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#ReaCT2021 – Sessanta giorni di paura: la lezione appresa

di Marco Lombardi, ITSTIME, Università Cattolica.

La pandemia sembrava aver messo il terrorismo in secondo piano quando, improvvisamente, l’ottobre del 2020 ripropone la minaccia che sembrava essere superata: tra i primi giorni di settembre e l’inizio di novembre si dipana una catena di eventi che evidenzia con chiarezza uno scenario drammatico e articolato.

1° settembre, la rivista Charlie Hebdo ripubblica le caricature di Maometto.

2 settembre, si apre a Parigi il processo a 14 imputati per favoreggiamento agli attacchi a Charlie Hebdo e all’ Hyper Cacher.

25 settembre, Zaheer Hassan Mahmoud attacca con un coltello due impiegati della TV davanti alla ex sede di Charlie Hebdo.

27 settembre, inizia la “seconda guerra del Nagorn-Karabakh”, con i turchi a sostegno azero. La guerra termina il 9 novembre.

02 ottobre, il Presidente francese Emmanuel Macron attacca il “separatismo islamista”.

5 ottobre, Nikol Pashinyan, primo ministro armeno, dichiara che l’Europa vedrà presto la Turchia alle porte di Vienna.

16 ottobre, l’insegnante Samuel Paty è decapitato da Abdoullakh Abuyezidvich Anzorov per avere mostrato le caricature di Maometto alla classe. Paty è vittima di una campagna sui social media e della denuncia di suoi tre studenti.

22 ottobre, una donna con il burqa minaccia di farsi saltare alla stazione di Lione, fermata non aveva alcun esplosivo: l’evento è uno dei comportamenti imitativi frutto della “formazione” jihadista.

24 ottobre, il presidente turco Erdoganrisponde alla Francia affermando che Macron, avrebbe bisogno di perizie psichiatriche“, poi invita al boicottaggio dei prodotti francesi e si erge a paladino dell’Islam offeso.

29 ottobre, a Nizza, nella cattedrale, sono sgozzate tre persone da un terrorista tunisino, Brahim Aouissaoui, sbarcato a Lampedusa il 20 di settembre, in quarantena sulla nave “Rhapsody”, identificato e informato di espulsione il 9 ottobre. Aouissaoui fa perdere le sue tracce, il 26 in bus va da Palermo a Roma, il 27 in treno da Roma a Genova: il 28 è a Nizza.

29 ottobre, a Vienna, una cinquantina di giovani di origine turca fanno irruzione nella chiesa di Sant’Antonio al grido di “Allah Akbar”. L’episodio è inserito nel clima delle dichiarazioni di Erdogan.

2 novembre, a poche ore dall’inizio del lockdown, a Vienna vengono uccise 4 persone e 23 sono ferite da Kujtim Fejzulai, nel centro della città, in nove minuti di fuoco in sei punti lungo un percorso di un chilometro. Kujtim, in carcere per avere cercato di raggiungere la Siria e unirsi agli islamisti, era stato rilasciato dopo 22 mesi perché non pericoloso. L’intelligence slovacca aveva informato i colleghi austriaci del tentativo di acquistare munizioni per AK-47 nel luglio 2020.

2 novembre, la Francia mette al bando i Lupi Grigi, gruppo ultranazionalista turco dopo scontri con la comunità armena. Precedentemente, a giugno, il cancelliere austriaco Kurz aveva ordinato la chiusura di 7 moschee legate alle associazioni turche. La Turchia accusa l’Austria di anti-islamismo e razzismo.

La sequenza di eventi che hanno punteggiato queste settimane è una fondamentale lezione per collocare, nella giusta prospettiva, il terrorismo: una minaccia destinata a perdurare in forme organizzative differenti e nuove che sapranno adattarsi ai differenti scenari.

Il generale clima di violenza diffusa che ha trovato un alleato nel virus

Si temeva che il Covid-19 fosse un’occasione utilizzabile dal terrorismo che, nella sua immediata azione propagandistica, chiedeva di cogliere un possibile allentamento nella guardia delle polizie per colpire. Così non è stato, a dimostrazione che i terroristi home-grown condividono il timore per la propria salute tanto quanto i “kuffar” che vogliono colpire. Però il virus, come ogni evento critico, è stato un acceleratore di processi già in corso e il lievito di una cultura e di un clima di violenza diffuso e pervasivo che caratterizza questi anni: dai Gilet Gialli a Hong Kong, da Santiago al Libano, a dimostrazione che la società ha perso nel tempo i corpi intermedi capaci di mediare le tensioni e che la pandemia è un efficace incubatore di comportamenti violenti. Questo contesto ha dato buon gioco ai seminatori di violenza a fare più efficacemente e rapidamente il loro lavoro: i processi di radicalizzazione sono diventati molto più veloci e le ragioni profonde della scelta si sono perse confondendosi con l’immediata manifestazione violenta della propria arrabbiatura personale, che ha superato le motivazioni ideologiche e religiose che stavano dietro al terrorismo.

In questo contesto culturale, il terrorismo islamista è ormai radicato e infiltrato nella quotidianità: il “Califfato” sopravvive nelle famiglie, nelle cerchie di amici, nei propri “clan”, dove la radicalizzazione non è più un processo in corso ma un risultato conseguito. E il terrorismo trova alleati inattesi e inconsapevoli nei denigratori delle vittime, che alimentano i distinguo non comprensibili nella visione radicale del “tutto è o giusto o sbagliato”, come sono stati gli interventi di istigazione contro il docente comparsi sui Social Media.

Il ritardo politico e culturale nel rispondere alla minaccia del terrorismo

La narrazione del “lupo solitario” di queste settimane, è l’esempio della incapacità a superare stereotipi comodi e pericolosi. Gli assassini di Parigi, Nizza e Vienna sono stati aiutati da circuiti amicali di persone non necessariamente ideologizzate ma certamente incapaci di esprimere la loro rabbia al di fuori della violenza estrema che caratterizza la cultura diffusa che abbiamo descritto. Ciò significa che la narrazione del “lupo solitario” è estremamente pericolosa se la si collega a una minaccia per questo meno rilevante. Al contrario, la solitudine del “lupo” è tale solo rispetto a una organizzazione formale assente, ma non rispetto a un circuito informale di sostegno, prima emotivo e poi logistico. Con il risultato di rendere imprevedibile l’azione terroristica. Anche quando i segni sono manifesti nella biografia dei terroristi e nelle azioni, la mancanza di procedure che permettono di scambiare l’informazione per reciproco vantaggio delle agenzie, piuttosto che condividerla gratuitamente sulla base di un progetto, generano vulnerabilità che non sono più tollerabili. Ma neppure sono tollerabili i ritardi operativi che a Vienna permettono una evidente mobilità di un uomo che fa fuoco in sei differenti luoghi. E neppure la sottostima dell’infiltrazione di individui “radicalizzabili” attraverso i percorsi della immigrazione illegale. Nulla di tutto questo è compatibile con la volontà di contrastare la minaccia del terrorismo.

Il terrorismo come arma della Guerra Ibrida

Come per il virus, per il quale non ci sono prove che sia stato volontariamente lanciato nel mondo come arma, ma che è stato utilizzato da tutti come arma una volta diffuso, così per gli attentati, dei quali non ci sono prove che siano stati direttamente attivati da agenzie nazionali, si può affermare che sono stati utilizzati come un’arma nel conflitto ibrido in corso. D’altra parte, il crollo organizzativo di Daesh ha fornito la militanza di terroristi dispiegati dal fronte siriano a quello nord africano, a quello azero come arma di pronto impiego e la vicenda del processo “Charlie Hebdo” ha fornito il contesto comunicativo per orientare il terrorismo dormiente destrutturato, dando nuovi orizzonti per la difesa dell’Umma offesa. Se manca la prova della attivazione tattica è tuttavia evidente quella dell’ispirazione alla serie di attacchi, utile agli interessi nazionali nel quadro più ampio del conflitto. In questo senso è comprensibile l’eredità di Daesh, che ha promosso, legittimato e formato a facili comportamenti violenti troppi aspiranti terroristi, e l’impiego di questa manodopera in modalità sempre più strutturata anche da parte di entità statali.

In conclusione, questi sessanta giorni di paura ci dicono che il terrorismo è ormai un fenomeno “normale” piuttosto che “eccezionale”, quale strumento del conflitto in corso e perdurante. È importante associare a questa visione la consapevolezza di un mondo in cui le minacce si intersecano, sovrappongono e alimentano ma certo mai si eludono a vicenda, per non cadere nell’errore di considerare un tempo sequenziale, come a settembre quando la pandemia sembrava coagulare tutte le preoccupazioni, facendoci dimenticare la pluralità circolare delle minacce: il terrorismo tra queste.

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