Il jiadismo femminile in Africa. Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab. Il nuovo libro di Marco Cochi
Il nuovo libro di Marco Cochi: Il jiadismo femminile in Africa. Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab, ed. START InSight.
Mentre in cinque regioni dell’Africa il jihadismo continua a espandersi, anche le donne sono coinvolte nell’insorgenza di alcuni gruppi militanti islamici. Tra i più attivi e pericolosi nel continente africano, i due che arruolano tra le loro fila il maggior numero di donne sono Boko Haram e al-Shabaab. In queste due famigerate formazioni jihadiste, l’utilizzo delle donne appare strategico, sebbene la partecipazione alle azioni violente non sia il loro ruolo primario.
Tuttavia, anche se non direttamente impegnate sul campo di battaglia, le donne svolgono ruoli determinanti per il supporto del gruppo, come quello di spia e addetta al reclutamento, oppure mansioni più pratiche come quella di cuoca o lavandaia, che per la sopravvivenza di un’organizzazione sono comunque importanti. Molte di esse hanno abbracciato l’ideologia salafita per ragioni indirette come la manipolazione, la sottomissione oppure la disinformazione, ma ci sono anche donne che hanno compiuto la scelta di aderire all’estremismo islamico attivamente, spinte dall’indottrinamento religioso e dal desiderio di un impegno armato.
Titolo: Il jiadismo femminile in Africa. Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab Autore: Marco Cochi Pubblicazione: Saggio/Analisi Collana: InSight Formato: 14×21, brossura, 62 pagine Editore: START InSight Anno di edizione: 2021
La guerra in Ucraina arriva fino in Africa. Il commento di M. Cochi a RaiNews24
Mosca ha costruito nel tempo una rete di relazioni economiche e politiche con molti paesi del continente africano che non prendono posizione contro l’aggressione russa
Se l’Occidente si è apertamente schierato contro l’invasione russa, nel continente africano Mosca continua a raccogliere consensi, rafforza i legami economici e politici e costruisce una strategia di pressione anche verso l’Europa. Ne abbiamo ripercorso le tappe e le ragioni con Marco Cochi, giornalista esperto di Africa. Insieme ad Andrea Segré, docente di Politiche Agrarie Internazionali all’Università di Bologna abbiamo spiegato come il cibo – i cereali, in questo caso – possa essere utilizzato come un’arma geopolitica e cercato di capire se le istituzioni sovranazionali hanno il potere di invertire la rotta. Leila Belhadj Mohamed, che si occupa di geopolitica per Life Gate, ha analizzato il ruolo della Turchia e l’importanza, per questi temi, di Paesi come il Mali e il Sudan. Conduce Veronica Fernandes
L’influenza russa in Africa. Ascolta il commento di M. Cochi
Negli ultimi anni la Russia ha esteso notevolmente la sua influenza in Africa, sviluppando legami economici e di carattere militare con il continente. In particolare, Mosca ha sviluppato una partnership privilegiata con il Sudan disponibile alla costruzione di una base navale del Cremlino nei pressi di Port Sudan, sul Mar Rosso. Ma dopo le sanzioni inflitte dall’Occidente alla Russia, lo scenario è destinato a cambiare. Ascolta l’analisi di Marco Cochi, Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo.
Le elezioni in Uganda, M. Cochi – RaiNews24
Museveni mantiene saldo il potere in Uganda
La vittoria di Yoweri Museveni nelle presidenziali ugandesi dello scorso 14 gennaio sancisce la sesta rielezione del settantaseienne, dopo oltre tre decenni al potere. Nel luglio 2018, il presidente ha emendato la Costituzione rimuovendo l’articolo che limitava di diventare presidente oltre i 75 anni. Una decisione che ha scatenato proteste di piazza tra i giovani ugandesi, i quali speravano nell’affermazione del suo sfidante: il trentottenne cantante reggae Bobi Wine. Così Museveni mantiene saldo il potere su un paese che non ha mai avuto un cambio di potere pacifico, da quando nel 1962 ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito.
Ne parla Marco Cochi a RaiNews24
Come i russi aggirano la severa censura governativa su Internet
La VPN è una “rete privata virtuale” (Virtual Private
Network), che grazie a un particolare sistema chiamato tunneling, permette di rendere
invisibili le proprie attività in rete a occhi indiscreti e di mascherare
l’indirizzo IP da cui si accede a Internet bypassando, quindi, i blocchi
regionali imposti da alcuni siti Internet.
Il canale di comunicazione riservatoprotegge il traffico di dati e informazioni personali da attacchi
esterni, criminalità informatica e sistemi poco chiari; oltre a consentire di
aggirare la censura degli organi governativi. Ed è per questo che dopo
l’invasione dell’Ucraina, milioni di russi si stanno rivolgendo alle reti
private virtuali per aggirare la stretta su Internet imposta dal governo.
Secondo i dati, le prime 10 app VPN nell’App Store di Apple e nel Google Play Store in Russia hanno catalizzato quasi 6 milioni di download. I dati diffusi a riguardo da SensorTower per CNBC sono inequivocabili: nel periodo compreso tra il 24 febbraio e l’8 marzo, in Russia le prime 10 app VPN nell’App Store di Apple e nel Google Play Store hanno registrato quasi 6 milioni di download. Un aumento del 1.500% rispetto alle prime 10 app VPN scaricate nei 13 giorni precedenti al 24 febbraio, giorno in cui il presidente russo Vladimir Putin ha deciso di invadere l’Ucraina.
L’esponenziale incremento dei download delle VPN evidenzia
che molti russi non si accontentano della semplice propaganda di regime e bypassando
i controlli cercano di avere informazioni più affidabili su ciò che sta realmente
accadendo sul fronte di guerra.
Il web in Russia è soggetto da anni a una stretta censura,
anche se prima dello scoppio del conflitto tutte le principali piattaforme occidentali
come Facebook, Twitter e Google erano liberamente accessibili, a differenza della
Cina dove sono completamente oscurate. Tuttavia, in Russia, i tre giganti dei
social media hanno sempre operato sotto la minaccia di blocchi, nel caso
della pubblicazione di contenuti critici nei confronti del Cremlino.
Il controllo è diventato più serrato a partire dal primo
maggio 2019, quando Putin ha promulgato la legge sulla sovranità digitale, che ha conferito alle autorità di
Mosca ampi poteri per cercare di isolare RuNet
dal resto del mondo. Un controverso provvedimento indubbiamente teso a limitare
l’autonomia della società russa, introdotto sotto l’altisonante denominazione
di “Programma nazionale di economia digitale” o legge dell’“internet
sovranista”, come è stata ribattezzata da alcune testate italiane.
La misura ha permesso a Roskomnadzor, l’agenzia statale russa
a supervisione delle telecomunicazioni, di assumere il controllo di
internet, gestendone tutti i contenuti con la motivazione ufficiale di
proteggere RuNet da attacchi informatici.
Tra i motivi che hanno spinto il governo di Mosca a operare
questo giro di vite sulla rete c’è anche l’Euromaidan, la serie di violente manifestazioni pro-europeiste, iniziate
in Ucraina nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013, che secondo i russi erano
state sobillate da settori oltranzisti del governo di Washington. In realtà, le
imponenti mobilitazioni fecero seguito alla decisione del governo del
presidente filorusso Viktor Yanukovich di sospendere le trattative per la
conclusione di un accordo di associazione con l’Unione europea.
Nonostante la durissima repressione da parte delle forze
governative appoggiate dal Cremlino, le proteste di piazza, protrattesi per
oltre tre mesi e concentratesi nella piazza Maidan di Kiev (da cui l’hashtag #Euromaidan
che ha dato nome al movimento), nel febbraio 2014, hanno portato alla
deposizione del presidente Yanukovich e all’assunzione del potere da parte di
Petro Poroschenko, il predecessore di Volodymyr Zelensky.
Mentre prosegue incessante ed estende l’offensiva militare
contro tutta l’Ucraina, la Russia cerca di limitare ulteriormente l’accesso
alle piattaforme Internet straniere. Le autorità di Mosca hanno disposto il
blocco di Facebook, che è
stato oscurato il 4 marzo e secondo Top10VPN,
già nel giorno successivo la domanda di VPN da parte degli utenti russi è
aumentata di oltre 10 volte.
La scure del governo russo si è abbattuta anche su Twitter, che ha reagito lanciando una
versione del suo sito su Tor, un servizio in grado di crittografare il traffico
Internet in maniera tale da aiutare a mascherare l’identità degli utenti e
impedire che possano essere sorvegliati.
Una reazione molto diversa da quella di Facebook, che per
volontà del suo fondatore Mark Zuckerberg, ha deciso di liberalizzare
su Facebook il cosiddetto hate speech
contro la Russia. In pratica, la piattaforma di Meta ha disposto la rimozione
temporanea dei limiti ai messaggi di odio contro i militari russi
sarà valida. La decisone riguarda Armenia, Azerbaigian, Estonia, Georgia,
Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia e Ucraina,
dove sarà inoltre possibile, insultare a piacimento e spingersi a invocare
la morte di Vladimir Putin, del suo omologo bielorusso Alexander Lukashenko e
di altre figure di rilievo della nomenclatura moscovita, purché le minacce
non contengano riferimenti ad altri soggetti o non risultino credibili sulla
base di indicatori come la sede o la metodologia.
Una decisione che ha spinto l’ufficio del procuratore
generale russo a chiedere il riconoscimento di Meta come organizzazione
estremista e la sua perpetua messa al bando dalla rete russa.
Tuttavia, la perenne messa al bando della piattaforma social
della compagnia di Menlo Park ha subito provocato un’ulteriore impennata delle
reti private virtuali in Russia. Come conferma la società VPN Surfshark, secondo cui le sue vendite
settimanali nel paese euroasiatico sono aumentate del 3.500% dal 24 febbraio,
con i picchi più significativi registrati dal 5 marzo al 6 marzo, quando
Facebook è stato bloccato. A riprova che chi vive in Russia è attivamente alla
ricerca di modi per evitare la sorveglianza e la censura del governo.
Mentre la Russia si è attivata per bloccare le piattaforme
social occidentali, si allunga la lista di aziende tecnologiche occidentali che
hanno deciso di sospendere la vendita dei loro prodotti in Russia, tra queste
c’è anche Netflix, che dal 6 marzo ha sospeso il suo servizio di streaming in
Russia in segno di protesta contro l’aggressione armata dell’Ucraina.
L’autorevole Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) ha
pubblicato l’annuale
rapporto che elenca le dieci crisi di sfollamento più trascurate, sia a
livello politico che mediatico, dalla comunità internazionale. Scorrendo
l’infausta graduatoria riferita al 2021, non costituisce una novità che molti
paesi africani siano in cima alla lista.
Come dimostra la crisi più dimenticata in assoluto, quella
della Repubblica democratica del Congo
(RdC), ormai diventata un esempio da manuale di abbandono con una presenza
fissa nelle precedenti cinque edizioni del report dell’Ong di Oslo (La RdC è
stata in cima alla classifica già due volte nel 2017 e 2020, mentre si è
classificata seconda nel 2016, 2018 e 2019).
Il nord-est della RdC è afflitto da tensioni e conflitti
intercomunitari, con un drammatico aumento degli attacchi ai campi profughi dal
novembre 2021, che uniti all’insicurezza alimentare, che ha raggiunto il livello
più alto mai registrato, hanno causato lo sfollamento di oltre 5,5 milioni di
persone all’interno del paese.
Secondo lo studio, l’aiuto fornito lo scorso anno alla RdC è
stato pari a meno di un dollaro a settimana per persona bisognosa e l’appello
umanitario è stato finanziato per meno della metà, non consentendo agli
operatori sul campo di decidere a cosa e a chi dare la priorità. Al contrario,
l’appello umanitario lanciato dall’Ucraina lo scorso primo marzo è stato quasi
interamente finanziato lo stesso giorno.
Non vanno meglio le cose per gli altri paesi africani: in Burkina Faso, seconda nazione della
graduatoria, nonostante un forte aumento di persone che fuggono dalle loro
case, durante l’intero 2021 la crisi degli sfollati burkinabe ha ricevuto una
copertura mediatica sostanzialmente inferiore, rispetto alla media che la
guerra in Ucraina ha ricevuto quotidianamente durante i primi tre mesi del
conflitto.
Nella speciale classifica stilata dall’Nrc, la RdC e il
Burkina Faso, sono seguite da Camerun,
Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia. Così, per la prima volta, tutte e dieci le crisi più
neglette dalla comunità internazionale sono nel continente africano. Un triste
primato che indica il fallimento cronico dei decisori, dei donatori e dei media
nell’affrontare i conflitti e le sofferenze umane nel continente.
L’Nrc ha sviluppato la lista delle dieci crisi più trascurate
basandosi su tre criteri. In primo luogo, ha tenuto conto del numero di
iniziative politiche e diplomatiche internazionali in corso per trovare
soluzioni durature.
Per esempio, negli
ultimi quattro anni, il Camerun è sempre nei primi posti della classifica a
causa della mancanza di impegno da parte della comunità internazionale per
risolvere gli annosi problemi, che affliggono la popolazione della parte
anglofona del paese africano.
Un altro criterio su cui i ricercatori della Ong norvegese hanno
basato lo studio è la mancanza di attenzione
riservata alle crisi dai media
internazionali, che coprono
raramente questi paesi, al di là di rapporti ad hoc su nuovi focolai di
violenza o malattie. Mentre in diversi Stati africani la mancanza di libertà di
stampa aggrava la carenza di attenzione mediatica.
Per indicare un esempio, dal 2019 i media hanno citato i
quasi due milioni gli sfollati in Burkina Faso causati dagli attacchi dei
gruppi islamisti, lo stesso numero di volte dei profughi ucraini durante i
primi tre mesi del conflitto.
Infine, l’Nrc si è concentrato sulla carenza di aiuti finanziari internazionali caratterizzata da una certa stanchezza dei donatori e il
fatto che molti paesi africani sono considerati di limitato interesse
geopolitico.
Il basso livello di finanziamento limita un adeguato
soccorso
Senza tralasciare, che il basso
livello di finanziamento limita in maniera significativa la capacità delle
organizzazioni umanitarie sia di fornire un adeguato soccorso alle popolazioni
sia di svolgere un’efficace attività di advocacy
e comunicazione per queste crisi, attivando un circolo vizioso.
Le conseguenze sono ben descritte
dai numeri, che raccontano come nel 2021, nella RdC erano necessari due miliardi di dollari
per coprire i bisogni primari del paese, di cui solo il 44% è stato coperto e
nel 2022 si stima che la copertura sarà limitata al 10%.
In risposta alla tragica crisi in Ucraina,
abbiamo assistito a un’imponente dimostrazione di umanità e solidarietà,
sostenuta dalla rapidità di azione da parte della politica. I paesi
donatori, le aziende private e le opinioni pubbliche hanno tutti contribuito
generosamente, mentre i media hanno seguito ininterrottamente lo scoppio della
guerra prodotta dall’aggressione militare della Russia. Allo stesso tempo, la
situazione si sta deteriorando per milioni di persone afflitte da crisi, che si
stanno profilando all’ombra del conflitto in corso in Ucraina.
I livelli di malnutrizione sono in
aumento nella maggior parte dei dieci paesi presenti nell’elenco delle crisi
trascurate, aggravate dall’aumento dei prezzi del grano e del carburante
causati dalla guerra in Ucraina. Le organizzazioni umanitarie hanno
lanciato costantemente l’allarme dall’inizio del 2022, ma la comunità
internazionale stenta a intraprendere l’azione necessaria.
Inoltre, i finanziamenti per queste
crisi trascurate sono in pericolo. Diversi paesi donatori stanno ora
decidendo di ridurre gli aiuti all’Africa e di reindirizzare i finanziamenti
verso la risposta dell’Ucraina e l’accoglienza dei rifugiati in Europa.
Una situazione perfettamente
descritta dal segretario generale dell’Nrc, Jan Egeland, che alla
presentazione del report ha affermato che «la guerra in Ucraina ha dimostrato
l’immenso divario tra ciò che è possibile fare quando la comunità
internazionale si unisce e la realtà quotidiana di milioni di persone che
soffrono in silenzio nel continente africano, che il mondo ha scelto di
ignorare».
La nuova guerra dell’acqua in Burkina Faso. Nel Sahel al-Qaeda ora avvelena i pozzi
di Marco Cochi
Dall’inizio dell’anno, i gruppi jihadisti attivi in Burkina Faso hanno distrutto o sabotato 32 impianti idrici nel nord. Tredici organizzazioni nazionali e internazionali, che forniscono assistenza umanitaria nel paese, hanno rilevato che gli attentati ai pozzi d’acqua e alle autocisterne hanno un grave impatto su 290mila persone. I ripetuti attacchi ai servizi idrici non costituiscono una conseguenza del conflitto, ma sono ormai un’arma di guerra che segna una nuova e spregevole svolta nelle violenze. La maggior parte delle distruzioni è avvenuta a Djibo, la città che ospita il maggior numero di sfollati in tutto il Paese, dove adesso la popolazione civile ha singolarmente accesso a meno di tre litri di acqua al giorno per coprire tutti i propri bisogni, dal bere all’igiene e alla cucina. Una disponibilità irrisoria rispetto agli almeno 50 litri a persona consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per garantire condizioni di vita accettabili.
La crescente presenza della Russia in Mali: tra sostegno politico e aiuto militare
Mentre le forze d’invasione russe intensificano l’offensiva militare per conquistare le città ucraine, la giunta militare, al potere in Mali dall’agosto del 2020, lo scorso 17 aprile ha reso noto di aver ricevuto dalla Russia una nuova fornitura di equipaggiamenti militari. Si tratta di due elicotteri da combattimento e da trasporto truppe Mil Mi-24P, di un sistema radar aereo di quarta generazione e di altro materiale bellico.
Un altro lotto comprensivo di due elicotteri da combattimento e da
trasporto truppe Mil Mi-35P, un sistema radar aereo 59N6-TE e altre
attrezzature militari erano stato ricevute dal governo provvisorio di Bamako il 31 marzo, mentre lo scorso ottobre una fornitura di quattro elicotteri da trasporto
multiruolo Mil Mi-17 e una serie di armamenti, erano stati consegnati dai russi
all’aeroporto internazionale Modibo Keïta di Bamako.
Attraverso un comunicato stampa della Direzione dell’informazione e delle pubbliche relazioni delle Forze armate
(Dirpa), il capo di stato maggiore dell’esercito maliano, Oumar Diarra, non ha
mancato di manifestare il suo compiacimento per l’avvenuta consegna, che
comprova un partenariato assai fruttuoso con la Federazione russa.
Diarra ha poi aggiunto che lo stock appena ricevuto da Mosca «è anche la
manifestazione di una volontà politica molto forte di dotare l’esercito maliano
di mezzi più moderni affinché possa svolgere al meglio la sua missione di
difesa dell’integrità territoriale».
Secondo il generale Diarra, questo nuovo lotto di equipaggiamento
proveniente dalla Russia aiuterà sicuramente le Forze armate maliane (FAMa)
nella lotta quotidiana per sradicare il terrorismo su tutto il territorio
nazionale. L’alto ufficiale ha poi precisato che nell’ambito della cooperazione
tra Mali e Russia seguirà l’invio di altri equipaggiamenti militari, da parte
di Mosca.
Del resto, lo scorso 6 marzo, poco meno di due settimane dopo che la Russia
aveva invaso l’Ucraina, su Jeune Afrique
è stata pubblicata la notizia che il generale Diarra e il colonnelloSadio Camara, attuale ministro della Difesa del Mali, sono volati a Mosca per discutere l’ulteriore
consegna di equipaggiamento militare.
Sembra evidente, che i rapporti con il Cremlino hanno radici ben più
profonde di quanto dichiarato dalla propaganda della giunta militare presieduta
dal colonnello Assimi Goïta. Giunta che si ostina a non definire in maniera
chiara il calendario della transizione, che dovrebbe concludersi con le
elezioni e il passaggio dei poteri ai civili.
Un atteggiamento che ha creato a Bamako vari problemi con l’Ecowas, la
Comunità economica dell’Africa occidentale. Mentre ai vertici della Nazioni
Unite si stanno interrogando sull’opportunità di rinnovare il mandato in
scadenza della Minusma, la missione Onu che dal 2013 opera in Mali per aiutare
la stabilizzazione del paese.
Senza tralasciare, che lo scorso 2 marzo, il Mali è stato tra i 17 paesi
africani che si sono astenuti dal voto della risoluzione di condanna
dell’invasione russa dell’Ucraina approvata dall’Assemblea generale delle
Nazioni Unite (28 paesi africani hanno votato a favore della risoluzione, otto
paesi non hanno votato e l’Eritrea ha votato contro la risoluzione).
La Russia ha ampiamente mantenuto la sua presenza in Mali, nonostante il
Cremlino abbia richiamato molti suoi mercenari della società militare privata
Wagner attivi in Libia e nella Repubblica centrafricana per combattere accanto
alle truppe di Mosca in Ucraina. Come confermato da Stephen Townsend, capo
di AFRICOM, Comando militare per le operazioni USA nel continente africano, in
un’intervista esclusiva a VOA news il 17 marzo scorso.
In Mali, sono impegnati circa 1.000 effettivi russi, tra istruttori militari e contractor del
Gruppo Wagner. Mentre circa 200 militari maliani e nove agenti di polizia
stanno attualmente ricevendo formazione in Russia, come dichiarato lo scorso 7 aprile da Anna Evstigneeva, la vice rappresentante permanente della
missione russa presso le Nazioni Unite.
Inoltre, il quotidiano francese Libération e Human
Rights Watch hanno accusato i miliziani del gruppo
Wagnerdi aver perpetrato tra il 27 e il 31 marzo scorso
nella località di Moura, nella regione centrale di Mopti, il massacro di
centinaia di civili durante un’operazione militare.
Nel corso del raid, avvenuto durante lo svolgimento di una fiera del
bestiame, sono rimasti uccisi tra i 200 e i 400 civili mitragliatidagli
elicotteri oppure uccisi a sangue freddo nelle perquisizioni casa per casa
perché identificati come jihadisti. Un’identificazione motivata solo dalle
barbe lunghe o dell’accento che contraddistingue i pastori fulani, spesso
accusati di essere vicini ai gruppi islamisti attivi nel paese.
Tuttavia, la giunta militare ha respinto ogni accusa al mittente e ha affermato che più di 200 terroristi sono stati neutralizzati, a seguito di un’operazione
militare “su larga scala”. Inoltre, la portavoce del ministero degli
Esteri russo Maria Zakharova si è congratulata con le autorità maliane per questa importante vittoria nella lotta contro
la minaccia terroristica.
Zakharova ha poi negato le accuse secondo cui mercenari russi avrebbero
preso parte alla missione, affermando che queste accuse fanno parte di una
campagna di disinformazione messa in atto dall’Ucraina a danno della Russia.
Tutto ciò indica che, nonostante il sempre più pressante impegno militare
in Ucraina, Mosca sta cercando di preservare i suoi crescenti interessi
diplomatici e militari in Mali e anche nel resto dell’Africa, dove dal 2018 le
forze russe irregolari hanno fornito uomini e addestramento a governi e
movimenti ribelli.
Dallo scorso 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato la
sua aggressione militare all’Ucraina, i miliardari russi hanno visto
diminuire le loro immense fortune in modo cospicuo. Il 2 marzo, dopo una sola
settimana dall’inizio dell’invasione, il patrimonio netto degli ultra-ricchi
russi riportato dal
Bloomberg Billionaires Index, il paniere creato nel 2012 che monitora quotidianamente
lo stato dei patrimoni più facoltosi del mondo, era di 88 miliardi di dollari in meno rispetto al 23
febbraio.
Così il 3 marzo, cinque miliardari russi sono stati
estromessi dalla speciale graduatoria di Bloomberg, dopo che le
loro perdite sono più che raddoppiate da quando la Russia ha invaso l’Ucraina.
Tra questi il più penalizzato è Vagit Alekperov, il presidente
della Lukoil, la più grande compagnia petrolifera indipendente della Russia. Alekperov,
che nel 1990 fu il più giovane vice ministro dell’Energia nella storia
dell’Unione Sovietica, ha perso oltre il 60% della sua fortuna personale
prima di uscire dalla lista di Bloomberg. Il giorno dopo la sua epurazione
dalla superclassifica dei re Mida, il proprietario della Lukoil aveva chiesto
di porre fine rapidamente al conflitto tra Russia e Ucraina, diventando così la
prima grande compagnia nazionale ad opporsi alla guerra di Putin.
Il passivo astronomico subito dai miliardari è in gran parte
dovuto al crollo del mercato azionario russo e alla svendita delle loro
attività nei mercati internazionali. Già nel periodo precedente la guerra
Russia-Ucraina, le conseguenze dell’ondata prodotta dalla variante Omicron del SARS-Cov-2 e la
debolezza del rublo avevano depresso i mercati finanziari locali, ma i “paperoni”
russi hanno subito la maggior parte delle loro perdite dopo il 24 febbraio.
Tra il 23 febbraio e il 3 marzo, l’uomo più ricco della
Russia, Vladimir Potanin, ha visto calare vertiginosamente le azioni della sua
società Norilsk Nickel, gigante minerario primo produttore mondiale di palladio
e tra i maggiori fornitori dei metalli più ricercati per la transizione
energetica, come nickel, rame e cobalto. La società, quotata alla Borsa di
Londra, nella settimana successiva all’invasione è affondata di oltre il 50%, provocando
alla fortuna del magnate moscovita una perdita di 4,5 miliardi di dollari. E
dallo scorso 3 marzo, il titolo è stato sospeso dalle contrattazioni del
London Stock Exchange.
Perdite ancora più elevate sono state sostenute da Alexey
Mordashov, principale azionista e presidente di Severstal, un conglomerato
russo con interessi nel metallo, energia e miniere, che detiene una
partecipazione nella compagnia di viaggi tedesca Tui.
Anche il fondatore del Volga Group, Gennady Timchenko, che
controlla cospicui interessi nel gas naturale, trasporti, infrastrutture e nei
prodotti chimici, oltre ad avere stretti
legami con Putin, ha visto scendere di 11,3 miliardi di dollari il suo
patrimonio netto, che ora equivale a 11,1 miliardi di dollari.
Un altro dei miliardari epurati dal Bloomberg Billionaires
Index è Leonid Mikhelson, Ceo e principale azionista di Novatek, il secondo
produttore di gas naturale della Russia, dopo il colosso Gazprom. Nella
settimana successiva all’aggressione militare all’Ucraina, Mikhelson ha
totalizzato 11 miliardi di dollari di passivo.
Alle pesantissime perdite registrate nei mercati azionari,
che finché non vengono liquidate le posizioni detenute dai magnati russi sono
temporanee, vanno ad aggiungersi le draconiane sanzioni inflitte ai ricchi russi
da Regno Unito, Unione europea e Stati Uniti.
Il numero uno del Cremlino da molti anni aveva avvertito i
suoi fedelissimi che avrebbero dovuto proteggersi da eventuali misure restrittive,
in particolare dopo l’annessione della Crimea, quando le relazioni con gli
Stati Uniti e i paesi dell’Unione europea si sono inasprite.
Mentre alcuni uomini d’affari della ristretta cerchia del
presidente Putin hanno seguito il suo consiglio e hanno mantenuto i loro investimenti
in Russia, altri hanno collocato i loro soldi in sontuose proprietà all’estero
e in squadre di calcio, mentre le loro società sono rimaste quotate nelle borse
estere.
Ora si trovano in enorme difficoltà per mantenere i loro
beni, confiscati con le sanzioni economiche più dure imposte nell’era
moderna. Tra questi, uno dei più famosi in Europa è il miliardario russo
Roman Abramovich, dal 2003 proprietario della squadra di calcio londinese
del Chelsea.
Dal 23 febbraio, Abramovich ha perso circa il 12% della sua
fortuna, sebbene sia stato sanzionato più tardi di altri, forse perché sarebbe
meno influente di altri alleati di Putin. Anche se il suo ascendente sul
Cremlino è molto dibattuto tra chi suggerisce che sia semplicemente tollerato
da Putin e chi, come il Regno Unito, che crede che i due siano
vicini.
Da parte sua Abramovich nega fermamente di avere stretti
legami con Putin, ciononostante la parte britannica della sua fortuna stimata
di 12,4 miliardi di dollari è ora congelata. Poco prima dell’annuncio delle
sanzioni britanniche, ha messo in vendita il Chelsea per 3 miliardi di sterline
e anche la sua lussuosa residenza a Kensington Palace Gardens, valutata 150
milioni di sterline.
Abramovich ha creato la sua fortuna negli anni novanta ed è
stato uno dei primi oligarchi durante la presidenza di Boris Eltsin. Il
suo indiscutibile fiuto per gli affari gli ha fatto acquistare la compagnia
petrolifera Sibneft a un prezzo stracciato per poi rivenderla nel 2005 al
gigante russo Gazprom, di proprietà statale, per 13 miliardi di dollari.
Tra le sue proprietà c’è l’Eclipse, il terzo yacht più lungo
del mondo, e una altro megayacht, Solaris, in rada nel Mediterraneo. Negli
ultimi anni aveva iniziato a ritirarsi dal Regno Unito, tanto che nel 2018 ha
deciso di non richiedere il rinnovo del visto britannico e ha invece utilizzato
il passaporto israeliano appena acquisito per visitare Londra.
Mentre un tempo era solito presenziare a tutte le partite
casalinghe del Chelsea, negli ultimi anni è stato visto raramente allo Stamford
Bridge. E dopo che gli è stato vietato di entrare nel Regno Unito, non potrà
più assistere a nessun incontro di calcio di squadre inglesi.
Gli effetti delle sanzioni occidentali sul settore tecnologico della Russia
di Marco Cochi, Analista, Osservatorio ReaCT, ARDF-Fondazione Nigrizia)
Tra le molteplici sanzioni inflitte alla Russia dopo
l’invasione su larga scala dell’Ucraina, che si sta trasformando nel più grande
conflitto europeo dalla seconda guerra mondiale, possono rivelarsi assai
dannose quelle relative al campo della tecnologia. Un’analisi del Center for
European Policy Analysis (CEPA) di Washington, realizzata dai giornalisti
investigativi russi Andrei Soldatov e Irina Borogan e ripresa dal magazine
informatico ucraino Dou.ua, esamina i possibili e pesanti effetti che le nuove
sanzioni messe a punto da Stati Uniti, Unione europea, Giappone e altri paesi
produrranno sul settore tecnologico della Federazione.
La potenza multi-regionale, in apparenza, dovrebbe essere
preparata a fronteggiare questo tipo di sanzioni, visto che il Cremlino per
ridurre la dipendenza tecnologica dagli stranieri, da anni spinge per lo
sviluppo del proprio “made in Russia”. Per questo, dal 2015, ha introdotto vari
tipi di incentivi e restrizioni per le società statali e le agenzie governative
al fine di favorire l’importozameshchenie
(la sostituzione delle importazioni con prodotti locali) di software e hardware
promuovendo i servizi offerti da azienda russe, come Яndex (Yandex), che nel
1997 lanciò il primo motore di ricerca in cirillico, oppure il Gruppo Mail.ru
di Dmitry Grishin.
Nel settembre 2016, Mosca aveva già iniziato ad
abbandonare la tecnologia Microsoft sostituendo su 6mila computer
dell’amministrazione cittadina, i software gestionali della posta elettronica
dell’azienda di Bill Gates (Exchange Server e Outlook) con quelli della
compagnia di comunicazione locale Rostelecom PJSC. Per poi affidare la gestione
dello sviluppo dei sistemi operativi e dei software alla compagnia New Cloud
Technologies, che ha progettato il sistema operativo russo Moi Ofis Pochta in
sostituzione di Microsoft Office.
Mentre con l’aumento della tensione, nelle settimane
precedenti all’aggressione militare dell’esercito russo contro l’Ucraina, le
agenzie governative e le società statali si stavano già organizzando per
testare soluzioni hardware basate su microprocessori Elbrus 16-S e Baikal-M,
prodotti in Asia centrale e sviluppati in Russia.
Allo stesso tempo, Sberbank, la più grande banca statale
russa, ha testato gli effetti dell’estensione delle sanzioni occidentali sulla
sua infrastruttura tecnica privata del supporto software e hardware di
Microsoft, Oracle, Intel e SAP.
I risultati devono essere stati così contrastanti che la
Sber ha deciso di acquistare un’enorme quantità di apparecchiature occidentali,
server, database di archiviazione, software, prima che venissero imposte le
sanzioni. La banca russa aveva già stanziato 31,8 milioni di dollari per
acquistare i prodotti di Vmware, la società di Palo Alto sussidiaria della Dell
Technologies, che da oltre cinque anni è diventata il provider ufficiale di
software e cloud industriale dell’istituto finanziario russo.
Un segnale importante sulla non completa affidabilità del
software e dell’hardware di produzione russa, perché Sberbank non è solo la più
grande banca russa che garantisce gli stipendi dei dipendenti pubblici, ma è
guidata da Herman Gref, molto vicino al Cremlino e considerato uno dei più stretti
alleati di Vladimir Putin.
Gref, che nel 2018 è stato indicato da Forbes come la
persona più influente in Russia dopo Putin, ha sempre creduto che la
digitalizzazione possa supplire le lacune gestionali della macchinosa
burocrazia russa e usa tutta la sua influenza per realizzarla nel paese.
Sberbank però non è l’unica istituzione russa a
manifestare il proprio scetticismo sulla tecnologia locale. Molte grandi
aziende hanno espresso apertamente la preoccupazione che i computer russi non
siano sufficientemente affidabili per l’impiego in grandi realtà industriali.
In piena Guerra Fredda, il fondatore di Oracle, Lawrence
“Larry” Ellison, affermò che «l’unico modo in cui Oracle poteva essere
importato in Russia era attraverso una testata nucleare». Poi, dopo
l’implosione dell’Unione Sovietica, la situazione è radicalmente cambiata e
Oracle è diventato gradualmente onnipresente nelle imprese statali e nelle
agenzie governative russe. Oggi, i prodotti Oracle sono diffusi in quasi tutto
il paese, anche nei computer della FSB.
Una diffusione e un’affidabilità che rende difficile
sostituire i sistemi del gigante informatico di Redwood, tanto che per trovare
una soluzione il Ministero dello Sviluppo digitale russo ha escogitato un
espediente. In sostituzione di Oracle, il dicastero di Mosca ha promosso
l’adozione del sistema di gestione di database open source a oggetti
PostgreSQL. Tuttavia, anche PostgreSQL è sviluppato negli Stati Uniti, presso
l’Università della California, ma le autorità russe ritengono che essendo un
software gratuito sarà protetto dalle sanzioni.
Uno dei punti nevralgici dell’indipendenza tecnologica
russa consiste nel fatto che il software e l’hardware di fabbricazione locale
possono essere ben utilizzati nelle piccole e medie imprese, ma sorgono
problemi quando si tratta di grandi aziende che devono gestire enormi quantità
di traffico e dati.
La Russia ha alcune aziende degne di nota nel digitale
come Abbyy e Kaspersky nel software, ma la maggior parte delle società e delle
agenzie governative preferiscono ancora prodotti e servizi occidentali. Allo
stesso modo, la Russia è in ritardo anche sui i chip, nonostante abbia due
aziende competitive come Baikal e Mikron, che non sono però in grado di coprire
il fabbisogno della Federazione. E questo sarà un enorme problema considerato
che Intel, AMD, GlobalFoundries e la taiwanese TSMC hanno interrotto le
spedizioni di semiconduttori verso la Russia. Una spallata impressionante per
la tecnologia della Federazione, che inciderà in modo molto negativo e
trasversale su moltissimi comparti.
Lo scorso 24 febbraio, nell’annunciare le sanzioni in
risposta all’invasione della Russia in Ucraina, il presidente degli Stati Uniti
Joseph Biden è stato assai eloquente in proposito. Biden ha spiegato che «le
restrizioni alle importazioni russe di tecnologie chiave, come i
semiconduttori, ne limiteranno l’accesso alla finanza e alla tecnologia per le
aree strategiche della sua economia e intaccheranno la sua capacità industriale
per gli anni a venire». Biden ha aggiunto che «le sanzioni rappresentano un
duro colpo per le ambizioni strategiche a lungo termine di Vladimir Putin,
poiché mineranno la capacità della Russia di modernizzare l’esercito,
l’industria aerospaziale e di sviluppare le tecnologie alla base dell’intelligenza
artificiale».
Una fase critica che potrebbe spingere ulteriormente
Mosca verso la Cina, che dopo le restrizioni imposte nel 2020 dal governo
americano alle esportazioni di chip verso le sue aziende, tra cui Huawei,
accusata di spionaggio dagli Stati Uniti, ha varato un piano ambizioso, per
quanto complicato, per lo sviluppo un’industria di semiconduttori in grado di
produrre componenti all’avanguardia in autonomia. Un piano che in futuro sarà
in grado di fornire microchip e microelettronica anche alla Russia, che adesso
non è in grado di colmare il suo gap tecnologico con la produzione interna.
📌#ReaCT2023 The 4th annual Report on Terrorism and Radicalisation in Europe ⬇📈launches on 23rd May. Don't miss it! 📊📚Numbers, trends, analyses, books, interviews👇 pic.twitter.com/KLIWWlrJXS
🔴📚 OUT SOON! #ReaCT2023 Annual Report on Terrorism and Radicalisation in Europe | Start Insight ⬇ 16 articles by different authors discuss current trends and numbers. Available in Italian and English startinsight.eu/en/out-soon-r…
🔴@cbertolotti1 a FanPage sulle varie ipotesi dell'attacco👉"(...) non si tratterebbe di droni in grado di fare danni significativi, ma piuttosto di una tipologia di equipaggiamento in grado di fare danni limitati con l'obiettivo di portare l'attenzione mediatica sulla questione" twitter.com/cbertolotti1/s…
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.