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Terrorismo, estremismo violento e radicalizzazione. Scenari più complessi.

di Chiara Sulmoni

Articolo pubblicato nel Rapporto #ReaCT2023

Le definizioni, le categorie e l’idea stessa del terrorismo e dell’estremismo violento sulle cui basi sono state concepite le strategie di prevenzione e contrasto degli ultimi anni, che si sono concentrate soprattutto sulla lotta alla mobilitazione jihadista e al gruppo Stato Islamico, non corrispondono più alla realtà sul terreno o, quantomeno, non bastano a contenerla. In Occidente lo scenario attuale è caratterizzato da una varietà di ideologie, orientamenti, profili e motivazioni, spesso sovrapposte o indefinite, che rendono più difficile indicarne la portata, prevedere il rischio e tracciare l’evoluzione di questi fenomeni.

Keywords Accelerazionismo, incels, jihadismo, sovereign citizens

Una realtà sempre più intricata
Il terrorismo di matrice jihadista rimane la forma di violenza più letale, sia in Europa che a livello globale. Tuttavia, non più solo gli analisti ma anche un Rapporto presentato dal Segretario generale dell’ONU (2022) attira l’attenzione sull’aumento degli attacchi di natura xenofoba, razzista, contro le minoranze o dovuti ad altre forme di intolleranza, nel nome della religione o altre credenze, nonché sulla crescita di misoginia, antisemitismo e islamofobia (1); a preoccupare gli Stati membri, in particolare, è la dimensione transnazionale che può assumere questa minaccia; cosa che notoriamente avviene sia attraverso le relazioni e le reti intessute online, che tramite la partecipazione ad incontri nel mondo reale, in occasione di eventi comuni o anche addestramenti paramilitari. I cosiddetti ‘manifesti’, veri e propri testamenti ideologici lasciati dagli attentatori di vari orientamenti, con richiami a stragisti e stragi avvenute in precedenza anche in aree geografiche distanti tra loro, mostrano come vi sia una condivisione di argomenti e rivendicazioni a diverse latitudini. La battaglia contro la propaganda è particolarmente difficile a causa della molteplicità degli strumenti di comunicazione utilizzati da militanti e simpatizzanti, tra piattaforme social e di gioco (gaming), messaggistica, canali di informazione alternativa e forum.
Le tensioni politiche ed economiche che hanno caratterizzato la fase acuta della pandemia di COVID19, sommate alle vulnerabilità e predisposizioni personali, hanno dato inoltre un’accelerazione ad atteggiamenti di sfiducia e antagonismo verso le istituzioni, favorendo l’adesione alle teorie cospiratorie e la diffusione della disinformazione, che costituiscono la trama delle narrative estremiste, promuovono la radicalizzazione e l’incapsulamento sociale, possono spingere alla violenza contro simboli e/o rappresentanti politici e si adattano rapidamente ai nuovi scenari, come ad esempio la guerra in Ucraina-. Movimenti, sub-culture e complottismi tipicamente americani – come ad esempio l’accelerazionismo, i sovereign citizens, gli incels (celibi involontari) e QAnon – sono stati progressivamente inglobati ed adattati al panorama europeo. I dati del Global Terrorism Index (GTI) 2022 e 2023 mettono in rilievo come, in Occidente, il terrorismo ideologico (attacchi di estrema destra e sinistra) sull’arco degli ultimi dieci anni abbia superato di oltre tre volte quello di matrice religiosa.

Profili e obiettivi si moltiplicano
Gran parte delle azioni di matrice ideologica sono ad opera di individui che non appartengono a gruppi formalmente (ri)conosciuti tanto che, fa notare sempre il GTI 2023, l’intelligence di diversi paesi si astiene dall’attribuzione a sigle di estrema destra o sinistra. L’età di chi è attratto dall’estremismo si è progressivamente abbassata nel corso degli ultimi anni, particolarmente in Gran Bretagna dove nelle inchieste sono coinvolti anche teenagers al di sotto dei 15 anni (2). I ricercatori sono però stati in grado di osservare ulteriori sfumature, vale a dire che in presenza di motivazioni legate alla misoginia (nel caso degli incels, ad esempio), i soggetti tendono ad avere un’età inferiore rispetto a chi è ostile alle minoranze (e nutre sentimenti anti-immigrazione, ad esempio (3) ). Un’analisi pubblicata dall’Institute for Strategic Dialogue all’indomani dell’attacco al centro migranti di Dover nel 2022 (Comerford, Squirrel, Leenstra, Guhl) sottolinea l’importanza di non concentrarsi su un’unica tendenza: “the increasingly singular focus on ‘vulnerable’ younger terrorists has created a blind-spot for older perpetrators and the radicalisation of an older generation of people, statistically more likely to be involved in acts of terrorism, often driven by hatred towards various marginalised groups rather than a coherent ideology” (4) . Anche nel caso del jihadismo, in Europa si è da tempo consolidato un trend post-organizzato, con attacchi portati avanti da singoli (ma non necessariamente solitari) attentatori motivati tanto da convinzioni solide quanto da problematiche personali e mentali che sfociano nella violenza, e le cui azioni tendono ad assumere la forma di eventi talvolta improvvisati, con “armi” facilmente reperibili, “ispirati” (piuttosto che rivendicati) e isolati, rispetto ad un più ampio obiettivo di gruppo. Gli attacchi continuamente sventati e l’alto numero di arresti indicano come -nonostante un lavoro di contrasto più efficiente- questa matrice non tenda affatto ad affievolirsi, ma sia piuttosto in costante evoluzione. Nel suo ultimo Rapporto (TESAT 2022) Europol segnala infatti di aver smantellato una serie di gruppi intenti a pianificare attacchi con modus operandi più complessi. Questo scenario stratificato è dunque dinamico e imprevedibile, caratterizzato dalla presenza di ideologie e motivazioni anche contrapposte che si rafforzano a vicenda dando forma al cosiddetto estremismo cumulativo (è ciò che accade, ad esempio, tra jihadismo ed estrema destra); oppure, da gruppi e individui con orientamenti diversi, che rappresentano a loro volta livelli di rischio diversi (non tutti violenti), uniti da una convinzione comune -come nel caso del network tedesco anti-governativo e anti-democratico Reichsbürger (con ramificazioni anche in Austria, Svizzera, Italia), salito alla ribalta a dicembre 2022 dopo una retata in Germania. Una frangia era accusata di pianificare un colpo di Stato. Come scrive Alexander Ritzmann in un’analisi per la rivista specializzata CTC Sentinel, “the only thing that connects them is the fundamental denial of the legitimacy of the German state. This is one of the main reasons why German authorities have a somewhat difficult time assessing their (changing) potential for violence and terrorist acts in comparison to more ideologically coherent, unified, and structured extremist movements” (5) . Di fronte a una realtà così composita, si allarga anche il cerchio degli obiettivi che – fra semplici cittadini negli spazi pubblici, luoghi di culto e rappresentanti religiosi, istituzioni e figure di governo, forze dell’ordine e membri delle forze armate, autorità e personale sanitario (nel caso di no-vax e negazionisti del COVID), infrastrutture (target di sabotaggi e cyberattacchi), docenti, donne, minoranze (fra cui la comunità LGBT+), centri d’accoglienza per migranti e via dicendo – è potenzialmente infinito.

Le sfide della prevenzione. Cambiano i temi e le priorità
Oggi i cosiddetti “everyday extremists” possono emergere in un contesto che il Prof. Gilles Kepel definisce di “jihadismo d’atmosfera”, in cui fomentatori d’odio scatenano la rabbia collettiva contro un obiettivo -una persona accusata, ad esempio, di blasfemia- con esiti che possono essere mortali se soggetti radicalizzati prendono l’iniziativa ed agiscono su questa spinta; oppure nel quale posizioni e atteggiamenti radicali, controversi e violenti ottengono visibilità sulla rete e sui social media anche grazie a figure di riferimento e influencers che hanno un ampio seguito sia tra i giovanissimi che tra gli adulti (ad esempio nel caso della misoginia o del complottismo), mentre teorie cospiratorie e disinformazione si fanno strada nel pensiero corrente (mainstream) e anche nelle istituzioni tramite l’elezione di figure politiche ‘di rottura’. In questo quadro, in cui la minaccia non è rappresentata unicamente dalle ideologie violente, ma da una retorica violenta che può affondare le radici anche in una mentalità più o meno diffusa, la prevenzione assume un ruolo di primo piano, con un ventaglio di destinatari più ampio rispetto al passato, e richiede come mai prima d’ora il coinvolgimento della società civile. Con prevenzione si intende infatti, essenzialmente, un insieme di attività e iniziative di natura non securitaria, portate avanti da istituzioni pubbliche e private, ONG e organizzazioni varie (anche assistenziali), concepite per anticipare e diminuire il rischio di adesione all’estremismo; atte, ad esempio, a promuovere la coesione sociale e dare sostegno a persone vulnerabili. Una prevenzione al passo con le tendenze attuali richiede interventi maggiormente diversificati rispetto a quelli messi in campo nella lotta contro lo jihadismo, con nuovi temi e priorità.
Da tempo si ritiene – giustamente – che il settore educativo e la scuola debbano svolgere un ruolo fondamentale nel fornire ai giovani, che sono sempre più esposti a un ecosistema virtuale tossico, dei validi strumenti di difesa come la competenza tecnologica e lo spirito critico. Ma è solo una faccia della medaglia: nonostante internet fin dall’inizio della pandemia abbia fatto la parte del leone nel facilitare la radicalizzazione, una ricerca effettuata su un campione di jihadisti che sono entrati in azione fra il 2014 e il 2021 in 8 paesi occidentali ha messo in luce che chi si radicalizza offline rappresenta ancora la maggioranza e soprattutto un grado di pericolosità superiore -“those radicalised offline are greater in number, more successful in completing attacks and more deadly than those radicalised online” (6) .
Ciò che riporta l’attenzione sull’importanza del contesto -domestico, famigliare, sociale e locale (la cosiddetta comunità) da sempre considerato cruciale nella svolta verso la radicalizzazione, ma talvolta sottovalutato.
Un altro studio condotto in Spagna da un team internazionale, basato fra l’altro sulle scansioni cerebrali di (simpatizzanti) jihadisti in vari stadi di radicalizzazione, ha confermato da un lato, il ruolo dell’esclusione sociale come fattore rilevante nel processo di radicalizzazione (processo che essenzialmente spinge verso una rigidità mentale, o verso una progressiva propensità a “combattere e morire per i propri valori sacri”, come dimostra la ricerca) e, dall’altro, l’influenza della pressione sociale nel riportare l’individuo a “ragionare”, allontanandolo dalla violenza grazie alla riattivazione di aree del cervello che si erano in precedenza “spente” (7) . Se oggi l’onda sta cambiando e sempre più minorenni – e adulti – rischiano di finire nelle maglie di un estremismo recepito in rete, e nonostante servano più studi comparativi per comprendere meglio peculiarità e somiglianze fra i diversi tipi di radicalizzazione, è comunque importante non perdere di vista l’elemento di (ri) socializzazione insito in questi processi. Così come è determinante riconoscere il ruolo delle “grievances” -cioè del senso di ingiustizia, reale o percepito- poiché è su questo aspetto trasversale a tutte le ideologie, che fa leva la narrativa estremista, che si tratti di difendere la mascolinità, la razza, o l’Islam. La prevenzione dovrà dunque puntare anche su questo: non solo spirito critico e contro-narrativa (la cui efficacia è contestata) ma una narrativa alternativa, una proposta di modelli positivi e opportunità nel mondo reale, dopo l’isolamento causato dalla pandemia.

Note
1. Terrorist attacks on the basis of xenophobia, racism and other forms of intolerance, or in the name of religion or belief, Report of the Secretary-General, August 3, 2022
2. The number of young people arrested on suspicion of terrorism related offences in the UK continues to rise, statistics reveal, News, Counter-Terrorism Policing, 9 March 2023
3. See: Roose, J., Interview on “Masculinity and Violent Extremism”, #ReaCT2023, pp. 128-129.
4. Comerford, M., Squirrell, T., Leenstra, D., and Guhl, J., What the UK Migrant Centre Attack Tells Us About Contemporary Extremism Trends, ISD, 14th November 2022
5. Ritzmann, A., The December 2022 German Reichsbürger Plot to Overthrow the German Government, CTC Sentinel, March 2023, Vol. 16, Issue 3
6. Hamid, N. and Ariza, C., Offline Versus Online Radicalisation: Which is the Bigger Threat?, Global Network on Extremism and Technology, February 2022.
7. Nafees Hamid discusses his research at length in: Deradicalizzazione: dentro la mente jihadista, a documentary by Chiara Sulmoni which was aired by RSI (RadioTelevisione Svizzera di Lingua Italiana) on 22nd September 2020


La gestione di crisi nel XXI secolo

di Quentin Ladetto, Patrick Trancu, Alessandro Rappazzo, Luca Tenzi

Analisi pubblicata nel Rapporto #ReaCT2023

L’articolo tratta della complessità dei processi decisionali nel contesto interconnesso e interdipendente odierno, evidenziando le sfide che politici, manager ed imprenditori devono affrontare. In particolare, viene evidenziata la presenza di un gran numero di variabili, la loro velocità di cambiamento e la loro interconnessione, che rendono difficile la previsione. Viene poi sottolineato il passaggio dalle crisi tradizionali a quelle sistemiche, che coinvolgono diverse aree e la necessità per le organizzazioni di sviluppare una capacità di previsione strategica per anticipare tali crisi. Sono citati la pandemia COVID-19 e la guerra in Ucraina come esempi di crisi sistemiche, e viene evidenziata l’importanza delle emozioni umane e della sensibilità nella comprensione di contesti complessi. Il testo inoltre discute l’importanza di adeguare l’organizzazione di gestione delle crisi al XXI secolo, evidenziando il ruolo del nuovo ufficio federale per la gestione di crisi e uno Stato Maggiore di Crisi di base permanente al suo interno, con il compito di armonizzare la comprensione del processo di gestione delle crisi, diventare un centro di competenza aperto ad esperti, esercitare il coordinamento tra le diverse strutture, ospitare un’unità di anticipazione strategica e creare cellule di riflessione rapida. Ciò permetterebbe di integrare in un unico sistema Comuni, Cantoni e la Confederazione svizzera e di affrontare le sfide contemporanee con un approccio flessibile, creativo e pronto all’azione.

Keywords: decision-making, crises

La complessità
Nel nuovo contesto interdipendente e interconnesso di questo millennio “essere politici, manager o imprenditori, prendere decisioni che avranno un impatto profondo sul presente e sul futuro di intere comunità è sempre meno un’attività banale o per la quale basta un guizzo di creatività alla faccia della competenza. (…) In sintesi, decidere nel nuovo millennio è diventata un’attività complessa”.
“La complessità è descritta dall’aneddoto meteorologico della farfalla, che, alzandosi in volo da un fiore nelle Filippine, con il suo battito di ali scatena, tanto paradossalmente quanto realmente, un uragano in Florida. La complessità sottende uno stato di ampia varietà nella numerosità delle variabili in gioco (troppe), di variabilità della dinamica con cui cambiano i rispettivi valori (troppo veloci), e della loro più o meno stretta e a volte indecifrabile interdipendenza (troppo connessi, anche in modo labile). Assieme, queste tre condizioni rendono difficile la possibilità di previsione, anche a una macchina con potenza di calcolo significativa quale può essere un supercomputer. Ed è qui che subentra l’importanza dell’essere umano rispetto alla tecnologia. Perché l’essere umano è dotato, oltreché delle competenze, di quelle emozioni e sensibilità che gli permettono, con il supporto della tecnologia, di comprendere meglio il contesto di riferimento. La complessità richiede uno sforzo di immersione per comprenderla e per affrontarla” (Verona, 2022).
Siamo di fatto immersi in contesti operativi sempre più connessi tra loro, in cui gli schemi di comportamento interagiscono non solo all’interno di ciascuna singola organizzazione, ma anche tra le diverse organizzazioni, in un ambiente sempre più interdipendente (Allison, 1999).

Tra crisi sistemiche e policrisi
Le crisi non sono più quelle di una volta. A differenza di quelle del XX secolo dove il contesto era chiaro e il perimetro ben definito, pensiamo ad esempio ad eventi di natura industriale/ambientale (Seveso, Exxon Valdez, ecc.) o a quelli associati alla sicurezza alimentare o dei farmaci (Tylenol), le crisi sistemiche del 21° secolo tendono a proiettarci in scenari ipercomplessi dove “l’evento non rappresenta più il fulcro del problema. Il problema è rappresentato dalla fragilità delle strutture fondamentali del nostro sistema”. Queste crisi, transfrontaliere per natura, tendono a sfociare “nel caotico, spaziano territori sempre più ampi e complessi, sono difficilmente inquadrabili in categorie predefinite. (…) Ci spingono in un universo caratterizzato dalla perdita di orientamento e di punti di riferimento.” (Trancu P. et al. Lagadec P. 2021).
L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, prima vera crisi sistemica del nuovo secolo, rappresenta il momento di frattura tra l’era della stabilità e quella dell’instabilità. Ma è la concatenazione di due crisi sistemiche, pandemia e guerra in Ucraina, che determina il passaggio all’era dell’incertezza costante e da origine al termine «policrisi».
In questo scenario già estremamente complesso non possiamo ignorare ulteriori fattori sotterranei quali la guerra ibrida permanente o il potenziale emergere di nuove minacce terroristiche caratterizzate dall’uso di nuovi arsenali di armi facilmente accessibili, a basso costo e ad alto impatto.

L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, prima vera crisi sistemica del nuovo secolo, rappresenta il momento di frattura tra l’era della stabilità e quella dell’instabilità.

I limiti della gestione delle crisi
L’esperienza pandemica ha messo in evidenza quello che numerosi esperti di risk management e crisis management hanno compreso da tempo: la maggior parte delle organizzazioni e delle società intese come nazioni, non sono cablate per ricercare e apprezzare scenari negativi. Il periodo di incubazione della pandemia (e della guerra in Ucraina), illustra la sfida che è dinanzi a noi: la necessità di sviluppare una propensione e una capacità di esaminare l’ambiente con un’antenna dedicata alle potenziali crisi (Boin, 2021). Si tratta di introdurre nelle organizzazioni, siano esse aziende o Stati, meccanismi di anticipazione strategica (strategic foresight). Unità nelle quali si concentrano le informazioni provenienti da diversi sistemi di sensori e in grado quindi di monitorare costantemente l’orizzonte per identificare in una logica di anticipazione possibili scenari critici.
La realtà è che nella maggioranza dei Paesi abbiamo assistito ad una cecità organizzativa: incapacità di immaginare; sistemi organizzati a silos (Scharte, 2021) e incapaci di collegare i puntini; il dilemma di confrontarsi con eventi di bassa probabilità ma alto impatto; l’illusione del controllo e l’incapacità di confrontarsi con la dura realtà di scenari “what if”; la tendenza a trincerarsi in contesti familiari – i known knowns – in fase di analisi del rischio e preparazione; l’esercitarsi su scenari “soft” (Boin et al., 2021); una comunicazione difficilmente comprensibile (Trancu et al., Grandi, 2021) e mirante a fornire rassicurazioni non supportate dalla realtà della situazione.
Vi sono problemi culturali, di architettura organizzativa, di coordinamento, di leadership, di comando e controllo, di trasparenza e comunicazione, che richiedono pressante attenzione. Nel caso degli Stati a questi spesso legislazioni inadeguate per fronteggiare eventi critici e queste rappresentano un ulteriore ostacolo alla gestione di tali eventi. 5 le aree di intervento urgenti: 1) superare la cecità organizzativa 2) instaurare processi decisionali solidi e multidisciplinari; 3) gestire la frammentazione; 4) articolare narrazioni credibili; 5) gestire lo stress collettivo (Boin et al., 2021).
La nostra impostazione alla gestione del rischio si è basata fino ad oggi sui “known unknowns”: i rischi dei quali abbiamo consapevolezza. Li abbiamo identificati, mappati e compresi. Ma il tema che si pone oggi è quello dei rischi che sono fuori dal nostro “radar” e che non siamo in grado di identificare: gli “unknown unknowns”. Il perimetro si è quindi drammaticamente ampliato a dismisura.
Vi è urgenza di trasformazione mentale e organizzativa. Bisogna essere in grado di cogliere tempestivamente i potenziali campanelli d’allarme (foresight) che possono permetterci di anticipare la riflessione e l’azione. I decisori hanno più che mai necessità di poter contare più che mai su squadre di sostegno, unità di anticipazione strategica e cellule di riflessione rapida (Lagadec, 1991), squadre operative che li aiutino a governare con la necessaria competenza il caos. Bisogna abbandonare l’idea dell’uomo solo al comando e privilegiare la leadership diffusa; rifiutare il “group think” e valorizzare individui che mostrano ingegno, creatività, capacità di affrontare l’imprevisto e l’anomalo. E’ più che mai necessario imparare a “pensare fuori dagli schemi”, e ad agire, in un contesto in cui gli schemi non esistono più (Grannatt, 2004).

Vi è urgenza di trasformazione mentale e organizzativa.

In conclusione, la cassetta degli attrezzi della gestione di crisi che abbiamo ereditato dall’era industriale è obsoleta. Così come sono obsolete le organizzazioni e gli stili di leadership in essa contenuti. E’ quindi necessario ripensare le organizzazioni e i processi di preparazione e gestione di crisi delle istituzioni e delle aziende alla luce degli elementi di complessità introdotti dalle crisi sistemiche del XXI secolo. Dobbiamo ragionare sulla collaborazione pubblico privato quale elemento fondamentale del processo, ripensare i processi comunicativi e superare la logica dei silos per giungere ad una visione olistica degli eventi critici.

Il ruolo delle idee
Essere pronti a pensare l’inimmaginabile (Taleb, 2009) è una capacità che è sempre più richiesta per affrontare i possibili futuri (Li & Qiufan, 2021). Il tempo come lo conosciamo perde la sua determinatezza in quanto non è un “quando” arriva, ma piuttosto una sfida di “cosa” arriva. I futuri al plurale sono quindi diventati il vero fulcro dell’interesse per la preparazione alle crisi (Ladetto, 2022). Essere preparati alle crisi significa anche sviluppare, seminare e raccogliere nuove conoscenze, nuove idee, e questo per cercare la flessibilità intellettuale necessaria a vedere oltre l’inimmaginabile (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Grazie a Prometeo, che per ordine di Zeus diede all’uomo la capacità di pensare (Eschilo, 2018), abbiamo lo strumento necessario per prepararci. Ma le idee sono come i semi, cioè devono essere seminate, raccolte, mangiate o mescolate con altri semi, e questo all’infinito.
Dalla conoscenza e dalle analogie nascono le idee, le idee combinate creano altra conoscenza, e con la conoscenza l’esperienza dell’uomo diventa sempre più grande. Per riassumere con le parole di Pascal, l’uomo inizia la sua vita nell’ignoranza, ma continua a imparare e a crescere costantemente. Beneficia della propria esperienza e delle conoscenze acquisite da quanti lo hanno preceduto. L’esperienza genera conoscenza; conoscenza, memoria e confronto generano idee; le idee vengono messe in relazione; le relazioni ci permettono di immaginare. La capacità di immaginare diventa l’elemento cardine della gestione di crisi del XXI secolo.

Per una moderna gestione di crisi
La globalizzazione nel senso olistico da un lato e la pervasività tecnologica dall’altro, hanno messo sotto processo l’affidabilità del sistema ereditato dalla prima Rivoluzione Industriale, cioè un modello gerarchico con chiare responsabilità improntate principalmente sul controllo e sull’esecuzione, cioè chi comandava e chi eseguiva.
Per affrontare le sfide contemporanee è necessario un moderno quadro strutturale e concettuale per la gestione delle crisi (Henrizi & Müller-Gauss, 22. November 2022), quindi avere una mentalità adatta alle circostanze (Watson et al., 2021) e possedere uno strumento adeguato, o per dirla con Urner Maren (2019) un maggiordomo mentale, per gestire la crisi. Il modello 5+2, cioè le attività di condotta dell’Esercito Svizzero (Führung und Stabsorganisation der Armee 17 : (FSO 17), 2019) offre un processo semplice, scalabile e adatto a tutte le crisi, qualunque esse siano. Il principio non è quello di esercitarsi su quello che avverrà, perché come sappiamo non sarà mai il caso, bensì, prima di tutto, di interiorizzare il processo e questo anche perché l’unica costante nella situazione di crisi è la parola stessa crisi (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Ogni crisi anche se porta lo stesso nome, non è mai uguale alla precedente.

Le organizzazioni che si chiudono in loro stesse, cioè che diventano una monocultura, hanno meno probabilità di evolversi e quindi diventano più vulnerabili nel tempo e corrono il rischio di estinguersi.

Quali sono dunque i limiti del sistema attuale di gestione di crisi della Confederazione Elvetica e come è ipotizzabile superarli? I limiti non sono certo nella capacità di pianificare ma piuttosto nel monitoraggio (inteso come capacità di individuare e anticipare), nella supervisione e nella conduzione dell’operazione. Queste rappresentano le vere sfide. La capacità di reagire rapidamente ed efficacemente ai cambiamenti è fondamentale per il successo. I decisori devono essere in grado di seguire da vicino l’operazione e di prendere rapidamente decisioni per mantenere il controllo della situazione.
Il rischio di gestire una crisi secondo il concetto della gestione per misure d’urgenza, oppure anche con il nome di micromanagement (Rappazzo, 2015), è un pericolo reale da non sottovalutare. Si tratta di una situazione in cui il decisore cerca di controllare ogni aspetto della crisi, invece di affidarsi alle competenze e alla professionalità delle persone che lo circondano. Il rischio è di soffocare la creatività e l’iniziativa, oltre che di alimentare il clima di sfiducia e paura che già caratterizza la crisi. Democrazia, regionalismo, partner diversi, strutture troppo gerarchiche e processi troppo rigidi rallentano l’agilità e la capacità di gestire proattivamente una crisi. L’agenda politica e la resilienza non vanno d’accordo. Non si tratta di cattiva volontà, ma la politica ha tempi e modi propri. Il voto, ad esempio, è un elemento che non può essere ignorato: significa consenso, e senza consenso non c’è rielezione. Senza un metodo o un processo chiaro per risolvere i problemi, la crisi può creare incomprensioni compromettendo la comprensione reciproca.
Le organizzazioni che si chiudono in loro stesse, cioè che diventano una monocultura, hanno meno probabilità di evolversi e quindi diventano più vulnerabili nel tempo e corrono il rischio di estinguersi. Un altro pericolo è rappresentato dal pregiudizio di conferma, che è la madre di tutti gli errori del ragionamento umano. Si manifesta come l’inclinazione a considerare le nuove informazioni in modo da confermare le teorie, le visioni del mondo e le credenze esistenti. Ciò significa che viene applicato alle novità per deviare i pensieri verso lo statusquo (Dobelli, 2013). Ciò è particolarmente vero in un mondo in cui i cambiamenti sono sempre più rapidi e le sfide sempre più complesse. Per sopravvivere e prosperare, le organizzazioni devono quindi essere in grado di evolversi e adattarsi rapidamente ai cambiamenti. Le complessità delle strutture di condotta e dei processi ben funzionanti in una situazione normale sono insufficienti durante un periodo eccezionale. In questi momenti, l’eccezione richiede un approccio più flessibile, creativo e pronto all’azione. Riducendo il personale e comprimendo i costi, cioè massimizzando ogni minuto libero, si è persa la capacità di pensare a lungo termine. Sviluppare e riflettere in modo critico richiede tempo, ma è economicamente costoso e dovrebbe essere inteso come un investimento. Inoltre, la capacità di sviluppare un pensiero critico (Urner, 2019) è la chiave per affrontare un mondo che da VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguos) è, secondo alcuni, diventato BANI (Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensible).

Sviluppare e riflettere in modo critico richiede tempo, ma è economicamente costoso e dovrebbe essere inteso come un investimento.

Immaginazione e anticipazione strategica quale elemento di innovazione
Per fare fronte alle profonde trasformazioni in atto dobbiamo innovare. Dobbiamo spingere la riflessione un passo oltre.
L’anticipazione strategica è definita come “l’esplorazione strutturata ed esplicita di molteplici futuri al fine di informare il processo decisionale” (OECD, 2019). Questa comporta tipicamente la scansione dell’orizzonte alla ricerca di segnali di cambiamento emergenti, lo sviluppo e l’esplorazione di una varietà di possibili scenari futuri e l’identificazione delle potenziali implicazioni per le strategie e le politiche sviluppate nel presente. L’anticipazione strategica può fornire una base potente per lo sviluppo di politiche pubbliche lungimiranti e contribuire a garantire l’adeguatezza al futuro delle politiche esistenti, in particolare nel contesto di “ambienti complessi e incerti ” (Greenblott J.M. et al. 2017).
Questa anticipazione del futuro, l’essere attenti ai segnali deboli e agli elementi presenti che preannunciano un cambiamento prossimo è soprattutto un’attitudine intellettuale. Che si tratti di proteggersi dalle crisi o di cercare opportunità, è un’attività permanente, un processo continuo in cui interagiscono tempi brevi e lunghi. Le varie azioni intraprese mirano a mantenere vigili le nostre certezze e a metterle costantemente alla prova in virtù di ipotesi o idee ispirate da un presente in continua evoluzione.
In quest’ottica, il Dipartimento federale della difesa, della protezione civile e dello sport, attraverso il suo centro tecnologico armasuisse scienza e tecnologia, ha creato nel 2013 un programma di anticipazione strategica. Il suo obiettivo è anticipare l’uso di tecnologie che potrebbero avere un impatto dirompente sul modo in cui la Svizzera difende e preserva la propria sicurezza.
Il programma, noto come deftech, acronimo di defence future technologies, fa una chiara separazione fra foresight e forecast (Ladetto, 2022) e cerca, tramite progetti e sinergie nazionali ed internazionali di anticipare usi dirompenti di campi tecnologici e delle loro convergenze.

L’anticipazione strategica può fornire una base potente per lo sviluppo di politiche pubbliche lungimiranti e contribuire a garantire l’adeguatezza al futuro delle politiche esistenti

Nonostante l’incertezza del contesto, il foresight ci aiuta a vedere quali sono i possibili stati del futuro (Foresight Serie, 2021). Il pensiero futuristico ci aiuta a capire come questi stati potrebbero evolversi e, di conseguenza, come dovremmo mettere in discussione i nostri pregiudizi, punti ciechi e mentalità. Dobbiamo poi tradurre sistematicamente queste intuizioni in strategie e politiche, per prendere i provvedimenti necessari ora per essere preparati al futuro. Il domani si costruisce interamente a partire da oggi. In mezzo non c’è nulla. C’è un vuoto che si può anche chiamare divenire. Questo vuoto è in attesa di essere colmato da un numero infinito di innovazioni, sviluppi e opportunità.
Questa posizione intellettuale è importante perché dà piena rilevanza alle azioni presenti. Poiché queste azioni e interazioni sono potenzialmente infinite, ciò giustifica la presa in considerazione non di uno, non di due, non di tre, ma di una moltitudine di futuri. Questi futuri non sono considerati in relazione agli orizzonti temporali, ma in relazione alle differenze e agli impatti che presentano rispetto al presente, o in relazione ai presenti, se consideriamo i nostri diversi modelli mentali. Rendere visibile questa moltitudine di possibilità e ispirare i decisori nelle loro azioni è l’obiettivo di un dispositivo di anticipazione strategica oggi più che mai fondamentale per poter gestire con maggiore efficacia le crisi sistemiche del 21° secolo. Ma è anche necessario pensare anche in termini di governance anticipatoria ovvero “l’incorporazione e l’applicazione sistematica dell’anticipazione strategica nell’intera architettura di governance, compresa l’analisi delle politiche, l’impegno e il processo decisionale” (OECD 2019). La governance anticipatoria e l’istituzionalizzazione della previsione strategica deve comprendere la creazione di istituzioni e strutture dedicate alla previsione (ad esempio unità, comitati, reti, legislazione e pratiche) e la costruzione di una cultura della previsione all’interno delle strutture istituzionali esistenti (OECD 2022). Incluse le unità preposte alla gestione di crisi.

Adeguare l’organizzazione di gestione di crisi al XXI Secolo
Partendo da queste considerazioni è urgente confrontarsi su una diversa organizzazione per la gestione di crisi e avviare processi formativi finalizzati a creare un “fitness mentale” che permetta di confrontarsi con scenari inediti piuttosto che esercitare quelli ben conosciuti.
Come quindi rafforzare l’attuale sistema in vigore nella Confederazione Elvetica e potenzialmente anche quelli di altri Paesi? Partendo innanzitutto dal presupposto che per fronteggiare la complessità esterna a un sistema occorre aumentarne la complessità interna (De Simone, 2020). Dobbiamo quindi ripensare l’organizzazione. Non a caso si tratta di una delle 13 raccomandazioni contenute nel rapporto post mortem Covid-19 elaborato dalla Cancelleria federale (2022). Dal rapporto emerge inoltre un altro importante tema trasversale: a livello strategico deve essere migliorata la capacità di anticipare possibili crisi e i relativi sviluppi della situazione. Per rispondere alle numerose sfide, sulla scorta delle lezioni apprese dopo la pandemia e delle raccomandazioni sopra citate, nel marzo 2023 il Consiglio federale ha deciso di “rafforzare l’organizzazione dell’Amministrazione federale per le crisi future”. Tre i pilastri della futura organizzazione:
1. la costituzione di uno stato maggiore di crisi permanente incaricato di fornire supporto nella gestione di crisi a livello sopradipartimentale. Si tratta di fatto di una struttura orizzontale che mira a superare la problematica dei silos verticali, assicurando continuità, una procedura di gestione di crisi uniforme e una conservazione delle conoscenze nel tempo;
2. la costituzione, su indicazione del Consiglio federale, di uno stato maggiore di crisi a livello politicostrategico (SMCPS) sotto la direzione del dipartimento responsabile per la crisi in questione. Compito del nuovo organismo formulare per il Consiglio federale le risposte politiche e assicurare il coordinamento della gestione di crisi a livello sopradipartimentale;
3. la possibilità di costituire in seno al dipartimento responsabile della gestione uno Stato maggiore di crisi operativo (SMCOp) che ha di fatto il compito di elaborare la documentazione di base necessario per lo SMCPS oltre a garantire il coordinamento tra le unità amministrative.
La riorganizzazione prevede inoltre un coinvolgimento dei Cantoni, della comunità scientifica e di eventuali altri attori rilevanti nei lavori del SMPCS e del SMCOp. Infine, Il Consiglio federale ha dato mandato agli organismi competenti di elaborare le basi legali della nuova organizzazione.
Si tratta a nostro giudizio di un importante passo in avanti nella costruzione di un diverso sistema organizzativo, più idoneo per raccogliere la sfida delle crisi sistemiche del 21° secolo. Anche se i dettagli non sono ancora disponibili, dal nostro punto di vista il nuovo Stato maggiore di crisi permanente dovrebbe assolvere alcuni compiti primari che vanno oltre quanto ad oggi comunicato:
1) armonizzare la comprensione del processo di gestione delle crisi per l’intera confederazione, per le altre istituzioni, così come per il settore privato attraverso processi formativi;
2) divenire un “centro di competenza” aperto anche ad esperti stranieri in grado di dare vita ad una cultura comune integrando anche campagne informative a tutti gli stakeholder e ai cittadini. Il processo di gestione armonizzato dovrebbe ispirarsi al modello 5+2, cioè le attività di condotta dell’Esercito svizzero che grazie alla sua semplicità e scalabilità si è dimostrato per anni uno strumento affidabile;
3) esercitare non solo il coordinamento tra le diverse strutture integrandole orizzontalmente come effettivamente previsto ma assicurarsi anche che i processi di ascolto siano attivi;
4) ospitare al suo interno un’unità di anticipazione strategica con il compito di stimolare e sfidare di continuo le ipotesi di crisi, immaginando nuovi scenari e confrontandole al presente e ai segnali deboli monitorati costantemente. In relazione con gli impatti potenziali in vari settori identificati, un orizzonte temporale di breve, medio e lungo termine per le possibili azioni da svolgere. Un esempio concreto può essere quello di Singapore e del “Centre for Strategic Future” il quale è entrato a far parte del nuovo Strategy Group dell’Ufficio del Primo Ministro dal 2015. Fu istituito per concentrarsi sulla pianificazione strategica e la definizione delle priorità dell’intero governo, sul coordinamento e lo sviluppo di iniziative e per incubare e catalizzare nuove capacità nel servizio pubblico nazionale;
5) creare, formare e preparare “cellule di riflessione rapida” incaricate di lavorare in parallelo durante un evento critico con l’obiettivo di porre le domande giuste al momento giusto;
6) individuare le cellule di contatto e coordinamento interfederali, interdipartimentali e con gli stakeholder esterni e stabilire un “modus operandi”;
7) dare vita ad un’unità interdisciplinare dedicata alI’Intelligenza Artificiale per esplorare e implementare applicazioni nel campo dell’emergenza e della crisi.
La riorganizzazione promossa costituisce sicuramente un importante punto di partenza che dovrebbe tuttavia essere perseguito con un occhio già rivolto al futuro. Il tema dell’anticipazione delle crisi, seppure evocato dal Consiglio federale, deve partire da un approfondimento più puntuale circa l’anticipazione strategica così come si impone una riflessione sull’integrazione di sistemi di intelligenza artificiale, tema quest’ultimo che implica anche valutazioni di natura etica. Gli elementi che ci sembrano assenti sono un chiaro riferimento alla multidisciplinarietà, elemento oggi fondamentale nella gestione delle crisi sistemiche, e un’attenzione al ruolo centrale della formazione di quanti saranno chiamati a diverso titolo a pilotare le crisi future.

E’ necessario valutare nuovi approcci organizzativi, acquisire una migliore comprensione dei possibili futuri e soprattutto concentrarsi su come selezionare e formare donne e uomini capaci di orientarsi in universi ipercomplessi, sconosciuti e caotici.

In conclusione, abbiamo visto l’importanza dell’anticipazione, della padronanza dei processi e del ruolo delle idee. Non si tratta solo di riorganizzare ma soprattutto di istituire in seno alla nuova organizzazione una cultura che favorisca una semina costante dei campi, e allo stesso tempo l’alternanza o l’innesto di nuove semine per garantire anche la cultura dell’allenamento e del cambiamento. Ogni organizzazione porta in sé i germi dei problemi correnti. Invece di investire ore ma anche anni in preparazione di esercizi fittizi (che comunque di per sé è già positivo), si tratta semplicemente di esercitarsi su problemi reali. Successivamente dare più ampio respiro alle simulazioni, che necessitano di molta preparazione. Per fare questo però è necessario possedere una buona padronanza dei processi di base.
E’ bene ricordare che gli obiettivi della gestione di crisi sono tre: porre fine alla crisi in tempi brevi, limitare i danni e ripristinare la credibilità (Rappazzo & Eigenheer, 2020). Ciò significa anche non ostacolare o rallentare il normale svolgimento dei compiti dei vari dipartimenti o istituzioni coinvolti. Significa avere un elemento di risoluzione dei problemi libero dai vincoli della gestione della continuità operativa (BCM), in grado di ripristinare autonomamente, con le risorse e le competenze necessarie e disponibili, la situazione normale o desiderata nel più breve tempo possibile.
Le peculiarità delle crisi sistemiche e transfrontaliere del 21° secolo caratterizzate da elevati elementi di complessità e sempre più spesso destinate a diventare policrisi impone un ripensamento di come queste vengono affrontate e gestite. E’ necessario valutare nuovi approcci organizzativi, acquisire una migliore comprensione dei possibili futuri e soprattutto concentrarsi su come selezionare e formare donne e uomini capaci di orientarsi in universi ipercomplessi, sconosciuti e caotici.

PER LA BIBLIOGRAFIA RIMANDIAMO ALL’ARTICOLO PUBBLICATO NEL RAPPORTO #REACT2023

Gli Autori
Quentin Ladetto
Ideatore e direttore del programma di foresight di armasuisse scienza e tecnologia – https://deftech.ch. L’obiettivo del programma è di identificare le tendenze tecnologiche e casi d’uso dirompenti e di valutare le loro implicazioni in un contesto militare. Scrive di foresight su atelierdesfuturs.org
Patrick Trancu
Consulente di gestione di crisi che lavora da oltre 20 anni con il settore privato, pubblico e con le istituzioni focalizzandosi principalmente sul tema della preparazione. Ha curato ed è uno dei 35 co-autori del libro “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro” (2021). Scrive di gestione di crisi su www.tta-advisors.com
Alessandro Rappazzo
Ufficiale professionista dell’esercito svizzero. Ha conseguito un EMBA ed è dottorando presso l’Università di Gloucestershire. Attualmente è attivo presso il comando MIKA (Comando per la formazione in materia di gestione, informazione, e comunicazione), dove ha l’opportunità di lavorare con un’ampia gamma di aziende private e dipartimenti federali e cantonali. Scrive anche su Opinione67
Luca Tenzi
Esperto di sicurezza, resilienza e crisi con oltre 20 anni di esperienza aziendale abbracciando molteplici settori di attività in aziende Fortune 100 e 500 e consulenza per alcune agenzie specializzate delle Nazioni Unite – guidando operazioni e definendo strategie di sicurezza in diversi ambienti geopolitici

Immagine di copertina: foto di albertosandrin da Pixabay


Ucraina: fronte statico, retrofronte agitato

Dall’intervento di C. Bertolotti a Rai News 24, In un’Ora, puntata del 19 giugno 2023.

La situazione è relativamente statica al fronte, dove non ci sono azioni risolutive o perdite o guadagni significativi, ma molto dinamica nel retrofronte dove la logistica russa ha subito importanti perdite con la distruzione di aree logistiche per lo stoccaggio e lo smistamento di carburanti e munizioni. Perdite di gran lunga superiori rispetto a quelle registrate al fronte.

Ora, se vogliamo concentrarci su quel fronte relativamente statico, la qualità degli equipaggiamenti e dell’addestramento ucraino sta bilanciando la quantità e i numeri russi che, almeno sulla carta, sono significativamente superiori.

Ma questa qualità che Kiev è riuscita a schierare sul campo di battaglia, deriva dalla volontà occidentale, e in primo luogo statunitense, di armare ed equipaggiare le forze armate ucraine. In questo senso, gli aiuti militari devono essere continui, costanti e garantiti sul medio periodo se si vuole che una qualche offensiva abbia un effetto positivo.

SITUAZIONE SUL CAMPO

In primo luogo mi preme sottolineare un aspetto primario, cioè che non dobbiamo limitarci a guardare il movimento tattico delle unità sul terreno, e in particolare al fronte, per farci un’idea di quello che potrebbe accadere. Al contrario, è sull’aspetto logistico che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione, perché è attrave rso la lettura della capacità di approvvigionamento di carburante e munizioni, pezzi di ricambio e assistenza ai veicoli danneggiati, ma anche l’avvicendamento dei soldati al fronte, che avremo una fotografia di quello che i due eserciti potranno fare ed ottenere nelle prossime settimane. E la Russia sul piano logistico sembra essere molto sofferente, e questo non solo carenze strutturali, ma perché gli ucraini, prima e durante la loro serie di contrattacchi hanno colpito e distrutto molti importanti depositi logistici, con ciò ottenendo molto più di quanto non hanno ottenuto con gli attacchi frontali al fronte, distruggendo tonnellate di carburante e munizioni: insieme al centro logistico primario di Rykove, ricordiamo i centri logistici distrutti a Melitopol, Tokmak, Berdyansk, Lazurne e Shadovsk, e altri.

Un altro aspetto importante è la consistenza dell’azione sino ad ora condotta dall’Ucraina, che sembra inferiore alle effettive capacità.

L’avanzata ucraina, sino ad oggi, è stata lenta e onerosa, in termini di caduti sul campo e perdite di mezzi ed equipaggiamenti e le conquiste territoriali sono state molto limitate.

Ora, guardando ai tempi e ai modi di impiego delle truppe sul campo potremmo dire di essere nel momento maturo che precede una decisione importante per gli stati maggiori ucraini dopo aver saggiato la consistenza del sistema difensivo russo: continuare in azioni tattiche di questo tipo o scegliere per una pausa tattica per poi riorganizzare le forze di manovra per la successiva fase che potrebbe prevedere una nuova spinta offensiva o, in alternativa, il prolungarsi di una guerra di attrito e logoramento così come l’abbiamo conosciuta nell’ultimo anno e che sembra essere l’opzione più concreta e maggiormente probabile.

In questo scenario non dobbiamo poi dimenticare che anche la Russia, che è rimasta molto statica negli ultimi mesi, tolto il settore di Bakhmut, ha a disposizione le proprie unità di manovra che, nel frattempo si sarebbero riorganizzate anche in conseguenza del reclutamento di aprile che potrebbe rendere disponibili alcune centinaia di migliaia di soldati. Ed essendo la Russia in difensiva, almeno in questa fase, parte avvantaggiata perché può godere di maggiori protezioni per i propri soldati e, non da ultimo, ha preso esempio dall’Ucraina nell’impiego di piccole unità in funzione di contrasto all’avanzata degli attaccanti. Così come fecero i soldati di Kiev all’avanzare dell’armata russa nel febbraio-marzo dello scorso anno, oggi i russi si muovono con distaccamenti in grado di disturbare e rallentare i contrattacchi ucraini.


La controffensiva e il realismo del campo di battaglia: al momento sono limitate azioni tattiche. Il commento di Camporini e Bertolotti

Il commento di Claudio Bertolotti, Vincenzo Camporini e Mirko Campochiari a NAUTILUS, puntata del 7 giugno 2023

Secondo l’Institute for the Study of War (ISW), l’Ucraina ha condotto operazioni di controffensiva con risultati differenziali in almeno tre settori del fronte come parte di più ampi sforzi di controffensiva che sono stati avviati da domenica 4 giugno. Fonti ufficiali ucraine hanno segnalato che le forze di Kiev sono passate da operazioni difensive a operazioni offensive nel settore di Bakhmut e avrebbe ro guadagnato tra 200 metri e quasi due chilometri sui fianchi della città. Le forze ucraine avrebbero nel complesso ottenuto guadagni tattici durante limitati contrattacchi localizzati nell’Oblast’ di Donetsk occidentale vicino al confine Donetsk-Zaporizhia Oblast dal 4 giugno e, inoltre, avrebbero condotto un attacco nella parte occidentale dell’Oblast’ di Zaporizhia nella notte tra il 7 e l’8 giugno, ma non sembra che abbiano avuto la capacità di aprire un varco nel sistema difensivo russo, di fatto limitando l’azione a un ingaggio statico.

Nel complesso, l’offensiva ucraina che si potrebbe sviluppare sul fronte è la migliore ma anche l’unica chance che Kiev ha per dare una svolta alla guerra. Kiev dovrà ottenere con questa operazione un risultato straordinario, l’alternativa, in caso di insuccesso o successo parziale, è quella di mantenere la guerra nello stato attuale, dove attaccanti e difensori non saranno in grado di imporre la propria volontà sull’altro, ma con un vantaggio strategico da parte di Mosca che ha e continua ad avere una predominanza quantitativa di mezzi e materiali, sebbene abbia perso anch’essa la possibilità di imporre una svolta decisiva. Ma è ben chiaro, e non può essere diversamente, che una controffensiva non produrrà un risultato militarmente decisivo e che nessuna delle due parti ha la capacità, anche con l’aiuto esterno, di ottenere una vittoria militare decisiva sull’altra.


Controffensiva ucraina? Non ancora, ma… Il commento di C. Bertolotti a SKY Tg24

Due gli scenari possibili: ma anche se la controffensiva avesse successo, la guerra durerà ancora a lungo


LINK all’intervista di Roberto Tallei al direttore Claudio Bertolotti, SKY tg24 Mondo (puntata del 5 giugno 2023)

È davvero iniziata la controffensiva tanto attesa?

Intesa come controffensiva in grado di ricacciare indietro i russi imponendo l’abbandono del fronte, quella ucraina rimane un miraggio perché il potenziale militare ucraino è adeguato per una guerra difensiva, tuttalpiù per azioni offensive limitate, contrattacchi, ma difficilmente potrebbe sostenere un’azione in profondità su tutto il fronte. In ogni caso, una controffensiva – e non una più semplice e limitata serie di azioni di contrattacco – può richiedere giorni, o addirittura mesi, prima di dare ottenere concreti.

Guardando alla situazione attuale, non abbiamo conferme ma i numeri delle truppe sul terreno e l’intensità del fuoco suggeriscono che ci si possa trovare di fronte a ciò che anticipa una possibile controffensiva e non ancora l’offensiva stessa. Quello che possiamo osservare potrebbero dunque essere azioni con un duplice scopo: il primo è saggiare la consistenza del sistema difensivo russo; il secondo è avviare una serie di azioni di inganno, come parte di un piano ben strutturato che ha per scopo quello di confondere i russi, obbligandoli a trasferire truppe e a indebolire i settori del fronte dove potrebbe poi concentrarsi la maggiore pressione ucraina. Dunque potremmo davvero iniziare a fare i conti sui risultati di una possibile controffensiva quando quei numeri cambieranno, passando da alcuni battaglioni, come oggi sembrerebbe il livello delle unità impegnate in azioni di contatto al fronte, con le brigate schierate in ordine di battaglia e impegnate in grandi manovre offensive.

Perché l’annuncio arriva da Mosca e perché Kiev nega?

Questo è un aspetto che rientra nella capacità di governare la comunicazione e la narrazione della guerra. Da una parte Kiev tiene il segreto sulle proprie operazioni, e questo è ben comprensibile, per una ragione di sicurezza delle unità sul terreno e perché sulla sorpresa si basa il successo di qualunque operazione militare. Dall’altra parte, Mosca nell’annunciare un’offensiva ucraina in realtà enfatizza la capacità russa di contenerne la spinta, presentando così all’opinione pubblica russa l’incapacità di Kiev di scardinare la tenuta delle posizioni delle stesse forze armate russe. Insomma, una strategia comunicativa in cui la Russia è soggetto attivo e passivo al tempo stesso.

Qual è l’obiettivo della controffensiva? Isolare la Crimea?

La questione non è quale sia l’obiettivo della controffensiva in sé, perché non è operativa la questione, bensì strategica. Dunque non tanto quante città, o porzioni di territorio verranno conquistate, bensì quanto l’operazione militare sarà in grado di scardinare il ben consolidato sistema difensivo russo e quanto, nel caso di successo, questo dovesse avere ripercussioni politiche sull’impegno militare russo in Ucraina. La controffensiva non deve necessariamente riconquistare i territori perduti, ma deve fiaccare il morale, scardinare il sistema militare russo in Ucraina, condizionare le scelte politiche di Mosca. E questo potrebbe avvenire colpendo in maniera rilevante la logistica, dunque l’autostrada M-14, cruciale asse stradale per la logistica russa, potrebbe essere un obiettivo primario, e la costa del Mar d’Azov tra le città di Berdyansk e Melitopol sarebbero probabili obiettivi in caso di una grande offensiva ucraina verso sud, questo al fine di isolare la Crimea e, di fatto, dividere lo sforzo russo, moltiplicandone i costi e gli sforzi logistici e operativi e colpendo, al tempo stesso, quello che è il simbolo principale della presenza russa in Ucraina, la Crimea.

Unità partigiane russe a supporto di Kiev?

Parliamo di elementi del Corpo dei volontari russi filo-ucraini (RDK) e della Legione della Libertà di Russia (LSR) che hanno condotto raid limitati nell’Oblast di Belgorod il 4 giugno e, secondo quanto riferito, continuerebbero a operare in un’area di confine all’interno del territorio russo usando le basi di partenza ucraine.

Non imbarazzano Kiev?

Oltre a ciò che accade sul campo di battaglia, siamo nel bel mezzo di una guerra cognitiva. Occorre dunque essere molto prudenti nel valutare le dichiarazioni di due parti in guerra. Certo, potrebbe essere imbarazzante, ma di fatto le unità partigiane non sono inserite organicamente nelle forze armate convenzionali. E questo fa di loro un jolly su cui, sul piano formale, la capacità di comando e controllo potrebbe essere limitata. Ma è davvero così? Difficile dirlo, certo è che fa comodo a tutti (governo ucraino in primo luogo) dichiarare di non averne il diretto controllo, per poi godere del vantaggio strategico che queste unità posso dare: in particolare il non diretto coinvolgimento di soldati ucraini in Russia, a fronte di un risultato dal forte impatto morale sull’opinione pubblica russa e d’immagine a danno della leadership russa che appare incapace di garantire la sicurezza all’interno dei propri confini.

Due scenari possibili: cosa accadrà?

L’offensiva ucraina che nelle prossime ore e giorni si potrebbe sviluppare sul fronte è la migliore ma anche l’unica chance che Kiev ha per dare una svolta alla guerra. Kiev dovrà ottenere con questa operazione un risultato straordinario, l’alternativa, in caso di insuccesso o successo parziale, è quella di mantenere la guerra nello stato attuale, dove attaccanti e difensori non saranno in grado di imporre la propria volontà sull’altro, ma con un vantaggio strategico da parte di Mosca che ha e continua ad avere una predominanza quantitativa di mezzi e materiali, sebbene abbia perso anch’essa la possibilità di imporre una svolta decisiva. Ma è ben chiaro, e non può essere diversamente, che una controffensiva non produrrà un risultato militarmente decisivo e che nessuna delle due parti ha la capacità, anche con l’aiuto esterno, di ottenere una vittoria militare decisiva sull’altra.

Ora, a fronte di questa occasione unica che ha Kiev, e che non potrà essere ripetuta, ci troviamo di fronte a due scenari possibili.

Primo scenario: il successo ucraino. Il primo è quello di un’Ucraina in grado di imporre una un risultato soddisfacente a livello operativo, con la rottura del fronte, l’arretramento dei russi e la fine del sogno di gloria da parte di Mosca. E questo risultato sarebbe, sul piano strategico, la premessa per indurre Stati Uniti e Cina a spingere i loro alleati verso un tavolo negoziale che, da qualunque parte lo si guardi, sembra essere sempre svantaggioso per Kiev.

Secondo scenario: Kiev fallisce. Il secondo scenario, quello non auspicabile per l’Ucraina, è lo scenario peggiore, ossia quello del fallimento della controffensiva da cui deriverebbe di fatto la perdita di capacità offensiva e darebbe a Mosca la possibilità di tentare a sua volta una spallata risolutiva: Mosca ha i numeri per poterlo fare, pur a fronte dell’enorme e ulteriore sacrificio che dovrà accettare.

Ma in entrambi i casi, non si verrebbe fuori dallo stato cronico di guerra di attrito e logoramento in essere dallo scorso anno.