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Il terrorismo jihadista in Europa e le dinamiche mediterranee: evoluzione storica, sociale e operativa in un’era di cambiamenti globali.

di Claudio Bertolotti, Direttore, START InSight
estratto da #ReaCT2024 – Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa

Abstract Questo articolo indaga il terrorismo oltre le definizioni tradizionali, esaminando la sua evoluzione all’interno dei confini dell’Europa geografica, enfatizzando le radici storiche, le motivazioni individuali e collettive, e l’adattamento operativo, condividendo le ragioni alla base di una ormai necessaria revisione della stessa definizione di terrorismo, da intendersi come effetto della violenza, piuttosto che mera azione organizzata per fini politici. Analizzando i dati forniti dal data base START InSight, l’articolo si concentra sui Paesi dell’Unione europea costantemente interessati dalle traiettorie del jihadismo e dalle conseguenti sfide per la sicurezza collettiva, contribuendo al dibattito accademico con una prospettiva multidimensionale sul terrorismo, considerandone gli aspetti storici, socio-politici e culturali.

Keywords Jihadism, blocco funzionale

1. Il terrorismo come fenomeno politico e sociale che si evolve con il tempo e con il mutare delle dinamiche di competizione tra individue, gruppi, stati.

Il terrorismo attuale, ponendo le proprie radici nella profondità di un’evoluzione storica molto complessa, rappresenta una minaccia ideologica diffusa. E la minaccia del terrorismo jihadista è oggi particolarmente rilevante, collegata alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa. E parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto.

Una necessaria riflessione che ci invita a riflettere sull’opportunità di un cambio di paradigma nella stessa definizione di terrorismo, non più da intendere come azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque nelle intenzioni. Bensì come effetto della violenza applicata: è terrorismo la manifestazione di violenza, privo di un’organizzazione alle spalle. È terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.

All’interno della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di lotta, di resistenza e di prevaricazione, e lo fa con diversi gradi e modelli di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan e in Iraq e, in parte, stiamo osservando nelle sue prime manifestazioni nella Striscia di Gaza dove l’esercito israeliano si confronta con il gruppo Hamas (Bertolotti, 2024).

E proprio l’esperienza afghana, che l’Autore del presente articolo ha avuto modo di studiare da vicino per molti anni, a cui si è sommata l’ondata di violenza conseguente all’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati, hanno svolto un ruolo determinante nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo a livello globale, che si basa sull’esperienza vittoriosa dei talebani contro l’Occidente, da un lato, e, dall’altro, sulla rabbia veicolata attraverso la strategia comunicativa di Hamas che trova in alcune minoranze ideologizzate occidentali una cassa di risonanza che sovrappone, confondendola, l’agenda violenta e terrorista di Hamas alla legittima istanza palestinese. Eventi sul piano delle Relazioni internazionali che, attraverso la retorica jihadista, sono sfruttati per dimostrare la bontà e la fondatezza del jihad, e dunque del terrorismo come strumento di lotta, di vittoria, di giustizia.

E oggi, dopo e insieme all’Afghanistan, all’Iraq e alla Striscia di Gaza, a svolgere questo ruolo di spinta ideologica e coinvolgimento di massa, sono le dinamiche conflittuali in Medioriente e il terrorismo mediaticamente amplificato di Hamas; da questo discendono le manifestazioni emulative di violenza che il terrorismo ai danni di Israele ha in parte provocato e potrebbe sempre più provocare in Europa come nei paesi del Nord Africa, dell’Africa subsahariana e del Sahel.

2. Trend e dinamiche: calano i numeri, ma la minaccia del terrorismo persiste- un’analisi degli attacchi dal 2014 al 2023.

Guardando agli ultimi cinque anni, da un punto di vista quantitativo l’incidenza degli attacchi terroristici di matrice jihadista si presenta lineare, con una percettibile diminuzione registrata negli ultimi anni, attestandosi ai livelli pre-fenomeno Isis/Stato islamico. Dal 2019 al 2024 sono stati registrati nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Svizzera 92 attacchi (12 sia nel 2023 che nel 2024 – dati al 30 settembre 2024), di successo e fallimentari: 99 quelli rilevati nel precedente periodo 2014-2018 (12 nel 2015).

Sulla scia dei grandi eventi terroristici in Europa nel nome del gruppo Stato islamico, e successivamente in verosimile relazione con gli elementi galvanizzanti conseguenti alla presa del potere talebano in Afghanistan e all’appello del gruppo Hamas, sono stati registrate 206 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2024, delle quali 70 esplicitamente rivendicate dallo Stato islamico: 249 i terroristi che vi hanno preso parte (di cui 7 donne, 73 morti in azione), 446 le vittime decedute e 2.558 i feriti (database START InSight).

Sia nel 2023 che nel 2024 sono state registrate 12 azioni jihadiste, in lieve flessione rispetto ai 18 attacchi annuali registrati nel 2022 e 2021, ma con un aumento significativo di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti, che ha portato il dato ad attestarsi sui livelli elevati degli anni precedenti: dal 17% del totale di azioni emulative nel 2022 al 58% nel 2023 (erano il 56% nel 2021). Il 2023 ha inoltre confermato un trend ormai consolidato nell’evoluzione del fenomeno, con una sostanzialmente esclusiva predominanza di azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate, che hanno progressivamente sostituito le azioni strutturate e coordinate caratterizzanti il “campo di battaglia” urbano europeo del periodo 2015-2017 (il totale delle azioni nel 2023 e il 97% delle azioni registrate l’anno precedente).

Aumenta l’uso di coltelli e armi improvvisate I terroristi usano sempre più spesso coltelli per una serie di motivi, legati a fattori pratici, ideologici e strategici:

– Facilità di accesso: i coltelli sono facilmente reperibili e non richiedono competenze tecniche avanzate per essere utilizzati. A differenza delle armi da fuoco o degli esplosivi, che possono richiedere una certa logistica o competenze tecniche, i coltelli sono comuni in ogni casa o negozio.

– Discrezione: un coltello può essere portato facilmente senza destare sospetti, a differenza di altre armi più vistose o pericolose. Questo consente di avvicinarsi alle vittime o ai luoghi di attacco senza essere notati immediatamente.

– Effetto di terrore: gli attacchi con coltelli, spesso condotti in spazi pubblici o affollati, hanno un forte impatto psicologico sulla popolazione. La natura ravvicinata e brutale di un attacco con un’arma da taglio amplifica la paura tra i presenti e nei media, creando un forte effetto simbolico.

– Attacchi individuali: negli ultimi anni, molte organizzazioni terroristiche hanno incoraggiato attacchi individuali o “lupi solitari”. Gli attacchi con coltelli sono ideali per questo tipo di azioni, poiché richiedono una pianificazione minima e possono essere condotti da una sola persona, senza la necessità di una rete organizzativa complessa.

– Controllo delle armi: in molti Paesi, le leggi sulle armi da fuoco sono molto severe, rendendo difficile ottenere pistole o fucili. I coltelli, invece, sono meno regolamentati e possono essere acquistati legalmente quasi ovunque.

– Modello d’ispirazione: attacchi con coltelli di successo, come quelli avvenuti in diverse città europee negli ultimi anni, hanno ispirato altri estremisti a replicare questo tipo di azione, seguendo la narrativa che si tratti di un mezzo efficace e relativamente semplice per diffondere terrore. In sintesi, l’uso crescente di coltelli da parte dei terroristi è legato alla loro accessibilità, alla facilità d’uso, alla discrezione e all’efficacia nel creare panico e paura tra la popolazione (Molle, 2024).

3. Il profilo dei terroristi “europei”

Il terrorismo jihadista è un fenomeno a partecipazione prevalentemente maschile: su 295 attentatori il 97% sono di genere maschile (10 le donne); contrariamente al 2020, quando 3 attentatrici presero parte ad azioni terroristiche, il triennio 2021-2023 non ha visto la loro partecipazione diretta.

I terroristi (uomini e donne) identificati i cui dati anagrafici sono stati resi noti hanno un’età mediana di 26 anni: un dato che varia nel corso del tempo (dai 24 nel 2016, ai 30 nel 2019), registrando un aumento dell’età nell’ultimo periodo analizzato che ci consegnando un dato di 28,5 anni nel 2023. Lo studio del profilo dei 200 soggetti di cui abbiamo informazioni anagrafiche sufficienti ha consentito di definire un quadro molto interessante da cui emerge un dato del 7% di terroristi di età inferiore ai 19 anni (con una riduzione dei minori con il trascorrere del tempo), il 38% ha un’età compresa tra i 19 e i 26, il 41,5% tra i 27 e i 35 e, infine, il 13,5% è di età superiore ai 35 anni. Dati che confermerebbero un aumento dell’età media nel corso del tempo nella fascia 19-35 anni a fronte di una riduzione dei minori coinvolti in attacchi terroristici nello stesso periodi di tempo.

Il 93% dei soggetti che hanno portato a compimento un atto terroristico, di cui abbiamo informazioni complete, sono stati portati a termine da “immigrati” (prima, seconda e terza generazione), sia regolari che irregolari. Dei 155 su 237 terroristi analizzati attraverso il database START InSight, il 45% sono immigrati regolari di prima generazione; 28% sono discendenti di immigrati (seconda o terza generazione); gli immigrati irregolari sono il 26%: un dato, quest’ultimo, in crescita che passa al 25% nel 2020, raddoppia con un dato del 50% nel 2021 e cresce fino al 67% nel 2023, con ciò indicando un cambio significativo nella natura dei terroristi tra i quali aumenta la presenza di attentatori di prima generazione (complessivamente il 71% del totale di terroristi). Significativa è anche il dato riferito al 7% di cittadini di origine europea convertiti all’Islam (un dato in lieve flessione rispetto alla media degli anni precedenti). Complessivamente il 73% dei terroristi sono regolarmente residenti in Europa, mentre il ruolo degli immigrati irregolari si impone con un rapporto di circa 1 ogni 4 terroristi (il rapporto era 1:6 fino al 2020). Nel 4% degli episodi è stata riscontrata la presenza di bambini/minori (7) tra gli attaccanti, un dato che ha registrato una diminuzione.

La dimensione etno-nazionale dei terroristi in Europa Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa affligge maggiormente alcuni gruppi nazionali ed etnici specifici. Vi è un chiaro rapporto di proporzionalità tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, evidenziato dalla nazionalità dei terroristi o delle loro famiglie di origine, che rispecchia la dimensione delle comunità straniere in Europa. In particolare, prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente afflitti dall’adesione jihadista sono quelli marocchino (in particolare in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerino (in Francia). Il fenomeno della radicalizzazione è stato particolarmente evidente in Belgio e Francia, dove comunità numerose di origine marocchina e algerina hanno visto un numero elevato di giovani aderire a gruppi jihadisti. In Francia, ad esempio, una parte significativa dei terroristi coinvolti negli attentati recenti proveniva da famiglie di origine algerina e marocchina, riflettendo la presenza storica e la dimensione di queste comunità nel paese (Bertolotti, 2023).

Recidivi e terroristi già noti all’intelligence Il ruolo dei recidivi è cresciuto con il trascorrere del tempo, e in conseguenze del loro rilascio dopo periodi di detenzione recentemente conclusi. Si tratta di individui già condannati per terrorismo che hanno portato a compimento azioni violente a fine pena detentiva e, in alcuni casi, anche all’interno delle strutture penitenziarie. Un dato che ci consegna un trend caratterizzato dal 3% di recidivi nel totale dei terroristi che hanno colpito nel 2018 (1 caso), al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020, al 25% (3) nel 2023. Questa situazione conferma la pericolosità sociale di individui che, seppur incarcerati, ritardano l’attuazione di azioni terroristiche. Questo fenomeno suggerisce un incremento della probabilità di attacchi terroristici nei prossimi anni, parallelamente al rilascio di molti detenuti per reati di terrorismo.

START InSight ha evidenziato una tendenza rilevante riguardo le azioni terroristiche compiute da individui già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei. Nel 2021, questi casi rappresentavano il 44% del totale, mentre nel 2020 erano il 54%. Questo è un incremento significativo rispetto al 10% registrato nel 2019 e al 17% nel 2018. Un dato che, riferito al 2023, è cresciuto stabilizzandosi al 75%, di fatto confermando le ragioni di preoccupazione delle istituzioni deputate a contrasto del fenomeno violento. I soggetti con precedenti detentivi (anche per reati non associati al terrorismo) nel 2021 hanno confermato una certa stabilità nella partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un pregresso carcerario con un dato del 23% nel 2021, in lieve calo rispetto all’anno precedente (33% nel 2020) ma in linea con quello del 2019 (23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); un’evidenza che, pur a fronte di un dato riferito al 2023 decisamente inferiore (8%) confermerebbe l’ipotesi che identifica i luoghi detentivi come spazi di potenziale radicalizzazione e adesione al terrorismo.

4. Quale la reale capacità distruttiva del terrorismo?

Per comprendere il fenomeno del terrorismo in modo realistico, è fondamentale analizzarlo su tre livelli distinti: strategico, operativo e tattico. La strategia riguarda l’utilizzo delle risorse per raggiungere gli obiettivi di lungo termine della guerra. La tattica si concentra sull’uso delle forze in combattimento per ottenere vittorie specifiche in battaglia. Il livello operativo funge da collegamento tra i due, coordinando azioni tattiche per raggiungere gli obiettivi strategici. Questa sintesi, nella sua essenza, sottolinea l’importanza dell’impiego degli uomini nella condotta di azioni militari.

Il successo a livello strategico è marginale Diminuisce – passando dal 16% al 13% – il successo strategico delle azioni terroristiche, ossia l’ottenimento di risultati impattanti sul piano strutturale: blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di ampia portata. Un dato che è comunque da considerare come elevato, considerando il limitato sforzo organizzativo e finanziario da parte dei gruppi, o dei singoli attentatori terroristi. L’andamento nel corso degli anni è stato discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione complessiva in termini di capacità ed efficacia: 75% di successo strategico nel 2014, 42% nel 2015, 17% nel 2016, 28% nel 2017, 4% nel 2018, 5% nel 2019, 12% nel 2020 e 6% nel 2021; dal 2022 il successo strategico non viene più ottenuto dagli attacchi terroristici; di fatto confermando un consolidato processo di normalizzazione del terrorismo.

Il trend dell’attenzione mediatica verso gli attacchi terroristici è in calo. A livello strategico, gli attacchi hanno ricevuto l’attenzione dei media internazionali nel 75% dei casi e il 95% a livello nazionale. Le operazioni organizzate dai commando e dai team-raid hanno ottenuto una copertura mediatica completa. Questo successo mediatico ha significativamente influenzato la campagna di reclutamento di aspiranti martiri o combattenti jihadisti, con un picco di reclutamento durante i periodi di maggiore intensità di azioni terroristiche (2016-2017). Tuttavia, l’effetto amplificatore dei media sul reclutamento tende a diminuire nel tempo per due principali motivi: in primo luogo, c’è stata una prevalenza di azioni a “bassa intensità” rispetto a quelle ad “alta intensità”, che sono diminuite, mentre le azioni a bassa e media intensità sono aumentate notevolmente dal 2017 al 2021, pur a fronte di un aumento significativo delle azioni a media intensità nel 2023. In secondo luogo, il pubblico è diventato gradualmente meno sensibile emotivamente alla violenza del terrorismo, specialmente per quanto riguarda gli eventi a bassa e “media intensità”.

Sebbene il livello tattico susciti preoccupazione, non è la priorità per il terrorismo. Partendo dal presupposto che l’obiettivo delle azioni sia provocare la morte del nemico (con le forze di sicurezza come bersaglio nel 35% dei casi), questo è stato raggiunto in media nel 50% dei casi tra il 2004 e il 2023. Tuttavia, l’ampio intervallo di tempo influisce significativamente sul margine di errore. L’analisi del periodo 2014-2023 mostra una tendenza al peggioramento degli effetti desiderati dai terroristi, con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento delle azioni fallimentari, almeno fino al 2022, quando il successo tattico si stabilizza al 33%, coerentemente con i dati del 2016. Il 2023 è in controtendenza.

I dati degli ultimi sei anni evidenziano che nel 2016, il successo tattico è stato ottenuto nel 31% dei casi, con un 6% di atti fallimentari. Nel 2017, il successo è salito al 40%, con un tasso di fallimento del 20%. Nel 2018, il successo è sceso al 33%, mentre gli attacchi falliti sono raddoppiati al 42%. Nel 2019, il successo è ulteriormente calato al 25% per poi risalire al 33% nel 2020-2022. Questo andamento, che può essere interpretato come un duplice effetto della riduzione della capacità operativa dei terroristi e della maggiore reattività delle forze di sicurezza europee, ci consegna però un dato riferito al 2023 pari al 50% di azioni in grado di ottenere un successo tattico, ossia la morte di almeno un obiettivo.

Database START Insight (Lugano, 2024)

Il vero successo è a livello operativo: il “blocco funzionale” Anche quando un attacco terroristico non riesce, produce comunque un risultato significativo: impegna pesantemente le forze armate e di polizia, distraendole dalle loro normali attività o impedendo loro di intervenire a favore della collettività. Inoltre, può interrompere o sovraccaricare i servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il regolare svolgimento delle attività quotidiane, commerciali e professionali, danneggiando le comunità colpite. Questo riduce efficacemente il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo, nonché la capacità di resilienza. In generale, infligge danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile ottenuto attraverso queste azioni.

In sostanza, il successo del terrorismo, anche senza causare vittime, risiede nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionare i comportamenti nel tempo in relazione alle misure di sicurezza o limitazioni imposte dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza. Questo fenomeno è noto come “blocco funzionale”. Nonostante la capacità operativa del terrorismo sia sempre più ridotta, il “blocco funzionale” rimane uno dei risultati più importanti ottenuti dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace nel conseguire il “blocco funzionale” nell’80% dei casi, con un picco del 92% nel 2020 e dell’89% nel 2021. Questo risultato impressionante, ottenuto con risorse limitate, conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo, pur a fronte di una rilevata perdita progressiva di capacità che ha visto diminuire l’ottenimento del “blocco funzionale”, sceso al 78% nel 2022 e al 67% nel 2023.

5. La capacità di reclutamento e le strategie operative

Il gruppo Stato islamico, persa la sua capacità territoriale in Siria e Iraq (2013-2017), non ha più la forza di inviare i propri terroristi sul suolo europeo a causa della perdita della capacità di proiezione operativa diretta all’esterno; al contrario, il gruppo non avrebbe perso la potenzialità attrattiva, con ciò dimostrando di aver saputo sviluppare una capacità di reclutamento indiretto basato sul riconoscimento “postumo” degli individui che portano a compimento azioni terroristiche individuali di successo. Per queste ragioni la minaccia rimane significativa, proprio grazie alla presenza e all’azione di attori isolati, spesso improvvisati e spinti dall’emulazione e senza un legame diretto con l’organizzazione.

Mentre il gruppo dello Stato Islamico continua a imporsi su un piano ideologico come la principale minaccia jihadista, in particolare sfruttando il controllo territoriale e le disponibilità finanziarie del proprio franchise afghano Stato islamico Khorasan, è però assodato come sia incapace di riproporre il travolgente richiamo che ebbe il “califfato” nel periodo 2014-2017, poiché sarebbero venuti meno il vantaggio della novità, e di conseguenza l’appeal, che ne costituiva il punto di forza, in particolare nei confronti dei più giovani. Inoltre, sia dal punto di vista legislativo che sul piano operativo, l’Unione europea ha saputo ridurre in maniera rilevante le proprie vulnerabilità, sebbene con maggiore prevalenza in termini di contrasto al terrorismo rispetto all’azione preventiva.

Permangono, nel complesso segnali di preoccupazione legati agli effetti emulativi e alla “chiamata alla guerra” connessa a eventi sul piano internazionale in grado di indurre singoli soggetti ad agire in nome del jihad: l’evento più importante nel 2021, che ha dato e continuerà a dare un impulso agli effetti del jihad transnazionale è stata la vittoria dei talebani in Afghanistan che, da un lato ha alimentato la variegata propaganda jihadista attraverso il messaggio della “vittoria come risultato della lotta continua” e, dall’altro lato, ha dato vita a una forma di competizione dei “jihad” tra gruppi impegnati in forme di lotta e resistenza esclusivamente locali e chi, come lo Stato islamico, recepisce e propone il jihad esclusivamente come strumento di lotta a oltranza a livello globale. In tale dinamica competitiva si sono inserite le azioni associate alla guerra IsraeleHamas e all’appello jihadista a colpire attraverso azioni di violenza, in cui gli adepti dello Stato islamico e i musulmani votati alla causa di Hamas si sono contesi i successi sul campo di battaglia e la conseguente attenzione mediatica.

In tale quadro complessivo e in continua evoluzione, dobbiamo continuare a prestare attenzione alla forza jihadista nel continente africano, in particolare le aree dell’Africa sub-sahariana, il Sahel, il Corno d’Africa e, ancora, il Ruanda e il Mozambico, al fine di contrastare l’emergere in questo continente di nuovi “califfati” o “wilayat” che potrebbero minacciare direttamente l’Europa.

Nella prolifica propaganda jihadista, lo Stato Islamico si vanta della propria diffusione nel continente africano, in un rapporto di competizione collaborativa con il proprio franchise afghano, e pone in evidenza come l’obiettivo di contrastare la presenza e la diffusione del cristianesimo porterà il gruppo a espandersi in altre aree del continente. Se altrove, come nel Maghreb, nel Mashreq e in Afghanistan l’attività dello Stato islamico è incentrata sulla lotta settaria intra-musulmana, in Africa la sua presenza si è ormai impone come parte di un conflitto tra musulmani e cristiani, rafforzata da una propaganda che insiste sulla necessità di fermare la conversione dei musulmani al cristianesimo attuata attraverso i “missionari” e “il pretesto” degli aiuti umanitari. In tale quadro si inseriscono le violenze, i rapimenti e le uccisioni di religiosi missionari, attacchi contro le Organizzazioni non governative (Ong) e le missioni internazionali, dal Burkina Faso al Congo e, ancora, gli attacchi alle comunità cristiane.

6. Dal Nord Africa al Sahel: uno sguardo al terrorismo “mediterraneo”

Guardando al nord Africa, la regione continua ad affrontare le minacce di gruppi terroristici affiliati ad alQa’ida nel Maghreb islamico (AQIM); lo Stato Islamico; e i combattenti terroristi stranieri (FTF) che si sono recati in Iraq o in Siria. Il ritorno inosservato di questi reduci nei loro paesi d’origine dopo la sconfitta territoriale dello Stato islamico pone ulteriori sfide alla sicurezza. Inoltre, negli ultimi anni, attori solitari e piccole cellule hanno compiuto una serie di attacchi mortali in diversi Stati nordafricani e si sono dimostrati difficili da individuare.

Il Sahel sta diventando un nuovo centro del terrorismo jihadista, con un aumento significativo delle vittime in questa regione nel 2023, ma nel complesso, l’area MENA (Medio Oriente e Nord Africa) ha visto una diminuzione del 42% delle vittime negli ultimi tre anni. Il Nord Africa in particolare sta assistendo a una costante riduzione della violenza estremista, riportando il numero di attacchi violenti ai livelli pre-IS. Nel 2022, il Nord Africa ha registrato una diminuzione di 14 volte delle vittime rispetto al 2015, con il Marocco classificato come il paese più sicuro nella regione, mentre l’Egitto è tra i paesi più colpiti dal terrorismo. La Libia, l’Algeria e la Tunisia si collocano tra i due estremi con un impatto medio-basso del terrorismo.

Il Sahel e il Maghreb sono fortemente connessi politicamente, economicamente e in termini di sicurezza. La presenza di gruppi terroristici che sfruttano tensioni etniche, sfide climatiche e mancanza di servizi pubblici ha trasformato questa regione in un centro di attività jihadiste, con il rischio di diffondere la minaccia terroristica verso altre aree. L’instabilità nel Sahel ha già influenzato l’Africa occidentale e i paesi costieri del Golfo di Guinea, dove gruppi affiliati ad al-Qaeda sono attivi. Questa situazione potrebbe anche coinvolgere il Nord Africa, mettendo a rischio i progressi ottenuti in materia di prevenzione, antiterrorismo e de-radicalizzazione in alcuni paesi della regione.

Ora, guardando ai paesi del nord africa come paesi di emigrazione, ancora di più, come paesi di transito dei flussi migratori verso l’Europa, si pone la questione della possibile contaminazione jihadista o del suo trasferimento. Un ragionamento che impone di osservare l’evoluzione di un fenomeno in fase di evidente consolidamento e che trova nell’area mediterranea quella che è a tutti gli effetti un’inesauribile linfa vitale.

Claudio Bertolotti, è Dottore di ricerca (Ph.D.), Direttore Esecutivo di START, è stato dal 2014 al 2023 ricercatore senior presso “5+5 Defense Initiative”. Laureato in Storia contemporanea e specializzato in Sociologia dell’Islam, ha conseguito un dottorato in Sociologia e Scienza politica, con un focus sulle Relazioni Internazionali. Dal 17 aprile 2019 è Direttore Esecutivo di ReaCT – Osservatorio nazionale sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (Roma-Milano-Lugano). Dal 30 settembre 2021 è membro del Comitato per i diritti umani e civili presso il Consiglio della Regione Piemonte. È autore, tra gli altri, di Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale (START InSight, 2024), Immigrazione e terrorismo (START InSight, 2020), Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga (CASD, 2019), Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan (FrancoAngeli ed. 2010).

Bibliografia
Bertolotti, C. (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano.
Bertolotti, C. (2023), L’evoluzione del terrorismo in Europa: terrorismo di sinistra, destra, anarchico, individuale, e il ruolo degli immigrati nel terrorismo jihadista all’interno dell’Unione Europea (Analisi di correlazione e regressione), in #ReaCT2023, 4° Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa, START InSight ed., Lugano, ISBN 978-88-322-94-18-7, ISSN 2813-1037 (print), ISSN 2813-1045 (online)


Radicalizzati a 11 anni. È possibile?

Dopo la segnalazione di un caso nella Svizzera francese, il Presidente di START InSight Chiara Sulmoni ha parlato del tema con i servizi info della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana.

Intervista a cura della giornalista Francesca Calcagno, SEIDISERA, 6 settembre 2024 (approfondimento radio)

LEGGI QUI LA TRASCRIZIONE DELL’INTERVISTA

Intervista a cura della giornalista Alessia Caldelari, TG RSI, 6 settembre 2024 (TV)


IL RAN: ieri, oggi e domani. La rete europea per le pratiche di prevenzione e l’Italia: un bilancio tra luci ed ombre

di Luca Guglielminetti, RAN Ambassador for Italy

QUESTO ARTICOLO APPARIRÀ NEL RAPPORTO #REACT2024 SUL TERRORISMO E IL RADICALISMO IN EUROPA, ATTUALMENTE IN CORSO DI LAVORAZIONE. VIENE QUI ANTICIPATO IN OCCASIONE DELLA CHIUSURA DELLE ATTIVITÀ DEL RADICALISATION AWARENESS NETWORK (RAN).

Quest’anno terminerà l’attività del “Radicalisation Awareness Network – RAN”, la rete europea per le pratiche di prevenzione istituita nel 2011 della DG Home della Commissione Europea, che sarà sostituito dall’ “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”. È quindi tempo per un bilancio di questa esperienza, in particolare nel nostro paese, e di aprire un dibattito sul futuro e il consolidamento di queste politiche e pratiche atte a prevenire e contrastare la radicalizzazione che porta all’estremismo violento e al terrorismo (P/CVE). Politiche e pratiche che implicano una impegnativa e fattiva collaborazione tra attori, ambiti e approcci diversi, come quelli della sicurezza e della resilienza, della repressione e della costruzione di fiducia, della segretezza e della trasparenza, della giustizia retributiva e di quella riparativa, delle istituzioni statali e della società civile, delle autorità nazionali e di quelle locali, dei mass-media e dell’accademia, degli ex terroristi e delle vittime. Esemplificativi binomi che già singolarmente rappresentano delle sfide tutt’altro che risolte e che talvolta, in tutta Europa, hanno indotto dispute, anche aspre, verso queste politiche e pratiche. Tuttavia, almeno le pratiche di P/CVE, sono ormai sedimentate anche in Italia. Il punto è se in futuro si riuscirà a passare dall’attuale stato di frammentazione a quello di una loro valorizzazione strategica.

1. COSA È IL RAN

Poiché l’Italia, come vedremo nel secondo capitolo, è uno di pochissimi Stati Membri dell’Unione Europea (EU) a non aver adottato una strategia o una legislazione nazionale in materia di P/CVE, è opportuno iniziare presentando cosa sia e come funzioni il Radicalisation Awareness Network (RAN), a beneficio di chi non lo conoscesse[1].

Il Radicalization Awareness Network, in breve RAN, è una rete europea orientata alla pratica per la prevenzione dei fenomeni di estremismo violento e terrorismo con oltre 6.000 partecipanti. Il RAN è stato lanciato nel 2011 dalla Commissione Europea ed è da questa finanziata al 100%. Dal punto di vista organizzativo, ha sede presso il Dipartimento per la Migrazione e gli Affari Interni (DG HOME) della Commissione Europea, ma la sua attività è implementata e coordinata, per conto della Commissione EU, da un consorzio che ogni 4 anni è stato rinnovato con gara d’appalto.

Lo scopo delle varie attività e offerte dal RAN è quello di creare reti e scambiare informazioni tra esperti provenienti da diversi settori della pratica di prevenzione e da diversi paesi per prevenire e combattere l’estremismo violento. L’obiettivo è raccogliere conoscenze empiriche e pratiche, insieme a nuove scoperte scientifiche, e renderle disponibili agli operatori professionali, attraverso i seguenti nove gruppi di lavoro:

Comunicazione e narrazioni (RAN C&N) è focalizzato sugli sviluppi e le tendenze nella comunicazione estremista online e offline, nonché sui modi per contrastarle

Gioventù ed educazione (RAN Y&E) è incentrato sul rafforzamento degli insegnanti e del settore dell’istruzione nella gestione della radicalizzazione

Riabilitazione (RAN REHABILITATION) si concentra sui programmi di deradicalizzazione e di uscita, nonché sui servizi di risocializzazione all’interno e all’esterno del carcere

Famiglie, comunità e assistenza sociale (RAN FC&S) affronta il modo migliore per sostenere i giovani, le famiglie e i gruppi etnici o religiosi che si trovano ad affrontare la radicalizzazione o che potrebbero essere particolarmente vulnerabili

Autorità Locali (RAN LOCAL) è focalizzato sullo scambio di approcci e strategie che coinvolgono diversi attori locali che perseguono il coordinamento della prevenzione nella sicurezza urbana

Carcere (RAN PRISONS) è incentrato sull’analisi dell’impatto dei sistemi carcerari, dei programmi di reinserimento e d’intervento mirati ai terroristi condannati

Polizia e forze dell’ordine (RAN POL) identifica approcci di polizia efficaci, tra cui la formazione, l’uso dei social media e la creazione di fiducia e approcci basati sulle relazioni per lavorare con famiglie, comunità, ambienti e quartieri

Vittime/sopravvissuti al terrorismo (RAN VoT) mantiene una rete di vittime del terrorismo interessate alle attività di P/CVE e organizza la Giornata europea della memoria e del ricordo delle vittime del terrorismo l’11 marzo di ogni anno

• Salute mentale (RAN HEALTH) sensibilizza gli operatori sanitari e sociali sul loro ruolo nell’identificazione e nel sostegno delle persone a rischio di radicalizzazione

La partecipazione ai gruppi di lavoro funziona attraverso pubblici bandi ai quali gli interessati possono candidarsi e la loro selezione avviene sulla base della competenza, dell’esperienza operativa e del paese d’origine. Gli incontri sono sempre interattivi, orientati all’esempio, all’esperienza e alla pratica. Dopo ogni incontro vengono pubblicati i cosiddetti documenti conclusivi con i risultati principali.

Il RAN pubblica non solo i risultati degli incontri ma anche paper che forniscono informazioni sulle novità della ricerca e delle politiche sui temi della radicalizzazione, dell’estremismo, del terrorismo e della prevenzione. In questo modo divulga le conoscenze pratiche, anche attraverso una collezione di pratiche nei vari paesi europei, agli esperti ed operatori, coinvolti o meno nella rete, aiutandoli a migliorare il proprio lavoro.

I focus tematici principali della rete e gli argomenti dei gruppi di lavoro sono sviluppati nel Comitato di Pilotaggio del RAN in combinazione con sondaggi online inviati ai partecipanti e alla all’incontro plenario annuale del RAN.

Nel corso del tempo si sono aggiunte ulteriori articolazione della rete: nel 2016 “RAN Young”, dedicato giovani europei coinvolti delle attività di prevenzione; il “Poll of Experts” per la scrittura dei “RAN papers” e la revisione delle pratiche collezionate; il programma CSEP indirizzato a finanziare campagne di comunicazione della società civile per contrastare le propagande estremiste. Nel 2021, è stata creata una seconda sezione della rete, “RAN Policy Support”, dedicata principalmente ai decisori politici e ai responsabili negli Stati membri, differenziandosi da “RAN Practitioners” che ha mantenuto la pregressa natura di rete di operatori professionali che lavorano sul campo. Inoltre, sempre nel 2021, una ulteriore articolazione è costituita da “RAN in the Western Balkans” con l’obiettivo di sostenere la prevenzione della radicalizzazione in una regione particolarmente vulnerabile. Infine, sono stati nominati dei “RAN Ambassador”, per alimentare la conoscenza della rete negli Stati Membri della UE.

Anche la comunicazione del RAN si è sviluppata nel tempo. Dal solo sito web di presentazione con i gruppi di lavoro, i paper e la raccolta di “Inspiring Practices”, si sono aggiunti via via i canali sui principali social network, la newsletter, i video e i podcast, le infografiche, i webinar e una rivista trimestrale, “RAN Spotlight”, che in ogni numero presenta un argomento diverso.

2. IL RAN E L’ITALIA: EVOLUZIONI E PRIME VALUTAZIONI

Questa seconda parte è in gran parte in forma di testimonianza perché il sottoscritto si è trovato, come unico italiano, ad aver seguito il RAN fin dalla sua fase di progettazione, quando cioè la DG HOME stava svolgendo incontri con gli stakeholders nella prima metà del 2011.  Ero allora parte interessata allo sviluppo di questa nuova rete in quando, nei cinque anni precedenti, avevo seguito i lavori di un’altra rete promossa dalla Commissione Europea: quella delle associazioni delle vittime del terrorismo (NAVT)[2].

Nel 2005 le strategie europee di lotta al terrorismo iniziarono a inserire in agenda il tema della radicalizzazione violenta e la sua prevenzione. Queste strategie, e in particolare il Programma di Stoccolma per il periodo 2010-2014[3], pur riconoscendo che le azioni contro la radicalizzazione e il terrorismo rientrano principalmente nelle competenze e le responsabilità degli Stati membri dell’Unione europea, rilevava l’importanza e il valore aggiunto sia di creare una struttura a livello Europeo, sia di sviluppare un ruolo attivo della società civile, delle comunità e amministrazioni locali. Tale struttura prese la forma del RAN che nel settembre 2011 a Bruxelles fu pubblicamente lanciata alla presenza della Commissaria europea per gli affari interni, Cecilia Malmström. Era l’anno dell’incerta Primavera araba, ma in sala era ancora forte l’eco delle stragi di Anders Breivik a Oslo e sull’isola di Utøya.

Nell’occasione fu subito chiaro il principale iato esistente tra paesi europei nell’approccio culturale alla sicurezza. I paesi nordici puntavano sul fatto di prevenire che un individuo giungesse a forme di devianza sociale che lo portasse a diventare un criminale; mentre nei paesi del sud Europa, come il nostro, l’approccio era incentrato sul fatto di prevenire che un certo crimine avvenisse. Fu il Regno Unito e le politiche del suo programma “Prevent”[4], maturato in seguito agli attentati di Londra del 7 luglio 2005, a fornire alla Commissione Europea il know-how per un approccio ‘olistico’ che integrasse la prevenzione della radicalizzazione con la prevenzione dell’atto terroristico.

PRIMO CICLIO: 2012-2015

Nel corso del primo ciclo del RAN, tra il 2012 e il 2015, coordinai, con un collega francese[5], il gruppo di lavoro sulla “voce delle vittime del terrorismo”, partecipando anche agli incontri del Comitato di Pilotaggio, a quelli di altri gruppi di lavoro, alle plenarie annuali e alle due Conferenze di alto livello che allora la DG HOME organizzava per promuovere i risultati del RAN ai decisori politici degli Stati membri della Ue.

Nel corso del primo Comitato di Pilotaggio del RAN, fummo informati che la Commissione Europea avrebbe inserito il tema della prevenzione della radicalizzazione in pressoché tutti i sui programmi e bandi a progetto: da quelli educativi e culturali, a quelli di ricerca e sviluppo, da quelli su sicurezza e giustizia, a quelli per la cittadinanza e la promozione sociale.

Una prima valutazione giunge da questa scelta che fu veramente strategica perché, almeno in Italia, da quel periodo in poi, le opportunità di finanziamento dei bandi europei portò il tema della prevenzione della radicalizzazione all’attenzione di università, di autorità nazionali e locali, e delle organizzazioni della società civile, con una modalità forse più efficace del RAN[6].

L’aspetto certamente più innovativo del RAN fu il suo modus operandi. L’intento della Commissione era quello di far delineare le politiche e le pratiche in materia di P/CVE agli operatori che lavorano sui terreni della prevenzione, tramite i “RAN paper” e la collezione di pratiche del RAN, per poi promuoverli ai vertici politici degli Stati membri in occasione delle conferenze “High Level”. Un circolo virtuoso dal basso verso l’alto per ottimizzare l’efficacia di politiche e pratiche di cui beneficiarono molto paesi europei che in quegli anni si andarono dotando di strategie nazionali in materia di P/CVE.

Il numero di partecipanti italiani al RAN era allora di poche decine, a fronte dei 2000 raggiuti nel primo ciclo in tutta la Ue. Del resto, in quel periodo, lo stesso termine radicalizzazione, nell’accezione qui utilizzata[7], era riservato agli addetti del comparto sicurezza, ma completamente alieno ai mezzi di comunicazione italiani, così come ai nostri decisori politici.  Ciò nonostante, in occasione del seminario finale del primo progetto italiano di prevenzione nelle scuole, “Counter-narrative to Counter-terrorism (C4C)”, che organizzai a Torino del Novembre 2014[8], con gli italiani del RAN provammo a gettare le basi di un “RAN Italia”, stilando un documento e aprendo interlocuzioni con il Ministero della Giustizia, il cui Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva avviato da qualche anno l’attività di formazione del personale penitenziario in tema di radicalizzazione[9]. Il RAN allora offriva, infatti, assistenza e supporto agli Stati Membri della Ue per la creazione di reti nazionali sul tema, dietro semplice richiesta via email di un ministero. Quell’email non fu mai inviata.

SECONDO CICLIO: 2016-2019

Il secondo ciclo del RAN, tra il 2016 e il 2020, sembrò aprire una svolta per l’Italia. Il conflitto siro-irakeno stava raggiungendo il culmine di ripercussioni anche sul terreno europeo, a partire dall’attentato alla redazione di Charlie Hebdo e poi, al suo declino, avrebbe lasciato il gravoso problema dei foreign-fighters e le loro famiglie di ritorno in Europa.

L’eco dell’attentato parigino del 7 gennaio 2015 aprì anche in Italia il tema della prevenzione della radicalizzazione e per la prima volta mi capitò di rilasciare un’intervista sul RAN e i finanziamenti europei relativi. Non penso sia causale il fatto che sia stato il quotidiano cattolico Avvenire a prendere l’iniziativa[10]. Allora non coordinavo più un gruppo di lavoro, ma ero entrato nel Pool di esperti del RAN e il titolo, annunciato dall’occhiello “Gli esperti denunciano”, era: “La Rete Ue anti-radicalismo. Ma l’Italia è in ritardo”[11]. Nell’intervista sottolineai come nel nostro paese il terrorismo restasse una questione solo securitaria di polizia ed intelligence, senza aprirsi all’uso del “soft power” delle politiche europee di P/CVE. Seguirono altre interviste e interventi sui media nazionali, ma questa prima mi condusse a Stefano Dambruoso, a sua volta intervisto nello stesso articolo.

L’allora ex magistrato di prestigio internazionale per la sua inchiesta su al Qaeda in Europa già prima dell’11 Settembre, e parlamentare al lavoro sul nuovo decreto antiterrorismo – poi convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43 – era convito sostenitore che, insieme all’inasprimento penale, servisse far seguire anche il lavoro educativo di prevenzione della radicalizzazione. Convincimento che ebbe esito in una proposta di legge intitolata “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista”[12], di cui fu primo firmatario insieme all’on. Andrea Manciulli.

Nell’estate del 2016 iniziarono parallelamente, da una parte, la discussione e poi le audizioni della proposta di legge Dambruoso-Manciulli alla commissione Affari Costituzionali della Camera; e dell’altra, ad agosto, fu istituita, promossa dall’allora Sottosegretario agli Interni, Marco Minniti, una commissione di studio indipendente sul fenomeno della radicalizzazione jihadista presieduta da Lorenzo Vidino, cioè il primo ricercatore ad aver lavorato sulla dimensione italiana del fenomeno jihadista[13].

Ho avuto occasione di collaborare con entrambe le commissioni e quindi osservare gli eventi da vicino. L’inizio del 2017 si aprì – il 5 gennaio – con la conferenza stampa da Palazzo Chigi del nuovo presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, del ministro agli Interni Minniti e da Lorenzo Vidino che presentarono il risultato dei lavori della Commissione. Il paradosso di quell’operazione è che non ci furono documenti pubblici. La relazione finale della Commissione, che contiene, nella sua seconda parte operativa e per la prima volta in italiano, la descrizione dettagliata delle politiche e degli approcci promosse dal RAN, comprese le poche attività svolte a livello locale dai suoi membri italiani, viene secretata e, i giorni seguenti, venne distribuito per i giornalisti solo un breve sunto assai generico. Si giunse così al paradosso che, mentre la Camera dei Deputati nei mesi a venire avrebbe discusso e approvato una proposta di legge in materia, il documento governativo che avrebbe potuto informare i parlamentari sull’argomento fu loro precluso, essendo stato fatto divieto ai membri della Commissione Vidino di distribuirla a chicchessia, poiché, nella sua prima parte, conteneva dati ministeriali riservati.

Come noto, la proposta di legge Dambruoso-Manciulli fu approvato solo alla Camera dei Deputati e la fine di quella legislatura avvenne poco prima della sua approvazione al Senato. Nella legislatura successiva (2018-2022), il testo riproposto a prima firma dell’on. Fiano nel 2018 – poi unificato ad analoga proposta a firma dell’on. Perego di Cremnago nel testo unificato: “Misure per la prevenzione dei fenomeni eversivi di radicalizzazione violenta, inclusi i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista (A.C. 243​-3357-A)[14] – non ebbe miglior fortuna.

L’esito delle vicende legate a queste proposte di legge è stato quello di rendere l’Italia uno dei pochissimi paesi europei senza una legislazione nazionale o una strategia in materia di prevenzione della radicalizzazione. Tuttavia, il dibattito intorno a quel tentativo si è fin da subito posto, tra gli addetti ai lavori, in termini di merito. La proposta di legge aveva dei limiti, a partire dal parziale recepimento dei risultati della Commissione Vidino, che inducevano alcuni, tra i quali il sottoscritto, a domandarsi se la sua approvazione fosse utile o meno. Uno dei limiti principali era il fatto che il testo fosse focalizzato solo sulla radicalizzazione di matrice jihadista[15]. Il secondo che avesse comunque un impianto securitario che ancorava le attività al Ministero degli Interni e alle Prefetture in sede locale; quando, in quasi tutta Europa, il perno operativo delle attività di P/CVE più efficaci erano le autorità locali, a partire dal famoso modello della città danese di Aarhus, per passare alle “safety-house” delle città olandesi, o ai centri di prevenzione dei lander tedeschi e quelli cittadini di Belgio e Regno Unito. Fu da questa considerazione, e dall’impasse nel 2014 di avviare una rete nazionale (“RAN Italia”) con i ministeri, che nel 2016 ebbero origine i tentativi di avviare delle reti di prevenzione locali nelle città di Torino, Milano ed Udine da parte dei partecipanti italiani del RAN. Delle tre città solo a Torino, dopo alcuni anni di incontri informali tra amministrazione cittadina, forze dell’ordine, amministrazione penitenziaria e organizzazioni della società civile, si giunse nel 2020 all’istituzione di un Tavolo di lavoro sulla prevenzione degli estremismi violenti e all’approvazione di linee guida operative[16] che seguivano gli approcci del RAN.

I quegli anni l’attenzione sui temi si diffuse, come già sottolineato, grazie soprattutto ai progetti europei, condotti o partecipati da partner italiani, nei vari ambiti di prevenzione della radicalizzazione: dalle scuole alle carceri; dai settori della sicurezza urbana, a quelli della resilienza delle comunità religiose; dallo sviluppo di campagne di comunicazione contro la propaganda on line, a quello delle competenze alla cittadinanza delle nuove generazioni. L’esito di questi progetti europei, oltre a un moltiplicarsi di convegni, seminari e pubblicazioni anche in lingua italiana[17], è stato un’ampia attività di formazione verso i tutti settori coinvolti nel fenomeno: le polizie locali, i docenti delle scuole, gli attivisti e i volontari del terzo settore, gli operatori penitenziari, i garanti dei diritti dei detenuti, le guide spirituali religiose.

Ci fu poi un incremento significativo di partecipanti italiani al RAN e quando nel 2016 viene lanciato “RAN Young”, il sottoscritto può segnalare decine di giovani italiani interessati a parteciparvi.

Anche l’ambito accademico italiano sviluppò un interesse per il tema sempre più ampio. Nascono alla fine dello scorso decennio due master universitari a Bergamo e Bari focalizzati sui fenomeni di terrorismo e radicalizzazione[18]. Sia i progetti europei del programma Horizon che quello del Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, come PriMED[19], avvicinano decine di professori e ricercatori di diverse discipline alle riflessioni e alle pratiche di prevenzione e contrasto della radicalizzazione.

TERZO CICLIO: 2020-2023

Il terzo ciclo del RAN, tra il 2020 e il 2023, è stato caratterizzato principalmente dallo sviluppo degli strumenti di comunicazione esterna del RAN e dalla creazione del secondo ramo dedicato al supporto ai decisori politici. Naturalmente sono entrati in agenda i nuovi temi legati alle forme di radicalizzazioni connesse alla pandemia da Covid19 e le relative derive estremiste, populiste e antisistema dalle cornici ideologiche sempre più fluide.

Il numero di partecipanti, anche italiani, è continuato a crescere, ma molti incontri si svolgevano ormai a distanza via “call-conference”, con una minore efficacia in termini di networking. Inoltre, la separazione troppo netta tra le attività dell’ambito operativo (“RAN Practitioners”) e quello politico (“RAN Policy Support”) creava uno iato di comunicazione e coordinazione piuttosto controproducente. In questo quadro è significativo il cortocircuito verificatosi con l’introduzione nel 2020 dei “RAN Ambassadors” per alcuni Stati membri. Selezionati, come il sottoscritto per l’Italia, tra i “practitioners” per diffondere i risultati del RAN, ma inabilitati a mantenere relazioni con il contesto politico-istituzionale nel proprio paese.

Infine, l’esempio torinese del Tavolo di lavoro e delle Linee guida per un approccio locale alla P/CVE, ufficializzato nel 2020, non diventerà mai operativo per mancanza di fondi.

3.VALUTAZIONI FINALI E PROSPETTIVE

UN KNOW-HOW A RISCHIO

Abbiamo visto come le politiche europee in materia di prevenzione e contrasto all’estremismo violento abbiano avuto due strumenti principali: il RAN e i programmi con i loro bandi di finanziamento a progetti.

Oltre quanto già evidenziato in termini di ricadute sul nostro paese, vanno considerate e valutati ancora alcuni aspetti cruciali relativi allo scarso impatto che i progetti europei hanno avuto in Italia. Infatti, il profluvio di fondi sul tema nei vari programmi europei ha certamente permesso una buona disseminazione delle tematiche di P/CVE tra i vari stakeholders italiani. Tuttavia, lo scarso impatto dei risultati espressi dalla maggior parte di tali progetti si presta a diverse valutazioni a più livelli. In generale, il limite maggiore alla possibilità di produrre un impatto duraturo, risiede sicuramente nel vulnus creato dall’assenza di legislazione o strategie nazionali. Infatti, come evidenziato fin del 2019[20], il carattere pilota delle esperienze e dei risultati pratici o teorici dei progetti europei in Italia restava tale perché non si potevano evolvere, come un’economia di scala, in politiche e programmi di sistema. Quanto, allora, resta come dato inconfutabile è il fatto che la formazione di centinaia di operatori e ricercatori italiani nei vari ambiti della P/CVE, durante lo scorso decennio, sia un know-how che rischia di restare in gran parte svilito, privo di prospettive e valorizzazione.

IL MONDO CATTOLICO

Il ruolo del mondo cattolico italiano e il suo interesse per la P/CVE, a cui ho accennato in merio alla mia prima intervista sul RAN ad Avvenire, merita una valutazione particolare perché esso ha sempre svolto un ruolo nelle vicende di terrorismo fin dagli anni di piombo, seppur sottotraccia e poco studiato[21]. Come avevo potuto osservare durante la mia quindicennale collaborazione con l’associazionismo delle vittime del terrorismo, la chiesa e il mondo cattolico si erano sostanzialmente disinteressata a loro, con l’eccezione del Cardinal Martini, per oltre trent’anni, per concentrarsi sulla salvezza dei terroristi, cioè sul loro percorso riabilitativo passato per la riforma Gozzini e la cosiddetta ‘legislatura premiale’. Un percorso che di fatto anticipava il concetto di deradicalizzazione, come osserva Dambruoso: “…è bene precisare che il primo timido tentativo di formalizzare il concetto giuridico di deradicalizzazione risale alla legge 18 febbraio 1987, n. 34, incentrata sulla disciplina delle condotte di dissociazione dal terrorismo, definite all’articolo 1 come «il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente e univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo di lotta politica»”[22].

Come è risultato poi chiaro dalla prime ricerche scientifiche in merito, l’interesse all’uscita degli anni di piombo fu centrale per il mondo cattolico «per promuovere il disimpegno dal terrorismo e nell’influenzare le politiche pubbliche in questo settore»[23], così come completo il disinteresse per le vittime[24].

Nel 2016 la situazione era decisamente cambiata. Il primo decennio del XXI secolo aveva sancito la centralità alle vittime del terrorismo nel discorso pubblico. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, aveva favorito un compromesso tra le vittime del terrorismo rosso e nero, intorno alla figura di Aldo Moro e la data del 9 Maggio, per celebrare il Giorno della Memoria[25]. Inoltre, nel 2015 era uscito, con vasta eco, il Libro dell’incontro[26]: il resoconto dell’esperienza del gruppo composto da vittime, ex terroristi e mediatori, patrocinata dalla chiesa e dall’università cattolica milanese, che diventerà il testo d’innesto all’introduzione della giustizia riparativa in Italia, fino alla recente riforma Cartabia in materia di mediazione penale[27].

Questo sintetico excursus ritengo spieghi come il fatto che le vittime del terrorismo siano state le prime a introdurre in Italia delle attività esplicitamente indirizzate alla prevenzione della radicalizzazione violenta[28], abbiano attirato l’interesse del mondo cattolico. Dai terroristi dissociatisi dalla lotta armata che si riabilitavano e ‘deradicalizzavano’ attraverso l’impegno sociale nelle organizzazioni del volontariato cattolico, e non solo, dalla metà degli ’80 del XX secolo, si stava integrando un paradigma nei quali erano presenti anche le vittime che si impegnavano sul terreno educativo per prevenire il formarsi di nuovi terroristi e che dialogavano con gli ‘ex’ per provare a riparare e restaurare relazioni riumanizzate e pacificate[29].

Inoltre, tra i molti progetti che ho potuto osservare o analizzare da vicino, non posso qui non citare quella ‘best practice’ nella prevenzione secondaria – indirizzato ai detenuti mussulmani nella Casa circondariale “Dozza” di Bologna – intitolata “Diritti, Doveri, Solidarietà”. Ideata da Ignazio De Francesco – monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata e fine islamologo, con l’appoggio dell’Assemblea legislativa della regione Emilia-Romagna e del Garante dei detenuti[30] – è probabilmente quando di meglio il mondo cattolico abbia espresso in termini progettuali nelle pratiche di P/CVE nello scorso decennio[31].

POLITICHE FRAMMENTATE

Occorre ora precisare cosa abbia inteso nello scrivere mancanza di una strategia nazionale di P/CVE. Al netto del fallito percorso della proposta di legge Dambruoso-Manciulli, nel 2017, presentando alla stampa la relazione della sua commissione, Lorenzo Vidino dichiarava che: «la comunità dell’antiterrorismo ha capito che un approccio basato solo sulla repressione non è più sufficiente», occorre affiancargli «strumenti di prevenzione, misure soft che vanno a prevenire processi di radicalizzazione in fase embrionale»[32]. Parole che non rimasero senza conseguenze.

Se non una vera e propria strategia, almeno dal 2016 furono attivate alcune iniziative istituzionali lungo tre linee d’intervento: quella delle contro-narrative, quella educativa nelle scuole e quella di deradicalizzazione di singoli soggetti. Al netto dell’attività del Ministero della Giustizia, e il suo Dipartimento d’Amministrazione Penitenziaria (DAP), che continuava a implementare le attività di formazione del personale penitenziario, da una parte, e ad affinare gli strumenti di valutazione del rischio radicalizzazione nella popolazione incarcerata, dall’altra, come nei progetti europei “Rasmorad” e “Train Training”, si sono potute osservare le seguenti iniziative:

1)  quelle della RAI, come del resto prevedeva la proposta di legge, che ha prodotto una serie di servizi di approfondimento relati al mondo islamico e carcerario, con una funzione di contro-narrativa verso il vittimismo della propaganda jihadista[33];

2) quelle dell’Ufficio Regionale Scolastico della Lombardia che, con il programma di formazione verso gli insegnati e gli studenti dei poli scolastici di quella regione oggi intitolato “Educazione alle differenze nell’ottica della prevenzione e contrasto ad ogni forma di estremismo violento”, dal 2016 a oggi ha sistematicamente implementato con continuità nelle scuole tale attività di prevenzione primaria[34];

3) quelle di deradicalizzazione, cioè di prevenzione terziaria, che sono state presentate nel numero speciale sul tema del 2018, della rivista dell’intelligence italiana Gnosis, con i primi due casi italiani a Bari e a Trieste, che prefigurano una forma di collaborazione tra l’organo istituzionale preposto all’“Analisi Strategica Antiterrorismo”, il C.A.S.A., e due realtà della società civile: la cooperativa sociale Exit e l’università di Bari.

Sicuramente, sul delicato terreno della deradicalizzazione, ci sono state altre iniziative con esiti incerti o inconclusi, in particolare quelle verso soggetti detenuti nei circuiti di alta sicurezza. Inoltre, nel quado della prevenzione primaria, l’amministrazione penitenziaria si è distinta con l’iniziativa pilota d’introduzione degli imam nelle carceri italiane per garantire il culto ai detenuti mussulmani e così prevenendo un pretesto di vittimizzazione che poteva portare questi a radicalizzarsi. L’accordo tra il DAP e UCOII del 2015[35], e la collaborazione con altre comunità islamiche italiane, è un buon esempio di prevenzione primaria e del carattere frammentato delle iniziative istituzionali messe in campo negli ultimi anni. Il limite, in questo caso, non è costituito tanto dall’assenza di strategie di P/CVE, quanto dall’assenza di una intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche che definisca un ampio quadro di diritti e doveri reciproci, come avviene per le altre comunità religiose; e di rispetto dei diritti minimi previsti dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nelle carceri italiane[36].

L’APPROCCIO MULTIAGENZIA E LA SOCIETÀ CIVILE

Si può aggiungere che nel corso di questa fioritura di pratiche di P/CVE in Italia, tra quelle europee, quelle nazionali e quelle locali, tra quelle promosse da enti istituzionale e quelle promosse dalla società civile, ci siano state forme di competizione o di mancata collaborazione che hanno non solo contribuito a creare un quadro frammentato, ma soprattutto hanno limitato quello che nelle politiche europee del RAN viene chiamato approccio multi-agenzia. Cioè una collaborazione fattiva tra gli stakeholder che, in queste pratiche, afferiscono ad ambiti diversi, così come diversi sono gli approcci utilizzati e, pure, le loro competenze e responsabilità. Mentre la comunità dell’antiterrorismo ha una lunga e sedimentata collaborazione tra i suoi elementi (governo, forze dell’ordine, intelligence, magistratura e amministrazioni penitenziarie); l’attività di prevenzione della radicalizzazione determina un setting multi-agenzia allargato ai sistemi educativi formali e informali, il welfare pubblico e privato, le comunità e le autorità locali. L’intento della proposta di legge italiana, infatti, per usare le parole di Dambruoso, era quello: «di trovare una risposta al terrorismo che coniughi misure repressive e un approccio preventivo di collaborazione con attori della società civile e con le comunità di riferimento»[37].

Il ruolo delle società civile nelle pratiche di P/CVE è stato uno dei fulcri delle politiche del RAN e, non a caso, la grande maggioranza dei circa 150 partecipanti italiani ai lavori del RAN è sempre giunta dal terzo settore[38], erede di quelle organizzazioni caritatevoli del volontariato cattolico che, fin dal XIX secolo, in Italia si prendevano cura della marginalità sociale provocata della nascente industrializzazione. Un ruolo, quello delle organizzazioni della società civile, focalizzato su una cura della devianza sociale basata sulla (ri)costruzione di relazioni sociali fiduciarie[39].

Così, soprattutto intorno alla prevenzione terziaria di un fenomeno come il processo di radicalizzazione violenta che ha come esito reati di terrorismo, il setting allargato multi-agenzia può ben riflettere visioni e funzioni non facilmente conciliabili: come quelle tra le esigenze delle autorità statali competenti a prevenire gli attacchi terroristici attraverso il sistema penale e repressivo, da una parte; e quelle della società civile e delle istituzioni socio-educative competenti alla riabilitazione dell’ex terrorista – la funzione costituzionalmente definita ‘rieducativa’ della pena, e quanto nell’ambito della P/CVE è stato definito di volta in volta ‘deradicalizzazione’, ‘disimpegno’ o ‘uscita’ – dall’altra.

Si può quindi dire che l’approccio multi-agenzia delle politiche e pratiche promosse dal RAN sottende implicitamente un lungo elenco di sfide, che ripercorre le dicotomie presenti nella storia della criminologia, della giurisprudenza e, in ultima analisi, di tutte le scienze umane in merito alla riformabilità o meno dalla natura umana, la possibilità o meno che questa possa essere preventivamente educata o ex-post redenta. Alle quali si aggiungono le sfide relative al delicato equilibrio tra i doveri di repressione e controllo della sicurezza dello Stato, da una parte, e le libertà e i diritti civili degli individui, dei gruppi o dei movimenti sociali, dall’altra.

Il passaggio quest’anno dal RAN al “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”, sicuramente manterrà l’approccio multi-agenzia e mi pare capire, dalla documentazione disponibile, che tra i suoi intenti più rilevanti ci sia quello di saldare gli ambiti degli operatori professioni con quello dei decisori politici e della ricerca scientifica, le cui pregresse separazioni ha probabilmente nuociuto all’efficacia del RAN. In ogni caso, quest’anno si aprirà una fase nuova in Europa verso la quale gli stakeholder italiani sono chiamati a riflettere e confrontarsi.

Per concludere. La lezione del RAN è in qualche modo erede della ‘exit strategy’ italiana dagli anni di piombo. Se allora la fase repressiva di inasprimento penale fu seguita da quella premiale di riabilitazione[40], la sfida sottesa alla proposta del RAN è quella di costruire un percorso non diviso in fasi successive, ma parallele e concomitanti, attraverso le quali provare a costruire un equilibrio tra necessità dicotomiche. Un’antinomia o un gioco cooperativo[41] che è certamente una sfida da accettare se si vuol valorizzare il patrimonio di esperienze e di know-how italiano cresciuto nel nostro paese in questi anni, per giungere a una strategia, magari flessibile, ma non più frammentata. Non dimentichiamo mai che tali politiche e pratiche hanno al centro la coesione delle comunità e la convivenza pacifica del nostro tessuto sociale. Inoltre, scommettere sulla prevenzione è anche economicamente più sostenibile che non gestire future emergenze con lunghe e tragiche conseguenze.


[1] Per approfondire quanto segue, si veda il sito web del RAN, https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran_en

[2] Tale network era nato a seguito di quello che resta il maggior attentato terrorista sul suolo europeo a Madrid l’11 marzo 2004 e dell’attenzione che seguì da parte delle istituzioni europee verso le vittime del terrorismo, in particolare quella dell’allora Commissario europeo alla Giustizia, Libertà e Sicurezza, Franco Frattini.

[3] Si veda il capitolo “4.5. Terrorismo” del programma: https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:115:0001:0038:it:PDF

[4] Parte integrata della sua strategia per contrastare il terrorismo (CONTEST). Si vedano le varie versioni di CONTEST a partire dal 2011: https://www.gov.uk/government/publications/counter-terrorism-strategy-contest

[5] Guillaume Denoix de Saint Marc, in rappresentanza delle due associazioni l’italiana AIVITER e la francese AfVT.

[6] Lo scarso impatto del RAN in Italia di quel periodo è addebitabile all’allora debole comunicazione esterna del RAN, ma anche della scarsa attenzione dei vertici ministeriali italiani inviatati alle “High Level Conference”.

[7] Termine che in verità è sempre rimasto oggetto di dispute sul significato. Qui è inteso come processo cognitivo/comportamentale e sottende (anche se omesso) l’aggettivazione “violenta”.

[8] Si vedano articoli, relazioni e materiali del progetto C4C promosso da AIVITER qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/search/label/C4C e qui https://www.vittimeterrorismo.it/?s=C4C

[9] Nella dimensione formativa del suo personale penitenziario e nel monitoraggio del proselitismo tra la popolazione carceraria. Si veda: Cascini F. (2012). Il Fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai detenuti stranieri di culto islamico, in “La radicalizzazione del terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere”, Quaderni ISSP n. 9 (giugno 2012)

[10] Sul tema torno nella parte nelle conclusioni del cap.3 sul mondo cattolico.

[11] Si veda il testo dell’articolo di Avvenire del 15 gennaio 2015 a firma Vincenzo R. Spagnolo qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/2015/01/europa-ed-italia-di-fronte-al.html

[12] Proposta di Legge 3558 presentata il 26 gennaio 2016.

[13] Vidino L. (2014). Il jihadismo autoctono in Italia. Nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione. ISPI

[14] Si veda il Dossier n° 301/2 – Elementi per l’esame in Assemblea 14 marzo 2022: https://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/AC0367b.pdf

[15] Lo stesso programma ‘Prevent’ fu ampiamente criticato e dibattuto nel Regno Unito in quegli anni per la scelta di limitarsi ad affrontare la sola radicalizzazione jihadista, e fu quindi revisionato per includere altre forme di estremismo violento. Si veda ad es. l’articolo di Luciano Pollichieni su Limes del 2017: https://www.limesonline.com/limesplus/la-miopia-dell-antiterrorismo-di-sua-maesta-14681306/

[16] Si vedano le “Linee Guida del Tavolo di lavoro multi-agenzia della Città di Torino per la prevenzione degli estremismi violenti” elaborata dal Comitato scientifico istituito dalla città di Torino nel 2018 e approvate dal consiglio comunale nel 2020: http://www.comune.torino.it/cittagora/wp-content/uploads/2020/07/Linee-guida-istituzione-tavolo.pdf

[17] Si veda la raccolta di testi dal sottoscritto per gli operatori italiani del RAN: https://drive.google.com/drive/folders/0Bz7ceziVCVmBV0ZkQUJuNU5YMXc?resourcekey=0-A5HTj1-XheJgKyXqOn0pCQ&usp=drive_link

[18] Rispettivamente diretti dal Prof. Michele Brunelli e dalla Prof.ssa Sabrina Martucci.

[19] Si veda https://primed-miur.it/

[20] Berardinelli D., Guglielminetti L. (2018). Preventing Violent Radicalisation: The Italian Case Paradox. In “7th International Conference on Multidisciplinary Perspectives in the Quasi-Coercive Treatment of Offenders (SPECTO)”, pp 28-33, Filodiritto Publisher

[22] Dambruoso S. (2018). Prevenzione e repressione. La via italiana nel contrasto alla radicalizzazione jihadista. In «Gnosis», speciale Deradicalizzazione, edito dall’AISI.

[23] Cento Bull A., Cooke P. (2013). Ibid.

[24] Si vedano in particolare: Galfré M. (2014). La guerra è finita: L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987. Bari: Laterza; e Guglielminetti L. (2017). La percezione sociale delle vittime del terrorismo. In “Rassegna Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 269-276

[25] In questo caso un percorso parallelo con quanto occorreva nelle politiche europee dopo l’attentato di Madrid del 2004, che porterà l’11 Marzo ad assurgere a giornata europea del ricordo delle vittime del terrorismo.

[26] Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (2015), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Milano: Il Saggiatore.

[27] Tra le novità introdotte con il d. lgs. 10 ottobre 2022, n.150, di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134 (c.d. “riforma Cartabia”) si segnala in particolare l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa, contenuta negli artt. 42-67.

[28] Per un quadro esaustivo di quelle attività si veda: Guglielminetti L. (2018). P/CVE, lavorare coi giovani e le vittime del terrorismo: esperienze, criticità e prospettive in Italia. In “The Prevention of Radicalisation of Young People”, European Project “YEIP”

[29] Per un’analisi storica e dettaglia si veda Bull A. (2018). Reconciliation through Agonistic Engagement? Victims and Former Perpetrators in Dialogue in Italy Several Decades after Terrorism. In “Victimhood and Acknowledgement”, De Gruyter

[30] Si veda la descrizione e i due volumi sul progetto qui: https://www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/iniziative/progetti/diritti-doveri-solidarieta/diritti-doveri-solidarieta

[31] Per la sua valorizzazione in ambito formativo si veda: Guglielminetti, L. (a cura di) (2019). Stato di diritto e prevenzione dell’estremismo violento: tra politiche e pratiche nei ristretti orizzonti italiani. Progetto “FAIR”, Ravenna: Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo

[32] Spagnolo R. V. (2017). Terrorismo. «Rischio di radicalizzazione sul web e nelle carceri», Avvenire del 5 Gennaio 2017

[33] Significativa in questo senso la collaborazione dell’allora Direttrice della Direzione Editoriale per l’Offerta Informativa della RAI, Monica Maggioni, con l’ISPI che cura nel 2015 il volume Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis.

[34] Si veda la convenzione tra Regione Lombardia e Ufficio Scolastico Regionale https://usr.istruzionelombardia.gov.it/wp-content/uploads/2023/11/m_pi.AOODRLO.REGISTRO-UFFICIALEU.0005448.10-03-2022-5.pdf

[35] “Protocollo d’intesa per favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari”, sottoscritto il 5 novembre 2015, tra il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia (UCOII)

[36] Ravagnani L., Romano C. A.  (2017). Il radicalismo estremo in carcere: una ricerca empirica. In “Rassegna

Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 277-296. Si veda anche Guglielminetti, L. (2019). Ibid.

[37] Dambruoso S. (2018). Ibid.

[38] Dati ricavati del database dei partecipanti al RAN: https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran/participant-database_en

[39] Si veda il mio contributo nel precedente numero di #REACT 2023 n.4 – Anno 4. Il ruolo delle organizzazioni della società civile nella prevenzione e nel contrasto all’estremismo violento. p. 37-38.

[40] Cento Bull A., Cooke P. (2013). Ibid.

[41] Definizione dal teorico della teoria dei giochi, il matematico statunitense John Nash, citato da De Mutiis C. (2018). Caso di studio. Verso una strategia italiana di prevenzione della radicalizzazione: una sfida globale che si vince a livello locale. Edito dalla Scuola dell’amministrazione dell’Interno.


Presentazione del Rapporto #ReaCT2023 a Lugano il 6 ottobre

Ad oltre venti anni dagli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno aperto un lungo capitolo di lotta al terrorismo sotto varie forme, la minaccia non solo non è svanita, ma è oggi più diffusa, frammentata e complessa da affrontare.

In Occidente, lo scenario dell’estremismo violento è oggi caratterizzato da una varietà di ideologie, orientamenti, profili e motivazioni, spesso sovrapposte o indefinite, che rendono più difficile indicarne la portata, prevedere il rischio e tracciare l’evoluzione del fenomeno.

Le iniziative di contrasto e prevenzione implicano una collaborazione multidisciplinare fra attori diversi e un dialogo costante tra ricercatori, operatori sul campo, forze dell’ordine, legislatori e società civile. Di fronte alla capacità di adattamento del terrorismo e al ‘new normal’ della radicalizzazione che definisce l’epoca attuale, è importante aggiornare le conoscenze, gli approcci e gli strumenti a nostra disposizione.

Invito alla presentazione del
4° Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa
#ReaCT2023

Venerdì 6 ottobre 2023, ore 17.30    
Lugano, Università della Svizzera italiana
Auditorium, Palazzo Centrale

per annunciarsi scrivere a: info@startinsight.eu
SCARICA #REACT2023 QUI

PROGRAMMA
Introduce i lavori Jean-Patrick Villeneuve, Direttore dell’Istituto di Comunicazione e Politiche pubbliche, Università della Svizzera Italiana
Saluti istituzionali dell’On. Norman Gobbi, Dipartimento delle Istituzioni,
Cantone Ticino (videomessaggio)

Ore 17.45 INTERVENTI
“Terrorismi ed estremismi in continua evoluzione: il Rapporto #ReaCT2023”

Claudio Bertolotti, Direttore dell’Osservatorio ReaCT, ricercatore
Chiara Sulmoni, Presidente di START InSight, giornalista, analista
Marco Lombardi, Prof. e direttore del centro di ricerca ITSTIME, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Ore 18.15 TAVOLA ROTONDA
“Il contrasto e la prevenzione del terrorismo e dell’estremismo violento. Prospettive svizzere e italiane”  

On. Rocco Cattaneo, Consigliere nazionale, Commissione della politica di sicurezza
Martin von Muralt, Delegato della Rete integrata svizzera per la sicurezza
(intervento in francese)     
Diego Parente, Direttore centrale della Polizia di Prevenzione, Polizia di Stato
(in collegamento da Roma)
Michela Trisconi, Capo-progetto, Piattaforma cantonale di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento

evento in collaborazione con

USI – Università della Svizzera italiana
e
Piattaforma di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento, Cantone Ticino


La guerra in Ucraina arriva fino in Africa. Il commento di M. Cochi a RaiNews24

Mosca ha costruito nel tempo una rete di relazioni economiche e politiche con molti paesi del continente africano che non prendono posizione contro l’aggressione russa

Il servizio originale di RaiNews24 del 20 agosto 2022

https://youtu.be/NMKFP4BsmkQ

Se l’Occidente si è apertamente schierato contro l’invasione russa, nel continente africano Mosca continua a raccogliere consensi, rafforza i legami economici e politici e costruisce una strategia di pressione anche verso l’Europa. Ne abbiamo ripercorso le tappe e le ragioni con Marco Cochi, giornalista esperto di Africa. Insieme ad Andrea Segré, docente di Politiche Agrarie Internazionali all’Università di Bologna abbiamo spiegato come il cibo – i cereali, in questo caso – possa essere utilizzato come un’arma geopolitica e cercato di capire se le istituzioni sovranazionali hanno il potere di invertire la rotta. Leila Belhadj Mohamed, che si occupa di geopolitica per Life Gate, ha analizzato il ruolo della Turchia e l’importanza, per questi temi, di Paesi come il Mali e il Sudan. Conduce Veronica Fernandes


La nuova guerra dell’acqua in Burkina Faso. Nel Sahel al-Qaeda ora avvelena i pozzi


▶ Ascolta l’intervista di Marco Cochi: “La nuova guerra dell’acqua in Burkina Faso. Nel Sahel al-Qaeda ora avvelena i pozzi”. (“Africa oggi”, in collaborazione con Nigrizia).

di Marco Cochi

Dall’inizio dell’anno, i gruppi jihadisti attivi in Burkina Faso hanno distrutto o sabotato 32 impianti idrici nel nord. Tredici organizzazioni nazionali e internazionali, che forniscono assistenza umanitaria nel paese, hanno rilevato che gli attentati ai pozzi d’acqua e alle autocisterne hanno un grave impatto su 290mila persone. I ripetuti attacchi ai servizi idrici non costituiscono una conseguenza del conflitto, ma sono ormai un’arma di guerra che segna una nuova e spregevole svolta nelle violenze. La maggior parte delle distruzioni è avvenuta a Djibo, la città che ospita il maggior numero di sfollati in tutto il Paese, dove adesso la popolazione civile ha singolarmente accesso a meno di tre litri di acqua al giorno per coprire tutti i propri bisogni, dal bere all’igiene e alla cucina. Una disponibilità irrisoria rispetto agli almeno 50 litri a persona consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per garantire condizioni di vita accettabili.



Ascolta l’intervista di Marco Cochi: “La nuova guerra dell’acqua in Burkina Faso. Nel Sahel al-Qaeda ora avvelena i pozzi”. (“Africa oggi”, in collaborazione con Nigrizia).

Two decades of terrorism trials in Switzerland #ReaCT2022

“Two decades of terrorism trials in Switzerland” – a discussion with Ahmed Ajil, criminologist and researcher at the University of Lausanne. This is episode 6 of a series that our Swiss-Italian think tank dedicates to the Annual Report on Terrorism and Radicalisation in Europe #ReaCT2022. In 20 minutes, #ReaCT2022 authors introduce their analyses and elaborate on the most relevant aspects


Estremismo di destra e deradicalizzazione – #ReaCT2022

Il Rapporto annuale dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo #ReaCT2022 è disponibile online in due lingue (italiano e inglese). Ogni settimana presentiamo i diversi contributi in un incontro LIVE con gli autori, della durata di 20 minuti. In questa puntata, gli ospiti sono Mattia Caniglia, docente affiliato all’Università di Glasgow e Luca Guglielminetti, membro del pool di esperti della rete RAN, Radicalisation Awareness Network. Si è parlato della crescita dell’estremismo di destra e di de-radicalizzazione nel contesto neo-nazista, sulla base di un caso italiano.


Radicalizzazione e terrorismo in Europa – tutti gli incontri con gli autori del Rapporto annuale #ReaCT2022

Il Rapporto è curato dall’Osservatorio ReaCT sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo e traccia l’evoluzione di questi fenomeni in Europa. A scadenza annuale, è in grado di segnalare tempestivamente le nuove tendenze e di approfondire tematiche e contesti correlati.

La terza edizione è disponibile online dal 24 febbraio 2022 in due lingue, italiano e inglese; include 15 contributi fra cui 2 casi studio sulla de-radicalizzazione.

Scarica qui il Rapporto #ReaCT2022

Ogni settimana dal 17 marzo fino al 28 aprile START InSight incontra gli autori dei diversi articoli per discutere i vari argomenti trattati nel Rapporto nel corso di dirette streaming di 20 minuti. Su questa pagina, in costante aggiornamento, potete trovare tutte le puntate della serie.

17 marzo 2022 – Il primo incontro con gli autori di #ReaCT2022. In questa puntata si è parlato del libro “Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation.
Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy
” (a cura di M. Brunelli) con Andrea Carteny, direttore del CEMAS (Centro di Ricerca e Cooperazione con l’Eurasia, il Mediterraneo e l’Africa sub-sahariana, Università La Sapienza, Roma) e Elena Tosti Di Stefano, ricercatrice all’Università la Sapienza e al CEMAS; mentre Chiara Sulmoni, analista, giornalista e presidente di START InSight, ha spiegato quali sono i nuovi orizzonti della radicalizzazione.

24 marzo 2022 – In questa puntata si è discusso dell’evoluzione del terrorismo jihadista in Europa con Claudio Bertolotti, analista strategico e direttore dell’Osservatorio ReaCT; e della gestione dei minori radicalizzati in Italia (caso studio) con Alessandra Lanzetti, Vice-Questore aggiunto della Polizia di Stato.

31 marzo 2022 – In questa puntata si è affrontato il tema del terrorismo jihadista in Africa Sub-Sahariana con Luciano Pollichieni, ricercatore e Fellow del think tank statunitense Critica (Washington).

7 aprile 2022 – In questa puntata si discute di complottismo e militanza NoVax con Andrea Molle, docente di Relazioni Internazionali alla Chapman University (California) e membro del team di START InSight; e di aggiornamento degli strumenti di analisi del rischio con riferimento ai processi di radicalizzazione insieme a Barbara Lucini, ricercatrice all’Università Cattolica di Milano e per ITSTIME.

14 aprile 2022 – In questa puntata, si è parlato della crescita dell’estremismo di destra con Mattia Caniglia, docente affiliato all’Università di Glasgow; mentre Luca Guglielminetti, membro del pool di esperti della rete europea RAN (Radicalisation Awareness Network) ha raccontato un caso italiano di de-radicalizzazione nel contesto neo-nazista.

21 aprile 2022 – In questo episodio con Ahmed Ajil, criminologo e ricercatore all’Università di Losanna, la discussione si è focalizzata sul contesto svizzero e su due decenni di processi per terrorismo – una panoramica dei casi di cui si è occupato il Tribunale Penale Federale dall’11 settembre 2001.

28 aprile 2022 – In questa puntata si discute di guerre future e terrorismo con Marco Lombardi, Prof. di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore del Centro di ricerca ITSTIME, e con Claudio Bertolotti, analista strategico e direttore dell’Osservatorio ReaCT sul radicalismo e contrasto al terrorismo.


Cospirazionismi, militanza NoVax e strumenti di valutazione del rischio #ReaCT2022


Il Rapporto annuale dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCT) è disponibile online in due lingue (italiano e inglese). Ogni settimana presentiamo i diversi contributi in un incontro LIVE con gli autori, della durata di 20 minuti. In questa puntata, gli ospiti sono Andrea Molle, docente di Relazioni Internazionali alla Chapman University (California) e membro del team di START InSight e Barbara Lucini, ricercatrice all’Università Cattolica di Milano e per ITSTIME.