scala e per portata; gli osservatori
internazionali che in passato hanno potuto monitorare gli scontri tra Israele e
Hamas, sono stati completamente assenti nell’ultimo conflitto, quindi non è
possibile fare affidamento sul passato come elemento di riferimento. La “nebbia
della guerra” (fog of war) è
particolarmente densa a Gaza, e ciò rende impossibile determinare rapidamente i
totali delle morti civili con un adeguato grado di precisione. Inoltre, da un
lato, i conteggi ufficiali delle morti palestinesi non distinguono tra soldati
e bambini, dall’altro, Hamas incolpa Israele per tutte le morti, anche quelle
causate dal lancio fallito di razzi da parte palestinese, esplosioni
accidentali, omicidi deliberati o scontri intestini. A conferma di ciò, vi è un
documento ufficiale di Hamas (in Figura
14), recuperato dalle forze israeliane a Gaza, che si riferisce
apertamente alle vittime civili causate dal fallimento di lanci di razzi da
parte del gruppo Jihad islamico palestinese e che confermerebbe la volontà di
attribuirne la responsabilità a Israele.
Un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins Bloomberg
School of Public Health ha confrontato i rapporti di Hamas con i dati sui
lavoratori dell’Unrwa, sostenendo che, poiché i tassi di mortalità erano
approssimativamente simili, i numeri di Hamas non sarebbero stati aumentati
artificiosamente. Tuttavia, tale argomentazione si basa su un’assunzione non
verificata, ossia che i lavoratori dell’Unrwa non siano in modo sproporzionato
più inclini a essere uccisi rispetto alla popolazione generale; un’ipotesi che
potrebbe essere confutata – evidenzia Wyner – dalla possibile affiliazione a
Hamas di una frazione dei lavoratori dell’Unrwa, alcuni dei quali hanno
partecipato attivamente al massacro del 7 ottobre (Wyner, 2024).
La verità sulla guerra Israele-Hamas è ancora
sconosciuta e probabilmente rimarrà tale; ma è altresì probabile che il numero
totale delle vittime civili sia enormemente esagerato. Israele stima che almeno
12.000 combattenti palestinesi siano stati uccisi: se anche solo questo numero
fosse ragionevolmente accurato, il rapporto tra vittime non combattenti e
combattenti sarebbe notevolmente basso, il che indica uno sforzo notevole per
evitare perdite umane inutili mentre si combatte un nemico che si nasconde tra
la popolazione civile (Wyner, 2024).
Bibliografia
Farwell J. (2020), Information
Warfare: Forging Communication Strategies for Twenty-first Century Operational
Environments, Doi:10.56686/9781732003095.
Bachmann S.D. (2024), Hamas-Israel: Tik Tok and the relevance of
the cognitive warfare domain, Defense Horizon Journal.
Bertolotti C. (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, ed. START InSight, Lugano, pp. 325.
Wyner A. (2024), How the Gaza Ministry of Health Fakes Casualty Numbers. The evidence is in their own poorly fabricated figures, The Tablet, 7 marzo 2024, in https://www.tabletmag.com/sections/news/articles/how-gaza-health-ministry-fakes-casualty-numbers.
Hamas è organizzata in una serie di organi direttivi che gestiscono diverse funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità principale, che si occupa dell’agenda politica e strategica del movimento, è rappresentata dal consiglio della shura di Hamas, il vertice della leadership organizzativa, che opera in esilio. Tuttavia, le attività quotidiane del gruppo sono gestite dal bureau politico, mentre le operazioni militari sono sotto la responsabilità delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio militare del gruppo, che gode di un’ampia autonomia operativa. I comitati locali gestiscono le questioni di base nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Se fino ad oggi Hamas è stato caratterizzato da una dualità che ha visto contrapporsi l’anima politica esterna alla Striscia di Gaza a quella politico-militare a Gaza in un rapporto di sempre più accesa competizione, la nomina di Yahya Sinwar alla guida del movimento potrebbe aver di fatto archiviato l’opzione di un gruppo pragmatico – al netto delle posizioni radicali e violente – per lasciar posto in via esclusiva all’anima movimentista radicale, razionalmente violenta di orientamento jihadista votata alla causa massimalista: la distruzione di Israele, come premessa a qualunque opzione politica.
Chi è il nuovo capo di Hamas?
Fino
al momento della sua morte, Ismail Haniyeh ha ricoperto il ruolo di capo
politico mentre Yahya Sinwar ha gestito le questioni ordinarie a Gaza.
Conosciuto anche come Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, dal 2017 è il capo di Hamas nella
Striscia di Gaza e uno dei primi architetti del braccio armato di Hamas: è
sospettato di essere una delle menti dietro gli attacchi del 7 ottobre 2023.[1]
Nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Younis, Striscia di Gaza, da
genitori sfollati da Ashkelon durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo
aver frequentato le scuole primarie grazie al sostegno dell’Agenzia delle
Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa), all’inizio degli anni
Ottanta si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove lo studio della
lingua araba contribuì a plasmare la sua carismatica autopresentazione. Entrò
all’università in un momento in cui molti giovani palestinesi della Striscia di
Gaza guardavano all’islamismo come strumento di soluzione al conflitto
israelo-palestinese, dopo decenni di panarabismo rivelatosi fallimentare. Nel
1982 fu arrestato per la sua partecipazione alle prime organizzazioni islamiste
anti-israeliane.
Nel 1985, ancor prima della formazione di Hamas, Sinwar contribuì all’organizzazione di “al-Majd” (in arabo “gloria”, ma anche acronimo di Munazzamat al-Jihad wa al-Da’wah, “Organizzazione per il jihad e da’wah”). Al-Majd era una rete di giovani islamisti con il compito di smascherare il crescente numero di informatori palestinesi reclutati da Israele. Quando Hamas venne fondata nel 1987, al-Majd fu inglobata nei suoi quadri di sicurezza. Nel 1988 si scoprì che la rete era in possesso di armi e Sinwar fu detenuto da Israele per diverse settimane. L’anno successivo venne condannato a quattro ergastoli per l’omicidio di palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele.
Durante la sua lunga incarcerazione, Sinwar mantenne
una forte influenza sui suoi compagni di prigionia, usando tattiche di abuso e
manipolazione e godendo del supporto dei suoi contatti al di fuori del carcere.
Si impegnò a punire i compagni di prigionia che sospettava di essere
informatori e una volta costrinse circa 1.600 prigionieri a intraprendere uno
sciopero della fame. Trascorse anche gran parte del suo tempo libero studiando
ciò che poteva sui suoi nemici israeliani, leggendo giornali israeliani e
imparando l’ebraico.
Il rilascio di Sinwar avvenne nell’ambito dello scambio di prigionieri di alto profilo con Gilad Shalit, il soldato israeliano che era stato rapito da Hamas nel 2006 mentre era di stanza a un valico di frontiera. Dopo diversi tentativi falliti di mediare la libertà di Shalit, l’Egitto e la Germania si prodigarono per il suo rilascio nell’ottobre 2011. Il fratello di Sinwar, Mohammed, che era stato assegnato a sorvegliare Shalit, insistette affinché Sinwar fosse incluso nello scambio. Lo stesso giorno in cui Shalit venne rilasciato in Israele, Sinwar fu tra i primi prigionieri palestinesi a essere rimpatriati nella Striscia di Gaza.
Nell’aprile 2012, pochi mesi dopo il suo rilascio,
Sinwar fu eletto membro dell’ufficio politico di Hamas nella Striscia di Gaza.
Mise a frutto la sua esperienza come leader
carcerario e si guadagnò velocemente un’ottima reputazione all’interno di Hamas
per aver riunito le sue fazioni attraverso un compromesso. La retorica
infuocata di Sinwar conquistò da subito gli elementi più oltranzisti del
movimento; in tale cornice dinamica, pur prospettando l’avvio di un’era guidata
dall’ala militante, nei suoi primi anni da leader
Sinwar tenne un basso profilo e mostrò un lato pragmatico che gli consentì di
alleggerire lo stato di isolamento di Hamas. Mesi dopo la sua ascesa come leader del movimento, Hamas strinse un
accordo di riconciliazione con l’Anp e, per la prima volta dal 2007, cedette il
controllo di gran parte della Striscia di Gaza all’Autorità Palestinese, seppur
per un breve periodo. Anche le relazioni con l’Egitto tesero a migliorare,
tanto da portare Il Cairo ad allentare le restrizioni al valico di frontiera.
Al contempo, a conferma di una visione estremamente
razionale e pragmatica, il gruppo avviò una politica di dialogo e avvicinamento
all’Iran che portò in breve al reinserimento di Hamas nella rete di alleati di
Teheran e al conseguente sostegno militare e finanziario.
Sebbene alla fine del 2018, con l’avvio degli “Accordi di Abramo” sostenuti dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, si prospettasse un periodo di calma frutto del possibile processo di reciproco riconoscimento tra Israele e uno stato palestinese, nel maggio 2021 ci fu un ritorno all’ostilità aperta di Hamas nei confronti di Gerusalemme. La popolarità di Sinwar aumentò con il conflitto, e la sua autorevolezza si rafforzò in maniera significativa.
L’operazione battezzata “alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, mostra i segni distintivi
delle tattiche di Sinwar, e la presa di ostaggi rimanda all’importanza da lui
data agli scambi di prigionieri. Sinwar, le cui immagini diffuse dalle Idf a
febbraio 2024 confermano che si sia nascosto nella rete dei tunnel sotterranei
di Gaza utilizzando la propria famiglia come “scudo umano”, è stato
classificato come obiettivo primario di Israele e definito, secondo un
portavoce militare israeliano, come “un morto che cammina”.
Hamas è strutturata su una serie di organi direttivi che svolgono varie funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità in capo, responsabile dell’agenda politica e strategica del movimento, appartiene al consiglio della shura di Hamas, l’organo di leadership al vertice della catena organizzativa di comando,[1] che opera in esilio. Tuttavia, le operazioni quotidiane del gruppo rientrano nell’ambito del bureau politico, così come le operazioni militari fanno capo più specificamente al braccio militare del gruppo, le brigate Izz ad-Din al-Qassam, organo che gode di un alto grado di autonomia operativa.[2] I comitati locali gestiscono le questioni di base a Gaza e in Cisgiordania.
Quali sono i leader più importanti di Hamas a cui Israele dà la caccia? Tre i soggetti chiave del movimento: Khaled Meshaal, ex capo politico del movimento e ora capo ufficio politico estero, Yahya Sinwar, capo dell’ala militare di Hamas e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico del gruppo a Gaza, ucciso da Israele il 30 luglio 2024 in Iran, nella sua residenza di Teheran, a seguito di un probabile raid aereo con droni.
Storia, pregresso e ruolo politico di Ismail
Haniyeh
Ismail Haniyeh[3], conosciuto anche come Isma’il Haniyyah e Ismail Haniya, assurse al ruolo di primo ministro dell’Anp in seguito alla vittoria elettorale di Hamas del 2006; dopo i violenti scontri tra fazioni con la rivale Fatah, che portarono alla dissoluzione del governo e all’istituzione di un’amministrazione autonoma guidata da Hamas nella Striscia di Gaza, Haniyeh assunse il ruolo di leader del governo de facto nella Striscia (2007-14) e, nel 2017, fu scelto per sostituire Khaled Meshaal come capo dell’ufficio politico.
Figlio di genitori arabi palestinesi sfollati dal loro villaggio vicino ad Ashqelon (in quello che oggi è Israele) nel 1948, Haniyeh nacque nel 1962 nel campo profughi di Al-Shati’, Striscia di Gaza, dove trascorse i primi anni della sua vita. Come per la maggior parte dei minori rifugiati, Haniyeh fu educato nelle scuole gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa). Nel 1981 si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove studiò letteratura araba e iniziò l’attivismo politico studentesco, guidando un’associazione islamista affiliata ai Fratelli Musulmani. Quando Hamas si formò, nel 1988 Haniyeh era tra i suoi membri fondatori più giovani, avendo sviluppato stretti legami con il leader spirituale del gruppo, lo sceicco Ahmed Yassin. Haniyeh fu arrestato dalle autorità israeliane nel 1988 e imprigionato per sei mesi per la sua partecipazione alla Prima intifada. Arrestato di nuovo nel 1989, rimase in prigione fino a quando Israele lo deportò nel sud del Libano nel 1992 insieme a circa quattrocento altri islamisti. Tornò poi a Gaza nel 1993, in seguito agli accordi di Oslo, e fu nominato decano dell’Università islamica.
Il ruolo di leadership di Haniyeh in Hamas si radicò nel 1997, quando fu nominato segretario personale di Yassin, divenendone uno stretto confidente. I due furono bersaglio di un primo fallito tentativo di assassinio da parte di Israele nel 2003; una seconda operazione mirata israeliana portò alla morte di Yassin pochi mesi dopo. Nel 2006 Hamas partecipò alle elezioni legislative palestinesi, con Haniyeh in testa alla lista. Il gruppo ottenne la maggioranza dei seggi in parlamento e Haniyeh divenne primo ministro dell’Anp. La comunità internazionale reagì alla leadership di Hamas congelando gli aiuti all’Autorità Palestinese, con ciò mettendo a dura prova l’organo di governo. Nel giugno 2007, dopo mesi di tensione e un violento conflitto armato tra le fazioni, il presidente Mahmoud Abbas del partito Fatah destituì Haniyeh e ne sciolse il governo. La conseguenza fu l’istituzione di un governo autonomo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza, con Haniyeh a capo della compagine governativa. Poco dopo, Israele attuò un pacchetto di sanzioni e restrizioni alla Striscia di Gaza, con il supporto e la collaborazione dell’Egitto.
Nel gennaio 2008 un attacco con decine di razzi venne lanciato dalla Striscia di Gaza verso Israele; come pronta risposta Israele intensificò il suo blocco. Ciononostante, Hamas mantenne il controllo della Striscia di Gaza e il suo governo oscillò tra occasionali successi politici e battute d’arresto. Per quanto riguarda l’ottenimento di concessioni da Israele, Hamas ottenne il rilascio di oltre mille prigionieri palestinesi detenuti da Israele in cambio del soldato israeliano rapito Gilad Shalit. Un altro successo presentato all’opinione pubblica palestinese fu la performance di Hamas nella guerra contro Israele nell’estate del 2014 sebbene, a causa del blocco, le condizioni di vita all’interno della Striscia stessero progressivamente peggiorando. Nel frattempo, ci furono una serie di tentativi di riconciliazione tra Hamas nella Striscia di Gaza e l’Autorità Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania. In uno di questi tentativi, nel 2014, il governo di Hamas si dimise formalmente per far posto a un governo di unità nazionale con Fatah. Così facendo, Haniyeh rinunciò al suo incarico di primo ministro pur mantenendo quello di capo politico locale, fino a quando non venne sostituito da Yahya Sinwar nel 2017. Dopo pochi mesi, Haniyeh venne eletto capo dell’ufficio politico di Hamas, in sostituzione di Khaled Meshaal.
Nel dicembre 2019 Haniyeh lasciò la Striscia
di Gaza, trasferendosi all’estero, tra Turchia e Qatar, facilitando la sua capacità di rappresentare Hamas
all’estero. Tra le sue visite più importanti si citano il funerale di
Qassem Soleimani, un alto comandante del Corpo delle guardie rivoluzionarie
islamiche iraniane (Irgc) ucciso da un attacco di droni statunitensi nel gennaio 2020, l’insediamento del presidente
iraniano Ebrahim Raisi nell’agosto 2021 e il suo funerale il 23 maggio 2024.
Nello stesso anno, mentre le truppe statunitensi si ritiravano
dall’Afghanistan, Haniyeh chiamò il capo dell’ufficio politico e negoziatore
dei talebani, Abdul Ghani Baradar, per congratularsi con lui per il successo
nell’aver posto termine all’occupazione statunitense nel Paese. Nell’ottobre
2022 Haniyeh incontrò il presidente siriano Bashar al-Assad; quello fu il primo
incontro tra i leader di Hamas e
della Siria dalla rottura all’inizio della guerra civile nel 2011. In un raid israeliano a Gaza, il 10
aprile 2024, morirono tre dei suoi figli; un altro era morto in un precedente
attacco israeliano il 17 ottobre 2023.
Mahmoud Zahar: il
possibile sostituto di Ismail Haniyeh
La decisione di nominare il nuovo capo politico di Hamas spetta al consiglio della shura del movimento. Molto dipenderà dai nuovi equilibri politici determinati dal peso della rinforzata leadership militare che guida le brigate di HamasIzz ad-Din al-Qassam nella Striscia di Gaza.
Mahmoud Zahar è considerato uno dei leader più importanti di Hamas e membro della leadership politica del movimento: è uno dei principali candidati a sostituire Ismail Haniyeh. Frequentò la scuola a Gaza e l’università al Cairo, per poi lavorare come medico a Gaza e Khan Younis, fino a quando le autorità israeliane lo licenziarono in relazione al suo ruolo politico. Detenuto nelle carceri israeliane nel 1988, nel 1992 fu tra i deportati da Israele nella terra di nessuno, in Libano, dove vi trascorse un anno. Con la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, Zahar entrò a far parte del Ministero degli Affari Esteri nel nuovo governo del primo ministro Ismail Haniyeh.[4] Israele tentò di eliminarlo nel 2003, quando un aereo bombardò la sua casa nella città di Gaza. Sopravvisse all’attacco, nel quale però morì il figlio maggiore, Khaled. Il suo secondo figlio, Hossam, che era un membro delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, venne ucciso in un successivo attacco aereo a Gaza nel 2008.
[1] Berti B. (2013), Armed Political
Organizations: From Conflict to Integration, Johns Hopkins University Press.
[2] Hroub K. (2010), Hamas: A
Beginner’s Guide, London: Pluto Press.
[3] C. Bertolotti (2024),
Gaza Underground: la guerra sotterranea e
urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e
intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, pp. 40-44.
[4] C. Bertolotti (2024),
Gaza Underground: la guerra sotterranea e
urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e
intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, p. 40-44.
Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024: la recensione.
L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decima edizione, sottolinea l’importanza cruciale del Mediterraneo per Europa, Africa e Asia, evidenziando il ruolo chiave dell’Italia come ponte strategico nella regione. Esamina lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, mostrando come la stabilità del Mediterraneo sia fondamentale per gli interessi del paese. Celebrando figure storiche italiane come Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, il testo sottolinea l’importanza dell’Italia nella gestione delle risorse energetiche, sicurezza marittima e flussi migratori, promuovendo una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee. L’Atlante affronta anche le attuali instabilità regionali, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese, proponendo la soluzione a due Stati come via per una pace duratura. La stabilizzazione del Mediterraneo è vista come essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche. L’edizione esplora le dinamiche politiche e socio-economiche attuali e future del Mediterraneo, offrendo uno strumento per comprendere e affrontare le sfide della regione, enfatizzando il ruolo cruciale dell’Italia nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.
Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari; prefazione Di Paolo De Nardis; introduzione di Gianluigi Rossi, ed. Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Roma, pp. 570.
Keywords: Mediterraneo, Piano Mattei.
L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla
sua decime edizione, discute il ruolo cruciale del Mediterraneo nelle dinamiche
geopolitiche globali, evidenziando la sua importanza storica, culturale ed
economica per tre continenti: Europa, Africa ed Asia. In particolare sottolinea
come l’Italia, grazie alla sua posizione strategica, giochi un ruolo chiave
nella regione, agendo come ponte tra Nord e Sud, Est e Ovest. La decima
edizione dell’Atlante Geopolitico del Mediterraneo esamina, in particolare, lo
sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, dimostrando come gli
interessi dell’Italia siano strettamente legati alla stabilità della regione.
Un’evoluzione storica che evoca il ruolo giocato dalla politica estera italiana
nelle relazioni internazionali, richiamando i nomi di coloro che ne hanno
definito le direttrici, oggi in parte non più così ben definite, da Amintore
Fanfani a Giovanni Gronchi a Giorgio La Pira ed Enrico Mattei, il cui nome è
oggi il punto di riferimento ideale di un importante e ambizioso progetto di
cooperazione e collaborazione regionale particolarmente caro all’Italia.
Come storico non ho potuto che apprezzare lo sforzo degli
autori – e dunque dei curatori – nel ricostruire il ruolo dell’Italia nel
Mediterraneo negli ultimi settant’anni, evidenziando l’importanza del paese in settori
come la gestione delle risorse energetiche, la sicurezza marittima e i flussi migratori.
Il testo sottolinea la necessità di superare le vecchie dinamiche coloniali per
promuovere una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee.
La regione, viene rilevato nel testo, è attualmente
segnata da instabilità, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in
Tunisia e il conflitto israelo-palestinese. La soluzione a due Stati è vista
come l’unica strada per la pace duratura in Medio Oriente. Stabilizzare il
Mediterraneo è essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche.
Questa edizione dell’Atlante mira a esplorare le attuali
dinamiche politiche e socio-economiche del Mediterraneo e le prospettive
future, offrendo uno strumento essenziale per comprendere e affrontare le sfide
della regione. Il testo evidenzia l’importanza dell’Italia nel Mediterraneo,
sottolineando il suo ruolo cruciale nella politica estera e nella gestione
delle sfide regionali.
PARTE
PRIMA: APPROFONDIMENTI
“La
dimensione mediterranea della politica estera italiana fra Atlantico ed Europa
(1949-1969)” (di Bruna Bagnato).
Nel suo saggio l’Autrice
esamina le tre principali direttrici della politica estera italiana nel secondo
dopoguerra: europea, atlantica e mediterranea. Queste direttrici non sono
statiche ma si sono evolute in risposta ai cambiamenti geopolitici.
L’Italia, pur
geograficamente europea e mediterranea, ha dovuto integrare la sua
partecipazione all’alleanza atlantica (NATO) dal 1949, il che ha influenzato la
sua politica estera, spingendola ad adattarsi ai contesti della Guerra Fredda e
agli interessi occidentali. La divisione dell’Europa in blocchi orientale e
occidentale e le tensioni Est-Ovest hanno complicato la politica mediterranea italiana,
che ha dovuto affrontare le eredità coloniali e le sfide della
decolonizzazione.
La politica italiana,
influenzata dalle diverse stagioni politiche interne, ha oscillato tra
strategie mediterranee e europee. Negli anni ’50, con l’avvento del “neo-atlantismo”,
l’Italia ha cercato di coniugare l’impegno atlantico con una nuova politica
mediterranea, adottando posizioni anticoloniali per allinearsi con gli Stati
Uniti e differenziarsi dall’imperialismo anglo-francese.
Il testo, in
particolare, sottolinea come il “neo-atlantismo” abbia cercato di
dare all’Italia un ruolo più dinamico nel Mediterraneo, basato su una
cooperazione con gli Stati Uniti e una maggiore attenzione alle aspirazioni dei
paesi arabi. Tuttavia, questo approccio ha dovuto confrontarsi con le complessità
della politica europea, soprattutto con la posizione francese riguardo ai
territori d’oltremare e l’associazione dei paesi africani alla Comunità
Economica Europea (CEE).
Con la crisi di Suez
del 1956, l’Italia ha visto un’opportunità per consolidare la propria politica
mediterranea in sintonia con l’orientamento anticoloniale americano. Italia
che, negli anni ’60, ha dovuto affrontare le sfide del boom economico, della decolonizzazione e del cambiamento nelle
dinamiche della Guerra Fredda. La politica estera italiana nel Mediterraneo ha
dovuto adattarsi a un nuovo contesto internazionale, segnato dalla distensione
tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dall’evoluzione delle relazioni
euro-arabe.
La politica
mediterranea italiana si è quindi spostata verso un approccio multilaterale,
integrando le istanze comunitarie europee e ponendo le basi per una
collaborazione più stretta con i partner europei per la stabilizzazione
politica ed economica della regione. Questo cambiamento ha rappresentato un
allontanamento dalla precedente enfasi atlantica, con una maggiore enfasi sulla
cooperazione europea nel Mediterraneo.
La politica estera italiana e il
“Mediterraneo allargato” dalla crisi del centro-sinistra a oggi (di Antonio Varsori).
Premessa storica e contesto iniziale. Dalla fine della
Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Cinquanta, l’Italia, guidata dalla
Democrazia Cristiana (DC), ha cercato di superare le difficoltà derivanti dalla
sconfitta e dal trattato di pace, ricostruendo il proprio ruolo all’interno del
sistema occidentale e del sottosistema europeo dominato dagli Stati Uniti.
Questa fase è stata caratterizzata da una scelta “atlantica” ed
“europea” che ha incluso l’adesione al Piano Marshall e al Patto
Atlantico, oltre alla partecipazione al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman.
La politica estera degli anni ’90.Con la crisi di “Tangentopoli” e la fine della
Guerra fredda, l’Italia ha subito un ripiegamento sui problemi interni e un
ridimensionamento del proprio ruolo nel Mediterraneo allargato. Le priorità si
sono spostate verso la partecipazione all’Unione Europea e all’adozione
dell’euro. Tuttavia, un tentativo significativo di mantenere un ruolo attivo
nella regione è stato l’invio di un contingente militare in Somalia nel 1992
per partecipare a una missione di peacekeeping
delle Nazioni Unite; una partecipazione importante sul piano delle relazioni
internazionali che, per contro, ha avuto esiti complessi e drammatici.
L’era Berlusconi.Durante i governi
Berlusconi, l’Italia ha affrontato diverse sfide nel Mediterraneo allargato. Un
esempio è stato il controverso impegno militare in Iraq, che ha sollevato forti
opposizioni interne e divergenze con le politiche di altri paesi europei come Francia
e Germania. Berlusconi ha anche rafforzato i rapporti con la Libia di Gheddafi,
culminati in un accordo che prevedeva riparazioni per il passato coloniale
italiano e un maggiore controllo sui flussi migratori illegali.
La politica migratoria e le crisi recenti.L’immigrazione è
diventata una questione centrale nella politica mediterranea italiana. Dagli
anni Novanta, l’Italia ha visto un crescente flusso di immigrati provenienti
dai Balcani, dal Maghreb e dall’Africa subsahariana. Questo ha portato a
tensioni e accordi, come quello con la Libia per controllare l’immigrazione
clandestina. La crisi libica del 2011 e le Primavere arabe hanno ulteriormente
complicato la situazione, provocando instabilità e nuovi flussi migratorie.
Sfide contemporanee.La recente escalation
della questione palestinese e la ricerca di nuovi partner energetici dopo
l’interruzione dei rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina,
insieme all’aumento dei flussi migratori da Tunisia e Libia, rappresentano le
attuali sfide per l’Italia. In questo contesto, il “Piano Mattei” e
un nuovo attivismo mediterraneo sono stati proposti come soluzioni, ma i loro
esiti rimangono incerti.
Conclusioni.Dal dopoguerra a oggi,
la politica estera italiana nel Mediterraneo allargato ha attraversato diverse
fasi, influenzate da cambiamenti interni e globali. Dalla costruzione iniziale
di un ruolo nell’ambito del sistema occidentale, passando per le crisi politiche
ed economiche degli anni ’90, fino alle sfide contemporanee legate alla
migrazione e alla sicurezza energetica, l’Italia ha costantemente cercato di
mantenere una presenza significativa nella regione, adattandosi ai mutamenti
del contesto internazionale.
“La politica estera
italiana e il Medio Oriente negli anni della Repubblica” (di Luca
Riccardi).
Dopo la Seconda Guerra
Mondiale, l’Italia attraversò un periodo di ricostruzione economica e di
riorganizzazione della propria politica estera. Questo periodo segnò il
passaggio dall’ambizione di essere una grande potenza a una media potenza
integrata nel sistema internazionale dominato dagli Stati Uniti.
Origini della politica mediorientale.Subito dopo la guerra,
l’Italia si concentrò sul mantenimento della stabilità politica nel
Mediterraneo orientale, sostenendo soluzioni accettabili sia per gli arabi che
per gli ebrei. L’obiettivo principale era la stabilità, vista come necessaria
per perseguire gli interessi economici italiani e proteggere le comunità italiane
presenti nella regione.
Neo-atlantismo e rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti
Negli anni Cinquanta,
l’Italia sviluppò una politica chiamata “neo-atlantismo”, che mirava
a rafforzare la presenza politica ed economica nel Mediterraneo e nel Medio
Oriente. Questa politica cercava di conciliare gli interessi italiani con
quelli americani, fungendo da collegamento tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo. Protagonisti di questa politica furono Amintore Fanfani, Giovanni
Gronchi, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei.
Gli anni Sessanta e Settanta.Durante gli anni Sessanta e Settanta, l’Italia,
sotto la guida di Aldo Moro, cercò di stabilizzare la regione attraverso una
politica di contatti e un crescente coordinamento con i paesi della Comunità
Europea. Tuttavia, la crisi petrolifera del 1973 e le sue conseguenze
economiche influenzarono negativamente la politica italiana, rendendo il paese
dipendente dalle forniture di petrolio dai paesi arabi.
Gli anni Ottanta.Negli anni Ottanta, con
Bettino Craxi come Presidente del Consiglio e Giulio Andreotti come Ministro
degli Esteri, l’Italia mantenne una forte presenza nel Mediterraneo allargato.
Craxi e Andreotti cercarono di promuovere il coinvolgimento dell’OLP nel processo
di pace, sostenendo il diritto dei palestinesi a una patria propria, senza
compromettere l’esistenza dello Stato di Israele. L’Italia cercò di bilanciare
le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, mantenendo una posizione di
equidistanza.
Declino e marginalizzazione.Verso la fine della Prima Repubblica, l’Italia
iniziò a perdere rilevanza nella politica mediorientale, diventando sempre più
allineata con le politiche degli Stati Uniti. La conferenza di Madrid del 1991
segnò un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia e dell’Europa nel processo di
pace in Medio Oriente.
In sintesi, la politica
estera italiana verso il Medio Oriente è stata caratterizzata da tentativi di
mantenere la stabilità nella regione, rafforzare i legami economici e politici
con i paesi arabi, e bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo, pur affrontando periodi di crisi economica e declino politico.
PARTE SECONDA: SCHEDE PAESI
Marocco
La Storia. La storia del
Marocco è caratterizzata da un lungo periodo di colonizzazione europea iniziata
ufficialmente nel 1912 con il Trattato di Fez, che sanciva l’istituzione di un
protettorato francese e spagnolo sul paese. Durante il periodo coloniale, il
Marocco vide una vasta politica di modernizzazione, con la costruzione di
infrastrutture e nuove città ad opera dei coloni francesi. La resistenza contro
il dominio coloniale portò a frequenti rivolte, culminate nella
“Rivoluzione del re e del popolo” del 1953, che contribuì
all’indipendenza del paese, riconosciuta dalla Francia nel 1956. Mohammed V
divenne re, avviando un processo di riforme che portarono alla modernizzazione
del paese e alla creazione di una monarchia costituzionale.
Oggi. Negli ultimi
decenni, il Marocco ha affrontato numerose sfide e trasformazioni. Sotto il
regno di Mohammed VI, iniziato nel 1999, il paese ha intrapreso un percorso di
riforme economiche e politiche, tra cui la promozione dei diritti umani e la
modernizzazione delle istituzioni. Tuttavia, permangono criticità relative ai
diritti umani e alla questione del Sahara Occidentale. Il Marocco ha anche
consolidato il suo ruolo geopolitico nella regione, ristabilendo relazioni
diplomatiche con Israele nel 2020 e giocando un ruolo chiave nella gestione
delle migrazioni tra Africa ed Europa.
Algeria
La Storia. L’Algeria,
colonizzata dalla Francia dal 1830, visse un periodo di modernizzazione nel
primo dopoguerra. Tuttavia, la crescente consapevolezza nazionale portò alla
guerra di indipendenza algerina (1954-1962), un conflitto sanguinoso che
culminò con l’indipendenza del paese nel 1962. Il periodo post-indipendenza fu
caratterizzato da una forte centralizzazione del potere sotto il Fronte di
Liberazione Nazionale (FLN), che governò in modo autoritario, affrontando
periodi di instabilità politica e economica.
Oggi. L’Algeria
contemporanea è una repubblica semipresidenziale con una popolazione di circa
44,9 milioni di abitanti. Il paese continua a confrontarsi con questioni di governance, diritti umani e diversificazione
economica. Le elezioni del 2019 e del 2021 hanno portato Abdelmadjid Tebboune
alla presidenza, con il governo che cerca di bilanciare le richieste di riforme
politiche con la stabilità sociale. Le relazioni con il Marocco rimangono tese,
specialmente a causa delle dispute territoriali e delle accuse reciproche di
interferenze politiche.
Tunisia
La Storia. La Tunisia,
anch’essa colonizzata dalla Francia, ottenne l’indipendenza nel 1956 sotto la
guida di Habib Bourguiba, che instaurò un regime modernizzatore ma autoritario.
Dopo il colpo di stato del 1987, Zine El Abidine Ben Ali salì al potere,
governando fino alla Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, che portò alla sua
destituzione e avviò un processo di transizione democratica.
Oggi. La Tunisia è considerata una delle storie di successo della Primavera Araba, con un processo democratico ancora in corso. Tuttavia, il paese affronta sfide significative, tra cui instabilità politica, disoccupazione giovanile e minacce terroristiche. Le recenti elezioni e le riforme costituzionali mirano a consolidare un modello di democrazia fortemente presidenziale e uno stato consapevole del proprio ruolo all’interno dell’area geopolitica regionale.
Libia
La Storia. La storia moderna
della Libia è segnata dalla colonizzazione italiana e dalla dittatura di
Muammar Gheddafi, che governò dal 1969 fino alla sua deposizione nel 2011
durante la guerra civile libica. Il regime di Gheddafi era caratterizzato da
politiche autoritarie e di centralizzazione del potere, con una forte retorica
anti-occidentale.
Oggi. La Libia odierna
è divisa e instabile, con vari gruppi armati e fazioni politiche che competono
per il controllo del paese. Nonostante gli sforzi internazionali per
stabilizzare la situazione, la Libia rimane in gran parte frammentata, con un
governo di unità nazionale che lotta per affermare la propria autorità. La
situazione umanitaria e la sicurezza continuano a essere problematiche.
Egitto
La Storia. L’Egitto ha una
lunga storia di civiltà antiche e dominazioni straniere. Nel XX secolo,
l’Egitto ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1922, ma rimase sotto
un’influenza britannica significativa fino alla rivoluzione del 1952 che portò
Gamal Abdel Nasser al potere. Nasser attuò politiche di nazionalizzazione e
panarabismo. Successivamente, sotto Anwar Sadat e Hosni Mubarak, il paese si
orientò verso politiche più aperte e relazioni con l’Occidente.
Oggi. L’Egitto
contemporaneo, sotto il presidente Abdel Fattah al-Sisi, affronta sfide
economiche e politiche significative. Le riforme economiche hanno portato a una
crescita economica, ma anche a un aumento della povertà e delle disuguaglianze.
La repressione politica rimane forte, con limitazioni alle libertà civili e
politiche. L’Egitto continua a svolgere un ruolo chiave nella geopolitica del
Medio Oriente, mantenendo relazioni strategiche con vari attori internazionali.
Israele
La Storia. Israele, fondato
nel 1948, ha una storia complessa segnata da conflitti con i paesi vicini e
tensioni interne. La guerra di indipendenza del 1948-49, le guerre
arabo-israeliane e il conflitto israelo-palestinese hanno definito gran parte
della sua storia. Israele ha anche vissuto periodi di crescita economica e
tecnologica, affermandosi come una delle economie più avanzate della regione.
Oggi. Israele è una
democrazia parlamentare con una popolazione diversificata. Le questioni di
sicurezza nazionale, il conflitto con i gruppi palestinesi e le dinamiche
politiche interne sono al centro dell’attenzione. Le recenti normalizzazioni
delle relazioni con alcuni paesi arabi rappresentano sviluppi significativi, ma
permangono tensioni e sfide sul fronte interno e regionale.
Autorità Nazionale Palestinese
La Storia. L’Autorità
Nazionale Palestinese (ANP) è stata istituita nel 1994 a seguito degli Accordi
di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
L’ANP è responsabile del governo dei territori palestinesi della Cisgiordania e
della Striscia di Gaza, ma ha affrontato numerose difficoltà, inclusi conflitti
interni e tensioni con Israele.
Oggi. Oggi, l’ANP è
divisa tra la Cisgiordania, controllata da Fatah, e Gaza, sotto il controllo di
Hamas. La situazione politica ed economica è instabile, con frequenti tensioni
e scontri con Israele. Gli sforzi per la riconciliazione interna e per una
soluzione del conflitto con Israele continuano, ma le prospettive di pace
rimangono incerte.
Libano
La Storia. Il Libano,
indipendente dalla Francia dal 1943, ha una storia segnata da conflitti civili
e interventi stranieri. La guerra civile libanese (1975-1990) ha devastato il
paese, seguito da un periodo di ricostruzione e di tensioni politiche e
settarie. La presenza di Hezbollah e l’influenza siriana hanno contribuito alla
complessità politica del Libano.
Oggi.Il Libano contemporaneo è afflitto da
una grave crisi economica, politica e sociale. Le proteste popolari, la
corruzione diffusa e l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 hanno aggravato
la situazione. Il paese lotta per superare le divisioni settarie e per trovare
stabilità politica ed economica.
Siria
La Storia. La Siria,
indipendente dalla Francia nel 1946, ha una storia di instabilità politica e
colpi di stato. Il regime di Hafez al-Assad, iniziato nel 1970, ha stabilito
una dittatura che è stata portata avanti dal figlio Bashar al-Assad. La Siria
ha giocato un ruolo centrale nella politica del Medio Oriente, spesso in
conflitto con Israele e coinvolta nelle dinamiche regionali.
Oggi. La Siria è
devastata da una guerra civile iniziata nel 2011, con milioni di rifugiati e
sfollati interni. Il regime di Bashar al-Assad, con il sostegno di Russia e
Iran, ha riconquistato gran parte del territorio, ma il paese rimane diviso e
instabile. La ricostruzione e la riconciliazione sono sfide enormi, mentre la
situazione umanitaria è critica.
Giordania
La Storia. La Giordania,
creata dal mandato britannico nel 1921 e indipendente dal 1946, è stata
governata dalla dinastia hashemita. Il paese ha mantenuto una relativa
stabilità nonostante le turbolenze regionali, giocando un ruolo moderato nella
politica mediorientale e ospitando un gran numero di rifugiati palestinesi.
Oggi. La Giordania
continua ad affrontare sfide economiche e sociali, aggravate dall’afflusso di
rifugiati siriani e dalle pressioni regionali. Il re Abdullah II guida il paese
verso riforme economiche e politiche, cercando di mantenere la stabilità in un
contesto regionale difficile.
Turchia
La Storia. La Turchia
moderna, fondata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923, è stata costruita sui
principi della laicità e del nazionalismo. Dopo decenni di governo secolare e
militare, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip
Erdoğan ha trasformato il paese con un mix di islamismo e nazionalismo,
portando a una maggiore centralizzazione del potere.
Oggi. La Turchia è una
potenza regionale con ambizioni internazionali, ma affronta problemi interni
come la repressione dei diritti civili e le tensioni economiche. Le politiche
di Erdoğan, sia interne che estere, hanno suscitato controversie e criticità,
ma il paese continua a giocare un ruolo cruciale nella geopolitica del Medio
Oriente e oltre.
PARTE TERZA: DIALOGHI
MEDITERRANEI
“Italia e Tunisia: sfide e
criticità nel più ampio contesto internazionale” (di Mario Savina).
Il testo tratta delle complesse relazioni tra i due paesi nel contesto del
Mediterraneo, evidenziando i principali dossier di cooperazione e le sfide che
caratterizzano il rapporto bilaterale.
Relazioni Bilaterali e Contesto Mediterraneo.Le relazioni tra Italia e Tunisia sono
profondamente radicate nel contesto mediterraneo, caratterizzato da interessi
comuni in vari settori, tra cui migrazione, energia, economia e dialogo con
l’Unione Europea. Le turbolenze politiche ed economiche degli ultimi anni in
Tunisia hanno creato sfide significative per i governi italiani e i decisori
europei, ma Tunisi rimane un partner strategico sia per Roma che per Bruxelles.
DossierMigratorio. Il tema migratorio è centrale nei colloqui tra
Italia e Tunisia, specialmente dopo l’aumento delle partenze dalle coste
tunisine negli ultimi due anni. Nel 2023, oltre 96.000 migranti sono arrivati
in Italia dalla Tunisia, un numero triplicato rispetto all’anno precedente. La
lotta ai migranti subsahariani in Tunisia, promossa dal presidente Kaïs Saïed,
mira a distogliere l’attenzione dalla crisi socioeconomica interna. Gli accordi
tra Roma e Tunisi sul controllo dei flussi migratori si basano su una logica di
sicurezza, con l’Italia e l’UE che finanziano progetti per arginare i flussi
migratori e facilitare i rimpatri.
Sfide Politico-Economiche e Relazioni Internazionali. La Tunisia affronta
una perenne instabilità politica ed economica, con dinamiche internazionali
complesse. Il paese sta cercando di diversificare le sue relazioni estere,
coinvolgendo Russia e Cina, e considera l’adesione ai BRICS. Le relazioni con
l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono strategiche, specialmente in un
contesto di rivalità con la Russia.
Cooperazione Energetica e Commerciale.
L’Italia guarda alla Tunisia come a un partner fondamentale nel settore
energetico, soprattutto per il gasdotto Transmed che collega l’Algeria
all’Italia attraverso la Tunisia. La cooperazione commerciale è forte, con
l’Italia che rappresenta il principale partner commerciale di Tunisi. Le
imprese italiane sono ben radicate nel paese, contribuendo significativamente
all’occupazione e all’economia locale.
SfideRegionalieSicurezza. Le relazioni tra
Italia e Tunisia sono inserite in un contesto regionale complesso, con
influenze di potenze come la Russia e la Cina. La stabilità del Nord Africa è
cruciale per la sicurezza europea, e l’Italia è impegnata nel supportare la
Tunisia attraverso accordi bilaterali e dialoghi internazionali. La
collaborazione tra i due paesi è essenziale per affrontare le sfide comuni e
promuovere la stabilità regionale.
In sintesi, il capitolo
evidenzia la necessità di un impegno costante e di una strategia integrata per
affrontare le sfide.
La Proiezione Futura dei
Rapporti Energetici tra Algeria e Italia (di Laura Ponte).
Il capitolo esplora il
futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia nel contesto della guerra
in Ucraina e delle conseguenti sanzioni imposte alla Russia. Con l’obiettivo di
ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, l’Italia ha cercato di
diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico, puntando in
particolare sull’Algeria, che è diventata un partner strategico fondamentale.
Contesto Storico e Relazioni Energetiche.Storicamente, le
relazioni energetiche tra i due paesi sono solide, risalenti agli anni ’50 e
’60, quando Enrico Mattei sostenne il percorso di liberazione nazionale
dell’Algeria, culminato con l’indipendenza del 1962. Questo ha portato alla
firma del primo contratto di fornitura di gas nel 1973, stabilendo una lunga
collaborazione energetica.
Sforzi Recenti e Progetti Futuri. Recentemente, gli sforzi italiani si sono
intensificati per aumentare le importazioni di gas algerino e ridurre quelle
russe. L’Italia ha firmato numerosi contratti con l’Algeria per aumentare la
capacità di esportazione di gas, sia tramite gasdotti che GNL (gas naturale
liquefatto). Nel 2022, Sonatrach ha incrementato le esportazioni di gas verso
l’Italia, con l’obiettivo di raggiungere 9 miliardi di metri cubi all’anno
entro il 2024.
Sfide Politiche e Tecniche. Nonostante le prospettive positive, esistono criticità sia politiche che tecniche. Politicamente, l’Italia ha scelto di non comprare gas dalla Russia a causa della sua inaffidabilità come partner commerciale. Tuttavia, l’Algeria è anch’essa considerata un paese “non libero” dal Freedom House, con bassi standard democratici, limitata trasparenza elettorale, corruzione e repressione delle proteste.
Possibili Rischi Geopolitici. C’è il timore che l’instabilità politica in Algeria possa influenzare i rapporti energetici, come già successo con la Spagna riguardo alla disputa del Sahara Occidentale. Inoltre, l’Algeria mantiene buone relazioni con la Russia, cooperando attivamente nel settore militare ed energetico, il che potrebbe complicare ulteriormente le dinamiche geopolitiche.
Progetti Integrativi e Energie
Rinnovabili. Per mitigare i rischi e aumentare la sostenibilità,
sarebbe utile che la cooperazione energetica tra Italia e Algeria includa anche
le energie rinnovabili. L’Algeria ha il potenziale per diventare leader nella
produzione di energia solare ed eolica, grazie al deserto del Sahara. Progetti
come il South H2 Corridor, che collegherà l’Algeria alla Germania, potrebbero
essere cruciali per trasformare l’Italia in un hub energetico, riducendo al
contempo la dipendenza dai combustibili fossili.
Conclusioni. Il futuro dei
rapporti energetici tra Algeria e Italia appare promettente ma non privo di
sfide. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e l’inclusione
delle energie rinnovabili sono passi fondamentali per garantire la sicurezza
energetica e la sostenibilità a lungo termine.
“Nato e Ue al cospetto
della crisi libica: dall’apice al tramonto del «crisis management»
occidentale?” (di Stefano Marcuzzi).
Il capitolo analizza la
gestione e le conseguenze della crisi libica da parte di Nato e Unione Europea,
evidenziando i fallimenti e le lezioni apprese.
Contesto della crisi. Nel marzo 2011, una coalizione di paesi sotto l’ombrello dell’ONU e guidata militarmente dalla Nato lanciò una campagna aerea contro il regime di Gheddafi in Libia per fermare la repressione violenta contro i civili. Nonostante la caduta di Gheddafi e il collasso del suo regime, la Libia è rimasta intrappolata in una crisi pluridecennale, caratterizzata da conflitti interni ed esterni, che hanno visto la partecipazione di attori regionali e globali come Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia e Arabia Saudita.
Hezbollah: next stop? Il rischio di una guerra con Israele. Il commento di C. Bertolotti
di Claudio Bertolotti
Dall’intervento di Claudio Bertolotti a SKY TG24 MONDO, ospite di Roberto Tallei (Puntata del 19 giugno 2024, h. 19.20.
Quali differenze possiamo rilevare tra la guerra a Gaza e un’eventuale guerra in Libano?
Possiamo considerare i due conflitti, quello combattuto a
Gaza e quello ipotetico contro Hezbollah molto differenti. Il primo, quello di
Gaza si inserisce in un contesto politico-sociale e religioso omogeneo dove
Hamas, di fatto governa un popolo e un territorio. In Libano, al contrario,
abbiamo un attore, Hezbollah, che rappresenta una delle minoranze che
compongono il Paese e che potrebbe doversi scontrare – in caso di guerra con
Israele – anche con i competitor interni, dai gruppi di potere sunniti a quelli
cristiani. Insomma, a Gaza l’ipotesi peggiore è quella di una guerra urbana e
sotterranea, così come la stiamo osservando da 8 mesi, che potrebbe
trasformarsi in guerra insurrezionale. E questo sarebbe lo scenario peggiore
per Israele. In Libano, al contrario, lo scenario peggiore è quello della
guerra civile, dove Hezbollah potrebbe dover affrontare anche uno o più fronti
interni oltre a quello con Israele aprendo così all’ipotesi di un allargamento
regionale del conflitto.
Israele ha le forze per tenere aperti entrambi i fronti?
Ha le forze, la capacità militare e la dottrina strategica
israeliana prevede l’organizzazione e la struttura adeguata per gestire
un’escalation orizzzontale che preveda la partecipazione di tutti i competitor
a livello regionale: dai piccoli eserciti di Hezbollah e Hamas, allo scontro
aperto con l’Iran. Essere preparati a farlo impone però un sostegno indiscusso
e costante da parte statunitense. Un sostegno che lo stesso Biden ha dimostrato
di non voler far venire meno e che un’ipotetica amministrazione Trump non
avrebbe difficolatà a garantire.
Netanyahu in polemica con gli USA per mancata fornitura di alcune armi. Quanto Israele dipende dagli USA?
le Forze di Difesa Israeliane sono una delle forze armate
più capaci ed efficaci del mondo, ma dipendono in maniera rilevante dalle armi
statunitensi, a partire dalle armi individuali, fucili leggeri, al rifornimento
di bombe aeree di precisione, colpi di artiglieria, motori dei carri armati, il
sistema di difesa aerea Iron Dome, fino agli aerei F-35. Di fatto è un
contributo strategico, senza il quale Israele non può condurre una campagna
militare estesa nello spazio e nel tempo.
Hezbollah come è equipaggiato? E’ perseguibile l’obiettivo di cancellare Hezbollah?
Miglior esercito di fanteria leggera a livello regionale,
dopo quello israeliano ovviamente. Con una prolungata esperienza di guerra in
Siria al fianco del regime di Bashar al-Assad e delle Guardie rivoluzionarie
iraniane. Conta circa 20.000 effettivi e altrettanti miliziani part-time e un
arsenale con più di 100.000 tra razzi e missili con cui minaccia Israele. È una
minaccia, si, ma non esistenziale per lo stato di Israele, almeno sul piano
militare.
Finora Nasrallah, il leader di Hezbollah, abbaia ma non morde. Perché?
È il timore di uno scontro diretto con Israele e il rischio
di precipitare il Libano in una guerra civile, dove potrebbe trascinare i
gruppi politico-religiosi libanesi in uno scenario simile a quello degli anni
80, ossia quello di una guerra civile devastante che potrebbe portare alla fine
dello stesso Stato libanese così come lo conosciamo oggi, basato su precari
equilibri interni a rischio di collasso.
Un eventuale conflitto con Hezbollah sarebbe la pietra tombale sul possibile accordo per il cessate il fuoco a Gaza?
Non è detto. E comunque l’ipotesi potrebbe non incidere
sulla volontà di Hamas di proseguire il conflitto; questo perché il gruppo
palestinese non vuole nessun accordo, così come dimostrato sino ad oggi, nei
fatti e nelle parole dei suoi leader politico-militari – da Sinwar a Haniyeh.
Al contrario, è vero che un maggior impegno militare
potrebbe indurre Israele a concedere qualcosa di più in caso di dialogo
negoziale, ma a fare gli accordi occorre essere in due e le posizioni,
nonostante le ultime aperture israeliane, sembrano abbastanza definite da parte
di Hamas che, coerentemente con la sua storia e i suoi obiettivi, perseguirà lo
scopo principale: indebolire Israele per mirare alla sua distruzione.
Iran, Israele, Hamas, Russia, NATO: il commento di C. Bertolotti a SKY TG24
La presentazione di Gaza Underground – il libro, a SKY TG24: le incognite e le difficoltà nella guerra urbana e sotterranea. E ancora: la morte del presidente di Raisi e la sua successione: quali ripercussioni a livello interno ed esterno? La Russia minaccia di ridefinire i confini marittimi: provocazione o atto deliberato?
Il commento di Claudio Bertolotti a TIMELINE, SKY TG24 (puntata del 22 maggio 2024).
Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele-Hamas – il nuovo libro di C. Bertolotti
Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale
Nel cuore della terra, sotto il confine tra Israele e Gaza, si è sviluppata una guerra invisibile, tanto silenziosa quanto pericolosa. Questa è la storia della guerra sotterranea combattuta da Israele contro Hamas. La lotta contro l’uso strategico dei tunnel da parte del movimento islamista rappresenta un capitolo oscuro e complesso del conflitto israelo-palestinese, un fronte di battaglia che si è esteso ben al di là della vista e della percezione pubblica.
La dimensione sotterranea della nuova guerra
Mentre il mondo guarda le immagini di distruzione e ascolta i racconti di chi è colpito dalla violenza in superficie, pochi comprendono la portata e la complessità della guerra svolta nel ventre della terra: la dimensione sotterranea della nuova guerra. Ma i tunnel di Gaza non sono semplici passaggi sotterranei; sono arterie di un vasto organismo vivente, pulsante di armi, di strategie e di intenti terroristici. Sono la manifestazione fisica di un conflitto che ha abbracciato una nuova dimensione, quella sotterranea, dove il buio e il silenzio nascondono operazioni di infiltrazione, attacchi a sorpresa e tattiche di guerriglia.
Strategie e conseguenze della guerra invisibile
GAZA UNDERGROUND: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, il nuovo libro di Claudio Bertolotti, esplora questa guerra nascosta, partendo dalle origini dell’utilizzo dei tunnel nella storia del conflitto israelo-palestinese, analizzando come Hamas li abbia trasformati in uno strumento chiave della propria strategia militare. Attraverso la ricerca d’archivio, documenti ufficiali, nonché testimonianze dirette, cercheremo di capire come Israele abbia risposto a questa minaccia, sviluppando tecnologie e tattiche per rilevare, distruggere o neutralizzare queste via di attacco nascoste.
La guerra sotterranea tra Israele e Hamas a Gaza è una lotta continua di ingegno, risorse e determinazione. È una dimostrazione di come il campo di battaglia si sia evoluto, richiedendo a entrambe le parti di adattarsi a nuove realtà. L’obbiettivo posto a premessa del nuovo libro di Claudio Bertolotti consiste nell’analizzare e comprendere le sfide, le strategie e le conseguenze di questa guerra invisibile, offrendo al lettore una comprensione più profonda di uno degli aspetti più inquietanti e meno conosciuti del conflitto israelo-palestinese, aprendo la prospettiva sui futuri scenari di guerra che, per ragioni demografiche, sociali, economiche e tecnologiche, vedranno le città e le loro dimensioni sotterranee assumere un ruolo sempre più determinante.
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