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Il presidente Joe Biden e il dossier siriano

di Claudio Bertolotti

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Il passaggio dall’amministrazione di Donald J. Trump alla nuova amministrazione del presidente Joe Biden potrebbe portare a pochi cambiamenti alla politica statunitense nel Medioriente. Gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo importante nella stabilizzazione dell’area e nel tentativo di dissuadere attori locali e regionali dal prendere iniziative sfavorevoli.

Il 25 febbraio, aerei statunitensi hanno bombardato alcuni obiettivi nella parte orientale della Siria, al confine con l’Iraq. Target dei bombardamenti erano due milizie operative in Iraq, Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al Shuhada, indicate da Washington quali responsabili di operazioni mirate ai dannni delle truppe statunitensi in Iraq.

Nonostante l’annuncio del disimpegno statunitense e del conseguente ritiro militare dalla Siria nord-orientale, Washington continua a schierare nell’area alcune centinaia di truppe.

Il passaggio dall’amministrazione di Donald J. Trump alla nuova amministrazione del presidente Joe Biden potrebbe portare a pochi cambiamenti alla politica statunitense nel Medioriente. Questo perché la visione del nuovo presidente in termini di relazioni estere e approcci alle dinamiche mediorientali non è così diversa da quella dei suoi predecessori (compresa l’amministrazione di Barack Obama, di cui Biden fu vice-presidente).

Quello che potrebbe cambiare sarà l’approccio più aggressivo degli altri attori e concorrenti: Turchia, Russia e, ultimo ma non meno importante, l’Iran. Di sicuro, chi pagherà il prezzo più alto saranno gli attori di seconda linea: la pletora di milizie, così come i gruppi islamisti, e il cosiddetto fronte delle forze democratiche siriane (SDF, Syrian Democratic Forces) tra le cui fila c’è lo Yekîneyên Parastina Gel (YPG, People’s Protection Units) – componente maggioritaria delle SDF – osteggiato dalla Turchia. Turchia che considera l’YPG come estensione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), designato da Ankara – e dagli stessi Stati Uniti – come gruppo terroristico. Ma, nonostante la designazione terroristica del PKK da parte statunitense, l’YPG ha mantenuto il ruolo di partner fedele e indispensabile all’interno della coalizione internazionale (contro lo Stato islamico) guidata da Washington. L’YPG, che il PKK di fatto continua comunque a considerare come propria affiliata siriana, nega gli attuali legami istituzionali tra le due organizzazioni.

Sull’altro fronte, nel nord-est della Siria permane una residua presenza e attività dello Stato Islamico: una sfida che perdura. Sebbene le capacità operative del gruppo rimangano limitate e non si sia verificato alcun grave fatto sul piano della sicurezza, i suoi membri sono stati in grado di ricompattarsi ed oggi istituiscono posti di blocco, estorcono denaro a trafficanti locali di petrolio, impongono tasse per le transazioni commerciali ai proprietari terrieri, immobiliari, industriali, dirigenti, medici e fornitori delle principali organizzazioni non governative (ONG), mentre a tutti coloro che vengono considerati benestanti viene imposta la zakat, la beneficenza “volontaria”. Ciò che più preoccupa, nel complesso scenario siriano (ma anche iracheno) è l’apparente capacità del gruppo di coinvolgere e addestrare nuove reclute nelle aree periferiche e desertiche a ovest dell’Eufrate, solo nominalmente controllate da forze del governo siriano (ICG, 2020).

Analisi, valutazioni, previsioni

Gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo importante nella stabilizzazione dell’area e nel tentativo di dissuadere attori locali e regionali dal prendere iniziative sfavorevoli. Un ruolo che però è stato fortemente indebolito dall’ambiguità degli annunci, spesso vaghi e contraddittori, che hanno caratterizzato la precedente amministrazione statunitense in merito alla presenza di Washington in Siria. Da un lato, la linea strategica palesata non ha consentito di pianificare efficacemente l’impegno militare sulla base di una time-line e un end-state definito; dall’altro lato, l’ipotesi di un impegno a tempo indeterminato, senza una tabella di marcia, né una chiara strategia diplomatica potrebbe mantenere in una condizione di permanente destabilizzazione e violenza (IGC, 2020); oppure, ulteriore variabile, un ritiro precipitoso degli Stati Uniti, o anche solo il semplice annuncio di un ritiro imminente, potrebbe sconvolgere il già precario equilibrio tra gli attori in campo.

Infine, guardando dal punto di vista giuridico, l’ipotesi di permanenza a tempo indeterminato potrebbe essere vista come una violazione del diritto internazionale del principio di sovranità, a danno del legittimo Stato siriano; una preoccupazione esacerbata dalla dichiarazione, fatta dall’allora presidente Donald J. Trump a fine 2019, di impegno a rimanere in Siria per “proteggere il petrolio” (ICG, 2020).

Sebbene Joe Biden appaia meno propenso di Trump a chiudere l’operazione in Siria, la sua amministrazione potrebbe però decidere di disimpegnare le truppe statunitensi esattamente come avrebbe fatto Trump. È una possibilità, sebbene i consiglieri di Biden ritengano la presenza militare a tempo indeterminato quale requisito necessario a scongiurare violenti stravolgimenti sul fronte che minaccerebbero gli alleati locali di Washington – e tra questi certamente i curdi dell’YPG – e potrebbero agevolare la rinascita del gruppo Stato islamico.

Ma se, per ipotesi, gli Stati Uniti decidessero di attuare un disimpegno immediato dal teatro siriano quali potrebbero essere gli esiti più probabili?

In primo luogo potrebbe aprirsi una nuova fase di violenza, a tutto vantaggio dei gruppi jihadisti e terroristi – in primis lo Stato islamico, che si rafforzerebbe riacquisendo capacità operative e di controllo territoriale e sociale.

In secondo luogo, questa nuova fase del conflitto incentiverebbe il confronto, e dunque lo scontro, tra il partner locale degli Stati Uniti, le cosiddette Syrian Democratic Forces (SDF), e la Turchia – che vede negli elementi curdi delle SDF un’estensione siriana del PKK.

Una possibile via di uscita alternativa potrebbe concretizzarsi qualora Washington decidesse di giocare il ruolo di mediatore ai fini di un accordo tra le parti che affronti i problemi di sicurezza turchi (reali e percepiti), protegga gli oltre tre milioni di siriani che risiedono nel nord-est della Siria e, in particolare, riduca il rischio di rinascita dello Stato islamico (ICG, 2020).

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#ReaCT2021 – Prefazione del co-editore Flavia Giacobbe, Direttore di Formiche – Airpress

di Flavia Giacobbe, Direttore di Formiche e Airpress

Pandemia, crisi, vaccini e rilancio. I grandi riflettori della politica e dell’opinione pubblica si concentrano ormai da mesi sull’emergenza Covid-19. Eppure, latenti ma concrete, continuano a premere sull’Europa (e non solo) altre minacce: il terrorismo, il radicalismo jihadista e varie forme di estremismo. A inizio gennaio, l’assalto al Campidoglio americano ha scosso il mondo. Un attacco al cuore della democrazia a stelle e strisce che ritenevamo impensabile, perpetuato grazie a movimenti come l’ormai nota organizzazione cospirazionista QAnon. Dimostra quanto la minaccia sia reale e quanta attenzione meriti, anche oggi che altri temi e altre urgenze hanno scalato le classifiche dell’attenzione pubblica. Il tema principale è come trattare questi rischi, mettendo in campo misure efficaci di prevenzione che consentano di anticipare i processi di radicalizzazione prima che si manifestino. Prima cioè che si trasformino in violenza tangibile, come quella alla quale abbiamo assistito a Capitol Hill.

Ma il terrorismo che continua a spaventare di più è quello jihadista, una sfida che vede l’Europa in prima linea sia per la vicinanza a zone di guerra, sia per la presenza di numerosi foreign fighters rientrati dalle zone di scontro. Tra i dati del rapporto ReaCT 2021, ce ne è uno che colpisce particolarmente: il 20% dei terroristi che ha agito lo scorso anno è riconducibile a immigrati irregolari. Ciò manifesta come la prevenzione sia inevitabilmente legata a doppio filo con le politiche migratorie, con il coordinamento tra partner europei e con il dialogo con i Paesi di origine e transito. Dimostra altresì che, quando si parla di terrorismo, è imprescindibile avere chiaro il quadro geopolitico, in continua evoluzione, che circonda il nostro Paese e l’Europa. Le ceneri dello Stato islamico in Siria e Iraq hanno lasciato molti interrogativi sul campo, primo su tutti lo spostamento o il rimpatrio di combattenti, fenomeno a cui non può non corrispondere un coordinamento internazionale. La via dei Balcani resta all’attenzione delle autorità, in particolare il Kosovo, da cui provenivano la maggior parte dei combattenti confluiti in Siria e nel quale, l’Italia ha un ruolo di primo piano, anche grazie alla guida della missione Nato Kfor.

Entro i confini nazionali, la minaccia è stata ben illustrata nelle ultime relazioni annuali della nostra Intelligence. Oltre a mettere in guardia la politica circa i rischi jihadisti che possono minare la sicurezza della Repubblica, hanno evidenziato di recente anche i rigurgiti di estrema destra. Un trend da attenzionare, contrario ai dati europei che invece mostrano una prevalenza del fenomeno legato all’estrema sinistra. Nel complesso, un impulso importante alla de-radicalizzazione può venire dal nostro Parlamento. Nella scorsa legislatura, dopo un iter molto travagliato, la proposta di legge Manciulli-Dambruoso è passata soltanto alla Camera. Ciò ha sicuramente fatto perdere un’occasione al Paese di avere, nel momento di maggiore attenzione da parte dell’opinione pubblica, uno strumento normativo idoneo a contrastare e prevenire il fenomeno del terrorismo. Nella nuova legislatura, si è rimesso in cantiere il testo, e l’auspicio non può che essere per un iter condiviso tra le varie forze politiche, nel comune intento di dotare il Paese di strumenti più efficaci e lungimiranti per combattere cause e diffusione di una minaccia tutt’altro che scomparsa. Il dialogo tra politica, esperti e servizi di sicurezza resta naturalmente la chiave per ottenere buoni risultati. A tal fine, il rapporto ReaCT 2021 si dimostra un utile strumento di lavoro, una bussola con cui orientarsi per comprendere il fenomeno, le sue radici ed evoluzioni.

Per questo, Airpress e Formiche hanno scelto di coeditare la seconda edizione del rapporto, così da contribuire, nel loro piccolo, a mantenere vivo l’interesse dei decision makers su un tema che incide sensibilmente sulla sicurezza di ciascuno di noi.

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#ReaCt2021 – Le strategie di contrasto alla radicalizzazione violenta: il caso studio

di Alessandra Lanzetti

L’uccisione del professore francese Samuel Paty e i recenti attacchi realizzati a Nizza e a Vienna, mostrano chiaramente che il terrorismo di matrice jihadista rimane una delle più grandi minacce per l’Europa, nonostante la caduta del Califfato.

L’antiterrorismo è consapevole che per un contrasto efficace sia necessario affiancare agli strumenti giuridici repressivi misure che consentano di giocare in anticipo rispetto ai processi di radicalizzazione, andando a incidere sulle fasi antecedenti la commissione dei reati di terrorismo.

In Italia, già dalla scorsa legislatura, è stato avviato un dibattito parlamentare finalizzato a far confluire in una legge gli strumenti che già nella prassi vengono usati per individuare in tempo i soggetti radicalizzati e, altresì, per favorirne la de-radicalizzazione e il recupero in termini di abbandono dell’ideologia violenta e di integrazione sociale, culturale, lavorativa, fermo il rispetto delle garanzie fondamentali in materia di libertà religiosa.

In attesa che la proposta di legge a firma dell’On. Fiano, i cui contenuti ricalcano quella precedente a firma degli On. Manciulli – Dambruoso, venga discussa alla Camera dei Deputati, nella prassi italiana non mancano casi in cui con gli strumenti giuridici esistenti siano stati avviati programmi di intervento tesi alla de-radicalizzazione.

Uno di questi casi è quello di B.A., un adolescente di origini algerine che nel 2017 è stato indagato dal Tribunale per i minorenni di Trieste per istigazione a commettere reati di natura terroristica, aggravata dall’uso del mezzo telematico.

Aveva 14 anni B.A. nel 2017, quando gli uomini della Digos di Udine e dell’UCIGOS ritrovarono nella sua disponibilità alcuni scritti riportanti messaggi riferibili alla guerra religiosa e la riproduzione della bandiera dello Stato Islamico. Erano mesi che gli investigatori stavano sulle sue tracce, attraverso un costante monitoraggio sulle sue chat della piattaforma Telegram; spazio virtuale  dove non era più quel ragazzino introverso e senza amici, ma un punto di contatto del gruppo terroristico “Stato islamico”, che amministrava numerosi canali telematici divulgando i contenuti della propaganda jihadista, insegnando come costruire bombe in maniera artigianale e istigando gli utenti a commettere delitti di terrorismo e contro l’umanità, offrendosi anche per fornire concreti aiuti a chi fosse intenzionato a unirsi alla causa jihadista.

L’indagine era partita da una segnalazione dell’intelligence, condivisa in sede di CASA – Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo, in base alla quale un giovane italiano di origine araba avrebbe avuto in animo di compiere un non meglio specificato attentato ai danni del plesso scolastico “Deganutti” di Udine.

Ma chi è B.A.? E come è finito nelle maglie dello Stato islamico?

B.A. è nato in Italia da una famiglia di immigrati algerini che lo ha educato secondo i principi tradizionali della cultura del loro Paese di origine; ciò aveva reso difficile l’integrazione dell’intero nucleo familiare nel tessuto sociale del Nord-Italia.

Questa parte del vissuto di B.A. è un elemento chiave per comprendere quali siano i meccanismi di innesco dei processi di radicalizzazione, che il più delle volte partono da un disagio di vario genere, psicologico, sociale, culturale. Spesso aderiscono all’ideologia islamista radicale proprio giovani immigrati di seconda generazione che sono nati, cresciuti e scolarizzati in un Paese occidentale, il più delle volte da famiglie legate a una religiosità popolare, ma che avvertono un senso di estraneità derivante dalla cd. doppia assenza, cioè il non sentirsi interamente parte né della propria cultura originaria né di quella del Paese in cui oramai vivono.

Questa frustrazione, associata a una personalità connotata da intelligenza e molto sicura di sé, ma con scarsa empatia e un elevato autocontrollo e distacco emotivo, lo ha portato a ricercare nel web le risposte alla sua solitudine, pensando di acquisire importanza e di avere un ruolo nella società attraverso i compiti che gli venivano assegnati telematicamente dai “maestri dello Stato islamico”.

La struttura del processo minorile ha reso possibile bilanciare le esigenze securitarie e di accertamento del reato con quelle di recupero del ragazzo, al fine di fornirgli una strada alternativa fondata sul rispetto della legalità. Infatti, già nelle fasi antecedenti al processo il Procuratore della Repubblica minorile aveva incaricato una psicologa, affiancata da un mentoring[1], per fornire a B.A. un supporto professionale e aiutarlo a comprendere correttamente l’interpretazione degli aspetti religiosi richiamati nella propaganda. Durante il processo poi l’imputato ha chiesto di essere ammesso alla cd. probation, con conseguente assegnazione all’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Trieste dell’incarico di predisporre un progetto ritagliato sulle esigenze rieducative e di recupero dell’imputato, il quale, nonostante avesse parzialmente ammesso la sua responsabilità, confermando le condotte che gli venivano addebitate, ne sminuiva il disvalore e la pericolosità, riducendo il proprio interesse per lo Stato islamico a semplice curiosità

Il programma è iniziato a maggio 2019 ed ha avuto la durata di 12 mesi; la sua realizzazione ha coinvolto una pluralità di esperti, i quali, ciascuno in base alle proprie competenze, hanno contribuito a gestire la risocializzazione e la de-radicalizzazione di B.A.: in particolare sono intervenuti l’autorità giudiziaria, le forze dell’ordine, gli psicologi coadiuvati dal mentoring, le figure di sostegno socio/assistenziali in una sinergia multi-agency.

Le linee direttrici dettate dall’autorità giudiziaria hanno avuto l’obiettivo primario di far comprendere ed elaborare al radicalizzato la gravità delle condotte, la pericolosità dell’attività posta in essere, sia in relazione ai beni giuridici collettivi coinvolti, come la sicurezza e l’ordine pubblico e la personalità dello Stato, sia in relazione all’importanza del bene della vita, della salute e dell’incolumità personale degli individui.

Parallelamente al programma di supporto psicoterapeutico e alla frequentazione della scuola, B.A. ha iniziato a svolgere una serie di attività con soggetti svantaggiati e vittime di violenza, in centri di aggregazione interculturali: prestando sostegno a soggetti deboli e/o disabili di differente appartenenza sociale, nazionale o religiosa, ovvero soggetti a traumi correlati a fenomeni migratori, si è riuscito a misurare con prospettive culturali e dinamiche sociali diverse dalle proprie, così da apprendere la consuetudine alla tolleranza e alla non violenza come sistema di lotta per l’affermazione dei propri valori e per sviluppare il senso di appartenenza alla comunità.

Queste attività inoltre gli hanno offerto un’occasione sana di socializzazione e di riattivazione delle emozioni, “anestetizzate” dall’isolamento sociale e dalla profonda immersione monotematica nei materiali online di propaganda dello Stato islamico.

A riprova dell’efficacia del metodo scelto si riporta uno stralcio della sentenza con cui a giugno 2020, all’esito della messa alla prova, l’autorità giudiziaria ha dichiarato il non luogo a procedere[2] per estinzione del reato, valutando che “il percorso di messa alla prova ha portato l’imputato al risultato di verificare la rivisitazione del proprio passato e la ricomposizione dello stesso in un quadro dotato di coerenza e continuità; lo stabile orientamento del medesimo nell’area della legalità e il concreto impegno a dare alla propria vita una struttura ed un orientamento fondato sul valore della formazione e mirante al mantenimento di sé mediante il lavoro, si da far fondatamente supporre in lui una futura condotta improntata al rispetto di sé e degli altri consociati”.

[1] Esperto di narrativa jihadista, in particolare nel caso in esame si è trattato un cd. former, cioè una persona che ha fatto parte di un gruppo estremista violento da cui ne è uscito.

[2] Sentenza del Tribunale per i minorenni di Trieste n. 59/20 del 9/6/2020 depositata il 19 giugno 2020

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#ReaCT2021 – Estrema destra ed estrema sinistra in tempi pandemici: alcune riflessioni

di Barbara Lucini, ITSTIME Università “Cattolica”

Lo scenario pandemico emerso con la diffusione dell’epidemia da Covid -19 ha posto in evidenza alcune sfide, che molte società dovranno affrontare nei prossimi anni.

Le nuove tipologie di estremismo[1] che hanno preso forma nelle immediate settimane successive l’inizio della pandemia, sono una di quelle. Infatti, come ogni crisi, anche quella pandemica sanitaria ha avuto un impatto sulle organizzazioni terroristiche e i movimenti estremisti.

Le prime considerazioni che si possono muovere in questo ambito, si focalizzano su alcune caratteristiche emergenti e tipiche degli estremismi di destra e sinistra, che sembrano sempre più avere tendenze comuni nell’utilizzo di competenze, metodologie e strategie comunicative diffuse sia online sia nella vita reale.

Innanzitutto, il paradosso presente nella vocazione sempre più internazionale, che promuove la prospettiva di rete organizzativa, animata dal superamento dei confini geografici per unire correnti di pensiero e azione dissimili: questa internazionalizzazione sottende però per entrambi gli orientamenti di estrema destra e  sinistra, un forte radicamento sul territorio di origine, che assume sempre di più la firma culturale di questi gruppi estremisti. Un esempio per tutti, il gruppo di estrema destra PEGIDA in Germania, nato a Dresda e che da quella città e da quel contesto socio – culturale non potrebbe essere sradicato.

Questo gruppo è altresì interessante perché sottolinea un’altra caratteristica dei gruppi estremisti ai tempi della pandemia: il trasferimento delle loro attività di diffusione del pensiero, reclutamento e finanziamento, prevalentemente online. Così infatti è stato proprio per il gruppo PEGIDA, che ha organizzato delle marce su un canale Youtube durante il lockdown in Germania.

Nuove metodologie e diversi utilizzi della rete, appaiono oramai sempre più un trend sistematizzato per entrambi gli orientamenti estremisti.

Un altro aspetto da rilevare, che ha interessato gruppi di estrema destra nazionali e internazionale, è la promozione di disinformazione e fake news sulle tematiche riguardanti la pandemia. Questa modalità di azione è una nuova forma di estremismo comunicativo, che ha come fine quello di produrre ancora più caos e incertezza generati dalla crisi pandemica, andando a rinforzare l’orientamento di pensiero dominante del gruppo estremista di riferimento.

A questo proposito le varie teorie cospirazioniste sono state un terreno fertile, per l’utilizzo di questa metodologia da parte di alcuni movimenti di estrema destra, peraltro già in essere con lo scandalo di Cambridge Analytica.

In Italia la situazione che riguarda l’estremismo di destra e sinistra è simile a quella di altri Paesi Europei, pur conservando alcune specificità culturali.

Comparando forme di estrema destra e sinistra in Italia ai tempi della pandemia è possibile sostenere che è in atto una competizione, che riguarda la loro sopravvivenza in un quadro nazionale cambiato dalla pandemia; le rivendicazioni alternate fra i due orientamenti di alcune proteste anti – lockdown dimostrano una riorganizzazione in essere e soprattutto il nuovo assetto eterogeneo della minaccia futura, che vedrà sempre più forme estremiste culturali miste e variegate competere o allearsi, con lo scopo di provocare disordine sociale e crisi istituzionali.

In questo contesto, diventa indispensabile ripensare da una prospettiva teorica alle definizioni ideologiche, che non soddisfano più come in passato la classificazione di estremismo e terrorismo di destra e sinistra ed infine sviluppare metodologie di studio e analisi adatte alla considerazione degli aspetti socio – culturali, spesso sottostimati, espressi dalle varie forme di estremismo soprattutto in ambienti online.

[1] B. Lucini (2020), Extremist avantgarde and fake news in time of pandemic, https://www.itstime.it/w/extremist-avantgarde-and-fake-news-in-time-of-pandemic1-by-barbara-lucini/

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#ReaCT2021 – L’attacco di Vienna e la pista balcanica

di Enrico Casini, Europa Atlantica – Direttore

L’attacco terroristico a Vienna, del 2 novembre 2020, rivendicato dal gruppo terrorista Stato Islamico, ha riportato l’attenzione, oltre che sull’organizzazione terroristica, anche sulla sua presenza in Europa e i possibili legami nei Balcani. L’attentatore ucciso, secondo quanto rivelato dalle autorità austriache, era un giovane ventenne di nazionalità austro-macedone, che già nell’aprile del 2019 era stato condannato a 22 mesi di carcere per aver cercato di raggiungere la Siria e unirsi alle milizie di ISIS. Fejzulai Kujtim, definito secondo quanto riportato dalle agenzie un “soldato del califfato”, viene identificato dagli organi di propaganda dello Stato islamico con il nome di battaglia “Abu Dujana al-Albani”. Nei giorni successivi alla sua morte sono emersi altri elementi su di lui, non solo relativi al suo processo di radicalizzazione, ma anche i suoi presunti legami con un network di jihadisti di origine balcanica i “Leoni dei Balcani”. Infatti, non solo aveva già cercato di unirsi alle milizie jihadiste in Siria in passato, ma avrebbe avuto legami con il Kosovo e con questa presunta rete di jihadisti presente in Europa.

Questa vicenda ha riproposto il tema della presenza jihadista nell’area dei Balcani, tema noto da tempo alle agenzie di intelligence europee e agli esperti della materia. I paesi della penisola Balcanica, Bosnia-Herzegovina, Macedonia del Nord, Albania, Kosovo, Montenegro, sono da tempo interessati dal fenomeno e dalla presenza di soggetti jihadisti, tanto da aver fatto temere, per la loro posizione geografica nel cuore dell’Europa, di poter diventare una sorta di potenziale hub logistico per il jihadismo verso il Vecchio continente. Del resto, la presenza di veterani del jihad nei Balcani è datata fin dai tempi delle guerre jugoslave degli anni Novanta, ed è confermata sia dai flussi e dai numeri di foreign fighters partiti da questi paesi, che dalle inchieste che hanno rivelato la presenza di reti e di legami tra jihadisti di origine balcanica in Europa.

Secondo uno studio del Combating Terrorism Centre di West Point, “Western Balkans Foreign Fighters and Homegrown Jihadis: Trends and Implication”, di Adrian Shtuni, i foreign fighters partiti dalla regione tra il 2013 e il 2016 sarebbero stati circa 1070, tra cui un alto numero anche di donne e bambini: di questi sembrerebbe che circa 460 abbiano fatto ritorno. La presenza di jihadisti balcanici nella fila dello Stato Islamico era nota, anche tra le unità di combattenti monoetniche. Non a caso lo Stato islamico aveva in passato investito con campagne ad hoc, anche nel reclutamento di jihadisti balcanici, si ricordi il celebre video “Honor is in Jihad” cercando di soffiare sul fuoco del risentimento e delle fratture storiche presenti in questa regione da secoli, più volte sconvolta da confliti di matrice religiosa, e sempre pronte a innescare reazioni violente o forme di estremismo diverse.  Preoccupa molto la diffusione dell’ideologia jihadista nell’area insieme ad altre forme di estremismo violento, che con l’attuale crisi sanitaria potrebbero essersi accresciuti affondando sul terreno fertile dato da crisi economica e risentimento, favorendo altre nuove tensioni.  A prescindere dal caso di Vienna, e dalle inchieste che hanno coinvolto anche il nostro paese in passato, indubbiamente la minaccia della presenza di jihadisti e della diffusione di forme di radicalismo islamista violento in alcune zone della regione balcanica, a partire anche da zone meno attenzionate, è un tema con cui fare i conti e che riguarda non solo i paesi balcanici.

Come la storia ci ha insegnato in più occasioni, i Balcani restano un crocevia strategico nel cuore dell’Europa, ma anche terra di incontro e confronto tra culture, popoli, religioni diverse, attraversata però anche da rivalità su cui spesso, nella storia, si sono inserite anche le mire e le ambizioni di potenze medie e grandi. Potenze rivali che anche oggi, su questa regione, cercano di allungare la propria influenza, talvolta approfittando anche delle sue divisioni e delle sue fragilità. In questo contesto, la minaccia jihadista nei Balcani è oggi ancora viva e presente e potrebbe covare, come fuoco, sotto la cenere, in attesa di mostrarsi e colpire, mettendo a rischio la sicurezza dell’area e del resto d’Europa.

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#ReaCT2021 – L’esperienza del Kosovo nel rimpatrio dei foreign fighters

di Matteo Bressan, SIOI

Mentre la maggior parte dei paesi europei è stata riluttante a rimpatriare i propri cittadini che si sono uniti al gruppo terroristico dello Stato Islamico (IS) in Siria e in Iraq, il governo del Kosovo ha preso una strada diversa, rimpatriando dozzine di persone con l’intenzione di reintegrarle nella società.

Nell’aprile del 2019, il Kosovo ha rimpatriato 110 cittadini, inclusi uomini, donne e bambini, diventando uno dei pochi paesi che hanno rimpatriato i propri cittadini che avevano combattuto per lo Stato Islamico. Si stima che circa 403 kosovari si siano uniti al conflitto in Siria e in Iraq; tra questi 255 uomini e il resto donne e bambini. Quasi la metà ha viaggiato prima che IS dichiarasse il suo califfato nel giugno 2014, unendosi ai vari gruppi di milizie che hanno cercato di rovesciare il regime di Assad. Un’altra ondata si è successivamente unita e si ritiene che chi ha viaggiato dopo il giugno del 2014 abbia aderito direttamente all’IS. Circa 76 bambini con almeno un genitore kosovaro è nato in zone di conflitto. Il flusso di combattenti stranieri dal Kosovo era piuttosto alto date le dimensioni della popolazione complessiva (circa 1,8 milioni), mentre relativamente bassa è stata la percentuale dei suoi cittadini musulmani.

Nell’affrontare la minaccia dei foreign fighters, il Kosovo ha optato per una combinazione tra misure punitive, misure riabilitative e di reinserimento.

Nel 2015, il Kosovo è diventato il primo paese dei Balcani occidentali ad adottare una legislazione completamente nuova al fine di vietare la partecipazione a conflitti armati al di fuori del territorio nazionale, rendendo l’adesione a conflitti stranieri punibile fino a 15 anni di carcere. Il codice penale del Kosovo, modificato nel 2019, copre tutti gli aspetti del finanziamento del terrorismo e contiene nuove disposizioni legali relative ai documenti falsi utilizzati per viaggi per attività terroristiche, agevolando in questo modo l’individuazione e la cattura dei terroristi.

Oltre a queste misure, anticipando il possibile rientro di cittadini dalle zone di conflitto, già dal 2017, il governo del Kosovo aveva iniziato a mettere in atto un piano per affrontare le sfide legate al rimpatrio. La maggior parte delle donne e dei bambini mostravano sintomi del disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e molti, compresi sei bambini feriti e diverse donne con gravi problemi di salute, avevano bisogno di cure mediche. Sebbene i tribunali kosovari stiano accusando un numero crescente di donne, oltre agli uomini, per reati legati al terrorismo, le loro pene rimangono più leggere che per le loro controparti maschili. La stragrande maggioranza dei maschi rimpatriati sono stati sottoposti a processo e quelli che sono stati condannati hanno scontato in media 3,5 anni di carcere.

I bambini rimpatriati vengono considerati vittime e si stima che sarà necessario predisporre azioni specifiche per affrontare il trauma, determinare la nazionalità e stabilirne la custodia, nonché affrontare il potenziale rischio di alienazione sociale. Nella maggior parte dei casi, le famiglie hanno accolto con favore il loro ritorno e questo ha agevolato l’azione del governo.

In altri stati europei, il processo di reinserimento non è stato così naturale. Questo potrebbe essere almeno in parte dovuto al fatto che in altri stati europei molti dei cittadini che sono partiti per combattere in Siria e in Iraq erano immigrati, spesso con doppia cittadinanza dello stato dell’Unione Europea e di un altro paese, e quindi non sono visti come cittadini “veri” degni di rimpatrio e reintegrazione. Nel caso del Kosovo, invece, sono visti semplicemente come kosovari[1].

[1] T. Avdimetaj e J. Coleman, What EU Member States can learn from Kosovo’s experience in repatriating former foreign fighters and their families, International Centre for Counter – Terrorism, 20 maggio 2020

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#ReaCT2021 – L’estremismo violento di destra, il suo carattere transnazionale e i suoi rapporti di interdipendenza con l’estremismo islamista

di Mattia Caniglia, World Terror Watch Director – European Strategic Intelligence and Security Center

L’attacco di Hanau (Germania) del febbraio 2020, è l’ultimo di una serie di gravi attacchi terroristici che, presentando caratteristiche e un modus operandi comuni, confermano una tendenza preoccupante: l’aumento della minaccia legata all’estremismo violento di destra in Europa.

Questo fenomeno, seppur tradizionalmente legato a rispettive dimensioni locali, sta acquisendo un carattere transnazionale e sembra aver sviluppato un rapporto simbiotico e una stretta interdipendenza con l’estremismo di matrice Islamista. La relazione tra i due fenomeni, che si rafforzano vicendevolmente, rappresenta una nuova minaccia per la sicurezza Europea.

Analogie con l’estremismo di matrice Islamista

Mentre assume le caratteristiche di una sfida globale, l’estremismo violento di destra sembra imitare tattiche, tecniche, narrazioni e modi operandi di gruppi come Al-Qaeda e Stato Islamico.  Somiglianze e analogie sostanziali esistono infatti con l’estremismo Islamista.

Gruppi estremisti di destra tendono sempre più a formare reti globali, in tutto simili a quelle formate da gruppi legati al terrorismo jihadista; la propaganda dei primi focalizzata sul mettere in guardia rispetto ad una presunta “grande sostituzione ai danni dell’uomo bianco”, rispecchia la narrazione jihadista di una supposta “guerra dell’Occidente contro l’Islam”; entrambi gli estremismi promuovono l’uso della violenza come mezzo legittimo, in un caso, per difendere l’integrità della “razza bianca”, nell’altro, per proteggere la purezza dell’Islam e dell’Umma.

Sia l’estrema destra che l’estremismo Islamico reclutano seguaci e rafforzano il loro messaggio propagandistico attraverso un uso intenso dei social media e delle applicazioni di messaggistica. Mentre i jihadisti diffondono “video di martirio”, i terroristi di destra pubblicano manifesti online e spesso trasmettono in diretta streaming i loro attacchi. Video, dirette streaming e manifesti servono gli stessi scopi propagandistici: creano una narrazione precisa e imitabile, una giustificazione ideologica, una lezione tattica e un’ispirazione/chiamata alle armi per i futuri terroristi, idolatrando al contempo la memoria dei “martiri” ed “eroi solitari” che hanno già compiuto attacchi.

Analogie ulteriori esistono a livello di tecniche di propaganda, finanziamento e reclutamento. Rispetto a quest’ultimo, come il fenomeno dei “Foreign Fighters” per l’estremismo di matrice islamica ha portato migliaia di individui a recarsi in Syria e Afghanistan, anche gli estremisti di destra hanno un loro teatro di conflitto designato dove acquisire esperienza di combattimento e completare processi di radicalizzazione. L’Ucraina è infatti emersa come centro nevralgico nella più ampia rete globale dell’estremismo violento di destra, attirando reclute straniere da tutto il mondo. Più di 17.000 individui provenienti da 50 Paesi hanno viaggiato per combattere nel Donbass, sia tra i ranghi delle milizie nazionaliste ucraine che di quelle separatiste pro-russe, utilizzando l’esperienza del conflitto come terreno di addestramento per possibili azioni in Europa e negli Stati Uniti, e allo stesso tempo rafforzando i legami transnazionali.

Un preoccupante rapporto d’interdipendenza

Oltre a quelle già espresse, a livello dottrinale, tra jihadismo ed estremismo violento di destra si notano tre analogie principali: una visione binaria del mondo, un particolare equilibrio tra rivoluzione e conservatorismo, e il culto dell’eroismo.  È a partire da queste similarità che recentemente si è venuto a creare un meccanismo di interdipendenza che permette a questi due estremismi e alle rispettive manifestazioni violente di rafforzarsi a vicenda.

Gli estremisti di destra ritraggono jihadisti ed estremisti islamici come rappresentanti dell’intera comunità musulmana, mentre jihadisti e islamisti radicali ritraggono gli estremisti di destra come rappresentanti di tutto l’Occidente. Ogni volta che l’una o l’altra parte sferra un attacco, le rispettive narrazioni e ideologie vengono confermate e rafforzate in quella che si potrebbe definire una “dinamica a ciclo continuo” che si autoalimenta.

All’indomani dei recenti attacchi jihadisti in Francia e in Austria, molti gruppi di estrema destra attivi su applicazioni di messaggistica, social media e altre piattaforme online sono stati particolarmente attivi nel condividere messaggi di odio verso la comunità musulmana, arrivando ad invocare “azioni di vendetta”. Si tratta di un fenomeno già osservato in precedenza e che si verifica con sempre maggiore puntualità; l’attacco di Christchurch del 2019, ad esempio, scatenò una reazione nei media ufficiali e non ufficiali dello Stato Islamico e di Al-Qaeda, con migliaia di comunicazioni ad invocare ritorsioni violente contro i “crociati”.

Questa dinamica, potenziata da media, social media e altri strumenti di propaganda, ha due effetti principali. Aumenta l’efficacia delle strategie di reclutamento degli estremisti espandendo quindi il numero di individui radicalizzati e/o pronti ad agire in nome di una parte o dell’altra. Mentre allo stesso tempo contribuisce a creare un circolo vizioso di violenza e polarizzazione che infiamma conflitti sociali già tesi facendo leva su processi di “othering”[1], storicamente comuni ad entrambi gli estremismi. L’ “othering” massimizza l’effetto di dicotomizzazione del discorso “noi contro loro”, potenziando le narrazioni di entrambi i fenomeni e facilitando l’ottenimento di uno dei principali scopi del terrorismo Islamico e di estrema destra: la destabilizzazione politica delle società Europee.

In un contesto europeo già lacerato dalla crisi COVID-19, dove le differenze di religione, etnia, cultura e condizione sociale diventano più divisive, il terrorismo trova il terreno ideale per sfruttare questa dinamica e rendere queste fratture sociali sempre più profonde. Lungo queste spaccature, lo spazio per processi di radicalizzazione e atti violenti si espande, al punto che la radicalizzazione rischia di diventare “mainstream”.

I dati del Global Terrorism Index 2020 confermano questa prospettiva, collegando l’aumento dell’estremismo violento di destra in Occidente all’aumento della violenza politica e al declino di specifici indicatori relativi al frazionamento delle élite, all’esistenza di tensioni sociali e all’ostilità verso gli stranieri. Se questi processi di radicalizzazione e polarizzazione diventeranno mainstream, potranno avere la forza d’urto per mettere alla prova la stabilità politica di molti paesi europei minando la loro coesione interna.

Rischi per la sicurezza europea

Tecniche perfezionate di propaganda online – ora sempre più simili nell’estremismo di destra e in quello islamista – insieme agli effetti d’interdipendenza tra i due fenomeni, potrebbero ridurre drasticamente i tempi di radicalizzazione e abbreviare i cosiddetti ‘cicli di attacco’, rendendo più complesso per le forze di sicurezza intercettare e prevenire atti terroristici.

Il meccanismo di rafforzamento reciproco tra i due fenomeni e gli aumentati effetti polarizzanti su società già divise potrebbe portare a un numero maggiore di “Gefährder”, individui radicalizzati con un alto potenziale di pericolosità, sovraccaricando di lavoro le forze dell’ordine. In questo contesto, per valutare le minacce future sarà necessario migliorare la consapevolezza di come i due fenomeni si influenzano e alimentano a vicenda.

In passato l’estremismo violento di destra è stato in gran parte un fenomeno disorganizzato, con la maggior parte dei responsabili di attacchi non affiliati a specifici gruppi terroristici, e più che altro indicativo di uno stato d’animo di alienazione politica. Tuttavia, non vi è alcuna garanzia che questo fenomeno rimanga tale. Se i processi di polarizzazione attualmente in corso nelle nostre società, e legittimati da un certo discorso politico, continueranno incontrollati nei prossimi anni, la probabilità di veder proliferare i livelli di organizzazione dell’estremismo violento di destra in europa potrebbe aumentare significativamente.

[1] Processo di definizione dell’altro come “diverso”, relegato fuori dalla sfera di ciò che è familiare. La connotazione è negativa poiché, in quanto altro, l’oggetto di questo processo diventa pericoloso. La reciproca dipendenza dei due concetti di “identità” e “alterità” si esprime infatti attraverso la definizione del termine oppositivo come minaccia per la sicurezza della comunità a cui l’io (il noi) sente di appartenere.

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#ReaCT2021 – Introduzione del Direttore: i terrorismi all’epoca del Covid-19

In qualità di Direttore esecutivo dell’Osservatorio ReaCT, ho l’onore di presentare #ReaCT2021, il 2° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo.

Il rapporto, che offre una sintetica analisi sull’evoluzione delle ideologie radicali e della minaccia terroristica in linea con la direttiva dell’Unione Europea 2017/541 sul contrasto al terrorismo, si inserisce nel dibattito generale come utile contributo all’armonizzazione delle divergenze presenti tra gli Stati membri dell’UE in merito a ciò che debba essere riconosciuto e gestito come un “atto di terrorismo”.

L’Osservatorio ReaCT, prevalentemente concentrato sul fenomeno di matrice jihadista, non manca di studiare e analizzare le altre forme di terrorismo, di radicalizzazione ideologica e di devianza sociale violenta, così come le nuove “teorie cospirazioniste” che potrebbero sfociare in forme di violenta opposizione.

#ReaCT2021 raccoglie i contributi degli Autori che hanno sviluppato le loro valutazioni tenendo conto dei riflessi delle dinamiche sociali e conflittuali legate alla pandemia da Covid-19.

E proprio la pandemia sembrava aver messo il terrorismo in secondo piano quando, improvvisamente, l’ottobre del 2020 ha riproposto una minaccia che “sembrava” essere superata: tra i primi giorni di settembre e l’inizio di novembre si è dipanata una catena di eventi che ha evidenziato con chiarezza uno scenario drammatico e articolato. Sessanta giorni di paura che ci dicono che il terrorismo è ormai un fenomeno “normale” piuttosto che “eccezionale”, quale strumento del conflitto in corso e perdurante.

L’evoluzione del terrorismo jihadista europeo all’alba del 2021

Nel 2019 Europol ha registrato 119 tra attacchi di successo, sventati o fallimentari: di questi 56 sono attribuiti a gruppi etno-nazionalisti e separatisti, 26 a gruppi di estrema sinistra radicale e anarco-insurrezionalisti, 6 a gruppi di estrema destra; 24 sono quelli di natura jihadista, di cui 3 di successo e 4 fallimentari. Il database START InSight ha identificato invece 19 azioni terroristiche e azioni di violenza di matrice jihadista portate a termine nello stesso anno (contro le 7 di Europol), mentre il 2020 si è chiuso con 25 eventi.

Nel 2019 tutte le vittime di terrorismo in Europa sono il risultato di attacchi jihadisti: secondo i dati di Europol sarebbero 10 i morti e 26 i feriti (1 ferito in seguito a un attacco attribuito a gruppi di estrema destra). START InSight rivela un numero superiore di feriti, che sono 48, prevalentemente vittime di attacchi secondari ed emulativi. Nel 2020 vi è stato un significativo aumento di morti rispetto all’anno precedente: 16 persone uccise e 55 ferite.

L’onda lunga del terrorismo associato al fenomeno “Stato islamico”, ha fatto registrare 146 azioni dal 2014 al 2020: 188 i terroristi che vi hanno preso parte (59 morti in azione), 406 le vittime decedute e 2.421 i feriti (START InSight). Nel 2020 sono aumentati i terroristi recidivi: quasi tre terroristi su dieci. Così come sono aumentati i terroristi già noti all’intelligence (54% del totale nel 2020) e quelli con precedenti penali.

È stato verificato, inoltre, l’aumento del rischio potenziale di terrorismo con l’aumento dei migranti irregolari. Nel 2020 il 20% dei terroristi sono immigrati irregolari. In Francia è aumentato il ruolo degli irregolari nella condotta di azioni terroristiche: se fino al 2017 nessuno degli attacchi era stato condotto da immigrati irregolari, nel 2020 il 40% dei terroristi è un irregolare.

La propaganda terroristica online dello Stato Islamico e di al-Qa’ida durante l’emergenza Covid-19.

Le molteplici attività di propaganda svolte durante l’emergenza sanitaria legata al Covid-19, e soprattutto gli attentati di Parigi, Nizza e Vienna, hanno ricordato quanto il terrorismo associato allo Stato islamico e ad al-Qa’ida sia attivo anzitutto attraverso Internet. In particolare, lo Stato Islamico ha confermato una narrazione aggressiva, identificando il Coronavirus come un “soldato di Allah”. Un alleato capace di offrire un’opportunità per colpire gli infedeli, in particolar modo i militari e le Forze di polizia a supporto dell’emergenza sanitaria.

Il concetto e l’importanza della prevenzione e del contrasto

Prevenzione e contrasto all’estremismo violento (PVE/CVE) sono oggi una parte integrante dell’architettura globale anti-terrorismo, ma per essere efficaci e avere una continuità, è necessario un dialogo costante fra ricercatori, operatori sul territorio, forze dell’ordine e legislatori che includa anche una discussione su priorità e aspettative. Misurare i risultati di queste attività rimane un esercizio complesso ma numerosi think tank europei si stanno occupando dell’argomento.

Il contrasto alla radicalizzazione e al terrorismo attraverso il diritto penale

Per sua stessa natura, il diritto penale antiterrorismo non incide sulle cause della radicalizzazione e del terrorismo. Il ricorso a un diritto penale onnicomprensivo e sproporzionato può anzi produrre effetti collaterali criminogeni. Inoltre, le modalità di esecuzione della pena carceraria prevalenti avrebbero dimostrato la loro inadeguatezza, evidenziando come la radicalizzazione debba essere affrontata come un processo reversibile.

La minaccia terroristica nel Regno Unito: è sempre più difficile identificare, definire, arrestare e condannare

Un esempio di difficoltà nel coordinamento tra attività investigativa, giudiziaria e preventiva è il caso britannico. La complessità della minaccia terroristica con cui si confronta la Gran Bretagna è stata recentemente messa in evidenza da alcuni casi giudiziari che hanno reso vani gli sforzi delle forze di sicurezza e intelligence. Gli eventi terroristici più recenti sono totalmente scollegati dai network terroristici, pianificano azioni talmente casuali e gli strumenti utilizzati dal terrorismo sono così banali che è diventato quasi impossibile riuscire a proteggersi totalmente dalla minaccia. Ciò sta producendo una nuova generazione di radicalizzati che le autorità hanno difficoltà a identificare, definire, arrestare e condannare.

Uno sguardo alle porte dell’Europa: i Balcani

L’attacco terroristico a Vienna, del 2 novembre 2020, ha riportato l’attenzione sulla presenza dello Stato islamico in Europa e i possibili legami nei Balcani, dove sono da tempo presenti soggetti jihadisti, tanto da poter guardare all’area come a un potenziale hub logistico per il jihadismo europeo.

Il Kosovo, piccola nazione dei Balcani occidentali, è uno dei paesi dell’area ad aver fornito il maggior numero di foreign fighter allo Stato islamico. Il Kosovo, nell’aprile del 2019, ha rimpatriato dalla Siria 110 connazionali, divenendo uno dei pochi paesi ad aver rimpatriato propri cittadini ex membri dello Stato Islamico ma lasciando aperta la questione del reinserimento degli ex combattenti terroristi.

Gli altri terrorismi: estrema destra, sinistra radicale e il nuovo fenomeno QAnon ai tempi della pandemia

La pandemia da Covid-19 ha avuto effetti rilevanti anche sulle strategie e le metodologie relazionali e comunicative tipiche sia degli ambienti di estrema destra ed estrema sinistra.

L’estremismo violento di destra si sta evolvendo verso una dimensione transnazionale, mentre sviluppa una preoccupante relazione simbiotica e una stretta interdipendenza con l’estremismo di matrice islamista. La relazione tra i due fenomeni, che si rafforzano vicendevolmente, rappresenta una nuova minaccia per la sicurezza Europea.

Una minaccia per la democrazia è rappresentata, inoltre, dal fenomeno emergente denominato QAnon: il movimento cospirazionista diffuso in più di 70 paesi che presenta un elevato rischio di radicalizzazione in Europa e che, per questo, necessita di un attento monitoraggio al fine di prevenire il rischio potenziale di azioni violente di stampo terroristico.

Grazie a tutti gli Autori che hanno contribuito alla realizzazione di #ReaCT2021. Un ringraziamento speciale va ai due co-editori che hanno contribuito alla realizzazione e alla pubblicazione di #ReaCT2021: Chiara Sulmoni, Presidente di START InSight, e Flavia Giacobbe, Direttore responsabile di Formiche e Airpress.

Claudio Bertolotti – Direttore esecutivo dell’Osservatorio ReaCT

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INDICE DEL RAPPORTO

Prefazione del co-editore Flavia Giacobbe, Direttore di Formiche – Airpress
Flavia Giacobbe

Introduzione: i terrorismi al tempo del Covid-19
Claudio Bertolotti

Numeri e profili dei terroristi jihadisti in Europa
Claudio Bertolotti

Sessanta giorni di paura: la lezione appresa
Marco Lombardi

Il contrasto alla radicalizzazione e al terrorismo internazionale attraverso il diritto penale: problemi e prospettive
Francesco Rossi

La propaganda terroristica online dello Stato Islamico e di al-Qa’ida durante l’emergenza Covid-19
Stefano Mele

Immigrazione e terrorismo: legami e sfide
Claudio Bertolotti

La minaccia terroristica nel Regno Unito
Raffaello Pantucci

Estremismo di matrice jihadista in Europa. Il concetto e l’importanza della prevenzione e del contrasto
Chiara Sulmoni

Le strategie di contrasto alla radicalizzazione violenta: il caso studio
Alessandra Lanzetti

L’attacco di Vienna e la pista balcanica
Enrico Casini

L’esperienza del Kosovo nel rimpatrio dei foreign fighters: lessons learned
Matteo Bressan

Estrema destra ed estrema sinistra in tempi pandemici: alcune riflessioni
Barbara Lucini

L’estremismo violento di destra: il suo carattere transnazionale e i suoi rapporti di interdipendenza con l’estremismo islamista
Mattia Caniglia

QAnon: una minaccia per la democrazia
Andrea Molle


#ReaCT2021 – Estremismo di matrice jihadista in Europa. Il concetto e l’importanza della prevenzione e del contrasto

di Chiara Sulmoni, START InSight

I concetti della prevenzione e del contrasto all’estremismo violento (PVE e CVE nel linguaggio specialistico) hanno acquisito progressivamente rilievo con la crescita della radicalizzazione cosiddetta homegrown fino a diventare parte integrante dell’architettura globale anti-terrorismo, di cui costituiscono il lato non-coercitivo. La mobilitazione di migliaia di foreign fighters, di simpatizzanti e di aspiranti jihadisti che dal 2015 hanno dato il via a una lunga stagione di attentati in Europa ha portato le due sigle al centro dell’agenda delle organizzazioni internazionali e regionali (Nazioni Unite e UE in primis) nonché dei singoli paesi. Oggi PVE e CVE rappresentano un vero e proprio settore professionale che può contare su reti collaborative interdisciplinari, lo scambio di know-how fra esperti e non da ultimo, fondi cospicui.

Dietro l’impegno nella prevenzione e nel contrasto c’è la consapevolezza che le misure di controterrorismo basate sulla forza militare o di polizia non sono sufficienti per affrontare il problema come lo conosciamo. Esse non vanno infatti ad incidere su origini e natura del fenomeno (ne possono piuttosto rafforzare le motivazioni); inoltre, la vastità numerica e la complessità dei profili non permette di combatterlo con il solo strumento repressivo e di intelligence; soprattutto quando a colpire sono individui singoli, che entrano in azione anche sulla semplice spinta dell’emulazione. La minaccia oggi in Occidente è fluida e stratificata e può materializzarsi sia attraverso attacchi legati a un contesto islamista/jihadista ben definito, sia per mezzo di soggetti che mostrano disagi personali piuttosto che un’ideologia radicata. Europol sottolinea che a volte i sospetti arrestati per reati legati alla propaganda, hanno alle spalle una lunga storia di coinvolgimento in attività jihadiste, inclusi tentativi di raggiungere lo Stato Islamico al fronte e pianificazioni di azioni violente. Uno studio su prigioni e terrorismo che prende in esame la situazione in 10 paesi europei (ICSR, 2020) indica che negli ultimi 5 anni sono stati pianificati 22 attacchi legati all’ambiente delle carceri; di questi, 12 portati avanti da jihadisti rilasciati da poco. Le reali proporzioni del recidivismo e come affrontarlo sono argomenti di dibattito. Secondo Neil Basu, capo della Polizia anti-terrorismo della Gran Bretagna, “the real way to prevent terrorism is to get it right at the start of the radicalisation cycle”.

Limiti e opportunità

Essenzialmente, con PVE si fa riferimento alle iniziative avviate nell’intento di anticipare i processi di radicalizzazione; ad esempio, attività sul territorio che promuovono la coesione sociale o educative. L’acronimo CVE indica invece le politiche e i programmi che agiscono su un estremismo manifesto per impedire il passaggio all’atto e ridurre il rischio del terrorismo (la de-radicalizzazione e la contro-narrativa rientrano in questa categoria). Per essere efficaci, i progetti avviati in entrambi i settori devono conoscere a fondo la realtà sulla quale vogliono incidere e la sua evoluzione costante. Da qui, l’importanza di un dialogo e ascolto reciproco fra ricercatori, operatori sul territorio, forze dell’ordine e legislatori che converga su temi quali i meccanismi e i contesti che determinano i processi di radicalizzazione e di reclutamento ma anche sulle priorità, le aspettative, l’aspetto formativo, le metodologie e la supervisione, affinché questo lavoro che implica una collaborazione con attori diversi (ONG, istituzioni pubbliche e private, società civile) e una vasta gamma di ‘proposte’ dal potenziale preventivo, possano trovare una continuità e un valore che va al di là dell’esperimento virtuoso. Come avviene con la de-radicalizzazione, anche la prevenzione non dà esiti facilmente quantificabili; provare la rilevanza di un intervento che ha come obiettivo quello di evitare che un ‘fatto’ avvenga è un esercizio complesso, che deve tenere conto di molte variabili -dalla psicologia del singolo alle difficoltà organizzative o finanziarie di un programma. La questione sta già impegnando numerosi think tanks europei.

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#ReaCT2021 – La minaccia terroristica nel Regno Unito

di Raffaello Pantucci, RSIS-NTU – Singapore e ReaCT

La complessità della minaccia terroristica con cui si confronta la Gran Bretagna è stata recentemente messa in evidenza da tre casi distinti:

  • due dei famigerati “Beatles” dello Stato islamico sono finalmente apparsi davanti a un giudice;
  • due convertiti sono stati imprigionati per aver tentato di portare avanti un attacco terroristico in carcere;
  • e, infine, la causa intentata contro un minorenne accusato di essersi auto-radicalizzato durante il lockdown della scorsa primavera, che però è fallita.

Presi insieme, questi casi dimostrano la complicata persistenza della minaccia terroristica di matrice islamista nel Regno Unito.

La persistenza appare nei casi dei Beatles dello Stato Islamico e del tentativo di attacco in carcere. Alexanda Kotey e El Shafee Elsheikh erano da tempo oggetto di interesse da parte dei servizi segreti; facevano parte di una rete attiva nella parte ovest di Londra che ha a lungo alimentato i campi di battaglia jihadisti con giovani combattenti britannici e creato cellule terroristiche nel Regno Unito. I due sono partiti per la Siria nel 2012 per arruolarsi nelle fila di Jabhat al-Nusrah. Una volta là, si sono uniti all’ISIS e sono ora imputati per i crimini commessi in tale occasione.

L’attacco in prigione è stato diretto da Brutschom Ziamani, un convertito che era stato imprigionato nel 2014 per aver pianificato un’aggressione nei confronti di un soldato, per emulare il suo eroe Michael Adebolajo che aveva ucciso il soldato in licenza Lee Rigby fuori dalla sua caserma nel 2013. Sia Michael che Brutschom facevano parte della comunità di al-Muhajiroun, un gruppo che è stata la culla di numerose reti e piani terroristici in Europa. In prigione, Brutschom non ha perso vigore e si è ripetutamente rifiutato di partecipare a programmi di riabilitazione, scegliendo invece di provare a radicalizzare altri carcerati e riuscendo a convincerne uno, Baz Hockton, a partecipare ad una feroce missione suicida con l’obiettivo di uccidere delle guardie carcerarie e morire nel corso dell’operazione. L’impresa è fallita e i due scontano ora ulteriori ergastoli.

Ci sono poche possibilità che questi uomini si pentano ora delle proprie idee

Vista la relativa giovane età, il sistema britannico si troverà a gestirli per i prossimi decenni. Anche se Kotey e Elsheikh non sono detenuti in Gran Bretagna, rimangono l’emblema di un network che ha allevato dozzine di giovani radicalizzati dispersi ai quattro venti. Molti fra loro sono combattenti convinti che dovranno essere attenzionati per gli anni a venire.

Questi casi illustrano come i vecchi problemi, invece di sparire, continuano a ripresentarsi

Dall’altro lato della medaglia, il 9 ottobre 2020 un tribunale di Londra ha assolto un ragazzino di 14 anni accusato dalle autorità di essersi radicalizzato nel troppo tempo libero durante il lockdown, e di aver seguito “fino alla tana del coniglio” le idee estremiste che aveva scoperto, al punto di cercare di pianificare la costruzione di bombe. Arrestato e accusato, è stato alla fine assolto da una giuria. Non è al momento chiaro se verrà processato una seconda volta, ma questo è stato il secondo episodio in un mese in cui le autorità britanniche hanno visto fallire un procedimento d’accusa.

Naturalmente, nel sistema giudiziario vige la presunzione d’innocenza fino a prova contraria, ma se i servizi di sicurezza hanno speso tante energie e sforzi su questi casi – il precedente si riferiva a due cugini accusati di costruire droni da usare in attacchi terroristici – suggerisce che avessero sentore di qualcosa di concreto in atto. Non sono stati tuttavia in grado di dimostrarlo. Parte del problema consiste nel fatto che i casi che stanno emergendo ora sono totalmente scollegati dai network terroristici, pianificano azioni talmente casuali e gli strumenti del terrorismo così banali che è diventato quasi impossibile riuscire a proteggersi totalmente dalla minaccia del terrorismo. Ma è anche diventato impossibile o quasi, dimostrare con certezza chi potrebbe andare in questa direzione.

I casi che abbiamo visto in Gran Bretagna negli ultimi anni hanno in gran parte coinvolto individui armati di coltelli, veicoli o altri utensili di uso quotidiano. Queste persone possono essere in comunicazione attiva con estremisti o dentro chat estremiste, come d’altra parte molti altri; le conversazioni sono frammentarie e l’intento sempre poco chiaro.

Ciò sta producendo una nuova generazione di radicalizzati che le autorità hanno difficoltà a identificare, definire, arrestare e condannare

Il pericolo sta nella fusione tra la persistenza e la complessità. Supponendo che alcuni fra questi nuovi casi confusi rappresentino vere e proprie minacce che opereranno su linee temporali simili a quelle delle generazioni precedenti, il rischio consiste in una minaccia fumosa che ci accompagnerà per decenni. Scollegati da network conosciuti, ma estasiati dalle loro idee, continueranno probabilmente a girovagare dentro le comunità online abbracciando occasionalmente la violenza.

È questa l’ardua minaccia che ci si para davanti. È persistente in quanto gli individui non sembrano rinunciare alle idee e continuano a rimanere coinvolti per decenni.

Ed è complicata in quanto è quasi impossibile isolare e indentificare con facilità le minacce. Purtroppo, la minaccia terroristica non passerà tanto presto. È invece probabile che diverrà solo più complessa, confondendoci ulteriormente.

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