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GUERRA O NO GUERRA: IL DILEMMA SENZA FINE

di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).

TRUMP, NETANYAHU, L’OMBRA DELL’IRAN E UN’EUROPA SILENZIOSA

L’Unione Europea è nata per scongiurare altre guerre, nucleari e non e Trump ha giurato sin dal 2015 che gli Stati Uniti non sarebbero entrati più in guerra, soprattutto visti i persistenti e gravi problemi interni di cui ha promesso dare precedenza. Eppure, già dal primo mandato del 2015 non si può certo dire che sia stato un pacifista. Ha ordinato l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani e di Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’ISIS, ha lanciato attacchi in Siria in risposta alla morte di soldati americani e ha sganciato la MOAB BOMB (the Mother Of All Bombs), una bomba potentissima in Afghanistan. Non si può dire, insomma, che non abbia fatto ricorso all’uso della forza militare. Anche oggi, sostiene — e lo ha ribadito più volte — di non aver dichiarato guerra a nessuno. Le sue azioni, dice, sono state mirate esclusivamente a colpire le infrastrutture nucleari iraniane, sulla base di recenti rapporti, secondo cui, Teheran avrebbe aumentato l’arricchimento dell’uranio dal 3,5% al 60%. Un salto che, secondo lui, porta l’Iran pericolosamente vicino alla soglia per la costruzione di armi atomiche, e questo non può essere ignorato. Se poi decidesse di inviare truppe di terra, il discorso cambierebbe radicalmente. Ma Trump ha parlato di un possibile cambio di regime, riferendosi a un cambiamento interno — come avvenuto in Siria, a dicembre, quando furono gli stessi cittadini a scendere in piazza chiedendo di mandar via Assad. E se un’insurrezione popolare portasse a un nuovo corso, perché dovrebbe essere visto come negativo?

Certo non possiamo che porci domande, a iniziare dalle dichiarazioni di guerra che di norma, erano precedute da un ultimatum, ossia una richiesta esplicita con un termine preciso. Se l’ultimatum veniva rifiutato o ignorato, seguiva la dichiarazione formale.

📜 Notifica diplomatica

  • L’atto veniva consegnato tramite un ambasciatore o inviato diplomatico alla controparte. A volte veniva anche reso pubblico tramite stampa ufficiale o proclami.

📚 Diritto consuetudinario e convenzioni

  • La Convenzione dell’Aia del 1907 (Convenzione III) stabilì che le ostilità non potessero iniziare senza una dichiarazione formale di guerra o un ultimatum motivato con dichiarazione di guerra. Questo fu uno dei tentativi di regolare l’inizio dei conflitti armati.

Oggi non si dichiara più guerra, oggi si parla di interventi militari, operazioni speciali o azioni difensive senza alcun atto ufficiale.

Un’altra domanda è: chi vuole veramente un cambio di regime in Iran? Secondo una parte del movimento MAGA (Make America Great Again), il vero motivo per cui gli Stati Uniti puntano a un cambio di regime in Iran non ha radici nella sicurezza nazionale, ma nelle pressioni esercitate da Benjamin Netanyahu. È questa, dicono, la spiegazione dietro alla spaccatura sempre più evidente all’interno dello stesso fronte conservatore americano.

Da un lato ci sono i neoconservatori che da decenni spingono per guerre infinite in Medio Oriente, sempre allineati con le priorità della politica estera israeliana. Dall’altra, c’è una generazione di americani cresciuta all’indomani dell’11 settembre — “la generazione 9/11” — a cui era stato promesso un Paese più sicuro e più stabile, a patto di appoggiare guerre come quella in Iraq, motivata, allora, dalle armi di distruzione di massa.

Oggi, osservano alcuni sostenitori del mondo MAGA, si sta riproponendo la stessa retorica di una volta e con gli stessi metodi: etichettare chi si oppone all’intervento in Iran come filo-jihadista, accusandolo di voler indebolire la sicurezza americana, e giustificare così l’azione militare, come parte della crociata per la democrazia liberale internazionale. Ma — sottolineanonon c’era alcuna minaccia imminente per gli Stati Uniti quando Trump ha deciso di bombardare.

E proprio qui arriva l’accusa più pesante: “Non è stata una decisione di Trump, ma di Netanyahu,” affermano. “È stato lui a volerla, e noi sappiamo bene che Israele sta dettando la nostra politica estera. Ed è ora di dire basta.”

Secondo alcuni commentatori conservatori americani, quella che si sta preparando non è solo una crisi diplomatica, ma un’escalation potenzialmente nucleare. L’amministrazione Trump, spiegano, aveva lasciato intendere che avrebbe aspettato almeno due settimane prima di intervenire. Ma poi sono arrivate prima le bombe. Ancora ci poniamo un’ennesima domanda: perché? Secondo la stampa israeliana — se vogliamo crederle — è stato Netanyahu a insistere: ‘Non aspetteremo due settimane. Vogliamo che si faccia subito’,” afferma l’intervistato.

Ma il premier israeliano non sarebbe stato l’unico a influenzare la decisione. A pesare sarebbe stata anche Miriam Adelson, miliardaria, filantropa e la principale finanziatrice repubblicana. Vedova di Sheldon Adelson, magnate dei casinò e storico alleato di Trump, Miriam ha donato oltre 100 milioni di dollari alle sue campagne elettorali. “È sempre stata chiara: voleva l’annessione della Cisgiordania,” sostiene la commentatrice MAGA Candace Owen. “C’era un progetto imperialista ben preciso, e quando fai un patto con il diavolo, poi devi pagare il prezzo. Ecco cosa sta facendo oggi Trump.”

Ulteriori segnali arriverebbero da un altro episodio controverso: il tweet di Trump in cui ipotizzava la costruzione di un Trump Hotel a Gaza. Certamente per alcuni questa era comunicazione disumana, indelicata, per altri, invece, era un offrire ai palestinesi spiagge e alberghi, per ‘una vita migliore’. D’altra parte, non possiamo dimenticarci che questo è il suo vero mestiere, sviluppare proprietà. Ma a peggiorare la situazione ricordiamo quando Jared Kushner, suo genero, anche lui imprenditore immobiliarista apparve davanti alle telecamere, poco dopo il 7 ottobre, con un infelice commento soprattutto per l’entusiasmo espresso nei toni sul potenziale valore di quei territori: “Quella proprietà potrebbe valere moltissimo,” avrebbe detto; toni che imbarazzarono persino i più fedeli di Trump.

Ecco che il mondo conservatore americano si sta spaccando. MAGA non è più compatta. C’è chi continua a sostenere il movimento del presidente a prescindere, e chi denuncia l’infiltrazione di neocon e l’allineamento cieco a Israele. “Il vero MAGA,” insistono, “è quello che si è sempre opposto all’invio di soldati americani in Medio Oriente.” Chi è rimasto fedele a questa linea ora guarda con sospetto a chi festeggia questa nuova guerra — da Mark Levin a John Bolton — e chi si chiede se anche Alexandria Ocasio-Cortez (NY-D) sia contro l’intervento. E quindi ci interroghiamo ancora una volta: le etichette politiche vanno riviste, riguardo a chi stia davvero supportando America First?

Altri commentatori come Glenn Beck, invece, fedelissimi a Trump ha trovato una definizione che salverebbe tutti ossia il classificare e lo scindere dei peccatori: da un lato islamisti e dall’altro mussulmani. 

“Lasciate che lo dica nel modo più chiaro possibile: non si tratta di musulmani, ma si tratta di islamisti.”  Secondo Beck, l’Occidente rischia di essere trascinato in un conflitto ideologico e militare di lungo periodo senza aver nemmeno chiarito pubblicamente contro chi si stia combattendo. “Se non rompiamo questo ciclo,” ha ammonito, “continueremo a eleggere presidenti che, una volta in carica, si trovano a seguire sempre le stesse voci, senza reali alternative.”

Non è una guerra contro l’Islam. È uno scontro con l’islamismo.

A sostenere una distinzione analoga, ma in termini analitici, è anche Soner Cagaptay, ricercatore del Washington Institute for Near East Policy.  In un saggio intitolato Muslims vs. Islamists, Cagaptay scrive:

“L’islamismo non è una forma della fede musulmana né un’espressione di devozione religiosa: è un’ideologia politica.”

In altre parole: i musulmani praticano una fede, gli islamisti promuovono un’agenda di potere. Mentre l’Islam è vissuto da oltre un miliardo di persone in tutto il mondo in modo pacifico e spirituale, l’islamismo mira a trasformare la religione in strumento di conquista, legittimando guerra, violenza e repressione.

Confondere le due cose — ammoniscono sia Beck sia Cagaptay — è un errore fatale, che non solo alimenta l’odio, ma impedisce di affrontare davvero il problema. La sfida, allora, è duplice: difendere la sicurezza senza rinunciare alla verità, e combattere l’islamismo senza cadere nell’islamofobia.

E l’Unione Europea? L’Europa guarda, ma non decide

Mentre Washington si divide e l’Iran si radicalizza, l’Unione Europea resta una spettatrice preoccupata, incapace di trasformare la propria retorica diplomatica in influenza concreta. I governi europei si sono limitati a inviti alla de-escalation e generiche dichiarazioni a favore della stabilità regionale, mentre Bruxelles si trincera dietro il ruolo di garante dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), ormai svuotato di efficacia.

Parigi ha condannato “ogni iniziativa unilaterale che possa compromettere la sicurezza collettiva”, Berlino si è detta “profondamente allarmata” per i raid preventivi, mentre Roma si è allineata alle posizioni atlantiche, pur con toni prudenti. Ma nessun Paese europeo ha esercitato un’influenza reale né su Teheran, né su Washington, né tantomeno su Tel Aviv.

In assenza di una visione comune, l’Europa si rifugia nel linguaggio della moderazione, ma questa neutralità apparente si traduce in irrilevanza. Eppure, è proprio sul suolo europeo che si moltiplicano le conseguenze indirette del conflitto: instabilità energetica, flussi migratori, polarizzazione interna tra comunità musulmane e movimenti identitari. L’Europa continua a invocare il diritto internazionale, ma non riesce a farlo rispettare — né a farsene garante. E se davvero vuole restare uno spazio di pace, non può limitarsi a condannare ciò che accade: deve cominciare a incidere su ciò che accadrà.


Perché è normale che Iron Dome non intercetti tutti i missili iraniani

di Andrea Molle dagli Stati Uniti

In questi giorni di accentuata tensione tra Israele e Iran, diverse analisi superficiali hanno sollevato dubbi sull’efficacia dei sistemi di difesa israeliani – in particolare Iron Dome, David’s Sling e Arrow. Il fatto che alcuni missili iraniani siano riusciti a colpire il territorio israeliano viene interpretato da alcuni come segnale di un cedimento tecnico o strategico. Ma la realtà è più complessa – e molto più razionale.

1. I sistemi di difesa non sono scudi magici
Ogni sistema antimissile lavora su principi di probabilità e priorità. Non esiste al mondo una tecnologia in grado di garantire l’intercettazione del 100% delle minacce. Anche i sistemi più avanzati devono operare in condizioni di incertezza e fare i conti con le leggi della statistica, della fisica, della logistica e della guerra elettronica.

2. Le munizioni intercettanti sono limitate
Ogni batteria ha un numero finito di missili intercettori. Lanciare un intercettore costa centinaia di migliaia di dollari. Davanti a un attacco a saturazione – cioè il lancio simultaneo di decine o centinaia di missili – i sistemi israeliani sono costretti a fare delle scelte: proteggere con priorità gli obiettivi critici, lasciando che altri vettori meno pericolosi vadano a segno in aree secondarie o disabitate.

3. Rotazione dei lanciatori e logoramento operativo
I sistemi di lancio come quelli di Iron Dome vengono spostati e ruotati con regolarità per evitare l’esaurimento, la vulnerabilità a colpi mirati e la saturazione in un unico settore. Questo significa che in certi momenti, certe zone potrebbero non essere pienamente coperte – per scelta, non per errore.

4. Il fattore tempo e sorpresa
Molti missili iraniani sono a medio-lungo raggio e partono da grandi distanze, ma altri possono essere lanciati da proxy più vicini (come Hezbollah). La varietà delle minacce, unita alla possibilità di attacchi simultanei da nord, est e sud, rende impossibile una copertura totale e istantanea.

5. La difesa multilivello funziona, ma ha limiti
Israele ha costruito una difesa stratificata (Iron Dome per razzi a corto raggio, David’s Sling per missili a medio raggio, Arrow per minacce balistiche). Tuttavia, ogni sistema ha un angolo ottimale di ingaggio, e l’attacco simultaneo da più direzioni può ridurre l’efficacia complessiva.

In sintesi: non è un fallimento. È esattamente come funziona la guerra moderna. L’efficacia di un sistema di difesa non si misura con lo zero assoluto di missili entrati, ma con il rapporto tra danni subiti e quelli evitati. E, finora, i numeri dimostrano che la rete israeliana, pur sotto pressione, sta reggendo.


Nucleare e Guerra Irregolare: escalation reale nel conflitto tra Israele e Iran

di Andrea Molle dagli Stati Uniti

Il conflitto tra Israele e Iran non è più una guerra per procura né un confronto limitato al dominio cibernetico o all’azione clandestina. A partire dal 13 giugno 2025, il Medio Oriente ha assistito a uno degli scontri più gravi della sua storia recente: oltre 400 missili balistici e più di 1.000 droni sono stati lanciati dall’Iran e dai suoi alleati diretti contro infrastrutture civili e militari israeliane in risposta all’attacco avviato da Gerusalemme contro le infrastrutture militari del paese. Tra gli obiettivi colpiti dagli iraniani figurano l’ospedale Soroka di Beersheba, le centrali elettriche nel Negev e strutture aeroportuali in Galilea. Le Forze di Difesa Israeliane hanno risposto con un’offensiva aerea senza precedenti, colpendo più di 100 obiettivi militari in Iran, inclusi i siti nucleari di Natanz, Fordow e Arak, basi dell’IRGC e impianti energetici strategici. L’intervento americano ha complicato ulteriormente questa equazione.

Questa nuova fase del conflitto, ormai esplicitamente cinetica, ha dissolto la distinzione tra guerra convenzionale e guerra irregolare. La presenza di proxy come Hezbollah, Houthi e milizie sciite in Iraq e Siria resta cruciale, ma si affianca ora a un coinvolgimento diretto e dichiarato tra Stati, con Israele e Iran che si colpiscono reciprocamente sui rispettivi territori nazionali. La guerra ibrida si è trasformata in guerra ad alta intensità, pur conservando al suo interno gli elementi irregolari che l’Iran ha saputo integrare sistematicamente nella propria dottrina militare.

In questo contesto, il tema del nucleare iraniano assume una valenza operativa immediata. Le ispezioni recenti dell’AIEA confermano che Teheran possiede circa 9 tonnellate di uranio arricchito, con materiale al 60% e oltre, sufficiente – secondo le stime – per produrre fino a nove testate. Il “breakout time”, ovvero il tempo necessario a produrre un ordigno pronto all’uso, è ormai ridotto sebbene gli esperti siano divisi su quanto in realtà questo si traduca realmente in un arco di pochi mesi o addirittura settimane come sostenuto da Gerusalemme. Parallelamente, l’Iran ha ridotto la cooperazione con l’Agenzia, ostacolando l’accesso degli ispettori a Fordow e ad altri siti chiave.

La possibilità che Teheran ricorra a un impiego diretto dell’arma atomica in ambito convenzionale resta remota, per via del principio di sopravvivenza strategica che guida anche i regimi più ostili. Tuttavia, la minaccia dell’uso nucleare si inserisce perfettamente in una logica di guerra irregolare. L’atomica, anche solo nella sua forma latente, diventa uno strumento politico: uno scudo strategico che consente all’Iran di intensificare le attività dei suoi proxy regionali, dissuadendo Israele e gli Stati Uniti dal  continuare a colpirli direttamente per timore di un’escalation atomica.

Questo scenario, già ipotizzato in ambito dottrinale come “deterrenza inversa”, ha oggi riscontri concreti. Israele è costretto a operare sotto la minaccia esplicita che un attacco troppo profondo al cuore del sistema iraniano possa causare una reazione nucleare, o accelerare un passaggio da deterrenza a compellence. A sua volta, Teheran usa la propria ambiguità nucleare per garantire libertà d’azione ai suoi attori non statali, alimentando un’instabilità sistemica.

Un secondo rischio, meno discusso ma altrettanto realistico, riguarda la possibilità che l’Iran trasferisca materiali radiologici a gruppi alleati per costruire ordigni impropri, le cosiddette “bombe sporche”. L’uso simbolico e psicologico di un’arma del genere, anche in assenza di un impatto distruttivo su larga scala, provocherebbe una paralisi politico-sociale e una crisi diplomatica globale, alterando radicalmente l’equilibrio strategico in Medio Oriente e nel Mediterraneo.

Infine, va considerata l’ipotesi estrema: l’adozione, da parte dell’Iran, di una strategia di “ultima spiaggia” nel caso in cui il regime percepisse una minaccia esistenziale. In tale scenario, la leadership potrebbe minacciare o impiegare un ordigno a basso rendimento in un’area simbolica (come lo Stretto di Hormuz) per costringere le controparti a un cessate il fuoco immediato o addirittura in un territorio terzo di un paese beligerante come gli Stati Uniti. Un’escalation del genere, benché non inevitabile, è compatibile con la logica di “escalate to de-escalate” già teorizzata da altre potenze nucleari come la Russia.

Israele continua a rispondere attraverso una dottrina di deterrenza attiva, basata sulla capacità di colpire preventivamente le infrastrutture critiche e i centri di comando iraniani. Le forze aeree israeliane, il Mossad e le unità cyber collaborano in operazioni integrate che mirano a ritardare, sabotare o neutralizzare la capacità iraniana di costruire e impiegare un’arma nucleare. Gli ultimi conflitti, da Gaza al Libano, hanno ampiamente dimostrato che Israele è disposto a superare i limiti di una guerra di contenimento, adottando una postura offensiva multilivello.

Per l’Italia e i Paesi europei, questa evoluzione impone una rivalutazione delle priorità strategiche nella regione. Il conflitto non è più limitato a uno scontro per l’egemonia locale: coinvolge direttamente le rotte commerciali, le linee di approvvigionamento energetico, le missioni navali internazionali, le relazioni con le monarchie del Golfo e la tenuta dell’intero sistema euro-mediterraneo di sicurezza. Un Iran nuclearizzato, pienamente inserito in una strategia di guerra ibrida, rappresenta oggi una minaccia transnazionale e multi-dominio, ma un conflitto ad alta intensità o un repentino, quanto caotico, cambio di regime a Teheran comportano rischi.

Rispetto all’evoluzione della dottrina della guerra irregolare, l’integrazione del nucleare non è più una deviazione teorica ma un processo in atto, osservabile nelle dinamiche attuali del conflitto. Se fino a pochi mesi fa si trattava di un’ipotesi strategica, oggi è un dato operativo da cui dipendono le scelte tattiche di Israele, degli Stati Uniti e, indirettamente, anche dell’Europa. La bomba non è (ancora) esplosa, ma già pesa come una leva politica e psicologica, mutando la natura stessa della guerra. Il caso iraniano, sotto questo profilo, rappresenta il primo vero banco di prova di una nuova realtà del conflitto ibrido globale in un’epoca che ormai è sempre più chiaramente svincolata dal diritto internazionale.

Copertina: foto di Pavellllllll da Pixabay


Guerra Iran/Israele, Claudio Bertolotti ne parla a Ticinonews sera

Edizione del 16 giugno 2025 condotta da Sacha Dalcol


L’arsenale militare iraniano: potenza apparente, limiti strutturali, minaccia asimmetrica

di Claudio Bertolotti, dall’intervista a Lorenzo Santucci, per Huffington Post Italia.

Il commento di C. Bertolotti per START InSight e Huffington Post.

Nonostante una narrazione che tende a enfatizzarne la forza, l’arsenale militare iraniano è segnato da forti limiti strutturali, in particolare nel dominio della guerra convenzionale. Il comparto aeronautico, ad esempio, si basa ancora in gran parte su tecnologie risalenti agli anni ’70, risalenti al periodo pre-rivoluzionario e acquisite durante il regno dello Scià. Ne fanno parte aerei da combattimento come gli F-4 Phantom, gli F-5 e alcuni F-14 Tomcat, mantenuti operativi con difficoltà grazie a reverse engineering, cannibalizzazione di pezzi di ricambio e una rete industriale interna che ha cercato di supplire alla mancanza di accesso ai mercati globali per via dell’embargo.

La potenza missilistica: la vera carta strategica

Il vero elemento di deterrenza e di proiezione di forza per Teheran risiede nella componente missilistica. Secondo stime attendibili, l’Iran dispone di oltre 3.000 missili balistici, il che ne fa una delle più imponenti potenze missilistiche del Medio Oriente. Questi vettori includono una gamma diversificata di missili a corto e medio raggio (come i Fateh-110, Zolfaghar, Shahab-3 e Sejjil), capaci di colpire bersagli a distanze comprese tra i 300 e i 2.000 km.

Dal punto di vista tecnico, questi missili sono spesso alimentati nella fase iniziale tramite razzi a propellente solido o liquido, ma non sono dotati di sistemi di guida o propulsione terminale, il che significa che, una volta raggiunto l’apogeo della traiettoria, ricadono “a caduta libera” sull’obiettivo. Questa caratteristica riduce la precisione rispetto ai più sofisticati sistemi occidentali o russi, ma resta comunque efficace se usata su obiettivi di area o in una logica di saturazione.

Tecnologia obsoleta, ma strategia moderna

A dispetto dell’obsolescenza tecnologica in molte componenti convenzionali (carri armati, aerei, difesa antiaerea), l’Iran ha saputo adattarsi a una logica di guerra asimmetrica e ibrida. Il know-how sviluppato sul terreno (soprattutto in Siria, Iraq, Libano e Yemen) e il ricorso a proxy armati ben addestrati e forniti, ha trasformato il potenziale militare iraniano in una minaccia diluita, flessibile e difficilmente neutralizzabile con la sola superiorità aerea.

In particolare, i programmi missilistici sono accompagnati dallo sviluppo di droni d’attacco e di sorveglianza (come i Mohajer e i Shahed), utilizzati sia direttamente sia forniti a forze alleate (Hezbollah, Hamas, milizie sciite irachene, Houthi). Questi strumenti hanno dimostrato una crescente efficacia, sia in termini tattici che simbolici.

Conclusione: una minaccia non convenzionale

L’Iran non può competere direttamente con le potenze regionali o globali sul piano convenzionale, ma ha saputo sviluppare un arsenale che, sebbene basato in larga parte su tecnologia obsoleta, rappresenta una minaccia significativa in chiave asimmetrica e strategica. I suoi missili balistici, in particolare, costituiscono un elemento chiave nella dottrina della deterrenza offensiva, in grado di colpire obiettivi critici in tutta la regione. La crescente interconnessione tra capacità missilistiche, droni e rete di proxy regionali moltiplica il potenziale distruttivo dell’Iran, compensando in parte le lacune della sua forza convenzionale.


Attacco (preventivo) all’Iran: il commento di C. Bertolotti a SKY TG24.

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervento di C. Bertolotti a SKY TG 24 (puntata del 14 giugno 2025)

Il commento di C. Bertolotti e B. Valensise.

Il contesto strategico: tra minaccia esistenziale e deterrenza nucleare

Il quadro delle tensioni tra Iran e Israele è definito, da anni, da un equilibrio instabile in cui la minaccia percepita e quella effettiva si sovrappongono. Il primo elemento essenziale riguarda la strategia iraniana: Teheran ha come obiettivo dichiarato la distruzione dello Stato di Israele. Per perseguirlo, ha costruito nel tempo un doppio pilastro offensivo. Da un lato, il potenziamento di un arsenale missilistico che mira alla saturazione delle difese israeliane, e che — secondo diverse fonti — potrebbe in prospettiva integrare anche capacità nucleari. Dall’altro lato, l’Iran ha consolidato una rete regionale di alleati e milizie, il cosiddetto “Asse della Resistenza”, che include attori come Hezbollah in Libano, Hamas e la Jihad Islamica Palestinese a Gaza, oltre ai proxy operativi in Siria, Iraq e Yemen. Questo dispositivo consente a Teheran di minacciare Israele da più direzioni in modo simultaneo, accrescendo il rischio strategico percepito da Gerusalemme.

Israele e la dottrina dell’attacco preventivo

Di fronte a questa minaccia multiforme e crescente, Israele si muove secondo una dottrina strategica che interpreta la propria sopravvivenza come una condizione esistenziale da tutelare con ogni mezzo disponibile. Ne deriva un principio operativo chiaro: la difesa preventiva, o “preemptive strike”. Israele ritiene infatti di non potersi permettere un conflitto totale innescato da un attacco combinato dell’asse sciita guidato da Teheran. In tale ottica, l’azione militare israeliana non è solo una reazione, ma un gesto strategicamente anticipatorio, finalizzato a neutralizzare — o almeno degradare — le capacità offensive del nemico prima che queste siano effettivamente impiegate.

Il ruolo degli Stati Uniti e la pressione regionale sull’Iran

Il terzo elemento che struttura questo equilibrio è rappresentato dalla posizione americana. Gli Stati Uniti sostengono in modo pressoché incondizionato Israele, ritenendolo non solo un alleato storico, ma anche uno strumento per contenere l’influenza regionale dell’Iran. Washington, inoltre, mira a rafforzare il blocco sunnita, in particolare l’Arabia Saudita, come contrappeso strategico all’espansionismo iraniano. Questo approccio ha avuto ripercussioni anche sul dossier nucleare, in particolare sul futuro del JCPOA, il patto di non proliferazione con l’Iran. Se fino a pochi giorni prima degli eventi del 13–14 giugno i negoziati erano tecnicamente ancora aperti, dopo l’attacco israeliano e la reazione iraniana, la situazione è precipitata, con la sospensione ufficiale dei colloqui da parte di Teheran.

In tale contesto, hanno assunto particolare rilevanza gli allarmi lanciati dal Direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Rafael Grossi. Grossi ha infatti denunciato il continuo arricchimento dell’uranio da parte iraniana a livelli del tutto incompatibili con un uso civile dell’energia nucleare. L’arricchimento a concentrazioni elevate di U-235 — più complesse da ottenere e più onerose in termini tecnici e logistici — non trova giustificazione nel contesto energetico dichiarato da Teheran, rafforzando i sospetti sulla volontà di sviluppare una capacità nucleare a fini militari.

Non si tratterebbe, dunque, di una mera strategia di deterrenza, ma piuttosto di uno strumento di minaccia diretta, coerente con la retorica iraniana di distruzione di Israele. In questo scenario, il ruolo degli alleati di prossimità dell’Iran — da Hezbollah a Hamas, fino ai ribelli Houthi in Yemen — si configura come parte integrante di una strategia offensiva regionale multilivello. È proprio per questo che Israele ha colpito duramente non solo le infrastrutture iraniane, ma anche i terminali operativi di questa rete di proxy armati, interpretandoli come appendici militari funzionali alla strategia nucleare e missilistica di Teheran.

Dall’attacco del 13 giugno alla nuova normalità della guerra sotto soglia

L’operazione israeliana del 13 giugno 2025, denominata “Rising Lion”, ha segnato un salto di qualità nella dottrina dell’attacco preventivo. Circa 200 velivoli, tra caccia e droni, hanno colpito più di cento obiettivi in Iran, tra cui impianti nucleari (Natanz, Fordow, Arak), centri di comando dei Pasdaran e residenze di scienziati legati al programma atomico. Il bilancio è stato pesante: decine di vittime civili e la morte di figure chiave come il comandante della Guardia Rivoluzionaria Hossein Salami. In risposta, Teheran ha lanciato l’operazione “True Promise III”, con oltre 150 missili e un centinaio di droni diretti verso Israele. Le difese israeliane e americane (Iron Dome e THAAD) sono riuscite a intercettare la maggior parte delle minacce, ma alcuni ordigni hanno colpito Tel Aviv e Gerusalemme, causando danni e vittime.

La dinamica che si è delineata rappresenta una tipica forma di “competizione strategica” nella regione, le cui prospettive guardano a una sostanziale ridefinizione degli equilibri di potere.


Le rivolte a Los Angeles e il nuovo fronte della guerra irregolare

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti

La guerra irregolare (Irregular Warfare, IW) è comunemente intesa come un conflitto in cui la posta in gioco non è necessariamente il controllo del territorio o la superiorità militare convenzionale, bensì la legittimità, l’influenza e il controllo delle popolazioni. Tradizionalmente associata a insurrezioni, tattiche di guerriglia e attori non statali, la guerra irregolare si è evoluta in forme sempre più complesse e ibride, specialmente all’interno delle società democratiche. Se osservata attraverso questa lente contemporanea, le tensioni che si stanno sviluppando a Los Angeles tra gli “Angelinos”, le autorità locali e il governo federale possono essere interpretate come una forma domestica di guerra irregolare.

Al centro del conflitto vi è una lotta fondamentale per la legittimità e la sovranità. Los Angeles, come altre “giurisdizioni santuario”, ha attivamente sfidato l’applicazione delle leggi federali sull’immigrazione, ha rifiutato di cooperare con alcune direttive del Dipartimento per la Sicurezza Interna (DHS) e si è opposta a iniziative di controllo del crimine percepite come ingiuste o discriminatorie. Queste azioni non riflettono semplicemente divergenze politiche, ma una lotta ideologica più profonda su chi ha il diritto di governare e in che modo. Affermando norme di governance locali in contrasto con i mandati federali, Los Angeles mette in discussione la supremazia del governo federale sul proprio territorio—un comportamento strategico che richiama quello degli attori irregolari intenzionati a delegittimare l’autorità centrale.

Fondamentale è l’impiego di metodi asimmetrici. Invece di una resistenza armata, le autorità di Los Angeles utilizzano strumenti di guerra legale (“lawfare”), resistenza burocratica e comunicazione pubblica. Causa strategiche, inadempienze municipali, discrezionalità nell’azione penale e ordinanze a protezione dei residenti “undocumented” rappresentano strumenti di resistenza analoghi a quelli con cui le forze irregolari utilizzano il terreno, il tempo e modalità non convenzionali per eludere forze superiori. Questa insorgenza burocratica non mira a rovesciare lo Stato, ma a ridefinire i confini dell’autorità federale dall’interno.

Tuttavia, il conflitto non è rimasto confinato al piano legale o retorico. Negli ultimi giorni ha assunto una dimensione cinetica, con scontri fisici tra agenti federali, manifestanti, organizzazioni comunitarie e persino le forze dell’ordine municipali durante retate e operazioni di polizia. Questi confronti—che talvolta degenerano in rivolte, arresti di massa o dispersioni violente—richiamano le realtà tattiche della guerra irregolare, in cui il controllo dello spazio urbano diventa un indicatore di legittimità. Il dispiegamento di unità federali militarizzate nei quartieri cittadini, spesso senza il consenso o la collaborazione delle autorità locali, intensifica la percezione di “occupazione”, provocando resistenza spontanea o organizzata da parte dei civili. Questa escalation nel confronto fisico offusca il confine tra applicazione della legge e coercizione politica—una dinamica tipica dei conflitti ibridi in cui lo Stato stesso appare frammentato e contestato.

Ugualmente centrale è la guerra narrativa. Le autorità federali dipingono Los Angeles come una città “senza legge”, ostaggio del crimine e del disordine, mentre le autorità locali si presentano come difensori della dignità umana, dei diritti civili e della giustizia morale. Queste narrazioni opposte non sono un elemento accessorio, ma rappresentano il cuore del conflitto, poiché entrambe le parti cercano di conquistare il sostegno dell’opinione pubblica. Nella guerra irregolare, la vittoria si misura spesso non sul campo di battaglia, ma nella capacità di conquistare le menti e i cuori della popolazione. Sotto questo profilo, il caso di Los Angeles rientra pienamente nelle dimensioni psicologiche e informative della guerra irregolare.

Inoltre, questo confronto coinvolge una rete complessa di attori non tradizionali. Organizzazioni della società civile, reti di attivisti, gruppi di assistenza legale e persino comunità religiose hanno assunto funzioni quasi politiche e protettive, occupando ruoli normalmente riservati alle istituzioni statali. I loro sforzi coordinati per ostacolare l’applicazione delle norme federali e offrire forme alternative di governance e giustizia sono tratti distintivi del conflitto irregolare, dove la legittimità è contesa non solo con la forza, ma anche attraverso istituzioni concorrenti.

In conclusione, pur in assenza di eserciti convenzionali o milizie, Los Angeles rappresenta un campo di battaglia contemporaneo della guerra irregolare—uno in cui la legge, l’identità, la narrativa e, in certi casi, la forza fisica, sono le armi principali. Con l’evolversi della natura del conflitto nelle democrazie liberali, diventa sempre più evidente che la guerra irregolare non è più confinata a insurrezioni lontane o Stati falliti. Essa si sta svolgendo nei paesaggi politici contesi di città come Los Angeles, dove la posta in gioco non è solo una politica pubblica, ma la definizione stessa di sovranità, legittimità e giustizia nel XXI secolo.


TRUMP, MUSK E LA FINANZIARIA “MAGRA-MAGRA”.

di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).

Se il mondo è un palcoscenico, allora siamo tutti in platea ad assistere a una tragedia che nemmeno Shakespeare avrebbe potuto scrivere.

Mentre la Camera dei deputati approva la legge finanziaria redatta dalla Casa Bianca, battezzata con enfasi trumpiana One Big Beautiful Bill Act – OBBBA – Trump e Musk hanno scelto di lavare i panni sporchi in pubblico, sfruttando le proprie piattaforme personali: Truth e X.

La scorsa settimana, come abbiamo già riportato, Musk ha lasciato il suo incarico di consulente federale dopo aver raggiunto il limite di tempo previsto dalle normative. Per prolungarne la collaborazione sarebbe servita l’approvazione del Congresso – un passo che Trump ha preferito non compiere, segnando così il primo segnale di rottura tra i due.

Secondo gran parte della stampa e degli analisti, all’origine della faida ci sarebbe proprio la legge finanziaria, come ha lasciato intendere lo stesso Musk.
 Tra i punti più controversi, i tagli alle sovvenzioni che avrebbero potuto favorire le industrie guidate dall’imprenditore: da Tesla a SpaceX, fino ai progetti legati all’intelligenza artificiale. Ma vediamo la finanziaria proposta da Trump e già firmata per una manciata di voti dalla Camera dei deputati.

🔻 Principali Tagli alla Spesa

1. Medicaid

Riduzione della copertura: Secondo il Congressional Budget Office (CBO), circa 10,9 milioni di persone perderanno l’assicurazione sanitaria entro il 2034, principalmente a causa di nuovi requisiti di lavoro e verifiche più rigorose dell’idoneità.  L’unico ad alzare la voce contro questa manovra, un esponente repubblicano di spicco, il senatore Josh Hawley del Missouri, che ha implorato il suo partito di non danneggiare il programma Medicaid, sostenendo che tagliare l’assistenza sanitaria per finanziare sgravi fiscali sia “moralmente sbagliato e politicamente suicida.”“Se i repubblicani vogliono essere un partito della classe lavoratrice — se vogliamo essere un partito di maggioranza — dobbiamo ignorare gli appelli a tagliare Medicaid e iniziare a mantenere la promessa dell’America alla sua gente che lavora,” ha scritto Hawley sul New York Times.

Restrizioni aggiuntive: Zero fondi per chi volesse cambiare sesso e per organizzazioni che somministrano servizi per l’interruzione di gravidanze, eccetto in casi di stupro, incesto o pericolo di vita della madre.

2. Istruzione

Prestiti agli studenti: I prestiti federali agevolati e diretti (Direct Subsidized Loans) sono un  aiuto finanziario offerto a studenti con difficoltà finanziarie. Il governo federale copre gli interessi maturati mentre lo studente è iscritto all’università. La proposta di Trump è di eliminare questi prestiti, obbligando chi non si può permettere gli studi universitari a ricorrere a prestiti privati per finanziarsi l’istruzione. Purtroppo i prestiti privati, spesso non offrono le stesse protezioni e opzioni di rimborso dei prestiti federali. Secondo l’Associazione Nazionale per l’Accesso al College e il Successo (NCAN), l’eliminazione dei prestiti sovvenzionati potrebbe aumentare il debito medio degli studenti universitari di circa 6.000 dollari, rendendo l’istruzione superiore meno accessibile per molti.  La proposta fa parte di un più ampio tentativo di ridurre la spesa federale, ma secondo gli esperti si teme che questi tagli aumentino le disuguaglianze nell’accesso all’istruzione superiore.  

4. Energia e Ambiente

Incentivi per l’energia pulita: Eliminazione di diversi crediti d’imposta introdotti dall’Inflation Reduction Act, inclusi quelli per veicoli elettrici e progetti di energia rinnovabile.

🔻 Tagli agli Incentivi per i Veicoli Elettrici

Il One Big Beautiful Bill Act prevede l’eliminazione di numerosi crediti d’imposta per veicoli elettrici, tra cui: Il credito d’imposta federale di $7.500 per l’acquisto di veicoli elettrici. Crediti per veicoli commerciali puliti e per stazioni di ricarica. La possibilità di trasferire i crediti di produzione di carburanti puliti. Secondo il Congressional Budget Office, la rimozione di questi incentivi genererebbe circa $191,7 miliardi di entrate tra il 2025 e il 2034.

💰 Principali Investimenti e Riforme Fiscali

1. Riforme Fiscali

Estensione dei tagli fiscali del 2017: Rendere permanenti i tagli fiscali individuali e aziendali introdotti nel 2017.

Nuove esenzioni:

  • Esenzione fiscale su mance e straordinari fino al 2028.
    • Aumento della deduzione standard a $32.000 per coppie sposate.
    • Aumento del credito d’imposta per figli a $2.500.
    • Aumento del limite di deduzione per le tasse statali e locali (SALT) da $10.000 a $40.000 per individui con reddito inferiore a $500.000.

2. Difesa e Sicurezza Nazionale

Spesa per la difesa: Allocazione di $150 miliardi aggiuntivi, inclusi $25 miliardi per il sistema di difesa missilistica “Golden Dome”.

Sicurezza delle frontiere: $70 miliardi destinati a infrastrutture di confine, sorveglianza e personale, con l’obiettivo di aumentare la capacità di deportazione fino a 1 milione di persone all’anno.

3. Infrastrutture ed Energia

📊 Incentivi per le imprese: Ripristino della piena ammortizzazione (full expensing) per investimenti in capitale dal 2025 al 2029

Ma cosa significa esattamente?

Tra le misure pro‑crescita del “One, Big, Beautiful Bill”, ci sono varie estensioni e ripristini temporanei dei benefici fiscali derivanti dalla Tax Cuts and Jobs Act (TCJA) del 2017:

  • Bonus depreciation – 100% oneri immediati –Invece del progressivo calo previsto, dal 2025 al 2029 le imprese potranno dedurre subito l’intero costo di macchinari, attrezzature e altri beni ammortizzabili
    • Expensing per fabbricati produttivi  – Per strutture non residenziali legate a produzione, manifattura, raffinazione e agricoltura: piena deduzione se l’investimento è iniziato tra il 19 gennaio 2025 e il 2028, completato entro il 2032.
    • Maggior deducibilità degli interessiRitorna una regola più favorevole che calcola i limiti sulla deduzione degli interessi basandosi su EBITDA piuttosto che su EBIT, valida anch’essa solo fino al 2029.

Benefici attesi

  • Miglioramento del cash flow aziendale: le imprese “capital-intensive” (manifattura, edifici, tech) guadagnano subito deduzioni intere, non rateizzate.
  • Riduzione del costo del capitale: secondo stime, ciò può tagliare il “user cost of capital” fino al 20 %, stimolando investimenti anche del +14 %.
  • Maggiore competitività internazionale: vantaggi fiscali su strutture e R&S in USA, adatti al rilancio della produzione interna.

⚠️ Prospettiva fiscale e limiti

  1. Tempistiche: tutte queste misure scadranno tra il 2029 e il 2030, creando un “fiscal cliff” se non verranno rinnovate.
  2. Costo per il bilancio: le estensioni costeranno tra i 30 e i 174 mld $ in dieci anni, contribuendo a un aumento del debito stimato tra 2,4 e 3,8 trilioni di dollari .

🧭 In sintesi

Fino al 31 dicembre 2029, le imprese possono dedurre subito:

100 % dei costi per beni ammortizzabili tradizionali.

100 % per investimenti in fabbricati produttivi (manifattura, R&S, agricoltura ecc.).

100 % per spese di ricerca e sviluppo nazionali.

Maggiori deduzioni per interessi passivi grazie al limite basato su EBITDA.

✦ È un incentivo fiscale stimolante, ma destinato a durare solo pochi anni, con scadenza tra il 2029 e il 2030.

🚀 Norme Importanti e Uniche – Notable and Unique Provisions

Regolamentazione dell’Intelligenza Artificiale: Moratoria di 10 anni sulla regolamentazione statale dell’IA, centralizzando la supervisione a livello federale.

La moratoria di 10 anni sulla regolamentazione statale dell’intelligenza artificiale (IA), prevista dalla One Big Beautiful Bill Act, ha lo scopo di centralizzare la supervisione dell’IA a livello federale e bloccare iniziative legislative autonome da parte dei singoli Stati.

Il perché di questa scelta:

🏛️ 1. Evitare un mosaico normativo

Senza una moratoria, ogni Stato potrebbe introdurre regolamenti differenti, creando un sistema frammentato e difficile da gestire per le aziende tecnologiche che operano su scala nazionale.  La centralizzazione garantisce uniformità delle regole e riduce i costi di conformità.

📈 2. Proteggere l’innovazione e gli investimenti

La legge riflette l’idea che un ambiente normativo stabile e prevedibile favorisca la ricerca e lo sviluppo, in particolare per aziende come OpenAI, Google, Meta, e Tesla. Si vuole evitare che regolamentazioni precoci rallentino o scoraggino innovazione tecnologica negli Stati con orientamenti più restrittivi.

🧱 3. Controllo politico e strategico

Il governo federale (in particolare l’amministrazione Trump) intende mantenere il controllo sulla definizione delle norme etiche e operative per l’IA, evitando pressioni locali o progressiste.

È una mossa per impedire che Stati come la California o New York impongano limiti severi che potrebbero poi diventare de facto standard nazionali.

⚠️ Critiche

Alcuni esperti e legislatori sostengono che la moratoria rallenta la protezione dei cittadini, ad esempio in merito a bias algoritmici, uso nei sistemi giudiziari, sorveglianza e privacy. C’è il timore che l’assenza di controlli locali favorisca un uso improprio dell’IA da parte di aziende private o dello Stato stesso. Oltre 260 legislatori statali provenienti da tutti i 50 Stati hanno firmato una lettera bipartisan indirizzata al Congresso, opponendosi alla moratoria. Essi sostengono che tale misura comprometterebbe la capacità degli Stati di proteggere i cittadini da rischi legati all’IA, come deepfake, discriminazioni algoritmiche e perdita di posti di lavoro.

  • Misure fiscali aggiuntive:
    • Imposizione di una tassa del 5% sulle rimesse inviate all’estero.
    • Aumento delle tasse su donazioni consistenti alle università.
    • Autorizzazione al Dipartimento del Tesoro di revocare lo status di esenzione fiscale alle organizzazioni non profit che sostengono il terrorismo.

Quindi all’interno della legge troviamo il secondo sgambetto di Trump a Musk con il taglio agli incentivi EV (Electrical Vehicles $7.500 per macchina) che ha accusato Trump di favorire i combustibili fossili mantenendo i sussidi per il petrolio e il gas, mentre elimina gli incentivi per l’energia pulita. Le ripercussioni sono state significative: le azioni di Tesla hanno subito un calo del 14% in un solo giorno, e Musk ha minacciato di interrompere il programma di veicoli spaziali Dragon di SpaceX, salvo poi ritrattare.

Terzo ed ultimo sgambetto:

❌ Nomina ritirata: Jared Isaacman – Miliardario e astronauta privato, noto per le missioni con SpaceX (Inspiration4, Polaris Dawn), e grande amico e alleato di Elon Musk, Isaacman ha espresso la convinzione che la sua associazione con Musk abbia giocato un ruolo significativo nel ritiro della sua nomina, affermando che “c’erano alcune persone con conti in sospeso, e io ero un bersaglio visibile”.
 E mentre i repubblicani osservano con crescente imbarazzo lo scontro tra i due colossi, tutti i media si dividono in due interpretazioni principali: era destino, oppure passerà.

Fra gli opinionisti indipendenti c’è la famosa Megan Kelly, che ha definito lo scontro tra Trump ed Elon Musk come una battaglia tra “Godzilla e King Kong”, sottolineando l’alto valore di intrattenimento ma minimizzandone l’impatto politico. Riguardo all’accusa di Musk sulle frequentazioni di Epstain dice: “Sappiamo già che Trump ed Epstein si conoscevano — non è una novità. Quindi se Elon insinua che Trump è “nei file”, cosa sta dicendo? Che è un pedofilo? Un pervertito? E…. l’amministrazione Biden avrebbe tenuto nascosta una cosa del genere. Stava correndo contro Trump!” –  Kelly conclude che nessuno ne esce davvero danneggiato: i repubblicani restano con Trump, i democratici non simpatizzano per nessuno dei due, e il disegno di legge andrà avanti.

Patrick Bet-David (PBD)

Più complessa l’analisi di Patrick Bet-David ed il suo team, che ha analizzato la frattura tra Trump ed Elon Musk in modo originale. Innanzi tutto, ha difeso la finanziaria che secondo lui è stata redatta da un uomo che da costruttore e non politico vede gli investimenti in modo diverso da altri. L’attacco di Elon Musk che insinua che Trump sia coinvolto nel caso Epstein. Secondo loro, non è credibile: se ci fosse stata anche solo una minima prova, i Democratici l’avrebbero usata durante la campagna elettorale. La conclusione condivisa è che Musk abbia usato l’accusa per “provocare” Trump, scegliendo una delle insinuazioni più esplosive possibili.

Un membro del panel ha suggerito che Musk non agisce solo per vendetta personale, ma che il tutto potrebbe far parte di una strategia politica orchestrata insieme a figure come Peter Thiel, per destabilizzare Trump perché non soddisfa le sue aspettative da “tecnocrate”. Infine, Patrick Bet-David ha ipotizzato che ci sia persino una piccola possibilità che tutto ciò sia una messinscena – un “operazione psicologica” – orchestrata per motivi ancora non chiari.

Musk, nel frattempo, ha lanciato un sondaggio online con oltre 2 milioni di partecipanti, chiedendo se sia il momento di creare un nuovo partito politico: oltre l’80% degli utenti ha risposto di sì, mostrando un forte interesse per una forza alternativa al sistema bipartisan. E questa è la vera notizia.

Fine Atto III, Scena I.  Il sipario cala… per ora.  Restiamo in attesa del prossimo colpo di scena.


TRUMP E IL DISCORSO DI WESTPOINT: lo scudo stellare, il delatore dell’FBI e le accuse a Biden

di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).

Il 24 maggio 2025, durante il discorso di laurea all’Accademia Militare di West Point, Donald Trump ha suscitato polemiche politicizzando l’evento, un momento tradizionalmente dedicato a celebrare i cadetti e il loro impegno nel voler servire il loto paese. Il presidente non si è fatto sfuggire questa occasione per sottolineare le politiche sia interne che estere della sua amministrazione, criticando dalle politiche progressiste e, in particolare, i programmi di diversità, equità e inclusione (DEI), e riguardo a quelle estere non si è sottratto dal criticare la Nato e le guerre ancora in atto.

Interessante invece è stata la sua chiara definizione del ruolo delle Forze Armate, dichiarando: “Il compito delle forze armate degli Stati Uniti non è quello di ospitare spettacoli di “drag”, di trasformare culture straniere o diffondere la democrazia per il mondo con la punta di una pistola. Il compito dell’esercito è dominare ogni nemico e annientare ogni minaccia per l’America — ovunque, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo.” Queste parole hanno ovviamente suscitato reazioni di ogni tipo, sulla “mission” e sul ruolo dell’esercito. Chi si è offeso per i riferimenti di politica nel quadro della cerimonia, ritenendo questa scelta di poco buon gusto essendo un evento dedicato ai cadetti; chi invece lo difende per aver dato all’esercito connotazioni eguali alle sue origini. Trump, tuttavia, ha ripetutamente enfatizzato che il compito primario delle forze armate è proteggere gli Stati Uniti da minacce globali, senza farsi coinvolgere o distrarre da questioni ideologiche.

I punti salienti del discorso di Trump:

Trump evita le promozioni per la diversità, l’inclusione e l’equità
Trump non ha risparmiato critiche giustificando la sua visione del “America First” in termini di come l’esercito degli Stati Uniti dovrebbe operare, sia a casa che all’estero. Ha anche parlato delle “politiche divisive e denigratorie” all’interno dell’accademia, causate dai programmi di diversità, equità e inclusione  (DEI – Diversity, Equality Inclusion) e ha ordinato l’abolizione di  questi corsi, perchè nocivi all’ambiente accademico. (Non ha fatto altro che reiterare quanto già ordinato a tutte le università).

Il “Golden Dome”: Difesa Missilistica Avanzata

Nel voler sottolineare l’importanza di proteggere gli Stati Uniti da minacce esterne, il presidente ha riproposto l’implementazione di un sistema di difesa missilistica avanzato chiamato “Golden Dome”.  Progetto ambizioso, ideato già ai tempi di Reagan, servirebbe per proteggere gli Stati Uniti da attacchi missilistici, inclusi missili balistici, ipersonici e droni. Ispirato al sistema israeliano Iron Dome, il “Golden Dome” prevede l’uso di una rete di satelliti e intercettori spaziali per rilevare e distruggere le minacce prima che raggiungano il suolo statunitense. Il costo stimato del progetto è di circa 175 miliardi di dollari, con l’obiettivo di completarlo entro la fine del mandato di Trump nel 2029.

“Difendiamo la democrazia”

Durante il suo discorso, Trump ha anche parlato del valore della democrazia, ma ha enfatizzato che gli Stati Uniti non dovrebbero più diffondere la democrazia a tutti i costi e che il compito delle forze armate è esclusivamente quello di difendere il paese da ogni minaccia.

Trump vuole una celebrazione della vittoria dell’America
 Il presidente ha lamentato il fatto che tutte le nazioni europee hanno inserito nei loro calendari un giorno dove si celebra la vittoria conseguita nella Seconda Guerra mondiale, mentre gli Stati Uniti dovrebbero celebrare adeguatamente tutti i loro successi e che vorrebbe istituire un USA V-Day.

Politiche di difesa e isolamento
Trump ha espresso un approccio sempre più isolazionista rispetto ai suoi predecessori, dicendo che le missioni militari degli Stati Uniti non dovrebbero riguardare la costruzione di nazioni in terre lontane che non ci vogliono. Ha fatto un appello per la pace e la partnership con altri paesi, ma ha affermato che l’America dovrebbe difendere i propri interessi prima di tutto.

Un accenno alla guerra Ucraina-Russia
La guerra tra Ucraina e Russia, è stata solo brevemente citata. Tasto dolente per Trump che da quando è entrato alla Casa Bianca ad oggi non ha ottenuto alcun risultato. D’altra parte si sà che in politica si promettere solo ciò per cui si è certi di ottenere altrimenti è come scavarsi la propria fossa. Trump ha parlato brevemente del suo recente colloquio con Vladimir Putin e ha detto che i colloqui di pace sarebbero iniziati immediatamente.

Immigrazione e sicurezza: il Caso di Boulder

Durante il suo discorso, Trump ha anche affrontato il tema dell’immigrazione, criticando le politiche migratorie dell’amministrazione precedente e non ha dovuto aspettare molto dal 24 maggio per rafforzare le sue posizioni visto l’attacco terroristico avvenuto a Boulder, Colorado, il 1° giugno, in cui Mohamed Sabry Soliman, un cittadino egiziano che con un visto di soggiorno B2 scaduto, ha lanciato delle bombe “molotov” auto-costruite e fatto uso di un lanciafiamme durante una tranquilla manifestazione pro-Israele, ferendo 12 persone, di cui una gravemente. Secondo l’FBI, Soliman aveva pianificato l’attacco da più di un anno e, ha dichiarato di voler “uccidere tutti gli ebrei”. Preso l’attentatore, anche tutta la sua famiglia è stata arrestata con l’intento di espellerla a breve.

Il delatore del FBI e il senatore Hawley

Mentre Trump ha i suoi problemi da risolvere, il senatore Josh Hawley ha recentemente fatto un’affermazione sensazionale, sostenendo che l’ex presidente Joe Biden, durante la sua presidenza, a volte “si perdeva nel suo stesso armadio” all’interno della Casa Bianca. Parlando con Fox News, il senatore ha affermato che il racconto proveniva da un agente dei servizi segreti non identificato, assegnato personalmente a Biden. “Mi ha detto che Biden, la mattina, si perdeva nel suo armadio. Voglio dire, il tipo non riusciva a uscire dal suo stesso armadio. Questa è una cosa scandalosa. Ci hanno mentito”. L’accusa di Hawley ha alimentato le indagini in corso al Congresso sulla capacità mentale di Biden e sull’estensione in cui egli esercitava personalmente il potere esecutivo durante il suo mandato. I più stretti collaboratori di Biden hanno respinto tali accuse, affermando che Biden era pienamente in grado di prendere decisioni importanti. Una delle indagini principali è guidata dal presidente del Comitato per la Supervisione della Camera, James Comer, che sta esaminando se lo staff dell’allora presidente degli Stati Uniti abbia utilizzato la macchina per apporre la firma del presidente meccanicamente, l’autopen, inclusi gli 8000 perdoni presidenziali, senza però il coinvolgimento diretto di Biden.

Comer ha sollevato anche dubbi sul ruolo del dottor Kevin O’Connor, il medico della Casa Bianca durante la presidenza di Biden. Ha messo in dubbio se i rapporti pubblici seguenti ai controlli di routine di Biden fossero stati completamente trasparenti o se fossero stati omessi dettagli cruciali sulla condizione dell’ex presidente. Il Dipartimento di Giustizia ha avviato un’indagine sulla correttezza nell’esecuzione dei perdoni presidenziali soprattutto quelli firmati negli ultimi giorni in carica. La notizia, riportata da Reuters, afferma che l’inchiesta esaminerà se Biden fosse competente o se altri stessero approfittando di lui tramite l’uso dell’autopen o altri mezzi, secondo una mail inviata dall’avvocato per i perdoni del Dipartimento di Giustizia, Ed Martin. Secondo la Costituzione degli Stati Uniti, il Presidente non ha l’autorità di annullare i perdoni del suo predecessore, in base al tipo di firma. Bernadette Meyler, professoressa di Diritto Costituzionale alla Stanford Law School afferma che:“La Costituzione non richiede nemmeno che il perdono sia scritto, quindi l’idea che la firma sia apposta tramite autopen anziché con una firma manoscritta non sembra rilevante per la costituzionalità, poiché l’Articolo II stabilisce semplicemente che il Presidente ha il potere di concedere il perdono,”

L’autopen è una firma elettronica che consente di firmare un documento senza essere fisicamente presenti. La firma replica quella manoscritta, ma viene eseguita da un computer. Secondo gli esperti, un numero considerevole di atti legislativi e altri documenti sono stati firmati tramite autopen. Ad esempio, l’ex Presidente Barack Obama firmò una misura di sicurezza nazionale tramite autopen mentre si trovava in Francia.

Ma Trump persiste e dice:”Penso che l’autopen diverrà uno degli scandali più noti di tutti i tempi”.

Biden, fino all’ultimo giorno come presidente, ha emesso numerosi perdoni, inclusi perdoni preventivi per membri della sua famiglia come il fratello James e il figlio Hunter, e che risalgono fino al 2014. Il Dipartimento di Giustizia si concentrerà su questi perdoni e sulla clemenza concessa ad alcuni detenuti nel braccio della morte.

“Gli americani hanno visto con i propri occhi un presidente mentalmente incompetente e vogliono delle risposte”, ha dichiarato la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ai giornalisti martedì, quando le è stato chiesto dell’indagine.


BYE BYE ELON.L’addio di Musk tra riforme e controversie

di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).

Da oggi Elon Musk torna in Texas per occuparsi finalmente a tempo pieno delle sue società. Le dimissioni da DOGE (Dipartimento per l’Efficienza Governativa) rispettando il limite legale di 130 giorni previsto per i “dipendenti governati speciali”. Il mandato, iniziato il 20 gennaio 2025, subito dopo l’insediamento dell’amministrazione Trump si è concluso ieri e da oggi Musk torna in Texas ad occuparsi delle sue società.

Persona controversa soprattutto per intrattenere una vita privata particolare, nonostante i suoi successi in ambito tecnologico, è ora al centro di numerose critiche che affondano soprattutto nei numeri. Infatti, inizialmente, Musk aveva promesso durante la campagna elettorale di essere in grado di diminuire i costi del governo federale statunitense di ben 3.000 miliardi di dollari, poi è sceso a 2 e infine oggi si chiude la sua esperienza con 170 mila miliardi, che qualunque sia il parere è certamente un traguardo. La delusione ovviamente c’è, viste le altisonanti promesse e l’assenza nel compimento di queste. Tuttavia, l’idea di alleggerire la burocrazia, di smascherare le frodi, e cancellare programmi assolutamente inutili è un argomento che qualsiasi cittadino nel mondo apprezza, visto che sono le nostre tasse a supportare queste spese.

In 130 giorni il comitato ha collaborato con diverse branche dell’esecutivo entrando come consulente con l’obbiettivo di eseguire quanto descritto. Alcuni ministeri come quello degli Affari Esteri, ha visto la cancellazione di programmi che sponsorizzavano frivolezze e ideologie in paesi all’estero assolutamente inutili. Per citarne alcuni:

  • $2 milioni per corsi di ceramica in Marocco.
  • $1 milione per sostenere i sindacati in Sudan.
  • $6 milioni per aumentare il turismo in Egitto.
  • $2,5 milioni per veicoli elettrici in Vietnam.
  • $15 milioni per preservativi distribuiti ai Talebani
  • $446,700 per promuovere l’ateismo in Nepal
  • $20 milioni per “Sesame Street” in Iraq.

Dopo USAID, Doge si è concentrato sul dipartimento della Social Security (la previdenza sociale) che ha generato proteste in tutto il paese tanto da causare un’ingiunzione da parte di un giudice federale che ha temporaneamente bloccato Doge dall’accesso ai sistemi della Social Security perché contenenti dati sensibili di milioni di americani, e definendo questo lavoro una “caccia alle streghe”. L’ordinanza di marzo scorso includeva la richiesta di cancellare qualsiasi dato identificabile dove, sempre secondo il giudice Ellen Hollander non c’erano prove sufficienti di frode o spreco. Seppure i casi effettivi di frode nel sistema pensionistico americano fossero significativamente inferiori rispetto a quanto inizialmente riportato, la meccanizzazione e il suo ammodernamento sono stati sicuramente benefici.

Quali frodi?

Frode telefoniche: DOGE sostiene che il 40% delle richieste telefoniche all’Amministrazione della Social Security (SSA) era fraudolento. Tuttavia, i dati interni della SSA hanno rivelato che meno dell’1% delle oltre 110.000 richieste telefoniche esaminate è stata contrassegnata come potenzialmente fraudolenta.

 Beneficiari deceduti: Elon Musk ha evidenziato la presenza di 20 milioni di persone decedute registrate come vive nel database della SSA. Sebbene il dato fosse corretto, inseguito è stato possibile verificare che tali registri non ricevevano benefici, e le anomalie erano causate da sistemi di codifica obsoleti, piuttosto che da frodi attive.

Beneficiari con età avanzata: DOGE ha anche trovato che erano registrati beneficiari con 150 anni o più d’età. Tuttavia, questa situazione è stata attribuita a un malinteso relativo al sistema COBOL della SSA, che, quando manca una data di nascita, imposta una data di riferimento predefinita, generando età improbabili.

Impatti delle azioni di DOGE

Nonostante l’obiettivo di ridurre frodi e inefficienze, le riforme promosse da DOGE hanno avuto conseguenze non previste:

Ritardi operativi: L’introduzione di controlli antifrode ha rallentato del 25% l’elaborazione delle richieste di benefici, provocando ritardi significativi per i beneficiari.

Riduzione del personale: Con una riduzione del 12% del personale della SSA e la chiusura di diversi uffici, i dipendenti rimasti hanno dovuto affrontare un carico di lavoro maggiore, con un impatto negativo sulla qualità del servizio offerto.

Nell’esercizio di trovare altre problematiche quello che è balzato quasi subito all’inizio dei lavori, è stata la scoperta sull’inefficienza del sistema di pensionamento per i dipendenti federali. Avendo molti dipendenti federali, deciso di accettare l’offerta di Musk di andare in prepensionamento hanno creato un ingolfamento nel sistema che ha messo in luce che normalmente ci vogliono sei mesi di passacarte dal giorno della domanda. Grazie a Doge si è scoperto il perché.

Scoperta dell’archivio sotterraneo e inefficienze nel sistema di pensionamento

Musk ha evidenziato l’esistenza di un archivio sotterraneo in una vecchia miniera di calcare a Boyers, Pennsylvania, noto come Iron Mountain, dove venivano conservati i documenti cartacei relativi alle pensioni dei dipendenti federali. Questo sistema antiquato comportava ritardi significativi nel trattamento delle richieste, con un numero limitato di pensionamenti processati mensilmente. Musk ha definito questa situazione come un “salto nel passato” definendolo preistorico tanto fosse inadeguato e inefficiente.

Transizione al sistema digitale

In risposta a questa situazione, DOGE ha avviato un’iniziativa per digitalizzare completamente il processo di richiesta delle pensioni. A partire dal 2 giugno 2025, l’Office of Personnel Management (OPM) ha iniziato a elaborare tutte le nuove richieste di pensionamento in formato digitale, con l’intenzione di cessare l’accettazione di documenti cartacei dal 15 luglio 2025. Questa mossa mirava a velocizzare i tempi di elaborazione e a ridurre i costi. Business Insider

Impatti sul personale e sulle operazioni

Le riforme implementate da DOGE, tra cui la riduzione del personale e la chiusura di uffici regionali, hanno avuto impatti significativi sul funzionamento dell’Administration della Social Security (SSA). Le modifiche alle politiche hanno comportato un aumento dei tempi di attesa per l’elaborazione delle richieste di pensionamento e disabilità, con oltre 600.000 richieste in sospeso e più di un milione di casi post-entitlement ritardati. I critici sostengono che queste misure hanno causato più inefficienze, ritardi, e maggiori frustrazioni per il pubblico.

L’apparente addio è avvenuto venerdì, nello studio ovale dove Donald Trump ha ospitato una conferenza stampa con Elon Musk per informare ufficialmente la fine del mandato del miliardario come “consulente governativo speciale” alla guida del cosiddetto “Dipartimento per l’Efficienza Governativa”.

La partenza di Musk arriva dopo settimane di crescente pressione riguardo alla sua gestione del dipartimento, durante la quale ha ridotto migliaia di posti di lavoro, risorse e spese pubbliche.

Ecco i principali spunti dell’evento:

1. “Elon non sta andando via per sempre”, afferma Trump

Musk “non sta andando via definitivamente” e molti membri del suo team resteranno nell’amministrazione, ha dichiarato Trump ai giornalisti, nella giornata degli addii ufficiali.

“Elon, – ha detto Trump – verrà e andrà; questa è una sua creatura, e penso che farà molte cose”.

Successivamente, Musk ha dichiarato: “Le mie dimissioni non sono la fine di DOGE, ma un inizio”, aggiungendo che continuerà a visitare la Casa Bianca come “amico e consigliere” del presidente. “Spero poter continuare a dare consigli al presidente ogni volta che lo desideri”, ha detto Musk.

2. Entrambi minimizzano le voci su un conflitto

Trump ha elogiato Musk come “uno dei più grandi leader aziendali e innovatori che il mondo abbia mai prodotto” e ha tributato un sentito omaggio agli sforzi “rivoluzionari e consequenziali” del miliardario per ridurre la forza lavoro federale e il peso del governo.

Gli elogi sicuramente lusinghieri arrivano pochi giorni dopo che Musk ha pubblicamente criticato il piano fiscale di Trump, affermando che la legge di bilancio “mina il lavoro che il team di DOGE sta facendo”. I commenti di Musk sembrano non aver creato alcun senso di frizione tra lui e il presidente, a dimostrarlo infatti è stata la consegna da parte di Trump a Musk di una grande chiave dorata con l’emblema della Casa Bianca, un oggetto simbolico riservato per le “persone davvero speciali” come ringraziamento per il lavoro svolto per il Paese.

3. Musk evita una domanda sull’uso di droghe

Musk ha evitato una domanda sul suo presunto consumo di droghe, liquidando l’argomento e accusando il New York Times di diffondere “bugie” sul Russiagate. Secondo il Times, Musk avrebbe fatto uso regolare di ketamina, ecstasy e funghi psichedelici durante la sua ascesa politica, con il consumo di ketamina a livelli preoccupanti.

Il bilancio del lavoro di Elon Musk alla guida del Department of Government Efficiency (DOGE) risulta complesso e controverso, con elementi positivi e negativi.

Punti Positivi:

  • Innovazioni e Ottimizzazioni: Musk ha portato a una ristrutturazione significativa dei processi governativi, cercando di ridurre gli sprechi e ottimizzare i costi. Ha affrontato la questione dell’inefficienza del governo e cercato di modernizzare la burocrazia, pur affrontando numerose difficoltà.
  • Impatto sull’innovazione tecnologica: Musk ha promosso l’uso della tecnologia, inclusi gli sforzi per digitalizzare i sistemi, migliorando la trasparenza e la gestione dei dati pubblici.

Punti Negativi:

  • Sprechi e Impatti sui Servizi: Le sue riforme, sebbene mirassero alla riduzione della spesa, hanno portato a tagli di personale significativi che hanno causato rallentamenti e qualità nei servizi, con ritardi e inefficienze.
  • Problemi di Privacy e Sicurezza: Le accuse di violazioni della privacy e le preoccupazioni riguardo alla gestione dei dati sensibili sono state un altro punto controverso.
  • Critiche alle sue Promesse: Le sue ambizioni di tagliare sprechi per una cifra favolosa non si è avverato.

Conclusione:

Il lavoro di Musk come capo di DOGE ha avuto un impatto misto. Sebbene abbia introdotto alcune innovazioni positive, la sua gestione è stata segnata da controversie legate a inefficienze operative, violazioni della privacy e difficoltà nella realizzazione delle sue promesse. Se da un lato ha cercato di migliorare l’efficienza, dall’altro ha generato incertezze e malcontento, con conseguenze negative per i beneficiari dei servizi pubblici e sicuramente nonostante la sbandierata trasparenza nei contenuti che è ammirevole, rimangono impresse le immagini negative di lui sul palco con una sega a motore. Un po’ troppo?