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Il jiadismo femminile in Africa. Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab. Il nuovo libro di Marco Cochi

Il nuovo libro di Marco Cochi: Il jiadismo femminile in Africa. Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab, ed. START InSight.

Mentre in cinque regioni dell’Africa il jihadismo continua a espandersi, anche le donne sono coinvolte nell’insorgenza di alcuni gruppi militanti islamici. Tra i più attivi e pericolosi nel continente africano, i due che arruolano tra le loro fila il maggior numero di donne sono Boko Haram e al-Shabaab. In queste due famigerate formazioni jihadiste, l’utilizzo delle donne appare strategico, sebbene la partecipazione alle azioni violente non sia il loro ruolo primario.

Tuttavia, anche se non direttamente impegnate sul campo di battaglia, le donne svolgono ruoli determinanti per il supporto del gruppo, come quello di spia e addetta al reclutamento, oppure mansioni più pratiche come quella di cuoca o lavandaia, che per la sopravvivenza di un’organizzazione sono comunque importanti. Molte di esse hanno abbracciato l’ideologia salafita per ragioni indirette come la manipolazione, la sottomissione oppure la disinformazione, ma ci sono anche donne che hanno compiuto la scelta di aderire all’estremismo islamico attivamente, spinte dall’indottrinamento religioso e dal desiderio di un impegno armato.

Titolo: Il jiadismo femminile in Africa. Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab
Autore: Marco Cochi
Pubblicazione: Saggio/Analisi
Collana: InSight
Formato: 14×21, brossura, 62 pagine
Editore: START InSight
Anno di edizione: 2021

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La guerra in Ucraina arriva fino in Africa. Il commento di M. Cochi a RaiNews24

Mosca ha costruito nel tempo una rete di relazioni economiche e politiche con molti paesi del continente africano che non prendono posizione contro l’aggressione russa

Il servizio originale di RaiNews24 del 20 agosto 2022

https://youtu.be/NMKFP4BsmkQ

Se l’Occidente si è apertamente schierato contro l’invasione russa, nel continente africano Mosca continua a raccogliere consensi, rafforza i legami economici e politici e costruisce una strategia di pressione anche verso l’Europa. Ne abbiamo ripercorso le tappe e le ragioni con Marco Cochi, giornalista esperto di Africa. Insieme ad Andrea Segré, docente di Politiche Agrarie Internazionali all’Università di Bologna abbiamo spiegato come il cibo – i cereali, in questo caso – possa essere utilizzato come un’arma geopolitica e cercato di capire se le istituzioni sovranazionali hanno il potere di invertire la rotta. Leila Belhadj Mohamed, che si occupa di geopolitica per Life Gate, ha analizzato il ruolo della Turchia e l’importanza, per questi temi, di Paesi come il Mali e il Sudan. Conduce Veronica Fernandes


L’influenza russa in Africa. Ascolta il commento di M. Cochi

Negli ultimi anni la Russia ha esteso notevolmente la sua influenza in Africa, sviluppando legami economici e di carattere militare con il continente. In particolare, Mosca ha sviluppato una partnership privilegiata con il Sudan disponibile alla costruzione di una base navale del Cremlino nei pressi di Port Sudan, sul Mar Rosso. Ma dopo le sanzioni inflitte dall’Occidente alla Russia, lo scenario è destinato a cambiare. Ascolta l’analisi di Marco Cochi, Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo.


Le elezioni in Uganda, M. Cochi – RaiNews24

Museveni mantiene saldo il potere in Uganda

La vittoria di Yoweri Museveni nelle presidenziali ugandesi dello scorso 14 gennaio sancisce la sesta rielezione del settantaseienne, dopo oltre tre decenni al potere. Nel luglio 2018, il presidente ha emendato la Costituzione rimuovendo l’articolo che limitava di diventare presidente oltre i 75 anni. Una decisione che ha scatenato proteste di piazza tra i giovani ugandesi, i quali speravano nell’affermazione del suo sfidante: il trentottenne cantante reggae Bobi Wine. Così Museveni mantiene saldo il potere su un paese che non ha mai avuto un cambio di potere pacifico, da quando nel 1962 ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito.

Ne parla Marco Cochi a RaiNews24


Come i russi aggirano la severa censura governativa su Internet

di Marco Cochi

La VPN è una “rete privata virtuale” (Virtual Private Network), che grazie a un particolare sistema chiamato tunneling, permette di rendere invisibili le proprie attività in rete a occhi indiscreti e di mascherare l’indirizzo IP da cui si accede a Internet bypassando, quindi, i blocchi regionali imposti da alcuni siti Internet.

Il canale di comunicazione riservatoprotegge il traffico di dati e informazioni personali da attacchi esterni, criminalità informatica e sistemi poco chiari; oltre a consentire di aggirare la censura degli organi governativi. Ed è per questo che dopo l’invasione dell’Ucraina, milioni di russi si stanno rivolgendo alle reti private virtuali per aggirare la stretta su Internet imposta dal governo.

Secondo i dati, le prime 10 app VPN nell’App Store di Apple e nel Google Play Store in Russia hanno catalizzato quasi 6 milioni di download. I dati diffusi a riguardo da SensorTower per CNBC sono inequivocabili: nel periodo compreso tra il 24 febbraio e l’8 marzo, in Russia le prime 10 app VPN nell’App Store di Apple e nel Google Play Store hanno registrato quasi 6 milioni di download. Un aumento del 1.500% rispetto alle prime 10 app VPN scaricate nei 13 giorni precedenti al 24 febbraio, giorno in cui il presidente russo Vladimir Putin ha deciso di invadere l’Ucraina.

L’esponenziale incremento dei download delle VPN evidenzia che molti russi non si accontentano della semplice propaganda di regime e bypassando i controlli cercano di avere informazioni più affidabili su ciò che sta realmente accadendo sul fronte di guerra.

Il web in Russia è soggetto da anni a una stretta censura, anche se prima dello scoppio del conflitto tutte le principali piattaforme occidentali come Facebook, Twitter e Google erano  liberamente accessibili, a differenza della Cina dove sono completamente oscurate. Tuttavia, in Russia, i tre giganti dei social media hanno sempre operato sotto la minaccia di blocchi, nel caso della pubblicazione di contenuti critici nei confronti del Cremlino.

Il controllo è diventato più serrato a partire dal primo maggio 2019, quando Putin ha promulgato la legge sulla sovranità digitale, che ha conferito alle autorità di Mosca ampi poteri per cercare di isolare RuNet dal resto del mondo. Un controverso provvedimento indubbiamente teso a limitare l’autonomia della società russa, introdotto sotto l’altisonante denominazione di “Programma nazionale di economia digitale” o legge dell’“internet sovranista”, come è stata ribattezzata da alcune testate italiane.

La misura ha permesso a Roskomnadzor, l’agenzia statale russa a supervisione delle telecomunicazioni, di assumere il controllo di internet, gestendone tutti i contenuti con la motivazione ufficiale di proteggere RuNet da attacchi informatici.

Tra i motivi che hanno spinto il governo di Mosca a operare questo giro di vite sulla rete c’è anche l’Euromaidan, la serie di violente manifestazioni pro-europeiste, iniziate in Ucraina nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013, che secondo i russi erano state sobillate da settori oltranzisti del governo di Washington. In realtà, le imponenti mobilitazioni fecero seguito alla decisione del governo del presidente filorusso Viktor Yanukovich di sospendere le trattative per la conclusione di un accordo di associazione con l’Unione europea.

Nonostante la durissima repressione da parte delle forze governative appoggiate dal Cremlino, le proteste di piazza, protrattesi per oltre tre mesi e concentratesi nella piazza Maidan di Kiev (da cui l’hashtag #Euromaidan che ha dato nome al movimento), nel febbraio 2014, hanno portato alla deposizione del presidente Yanukovich e all’assunzione del potere da parte di Petro Poroschenko, il predecessore di Volodymyr Zelensky.

Mentre prosegue incessante ed estende l’offensiva militare contro tutta l’Ucraina, la Russia cerca di limitare ulteriormente l’accesso alle piattaforme Internet straniere. Le autorità di Mosca hanno disposto il blocco di Facebook, che è stato oscurato il 4 marzo e secondo Top10VPN, già nel giorno successivo la domanda di VPN da parte degli utenti russi è aumentata di oltre 10 volte.

La scure del governo russo si è abbattuta anche su Twitter, che ha reagito lanciando una versione del suo sito su Tor, un servizio in grado di crittografare il traffico Internet in maniera tale da aiutare a mascherare l’identità degli utenti e impedire che possano essere sorvegliati.

Una reazione molto diversa da quella di Facebook, che per volontà del suo fondatore Mark Zuckerberg, ha deciso di liberalizzare su Facebook il cosiddetto hate speech contro la Russia. In pratica, la piattaforma di Meta ha disposto la rimozione temporanea dei limiti ai messaggi di odio contro i militari russi sarà valida. La decisone riguarda Armenia, Azerbaigian, Estonia, Georgia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia e Ucraina, dove sarà inoltre possibile, insultare a piacimento e spingersi a invocare la morte di Vladimir Putin, del suo omologo bielorusso Alexander Lukashenko e di altre figure di rilievo della nomenclatura moscovita, purché le minacce non contengano riferimenti ad altri soggetti o non risultino credibili sulla base di indicatori come la sede o la metodologia.

Una decisione che ha spinto l’ufficio del procuratore generale russo a chiedere il riconoscimento di Meta come organizzazione estremista e la sua perpetua messa al bando dalla rete russa.

Tuttavia, la perenne messa al bando della piattaforma social della compagnia di Menlo Park ha subito provocato un’ulteriore impennata delle reti private virtuali in Russia. Come conferma la società VPN Surfshark, secondo cui le sue vendite settimanali nel paese euroasiatico sono aumentate del 3.500% dal 24 febbraio, con i picchi più significativi registrati dal 5 marzo al 6 marzo, quando Facebook è stato bloccato. A riprova che chi vive in Russia è attivamente alla ricerca di modi per evitare la sorveglianza e la censura del governo.

Mentre la Russia si è attivata per bloccare le piattaforme social occidentali, si allunga la lista di aziende tecnologiche occidentali che hanno deciso di sospendere la vendita dei loro prodotti in Russia, tra queste c’è anche Netflix, che dal 6 marzo ha sospeso il suo servizio di streaming in Russia in segno di protesta contro l’aggressione armata dell’Ucraina. 


Nrc: le 10 crisi più trascurate al mondo sono tutte africane

di Marco Cochi

L’autorevole Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) ha pubblicato l’annuale rapporto che elenca le dieci crisi di sfollamento più trascurate, sia a livello politico che mediatico, dalla comunità internazionale. Scorrendo l’infausta graduatoria riferita al 2021, non costituisce una novità che molti paesi africani siano in cima alla lista.

Come dimostra la crisi più dimenticata in assoluto, quella della Repubblica democratica del Congo (RdC), ormai diventata un esempio da manuale di abbandono con una presenza fissa nelle precedenti cinque edizioni del report dell’Ong di Oslo (La RdC è stata in cima alla classifica già due volte nel 2017 e 2020, mentre si è classificata seconda nel 2016, 2018 e 2019).

Il nord-est della RdC è afflitto da tensioni e conflitti intercomunitari, con un drammatico aumento degli attacchi ai campi profughi dal novembre 2021, che uniti all’insicurezza alimentare, che ha raggiunto il livello più alto mai registrato, hanno causato lo sfollamento di oltre 5,5 milioni di persone all’interno del paese.

Secondo lo studio, l’aiuto fornito lo scorso anno alla RdC è stato pari a meno di un dollaro a settimana per persona bisognosa e l’appello umanitario è stato finanziato per meno della metà, non consentendo agli operatori sul campo di decidere a cosa e a chi dare la priorità. Al contrario, l’appello umanitario lanciato dall’Ucraina lo scorso primo marzo è stato quasi interamente finanziato lo stesso giorno.

Non vanno meglio le cose per gli altri paesi africani: in Burkina Faso, seconda nazione della graduatoria, nonostante un forte aumento di persone che fuggono dalle loro case, durante l’intero 2021 la crisi degli sfollati burkinabe ha ricevuto una copertura mediatica sostanzialmente inferiore, rispetto alla media che la guerra in Ucraina ha ricevuto quotidianamente durante i primi tre mesi del conflitto. 

Nella speciale classifica stilata dall’Nrc, la RdC e il Burkina Faso, sono seguite da Camerun, Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia. Così, per la prima volta, tutte e dieci le crisi più neglette dalla comunità internazionale sono nel continente africano. Un triste primato che indica il fallimento cronico dei decisori, dei donatori e dei media nell’affrontare i conflitti e le sofferenze umane nel continente.

L’Nrc ha sviluppato la lista delle dieci crisi più trascurate basandosi su tre criteri. In primo luogo, ha tenuto conto del numero di iniziative politiche e diplomatiche internazionali in corso per trovare soluzioni durature.

Per esempio, negli ultimi quattro anni, il Camerun è sempre nei primi posti della classifica a causa della mancanza di impegno da parte della comunità internazionale per risolvere gli annosi problemi, che affliggono la popolazione della parte anglofona del paese africano.

Un altro criterio su cui i ricercatori della Ong norvegese hanno basato lo studio è la mancanza di attenzione riservata alle crisi dai media internazionali, che coprono raramente questi paesi, al di là di rapporti ad hoc su nuovi focolai di violenza o malattie. Mentre in diversi Stati africani la mancanza di libertà di stampa aggrava la carenza di attenzione mediatica. 

Per indicare un esempio, dal 2019 i media hanno citato i quasi due milioni gli sfollati in Burkina Faso causati dagli attacchi dei gruppi islamisti, lo stesso numero di volte dei profughi ucraini durante i primi tre mesi del conflitto.

Infine, l’Nrc si è concentrato sulla carenza di aiuti finanziari internazionali caratterizzata da una certa stanchezza dei donatori e il fatto che molti paesi africani sono considerati di limitato interesse geopolitico.

Il basso livello di finanziamento limita un adeguato soccorso

Senza tralasciare, che il basso livello di finanziamento limita in maniera significativa la capacità delle organizzazioni umanitarie sia di fornire un adeguato soccorso alle popolazioni sia di svolgere un’efficace attività di advocacy e comunicazione per queste crisi, attivando un circolo vizioso. 

Le conseguenze sono ben descritte dai numeri, che raccontano come nel 2021, nella RdC erano necessari due miliardi di dollari per coprire i bisogni primari del paese, di cui solo il 44% è stato coperto e nel 2022 si stima che la copertura sarà limitata al 10%.

In risposta alla tragica crisi in Ucraina, abbiamo assistito a un’imponente dimostrazione di umanità e solidarietà, sostenuta dalla rapidità di azione da parte della politica. I paesi donatori, le aziende private e le opinioni pubbliche hanno tutti contribuito generosamente, mentre i media hanno seguito ininterrottamente lo scoppio della guerra prodotta dall’aggressione militare della Russia. Allo stesso tempo, la situazione si sta deteriorando per milioni di persone afflitte da crisi, che si stanno profilando all’ombra del conflitto in corso in Ucraina.

I livelli di malnutrizione sono in aumento nella maggior parte dei dieci paesi presenti nell’elenco delle crisi trascurate, aggravate dall’aumento dei prezzi del grano e del carburante causati dalla guerra in Ucraina. Le organizzazioni umanitarie hanno lanciato costantemente l’allarme dall’inizio del 2022, ma la comunità internazionale stenta a intraprendere l’azione necessaria.

Inoltre, i finanziamenti per queste crisi trascurate sono in pericolo. Diversi paesi donatori stanno ora decidendo di ridurre gli aiuti all’Africa e di reindirizzare i finanziamenti verso la risposta dell’Ucraina e l’accoglienza dei rifugiati in Europa.

Una situazione perfettamente descritta dal segretario generale dell’Nrc, Jan Egeland, che alla presentazione del report ha affermato che «la guerra in Ucraina ha dimostrato l’immenso divario tra ciò che è possibile fare quando la comunità internazionale si unisce e la realtà quotidiana di milioni di persone che soffrono in silenzio nel continente africano, che il mondo ha scelto di ignorare».


La nuova guerra dell’acqua in Burkina Faso. Nel Sahel al-Qaeda ora avvelena i pozzi


▶ Ascolta l’intervista di Marco Cochi: “La nuova guerra dell’acqua in Burkina Faso. Nel Sahel al-Qaeda ora avvelena i pozzi”. (“Africa oggi”, in collaborazione con Nigrizia).

di Marco Cochi

Dall’inizio dell’anno, i gruppi jihadisti attivi in Burkina Faso hanno distrutto o sabotato 32 impianti idrici nel nord. Tredici organizzazioni nazionali e internazionali, che forniscono assistenza umanitaria nel paese, hanno rilevato che gli attentati ai pozzi d’acqua e alle autocisterne hanno un grave impatto su 290mila persone. I ripetuti attacchi ai servizi idrici non costituiscono una conseguenza del conflitto, ma sono ormai un’arma di guerra che segna una nuova e spregevole svolta nelle violenze. La maggior parte delle distruzioni è avvenuta a Djibo, la città che ospita il maggior numero di sfollati in tutto il Paese, dove adesso la popolazione civile ha singolarmente accesso a meno di tre litri di acqua al giorno per coprire tutti i propri bisogni, dal bere all’igiene e alla cucina. Una disponibilità irrisoria rispetto agli almeno 50 litri a persona consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per garantire condizioni di vita accettabili.



Ascolta l’intervista di Marco Cochi: “La nuova guerra dell’acqua in Burkina Faso. Nel Sahel al-Qaeda ora avvelena i pozzi”. (“Africa oggi”, in collaborazione con Nigrizia).

La crescente presenza della Russia in Mali: tra sostegno politico e aiuto militare

di Marco Cochi

Mentre le forze d’invasione russe intensificano l’offensiva militare per conquistare le città ucraine, la giunta militare, al potere in Mali dall’agosto del 2020, lo scorso 17 aprile ha reso noto di aver ricevuto dalla Russia una nuova fornitura di equipaggiamenti militari. Si tratta di due elicotteri da combattimento e da trasporto truppe Mil Mi-24P, di un sistema radar aereo di quarta generazione e di altro materiale bellico.

Un altro lotto comprensivo di due elicotteri da combattimento e da trasporto truppe Mil Mi-35P, un sistema radar aereo 59N6-TE e altre attrezzature militari erano stato ricevute dal governo provvisorio di Bamako il 31 marzo, mentre lo scorso ottobre una fornitura di quattro elicotteri da trasporto multiruolo Mil Mi-17 e una serie di armamenti, erano stati consegnati dai russi all’aeroporto internazionale Modibo Keïta di Bamako.

Attraverso un comunicato stampa della Direzione dell’informazione e delle pubbliche relazioni delle Forze armate (Dirpa), il capo di stato maggiore dell’esercito maliano, Oumar Diarra, non ha mancato di manifestare il suo compiacimento per l’avvenuta consegna, che comprova un partenariato assai fruttuoso con la Federazione russa.

Diarra ha poi aggiunto che lo stock appena ricevuto da Mosca «è anche la manifestazione di una volontà politica molto forte di dotare l’esercito maliano di mezzi più moderni affinché possa svolgere al meglio la sua missione di difesa dell’integrità territoriale».

Secondo il generale Diarra, questo nuovo lotto di equipaggiamento proveniente dalla Russia aiuterà sicuramente le Forze armate maliane (FAMa) nella lotta quotidiana per sradicare il terrorismo su tutto il territorio nazionale. L’alto ufficiale ha poi precisato che nell’ambito della cooperazione tra Mali e Russia seguirà l’invio di altri equipaggiamenti militari, da parte di Mosca.

Del resto, lo scorso 6 marzo, poco meno di due settimane dopo che la Russia aveva invaso l’Ucraina, su Jeune Afrique è stata pubblicata la notizia che il generale Diarra e il colonnelloSadio Camara, attuale ministro della Difesa del Mali, sono volati a Mosca per discutere l’ulteriore consegna di equipaggiamento militare.

Sembra evidente, che i rapporti con il Cremlino hanno radici ben più profonde di quanto dichiarato dalla propaganda della giunta militare presieduta dal colonnello Assimi Goïta. Giunta che si ostina a non definire in maniera chiara il calendario della transizione, che dovrebbe concludersi con le elezioni e il passaggio dei poteri ai civili.

Un atteggiamento che ha creato a Bamako vari problemi con l’Ecowas, la Comunità economica dell’Africa occidentale. Mentre ai vertici della Nazioni Unite si stanno interrogando sull’opportunità di rinnovare il mandato in scadenza della Minusma, la missione Onu che dal 2013 opera in Mali per aiutare la stabilizzazione del paese.

Senza tralasciare, che lo scorso 2 marzo, il Mali è stato tra i 17 paesi africani che si sono astenuti dal voto della risoluzione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (28 paesi africani hanno votato a favore della risoluzione, otto paesi non hanno votato e l’Eritrea ha votato contro la risoluzione).

La Russia ha ampiamente mantenuto la sua presenza in Mali, nonostante il Cremlino abbia richiamato molti suoi mercenari della società militare privata Wagner attivi in Libia e nella Repubblica centrafricana per combattere accanto alle truppe di Mosca in Ucraina. Come confermato da Stephen Townsend, capo di AFRICOM, Comando militare per le operazioni USA nel continente africano, in un’intervista esclusiva a VOA news il 17 marzo scorso.

In Mali, sono impegnati circa 1.000 effettivi russi, tra istruttori militari e contractor del Gruppo Wagner. Mentre circa 200 militari maliani e nove agenti di polizia stanno attualmente ricevendo formazione in Russia, come dichiarato lo scorso 7 aprile da Anna Evstigneeva, la vice rappresentante permanente della missione russa presso le Nazioni Unite.

Inoltre, il quotidiano francese Libération e Human Rights Watch hanno accusato i miliziani del gruppo Wagnerdi aver perpetrato tra il 27 e il 31 marzo scorso nella località di Moura, nella regione centrale di Mopti, il massacro di centinaia di civili durante un’operazione militare.

Nel corso del raid, avvenuto durante lo svolgimento di una fiera del bestiame, sono rimasti uccisi tra i 200 e i 400 civili mitragliatidagli elicotteri oppure uccisi a sangue freddo nelle perquisizioni casa per casa perché identificati come jihadisti. Un’identificazione motivata solo dalle barbe lunghe o dell’accento che contraddistingue i pastori fulani, spesso accusati di essere vicini ai gruppi islamisti attivi nel paese.

Tuttavia, la giunta militare ha respinto ogni accusa al mittente e ha affermato che più di 200 terroristi sono stati neutralizzati, a seguito di un’operazione militare “su larga scala”. Inoltre, la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova si è congratulata con le autorità maliane per questa importante vittoria nella lotta contro la minaccia terroristica. 

Zakharova ha poi negato le accuse secondo cui mercenari russi avrebbero preso parte alla missione, affermando che queste accuse fanno parte di una campagna di disinformazione messa in atto dall’Ucraina a danno della Russia.

Tutto ciò indica che, nonostante il sempre più pressante impegno militare in Ucraina, Mosca sta cercando di preservare i suoi crescenti interessi diplomatici e militari in Mali e anche nel resto dell’Africa, dove dal 2018 le forze russe irregolari hanno fornito uomini e addestramento a governi e movimenti ribelli. 


Le sanzioni occidentali falcidiano le fortune dei miliardari russi

di Marco Cochi

Dallo scorso 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato la sua aggressione militare all’Ucraina, i miliardari russi hanno visto diminuire le loro immense fortune in modo cospicuo. Il 2 marzo, dopo una sola settimana dall’inizio dell’invasione, il patrimonio netto degli ultra-ricchi russi riportato dal  Bloomberg Billionaires Index, il paniere creato nel 2012 che monitora quotidianamente lo stato dei patrimoni più facoltosi del mondo, era di  88 miliardi di dollari in meno rispetto al 23 febbraio.

Così il 3 marzo, cinque miliardari russi sono stati estromessi dalla speciale graduatoria di Bloomberg, dopo che le loro perdite sono più che raddoppiate da quando la Russia ha invaso l’Ucraina

Tra questi il più penalizzato è Vagit Alekperov, il presidente della Lukoil, la più grande compagnia petrolifera indipendente della Russia. Alekperov, che nel 1990 fu il più giovane vice ministro dell’Energia nella storia dell’Unione Sovietica, ha perso oltre il 60% della sua fortuna personale prima di uscire dalla lista di Bloomberg. Il giorno dopo la sua epurazione dalla superclassifica dei re Mida, il proprietario della Lukoil aveva chiesto di porre fine rapidamente al conflitto tra Russia e Ucraina, diventando così la prima grande compagnia nazionale ad opporsi alla guerra di Putin. 

Il passivo astronomico subito dai miliardari è in gran parte dovuto al crollo del mercato azionario russo e alla svendita delle loro attività nei mercati internazionali. Già nel periodo precedente la guerra Russia-Ucraina, le conseguenze dell’ondata prodotta dalla variante Omicron del SARS-Cov-2 e la debolezza del rublo avevano depresso i mercati finanziari locali, ma i “paperoni” russi hanno subito la maggior parte delle loro perdite dopo il 24 febbraio.

Tra il 23 febbraio e il 3 marzo, l’uomo più ricco della Russia, Vladimir Potanin, ha visto calare vertiginosamente le azioni della sua società Norilsk Nickel, gigante minerario primo produttore mondiale di palladio e tra i maggiori fornitori dei metalli più ricercati per la transizione energetica, come nickel, rame e cobalto. La società, quotata alla Borsa di Londra, nella settimana successiva all’invasione è affondata di oltre il 50%, provocando alla fortuna del magnate moscovita una perdita di 4,5 miliardi di dollari. E dallo scorso 3 marzo, il titolo è stato sospeso dalle contrattazioni del London Stock Exchange.

Perdite ancora più elevate sono state sostenute da Alexey Mordashov, principale azionista e presidente di Severstal, un conglomerato russo con interessi nel metallo, energia e miniere, che detiene una partecipazione nella compagnia di viaggi tedesca Tui.

Anche il fondatore del Volga Group, Gennady Timchenko, che controlla cospicui interessi nel gas naturale, trasporti, infrastrutture e nei prodotti chimici, oltre ad avere stretti legami con Putin, ha visto scendere di 11,3 miliardi di dollari il suo patrimonio netto, che ora equivale a 11,1 miliardi di dollari.

Un altro dei miliardari epurati dal Bloomberg Billionaires Index è Leonid Mikhelson, Ceo e principale azionista di Novatek, il secondo produttore di gas naturale della Russia, dopo il colosso Gazprom. Nella settimana successiva all’aggressione militare all’Ucraina, Mikhelson ha totalizzato 11 miliardi di dollari di passivo.

Alle pesantissime perdite registrate nei mercati azionari, che finché non vengono liquidate le posizioni detenute dai magnati russi sono temporanee, vanno ad aggiungersi le draconiane sanzioni inflitte ai ricchi russi da Regno Unito, Unione europea e Stati Uniti.

Il numero uno del Cremlino da molti anni aveva avvertito i suoi fedelissimi che avrebbero dovuto proteggersi da eventuali misure restrittive, in particolare dopo l’annessione della Crimea, quando le relazioni con gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione europea si sono inasprite.

Mentre alcuni uomini d’affari della ristretta cerchia del presidente Putin hanno seguito il suo consiglio e hanno mantenuto i loro investimenti in Russia, altri hanno collocato i loro soldi in sontuose proprietà all’estero e in squadre di calcio, mentre le loro società sono rimaste quotate nelle borse estere.

Ora si trovano in enorme difficoltà per mantenere i loro beni, confiscati con le sanzioni economiche più dure imposte nell’era moderna. Tra questi, uno dei più famosi in Europa è il miliardario russo Roman Abramovich, dal 2003 proprietario della squadra di calcio londinese del Chelsea.

Dal 23 febbraio, Abramovich ha perso circa il 12% della sua fortuna, sebbene sia stato sanzionato più tardi di altri, forse perché sarebbe meno influente di altri alleati di Putin. Anche se il suo ascendente sul Cremlino è molto dibattuto tra chi suggerisce che sia semplicemente tollerato da Putin e chi, come il Regno Unito, che crede che i due siano vicini.

Da parte sua Abramovich nega fermamente di avere stretti legami con Putin, ciononostante la parte britannica della sua fortuna stimata di 12,4 miliardi di dollari è ora congelata. Poco prima dell’annuncio delle sanzioni britanniche, ha messo in vendita il Chelsea per 3 miliardi di sterline e anche la sua lussuosa residenza a Kensington Palace Gardens, valutata 150 milioni di sterline.

Abramovich ha creato la sua fortuna negli anni novanta ed è stato uno dei primi oligarchi durante la presidenza di Boris Eltsin. Il suo indiscutibile fiuto per gli affari gli ha fatto acquistare la compagnia petrolifera Sibneft a un prezzo stracciato per poi rivenderla nel 2005 al gigante russo Gazprom, di proprietà statale, per 13 miliardi di dollari. 

Tra le sue proprietà c’è l’Eclipse, il terzo yacht più lungo del mondo, e una altro megayacht, Solaris, in rada nel Mediterraneo. Negli ultimi anni aveva iniziato a ritirarsi dal Regno Unito, tanto che nel 2018 ha deciso di non richiedere il rinnovo del visto britannico e ha invece utilizzato il passaporto israeliano appena acquisito per visitare Londra. 

Mentre un tempo era solito presenziare a tutte le partite casalinghe del Chelsea, negli ultimi anni è stato visto raramente allo Stamford Bridge. E dopo che gli è stato vietato di entrare nel Regno Unito, non potrà più assistere a nessun incontro di calcio di squadre inglesi.


Gli effetti delle sanzioni occidentali sul settore tecnologico della Russia

di Marco Cochi, Analista, Osservatorio ReaCT, ARDF-Fondazione Nigrizia)

Tra le molteplici sanzioni inflitte alla Russia dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina, che si sta trasformando nel più grande conflitto europeo dalla seconda guerra mondiale, possono rivelarsi assai dannose quelle relative al campo della tecnologia. Un’analisi del Center for European Policy Analysis (CEPA) di Washington, realizzata dai giornalisti investigativi russi Andrei Soldatov e Irina Borogan e ripresa dal magazine informatico ucraino Dou.ua, esamina i possibili e pesanti effetti che le nuove sanzioni messe a punto da Stati Uniti, Unione europea, Giappone e altri paesi produrranno sul settore tecnologico della Federazione.

La potenza multi-regionale, in apparenza, dovrebbe essere preparata a fronteggiare questo tipo di sanzioni, visto che il Cremlino per ridurre la dipendenza tecnologica dagli stranieri, da anni spinge per lo sviluppo del proprio “made in Russia”. Per questo, dal 2015, ha introdotto vari tipi di incentivi e restrizioni per le società statali e le agenzie governative al fine di favorire l’importozameshchenie (la sostituzione delle importazioni con prodotti locali) di software e hardware promuovendo i servizi offerti da azienda russe, come Яndex (Yandex), che nel 1997 lanciò il primo motore di ricerca in cirillico, oppure il Gruppo Mail.ru di Dmitry Grishin.

Nel settembre 2016, Mosca aveva già iniziato ad abbandonare la tecnologia Microsoft sostituendo su 6mila computer dell’amministrazione cittadina, i software gestionali della posta elettronica dell’azienda di Bill Gates (Exchange Server e Outlook) con quelli della compagnia di comunicazione locale Rostelecom PJSC. Per poi affidare la gestione dello sviluppo dei sistemi operativi e dei software alla compagnia New Cloud Technologies, che ha progettato il sistema operativo russo Moi Ofis Pochta in sostituzione di Microsoft Office.

Mentre con l’aumento della tensione, nelle settimane precedenti all’aggressione militare dell’esercito russo contro l’Ucraina, le agenzie governative e le società statali si stavano già organizzando per testare soluzioni hardware basate su microprocessori Elbrus 16-S e Baikal-M, prodotti in Asia centrale e sviluppati in Russia.

Allo stesso tempo, Sberbank, la più grande banca statale russa, ha testato gli effetti dell’estensione delle sanzioni occidentali sulla sua infrastruttura tecnica privata del supporto software e hardware di Microsoft, Oracle, Intel e SAP.

I risultati devono essere stati così contrastanti che la Sber ha deciso di acquistare un’enorme quantità di apparecchiature occidentali, server, database di archiviazione, software, prima che venissero imposte le sanzioni. La banca russa aveva già stanziato 31,8 milioni di dollari per acquistare i prodotti di Vmware, la società di Palo Alto sussidiaria della Dell Technologies, che da oltre cinque anni è diventata il provider ufficiale di software e cloud industriale dell’istituto finanziario russo.

Un segnale importante sulla non completa affidabilità del software e dell’hardware di produzione russa, perché Sberbank non è solo la più grande banca russa che garantisce gli stipendi dei dipendenti pubblici, ma è guidata da Herman Gref, molto vicino al Cremlino e considerato uno dei più stretti alleati di Vladimir Putin.

Gref, che nel 2018 è stato indicato da Forbes come la persona più influente in Russia dopo Putin, ha sempre creduto che la digitalizzazione possa supplire le lacune gestionali della macchinosa burocrazia russa e usa tutta la sua influenza per realizzarla nel paese.

Sberbank però non è l’unica istituzione russa a manifestare il proprio scetticismo sulla tecnologia locale. Molte grandi aziende hanno espresso apertamente la preoccupazione che i computer russi non siano sufficientemente affidabili per l’impiego in grandi realtà industriali.

In piena Guerra Fredda, il fondatore di Oracle, Lawrence “Larry” Ellison, affermò che «l’unico modo in cui Oracle poteva essere importato in Russia era attraverso una testata nucleare». Poi, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, la situazione è radicalmente cambiata e Oracle è diventato gradualmente onnipresente nelle imprese statali e nelle agenzie governative russe. Oggi, i prodotti Oracle sono diffusi in quasi tutto il paese, anche nei computer della FSB.

Una diffusione e un’affidabilità che rende difficile sostituire i sistemi del gigante informatico di Redwood, tanto che per trovare una soluzione il Ministero dello Sviluppo digitale russo ha escogitato un espediente. In sostituzione di Oracle, il dicastero di Mosca ha promosso l’adozione del sistema di gestione di database open source a oggetti PostgreSQL. Tuttavia, anche PostgreSQL è sviluppato negli Stati Uniti, presso l’Università della California, ma le autorità russe ritengono che essendo un software gratuito sarà protetto dalle sanzioni.

Uno dei punti nevralgici dell’indipendenza tecnologica russa consiste nel fatto che il software e l’hardware di fabbricazione locale possono essere ben utilizzati nelle piccole e medie imprese, ma sorgono problemi quando si tratta di grandi aziende che devono gestire enormi quantità di traffico e dati.

La Russia ha alcune aziende degne di nota nel digitale come Abbyy e Kaspersky nel software, ma la maggior parte delle società e delle agenzie governative preferiscono ancora prodotti e servizi occidentali. Allo stesso modo, la Russia è in ritardo anche sui i chip, nonostante abbia due aziende competitive come Baikal e Mikron, che non sono però in grado di coprire il fabbisogno della Federazione. E questo sarà un enorme problema considerato che Intel, AMD, GlobalFoundries e la taiwanese TSMC hanno interrotto le spedizioni di semiconduttori verso la Russia. Una spallata impressionante per la tecnologia della Federazione, che inciderà in modo molto negativo e trasversale su moltissimi comparti.

Lo scorso 24 febbraio, nell’annunciare le sanzioni in risposta all’invasione della Russia in Ucraina, il presidente degli Stati Uniti Joseph Biden è stato assai eloquente in proposito. Biden ha spiegato che «le restrizioni alle importazioni russe di tecnologie chiave, come i semiconduttori, ne limiteranno l’accesso alla finanza e alla tecnologia per le aree strategiche della sua economia e intaccheranno la sua capacità industriale per gli anni a venire». Biden ha aggiunto che «le sanzioni rappresentano un duro colpo per le ambizioni strategiche a lungo termine di Vladimir Putin, poiché mineranno la capacità della Russia di modernizzare l’esercito, l’industria aerospaziale e di sviluppare le tecnologie alla base dell’intelligenza artificiale».

Una fase critica che potrebbe spingere ulteriormente Mosca verso la Cina, che dopo le restrizioni imposte nel 2020 dal governo americano alle esportazioni di chip verso le sue aziende, tra cui Huawei, accusata di spionaggio dagli Stati Uniti, ha varato un piano ambizioso, per quanto complicato, per lo sviluppo un’industria di semiconduttori in grado di produrre componenti all’avanguardia in autonomia. Un piano che in futuro sarà in grado di fornire microchip e microelettronica anche alla Russia, che adesso non è in grado di colmare il suo gap tecnologico con la produzione interna.