https://www.startinsight.eu/wp-content/uploads/2021/03/radiogiornale_rsi.jpg

Il vertice NATO e la questione afghana: cosa accadrà? L’intervista a C. Bertolotti

L’intervista di Paola Nurnberg a Claudio Bertolotti per la Radio e televisione Svizzera italiana – RSI

Radiogiornale del 24 marzo 2021

Cosa possiamo aspettarci dalla nuova amministrazione usa dopo le parole di Blinken che partecipa al vertice NATO?

Il conflitto afghano va «concluso in modo responsabile», lo ha detto il segretario alla difesa Austin nella sua recente visita a Kabul, e questo implica un posticipo di almeno sei mesi per il ritiro statunitense dall’Afghanistan, invece delle sei settimane come imporrebbe l’accordo con i talebani. Ma questo i talebani non lo accetteranno, se non in cambio di ulteriori concessioni, delle tante che sono state già fatte.

Biden ha dichiarato di voler sostenere la “diplomazia” con i talebani, esortando il gruppo a ridurre la violenza, a partecipare “in buona fede” ai negoziati tagliando i legami con al-Qa’ida – cosa che però non è avvenuto, consentendo a Washington un appiglio formale per posticipare il disimpegno dalla guerra più lunga. Ma sebbene spostato in la nel tempo, il risultato non cambierà: di fatto Biden vorrebbe ottenere in pochi mesi ciò che i suoi predecessori hanno tentato di fare nel corso di anni. Ovviamente non ci riuscirà.

Qual è la reale influenza degli USA in Afghanistan dato che hanno poche truppe anche rispetto ad altri paesi (Germania-Italia)?

La differenza è concreta: se è vero che gli Stati Uniti hanno un minor numero di truppe all’interno della missione Resolute Support della NATO, Washington è però l’unica a schierare nel paese truppe combattenti e forze speciali in numero sufficiente a condurre operazioni mirate, di cui un migliaio oltre ai numeri ufficiali. La NATO si limita invece ad addestrare un numero sempre più esiguo di truppe afghane, senza però operare sul campo di battaglia.

Inoltre gli Stati Uniti sono maggiormente impegnati nel sostegno economico e materiale alle forze di sicurezza afghane, che senza quel sostegno collasserebbero.

Dopo quasi 20 dall’invasione del 2001 la situazione nel paese è drammatica. L’accordo di pace coi talebani non di concretizza, in più nel paese agisce anche lo Stato islamico

Dobbiamo partire dal presupposto che quella afghana è una guerra persa, che può essere prolungata ma non risolta. Una guerra che ha devastato il paese, lasciandolo in macerie e preda di una nuova guerra civile che cova sotto la cenere. I talebani hanno ottenuto da Washington tutto quello che hanno chiesto, ora si preparano a prendere il potere, e a pagare il conto sarà il governo afghano di Asraf Ghani che dovrà gestire anche le resistenze e le ambizioni dei signori della guerra e delle milizie personali che potrebbero opporsi ai talebani e dare il via a una nuova fase di guerra civile. Lo Stato Islamico in Afghanistan è un fattore di ulteriore destabilizzazione, che al momento alterna l’attivismo con l’attesa: quando la NATO e Washington se ne saranno andati, allora si aprirà la partita anche per i jihadisti dello Stato islamico che sono numericamente pochi rispetto ai talebani ma molto ambiziosi.


Pressioni migratorie dall’Africa nel lungo periodo: un aumento progressivo

di Claudio Bertolotti

Scarica l’analisi completa in formato pdf

La migrazione, regolare e irregolare, dai paesi subsahariani al Maghreb è un fenomeno storico che si è evoluto nel tempo.  La migrazione irregolare è aggravata da conflitti armati, povertà e cambiamento climatico e le prospettive di cambiare questa dinamica nel prossimo futuro non sono molto ottimistiche. Inoltre, nel 2048 l’Africa avrà una popolazione più giovane e forte dell’Europa: questo significa che in trent’anni il continente africano avrà una popolazione in età lavorativa di molto superiore a quella europea.

La “sfida migratoria” del secolo

La “sfida migratoria” del secolo si manifesta nei numeri di un fenomeno strutturale di lungo periodo basato sull’aumento costante della popolazione mondiale che, secondo le previsioni, nel periodo 2021-2100 passerà dagli attuali 7 miliardi di individui ad oltre 10 miliardi.

Tra le conseguenze di tale evoluzione in termini quantitativi si impone l’andamento dei flussi migratori che ad oggi è di 4,4 milioni di migranti/anno, per un totale di circa 250 milioni di migranti; un aumento che, come dimostrato dai trend più recenti, ci consegna la fotografia di un fenomeno caratterizzato da un incremento pressoché costante di migranti pari al 2% per anno.

Come evidenziato da un recente studio dell’ISPI (Villa, et. al., 2018), dal 1990 al 2018 la popolazione dell’area africana subsahariana è raddoppiata, passando da 500 milioni di persone a 1 miliardo – di cui il 60% è rappresentata da giovani di età compresa tra zero e 24 anni – e i migranti internazionali provenienti dall’area sono aumentati del 67%: da 15 a 25 milioni. Ciò significa che l’aumento dei migranti dall’Africa subsahariana segue l’andamento demografico dei paesi di origine; se nel 1990 la popolazione emigrante dell’area subsahariana era il 3% del totale, il dato attuale si attesta al 2,5%: una flessione nel complesso non significativa.

Dati significativi, quelli riportati, relativi a una parte dei flussi migratori africani, sia interni che esterni, a cui contribuisce, come fattore di limitazione e contenimento, il ruolo delle barriere naturali.

L’Africa sub-sahariana a est e ad ovest non ha sbocchi poiché chiusa tra i due oceani, e dunque guarda al nord come alternativa. Un alternativa che ha però limiti oggettivi rappresentati dal deserto del Sahara e dal Mare Mediterraneo che di fatto limitano quei flussi migratori che altrimenti sarebbero incontenibili.

Problema futuro: crescita dell’Africa e decrescita dell’Europa

I Paesi del continente europeo e di quello africano costituiscono due macro realtà che hanno caratteristiche divergenti e problematicità reciproche.

Se in entrambi i continenti vi è un sostanziale equilibrio di genere, con un rapporto bilanciato tra uomini e donne, si impone però un forte disequilibrio sull’età delle due popolazioni di riferimento: quella europea è una popolazione che sta progressivamente invecchiando, mentre quella africana è composta da una crescente fascia generazionale giovane. Questo è il risultato di un differente rapporto tra tasso di fecondità e tasso di mortalità. Il primo, il tasso di fecondità è l’elemento determinante: è basso in Europa (1,69 figli per donna) mentre è alto in Africa, quasi il doppio (4,4 figli per donna), con una crescita nella sola Nigeria di 8milioni/anno; il tasso di “stabilità” è pari a 2. Nel 2050 una persona su quattro nascerà in Africa. Si evince da questo dato come la popolazione giovane in Europa si stia progressivamente riducendo a fronte di un aumento di quella anziana.

Parallelamente influisce sullo sbilanciamento generazionale anche il tasso di mortalità infantile (sotto i 5 anni), ossia il rapporto tra il numero delle morti durante un periodo di tempo e la quantità della popolazione media dello stesso periodo; il tasso di mortalità è alto in Africa (75 su 1000) e molto basso in Europa (5 su 1000).

Un quadro più generale ci mostra una situazione in cui metà della popolazione africana ha meno di 15 anni ed è valutato che nel 2048 l’Africa avrà una popolazione più giovane e forte dell’Europa, il che significa che in trent’anni il continente africano avrà una popolazione in età lavorativa significativamente superiore a quella europea.

Foto: Samuel Aboh

Scarica l’analisi completa in formato pdf


L’impatto del coronavirus sulla minaccia jihadista in Africa sub-sahariana

di Marco Cochi

Scarica l’analisi in formato pdf

Dalla metà del febbraio dello scorso anno, la pandemia di Covid-19 ha raggiunto l’Africa con il primo caso registrato in Egitto per poi espandersi tredici giorni più tardi in Africa sub-sahariana colpendo la Nigeria. Nelle settimane successive, il virus ha esteso la sua letale presenza in tutti i 54 Stati del continente, come attestano le rilevazioni quotidiane che giungono dall’agenzia di sanità pubblica dell’Unione africana, il Centro africano di controllo delle malattie (Africa Cdc) con sede ad Addis Abeba. Nel complesso, nella prima decade di marzo 2021, i casi confermati in tutta l’Africa avevano superato quota 3 milioni e 975mila, e i decessi hanno superato i 106mila. Un numero di contagi molto più contenuto rispetto agli Stati Uniti, all’America Latina e anche all’Europa, che finora ha reso l’Africa la regione del pianeta con la minore diffusione del virus, dove non si è ancora registrata alcuna crescita esponenziale.

Tuttavia, è altamente probabile che il numero dei contagiati sia molto più alto di quelli finora accertati, anche perché in molti giovani, che costituiscono la maggior parte della popolazione africana, il virus si trasmette in maniera asintomatica. Allo stesso modo, è possibile che la diffusione del virus nel continente africano resti in larga parte sottostimata, perché le strutture sanitarie non dispongono dell’elevata capacità di effettuare tamponi o test sierologici che hanno i paesi più sviluppati.

Di conseguenza, è ancora presto per affermare che l’Africa sia riuscita a contenere la trasmissione del Sars-CoV-2; quello che invece appare certo è che per il continente le conseguenze economiche della pandemia Covid-19 saranno gravi e di lunga durata. Come attestato dalle proiezioni della Banca Mondiale, l’impatto della crisi sanitaria nei paesi sub-sahariani produrrà in media un calo del Pil tra il 2,1% e il 5,1%, configurando la peggiore recessione dell’ultimo quarto di secolo: queste stime evidenziano il rischio che la crisi economica rappresenti una minaccia più temibile della stessa malattia.

In questo possibile allarmante scenario futuro, si potrebbe innestare una diffusa crisi di legittimità governativa in Africa, che andrebbe a rafforzare la capacità di proselitismo dei movimenti estremisti presenti in diverse aree del continente, specialmente nelle regioni del Corno d’Africa e del Sahel. La doppia crisi, sanitaria ed economica, minaccia di ridurre alla fame vaste fasce di popolazione, mentre la produzione e la distribuzione di cibo è in sempre più vistosa diminuzione. Lo confermano le ultime valutazioni del Programma alimentare mondiale, che mostrano un drammatico aumento dell’insicurezza alimentare acuta in tutto il mondo, ma soprattutto in Africa sub-sahariana. Nella sola Repubblica democratica del Congo, quasi 22 milioni di persone stanno affrontando livelli di crisi di insicurezza alimentare, mentre in Burkina Faso è triplicato il numero di persone che versano in una situazione di grave insicurezza alimentare rispetto allo stesso periodo del 2019 e in Sud Sudan, nella regione del Sahel e nella Nigeria nord-orientale, l’emergenza alimentare si è associata ai conflitti e agli shock climatici. A ciò si aggiunge la peggiore piaga di locuste degli ultimi 70 anni, che va diffondendosi in tutta la regione orientale del continente, costituendo un grave rischio per l’approvvigionamento alimentare di decine di milioni di persone.

La crisi economico-sanitaria sta anche mettendo in serio pericolo la già fragile stabilità che caratterizza molti Stati africani, come rileva l’Indice degli Stati fragili del 2020, pubblicato da Fund For Peace (Ffp), organizzazione non governativa con base a Washington che dal 2005 monitora annualmente la stabilità politica e sociale di 178 Paesi nel mondo:ben 15 paesi africani sono compresi nei 22 classificati nella categoria “allerta”, 4 su 5 compaiono in quella di “elevata allerta”, e tra i quattro paesi che figurano nella categoria di massima allerta ci sono Somalia e Sud Sudan.

Di questa serie di criticità potrebbero avvalersi i gruppi jihadisti, che già prima dell’emergenza epidemiologica stavano tentando di sostituirsi alle autorità locali nelle aree rurali del Mali centrale, del nord del Burkina Faso e del Niger sud-orientale beneficiando del malcontento di larghe fasce della popolazione. Una governance considerata illegittima da alcuni segmenti della popolazione è spesso foriera di molte minacce, tra cui la violenza di origine etnica, le guerre civili, la frammentazione o il collasso dello stato, la cooptazione dei conflitti da parte di poteri esterni e l’ascesa di gruppi armati non statali, in primis i gruppi estremisti. La pandemia sta invertendo i fragili progressi di consolidamento nel garantire alle popolazioni la sicurezza alimentare in modo sostenibile, lo sviluppo rurale e l’accesso all’istruzione, che erano stati portati avanti in Mali e in Burkina Faso. Questa involuzione sta creando condizioni favorevoli per l’espansione della minaccia dei gruppi estremisti islamici, che potrebbero sfruttare la crisi sanitaria da Covid-19 per rafforzare la loro presa sulle popolazioni locali, sfruttando i vuoti creati da politiche fallimentari per presentarsi come attori credibili.

Il movimento salafita è sempre pronto a sferrare attacchi per raggiungere il suo obiettivo generale: rimuovere i governi attuali e instaurare con ogni mezzo l’interpretazione letterale della legge coranica. E infatti gli attacchi, come certificato dall’Africa Center for Strategic Studies (ACSS)di Washington, si sono intensificati nei dodici mesi che vanno dal 1° luglio 2019 al 30 giugno 2020, registrando un incremento del 31%, per un totale di 4.161 attacchi registrati nel periodo preso in esame; un dato preoccupante, poiché per la prima volta in dieci anni gli eventi violenti hanno superato quota quattromila. E mentre la pandemia sembra aver rallentato l’attività terroristica in molti paesi del mondo, in Africa l’insorgenza jihadista al tempo del Covid-19 è invece in aumento.

Un effetto collaterale della diffusione del virus potrebbe riguardare i Paesi che attualmente forniscono supporto e competenze per affrontare la crescente violenza negli Stati africani, i quali potrebbero spostare la loro attenzione e le loro risorse verso le esigenze domestiche dettate dalla diffusione del contagio. Il sostegno delle missioni militari (europee e delle Nazioni Unite) per contrastare il terrorismo nella regione, pur non avendo sradicato il fenomeno, finora è risultato importante per affrontare quei fattori, come la marginalizzazione e il sottosviluppo, che possono creare un ambiente che porta alla radicalizzazione e al reclutamento nelle file del terrorismo. Di conseguenza, senza un continuo sostegno esterno i paesi africani interessati dalla minaccia sarebbero ancora più vulnerabili nei confronti dei gruppi estremisti, che hanno già dimostrato la capacità di riscuotere il favore e la legittimazione delle comunità locali. Come avvenuto con il Fronte di liberazione del Macina, uno dei gruppi confluiti nel cartello saheliano di al-Qaeda, che nell’ottobre 2019, per opera del suo leader Amadou Koufa, ha raggiunto un cessate il fuoco con la milizia di autodifesa dogon Dan Na Ambassagou, dettando condizioni che hanno incluso la fine dell’ostilità verso la vessata comunità fulani e il riconoscimento dell’autorità del gruppo.

In quest’ottica, si deve anche considerare che le risorse dei governi africani sono sempre più gravate dalla lotta per contrastare il Covid-19, con il rischio di minare ulteriormente la loro capacità di fornire servizi di base alle popolazioni locali; le opportunità che un simile scenario potrebbe fornire ai gruppi estremisti non vanno dunque sottovalutate. Questo può essere particolarmente vero nella regione del Sahel, dove l’appoggio a gruppi come lo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS) e al Gruppo per il sostegno all’Islam e ai musulmani (GSIM), che costituisce la più recente evoluzione della rete di al-Qaeda nella regione, è spesso separato dalle prospettive ideologiche e legato piuttosto a fattori economici, come la capacità di fornire incentivi finanziari al momento dell’adesione.

Un altro fattore di criticità da monitorare è rappresentato dall’impatto del Covid-19 sulle carceri in tutti i Paesi africani interessati dalla minaccia terroristica, che spesso versano in condizioni di sovraffollamento con il rischio latente della diffusione di malattie contagiose come la tubercolosi. Questi istituti penitenziari ospitano un numero sempre maggiore di detenuti accusati o condannati per reati di terrorismo, e hanno bisogno di un sostegno particolare per prevenire la diffusione del Covid-19 tra la popolazione carceraria. Per ridurre il sovraffollamento che accelera la diffusione del coronavirus, la Nigeria ha liberato i detenuti con basse pene residue da scontare, mentre ha lasciato in cella quelli accusati o condannati per reati gravi, come il terrorismo, che con l’emergenza causata dal coronavirus necessitano di maggiore sorveglianza per evitare lo scoppio di eventuali rivolte o fughe di massa. È quindi assai probabile che con l’aumento della diffusione della pandemia, per i gruppi terroristici aumenterà la possibilità di ottenere maggior sostegno. Di conseguenza, è fondamentale che né i governi nazionali della regione, né la comunità internazionale distolgano la loro attenzione dal contrastare la minaccia rappresentata dai gruppi militanti islamici che operano nella macroregione sub-sahariana attraverso una cooperazione continua e un approccio allargato, che affronti i fattori alla base della radicalizzazione. Senza di esso, la diffusione di Covid-19 servirà a rafforzare le frustrazioni e le lamentele delle popolazioni locali, che hanno permesso ai gruppi islamisti di affermarsi. Già prima della pandemia il network jihadista africano aveva dato vita a diverse attività di insorgenza soprattutto nell’Africa occidentale e orientale, dove da tempo sta espandendo e intensificando la propria presenza.

In conclusione, la pandemia potrà favorire i gruppi jihadisti attivi in Africa sub-sahariana solo se i governi locali e gli attori internazionali non riusciranno ad affrontare alle sfide poste dalla pandemia, ma anche alla più ampia crisi della sicurezza e dalla scarsa fiducia delle popolazioni nelle autorità locali e nazionali.

Foto di Brijesh Nirmal

Scarica l’analisi in formato pdf


Attacco in Svezia: terrorismo o violenza criminale? Intervento di C. Bertolotti a Radio24

Svezia, 3 marzo 2021, accoltellate otto persone. “Si indaga per terrorismo”

E’ successo a Vetlanda , una cittadina di circa 13mila abitanti nel sud del Paese. Un giovane di 20 anni, di nazionalità afghana, è stato fermato dalla polizia che lo ha ferito alle gambe. Il giovane era noto alla polizia per reati minori. Si indaga per terrorismo.

La Svezia è un paese con un alto indice di violenza criminale ed è al tempo stesso tra i paesi con il più alto indice di radicalizzazione jihadista, dopo la Finlandia e la Danimarca. Un’ondata di violenza di gruppo legata alla droga in Svezia ha portato a un aumento del 60% di attacchi dinamitardi rispetto a due anni fa, passati da 160 a 260 . Negli ultimi due anni la Svezia è stata colpita da un’ondata di sparatorie e attentati che la polizia ha collegato a conflitti tra bande nelle principali città.

Il caso dell’accoltellatore afghano si inserisce statisticamente tra gli eventi di terrorismo registrati in Europa negli ultimi anni, sebbene da un punto di vista ideologico non sia ancora possibile attribuire all’attacco una chiara matrice jihadista.

L’onda lunga del terrorismo in Europa, emerso con il fenomeno “Stato islamico” a partire dal 2014, ha fatto registrare 146 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2020: 188 i terroristi che vi hanno preso parte (59 morti in azione), 406 le vittime decedute e 2.421 i feriti (database START InSight e Rapporto #ReaCT2021). Nel 2020 gli eventi sono stati 25, contro i 19 dell’anno precedente e con un raddoppio di azioni di tipo “emulativo”.

È la tecnica utilizzata in questo come in altri più recenti episodi a renderlo atto di terrorismo, non più (o non solo) l’ideologia jihadista.

In Svezia sono stati registrati 8 attacchi terroristici dal 2004 a oggi, una piccola parte rispetto ai 173 avvenuti in tutta Europa nello stesso periodo. L’80% sono stati portati a compimento da singoli attaccanti, tutti maschi, in linea con il fenomeno europeo nel suo complesso. La tecnica utilizzata ha visto l’utilizzo prevalente di armi da fuoco ed esplosivi, in linea con la natura della violenza svedese associata alla criminalità e alle gang.

Prevalentemente di media e bassa intensità, dunque con un numero limitato di morti e feriti. Tutti portati a termine da immigrati, prevalentemente regolari, di questi tre condotti da irregolari. Un trend quello degli immigrati irregolari autori di atti di terrorismo che sta percentualmente aumentando negli ultimi anni, come evidenziato nell’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo in Europa e testimoniato dal caso francese dove la minaccia di questo tipo è passata dal 16% al 25% nel 2020.


Radicalizzazione, jihadismo e contrasto al terrorismo. Il punto e le prospettive dopo il COVID19

di Chiara Sulmoni

SCARICA L’ANALISI IN FORMATO PDF

Mentre il mondo è ancora alle prese con la gestione di una difficile situazione sanitaria, analisti, ricercatori e professionisti della sicurezza sono in genere concordi nell’affermare che l’impatto sociale, economico e anche psicologico delle misure messe in atto a livello globale per contenere la diffusione del virus abbiano contribuito e stiano ancora contribuendo a creare le condizioni per l’avanzata degli estremismi e l’adesione di un numero sempre maggiore di sostenitori e militanti alle varie cause, incluse le teorie cospiratorie di natura politica, identitaria e anti-tecnologica, che possono trovare eco in movimenti di protesta anti-governativi e azioni dimostrative come le decine di attacchi vandalici nei confronti delle antenne 5G -sospettate di propagare il COVID19- in numerosi paesi europei.

COVID19 and extremism are the perfect storm”, sostiene in un’intervista l’esperto svedese di radicalizzazione Magnus Ranstorp[1]; il coronavirus ha aperto nuovi scenari e fornito slancio e opportunità di proselitismo e reclutamento a gruppi di ogni bandiera. L’isolamento fisico e la maggiore esposizione all’ecosistema virtuale che sta caratterizzando la vita quotidiana in questa fase della lotta alla pandemia, ha moltiplicato le occasioni di entrare in contatto con materiale di natura terroristica (Pro-IS Italian translation group shares explosive making video manual on TikTok[2]), mentre la riduzione di numerose attività educative e sociali ha reso più difficile da un lato la vigilanza e il rilevamento dei segnali di radicalizzazione, dall’altra il sostegno -in altre parole, la prevenzione- soprattutto nelle comunità e presso le persone più vulnerabili, in particolar modo i teenager, favorendo invece l’interconnessione fra individui radicalizzati. Uno studio pubblicato nel Rapporto #ReaCT2020 indica come il tempo di attivazione degli jihadisti si riduca notevolmente quando il processo di radicalizzazione ha luogo online piuttosto che attraverso contatti personali[3]. I tech giants sono impegnati da tempo in una complessa lotta per l’eliminazione del materiale cospirazionista, dello Stato Islamico (e affini), neo-nazista e di altri orientamenti in internet ma la battaglia è tutt’altro che facile a causa dell’abilità degli estremisti nel dissimulare i contenuti di post e account, ingannare algoritmi, migrare di piattaforma in piattaforma e muoversi nelle aree grigie e attraverso app criptate.

L’isolamento fisico e la maggiore esposizione all’ecosistema virtuale hanno moltiplicato le occasioni di entrare in contatto con materiale di natura terroristica, reso più difficile il rilevamento dei segnali di radicalizzazione e favorito l’interconnessione fra individui radicalizzati

Se l’estrema destra in rapida crescita ha essenzialmente militarizzato il COVID19, suggerendo il suo utilizzo come arma biologica contro ebrei e minoranze, e altri gruppi hanno sfruttato le ricadute della pandemia e dei lockdown per promuovere posizioni anti-establishment[4], gli jihadisti hanno visto nel virus un alleato su più fronti[5]; per rinvigorire la comunità militante, interpretandolo come una punizione e una vendetta divina nei confronti di idolatri, Crociati e nemici, ‘prostrati’ da questo inaspettato ‘soldato di Allah’[6] (o ‘dono’, come lo avrebbe definito un adepto italiano[7]); per lanciare offensive e riguadagnare terreno laddove le coalizioni e operazioni anti-terrorismo hanno subito un contraccolpo, soprattutto in Medio Oriente e Nord Africa, e liberare prigionieri e foreign fighters; per incoraggiare gli aspiranti terroristi a non allentare la presa, portando avanti attacchi autonomi in Europa oppure, come ha fatto al-Qaeda, per rivolgersi agli occidentali, invitandoli a riflettere sui mali delle proprie società e a convertirsi all’Islam[8]. Una ricerca che ha preso in esame una serie di account pro-Stato Islamico ospitati su diverse piattaforme dal 20 gennaio all’11 aprile 2020 ha stilato una classifica di undici diverse tematiche ivi trattate; se da un lato mostrano (interessanti) discrepanze rispetto ai contenuti e alle narrative ufficiali -ad esempio lo scambio aggiornato di notizie sulle infezioni o anche consigli su come sconfiggere la noia- ciò che tengono a mettere in rilievo gli autori è come la discussione de-centralizzata sul coronavirus sia sfruttata per coinvolgere un pubblico vario e per socializzare[9].

I rischi maggiori per l’Europa sono legati alle sfide con le quali si stava già confrontando prima della pandemia e che potrebbero subire le  ricadute dell’impatto inevitabile su vari settori del contrasto al terrorismo, in particolare i programmi di prevenzione e de-radicalizzazione

Dal punto di vista operativo, il contesto del coronavirus non sembra aver inciso in modo particolare sullo jihadismo in Europa; fra il marzo del 2019 e il giugno del 2020 il Counter Extremism Group ha registrato una media di due complotti islamisti, tra riusciti e falliti, al mese[10]. I vari episodi di matrice islamista registrati nel database 2020 di START InSight[11] sono 25, e coinvolgono principalmente lone-actors. Il gruppo da tempo non è più in grado di colpire con attacchi coordinati e la maggior parte dei complotti che coinvolge delle cellule viene sventata[12]; tuttavia un riferimento preciso, apparso in una newsletter dello Stato Islamico nel mese di marzo 2020, sembra alludere al ritorno di una minaccia più organizzata (anche se meno immediata): “the last thing they want today is that this critical time of theirs should coincide with preparations of the soldiers of the Caliphate for new strikes on them, similar to the strikes of Paris, London, Brussels and other places[13].

I rischi maggiori per l’Europa sono legati alle sfide con le quali si stava già confrontando prima della pandemia e che potrebbero subire le potenziali ricadute dell’impatto inevitabile su vari settori del contrasto al terrorismo, soprattutto in ambiti che prevedono un impegno a lungo termine, come i programmi di prevenzione e de-radicalizzazione, sui quali si è investito in passato ma i cui risultati, contestati o difficili da misurare, potrebbero decretarne un ridimensionamento[14].

Un forzato ripensamento delle strategie potrebbe fornire l’occasione per tenere conto dei limiti già individuati da ricercatori e practitioners; lavorare a un migliore coordinamento degli interventi nel passaggio cruciale fra detenzione e post-release e a una maggiore efficienza del comparto 

Come sostiene Gilles de Kerchove, coordinatore anti-terrorismo dell’UE, “I acknowledge that allocating the same level of resources to CT and CVE post-COVID-19 might be challenging, but I hope that policymakers will recognize that the prevention of terrorism remains crucially important. Given the probable rise in radicalization resulting from the health and socio-economic crisis, prevention and CVE will be even more important than before[15]. Un forzato ripensamento delle varie strategie potrebbe fornire l’occasione per tenere conto dei limiti già individuati da ricercatori e practitioners; per lavorare a un migliore coordinamento degli interventi (ad esempio nel passaggio cruciale fra detenzione e post-release) e a una maggiore efficienza del comparto (anche dal punto di vista della formazione). Un passo che dovrebbe portare anche ad occuparsi dell’annosa condizione critica nelle carceri -generalmente sovraffollate e in carenza di personale sufficiente e preparato-. Uno studio esteso su dieci paesi europei[16] rileva come il 54% dei detenuti che mostra segni di estremismo, si sia radicalizzato dietro le sbarre. La percezione di una restrizione ulteriore dei diritti dovuta alle misure contro il COVID19 potrebbe oggi peggiorare ulteriormente la situazione, mentre il numero dei condannati per reati legati al terrorismo è il più alto degli ultimi 20 anni; contemporaneamente, anche in vista di un possibile, graduale rimpatrio di foreign fighters (inclusa la componente femminile dello Stato Islamico), manca il consenso attorno al regime carcerario più adatto (raggruppamento o dispersione dei radicalizzati e terroristi). Infine in Francia, il piano preannunciato dal Presidente Macron contro il cosiddetto ‘separatismo’ islamista, aprirà un momento decisivo e delicato per ciò che concerne il senso di inclusione -pur nel principio della laicità- dei cittadini di fede islamica. Il documento emanato dalla Commissione Europea sulla strategia di sicurezza dell’Unione per il periodo 2020-2025 sottolinea come la lotta alla radicalizzazione non possa prescindere dalla promozione della coesione a livello locale, nazionale ed europeo.

L’Italia dovrebbe dotarsi di una strategia interna di prevenzione e de-radicalizzazione in società e nelle carceri in modo da poter definire e coordinare azioni, approcci e interventi

Dal punto di vista securitario, l’Italia è stata meno interessata dal terrorismo jihadista rispetto ad altri paesi europei grazie a un meticoloso lavoro di polizia e intelligence maturato (anche) nel contesto della lotta alle mafie e a un severissimo meccanismo di espulsione -possibile in quanto la maggior parte dei simpatizzanti di ideologie islamiste è di altra nazionalità-; da un punto di vista sociale, come sostiene il Prof. Renzo Guolo, per una minor presenza di seconde generazioni di immigrati (cui appartengono in gran parte gli jihadisti homegrown), la mancanza di banlieux problematiche e la presenza di un Islam plurale.[17] Tuttavia, nonostante la dimensione più contenuta del fenomeno, alla luce di un contesto che come detto, è caratterizzato dall’ascesa degli estremismi e da una crescente connessione transnazionale, sarebbe opportuno che il paese, al di là di quelli che sono progetti ed esperimenti virtuosi, si dotasse di una strategia interna di prevenzione e de-radicalizzazione in società e nelle carceri (per gestire anche il ritorno di foreign fighters o militanti dell’ISIS come Alice Brignoli e la presenza in prigione di reclutatori come il Mullah Krekar, recentemente estradato dalla Norvegia[18]) in modo da poter definire e coordinare azioni, approcci e interventi. Le proposte di legge finora presentate alla Camera[19], sono un punto di partenza.

Una mancanza di attenzione o di investimenti oculati in questi settori, insieme all’emergere di una violenza sempre più sganciata dalle ideologie e quindi più difficile da individuare, rappresentano i pericoli maggiori che si stagliano all’orizzonte.

SCARICA L’ANALISI IN FORMATO PDF

[1] P. Cruickshank, D. Rassler, A View from the CT Foxhole: A Virtual Roundtable on COVID-19 and

Counterterrorism, CTC Sentinel, Vol.13, Issue 6, June 2020, West Point, p.3 

[2] https://ent.siteintelgroup.com/Jihadist-News/pro-is-italian-translation-group-shares-explosive-making-video-manual-on-tiktok.html

[3] F. Pettinari, Radicalizzazione jihadista: il tempo di attivazione dei radicalizzati, #ReaCT2020, N.1, Anno 1, Edizioni START InSight, Lugano, gennaio 2020, p.23

[4] Site Intel Group, Italian QAnon connects lockdowns to US elections and deep state control, 22 October 2020 https://ent.siteintelgroup.com/Far-Right-/-Far-Left-Threat/italian-qanon-connects-lockdowns-to-us-elections-and-deep-state-control.html

[5] A.J. Al-Tamimi, Islamic State Editorial on the Coronavirus Pandemic, March 19, 2020   http://www.aymennjawad.org/2020/03/islamic-state-editorial-on-the-coronavirus

[6] Espressione utilizzata dai sostenitori e simpatizzanti

[7] “Covid dono di Allah”, così l’italiano che incitava alla Jihad, AdnKronos, 8 luglio 2020

[8] M. Barak, Dawa’ in the Shadow of Covid-19: Al-Qaeda Leadership and the Western Civilians, International Institute for Counter-Terrorism, IDC Herzliya; T. Joscelyn, How Jihadists Are Reacting to the Coronavirus Pandemic, Foundation For Defence of Democracies, April 6, 2020

[9] C. Daymon, M. Criezis, Pandemic Narratives: Pro-Islamic State Media and the Coronavirus, CTC Sentinel, Vol. 13 Issue 6, June 2020, West Point

[10] R. Simcox, Europe and the Fall of the Caliphate, Counter Extremism Group, Report NO. 0002, London, September 2020, p. 1

[11] A cura di C. Bertolotti. Il database non è pubblico. Per informazioni: www.startinsight.eu

[12] Europol, TE-SAT 2020, p.33

[13] Islamic State Editorial on the Coronavirus Pandemic, cit.

[14] R. Pantucci, Key Questions for Counter-Terrorism Post-COVID-19, https://raffaellopantucci.com/2020/04/24/key-questions-for-counter-terrorism-post-covid-19/

[15] R. Pantucci, A View From the CT Foxhole: Gilles de Kerchove, European Union (EU) Counter-Terrorism Coordinator, CTC Sentinel, Vol. 13, Issue 8, June 2020, West Point, p. 14

[16] P. Neumann, R. Basra, Prisons and Terrorism: Extremist Offender Management in 10 European Countries, ICSR, London, 2020

[17] Nessun Luogo è Lontano, Radio24, 19 ottobre 2020

[18] La Repubblica, Terrorismo, estradato in Italia il mullah Krekar, 26 marzo 2020

[19] “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista” e per l’“Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni di estremismo violento o terroristico e di radicalizzazione di matrice jihadista”

Photo by Daniel Monteiro on Unsplash


Analisi di rischio sul cospirazionismo militante

di Andrea Molle

Analisi diffusa in anteprima da ASIS Italy Chapter 

Scarica l’analisi in formato PDF

Il cospirazionismo militante rappresenta sempre più un rischio per la sicurezza. Il motivo principale consiste nella facilità di diffusione nei sistemi politici, unitamente alla tendenza a provocare turbative dell’ordine pubblico e al sempre più evidente consolidamento dei legami con il mondo dei movimenti terroristici dell’estrema destra grazie alla sua struttura organizzativa cell-style.

In America la penetrazione del cospirazionismo militante nella società è ormai data per scontata dagli analisti come elemento sempre più dominante anche dell’agenda politica, grazie anche alla capacità di molti gruppi di fare proseliti tra le forze dell’ordine, i militari e infine direttamente nella classe politica, mentre in Europa è un fenomeno più recente che per adesso non mostra lo stesso grado di penetrazione istituzionale ma che in soli tre anni ha già dimostrato un notevole potenziale di radicalizzazione. Storicamente questo fenomeno, che si distingue dal semplice atto di credere in alcune teorie cospirazioniste, deve gran parte della sua trazione alla nascita del movimento americano della alt-right, preceduto da fenomeni mediatici come InfoWars, lanciato nel 1999 da Alex Jones, e si colloca approssimativamente nel 2009, a partire cioè dalla nascita del Tea Party a seguito dell’ultima Grande Recessione (2007/08). Tuttavia, è con le elezioni presidenziali del 2016 che il cospirazionismo militante, grazie al movimento QAnon e figure di riferimento come Steve Bannon, inizia ad assumere un ruolo di primo piano nella vita sociale e politica mondiale arrivando a un punto che oggi desta serie preoccupazioni a causa delle azioni di molti suoi membri. Il pericolo rappresentato dal cospirazionismo militante si colloca prevalentemente su tre livelli.

Prima di tutto la sua penetrazione politica. Diversi movimenti extraparlamentari e think tank, quelli che da sempre orientano il voto della galassia identitaria e militante verso l’estrema destra, da tempo riprendono e amplificano i messaggi del cospirazionismo militante e in alcuni casi ne sono diretti promotori. Accade dunque che per raccogliere consenso i partiti ufficiali rilancino, anche inavvertitamente, quegli stessi temi, soprattutto sui social media. Quasi sempre ciò avviene in quanto la semplicistica retorica cospirazionista ha un grande successo mediatico e un immediato ritorno di consenso. Tuttavia, nel farlo, i partiti si espongono al rischio di associarsi ad un movimento e una cultura politica estremamente pericolosi e, soprattutto, al rischio di essere infiltrati dai suoi esponenti con conseguente aumento della possibilità che in futuro il policy making venga basato su premesse non fattuali, ma anche un aumento del pericolo di connivenza con potenze ostili che sfruttano il cospirazionismo militante come strumento di politica estera (come ad esempio nel caso del memetic warfare).

In secondo luogo, l’aumento di disordini pubblici. In Nord America, l’aumento di azioni violente associabili al cospirazionismo militante ha portato diverse agenzie Statunitensi e Canadesi ad inserire diversi gruppi nelle liste che raccolgono le organizzazioni criminali e/o terroristiche. Tuttavia, la mancanza di un’organizzazione definita e strutturata, con mandanti identificabili, rende estremamente difficile controllare i militanti cospirazionisti. In molti casi si tratta infatti di individui che aderiscono semplicemente ai contenuti del cospirazionismo e ne sfruttano l’ideologia, ma operano in modo autonomo o tramite loose ties con organizzazioni strutturate. In questo caso il rischio consiste nell’incremento di aggressioni o reati classificabili come hate crimes. In altri, il fenomeno si presenta in modo più strutturato, come nel caso dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso o del prevedibile aumento di disordini durante manifestazioni pubbliche.

Infine, il terrorismo. Diversi analisti considerano come molto elevato il rischio di una radicalizzazione di massa, soprattutto tra le fasce giovani e meno istruite della popolazione, causata dal cospirazionismo militante. Ciò è dovuto al carattere interattivo, molto appagante, dei suoi contenuti cospiratori e ai continui riferimenti alla letteratura di genere fanta-politico che rendono l’esperienza di fruizione di contenuti estremamente avvincente. Per diffondersi, il cospirazionismo sfrutta meccanismi di coinvolgimento tipici dei videogiochi ARG (alternate reality game) creando una comunità simile alle esperienze LARP (live action role-playing game) che permette ai partecipanti di sviluppare la propria militanza attiva. Il suo fascino è di tipo pseudo-religioso in cui il messaggio è strutturato come una teologia in cui predomina la componente escatologica, che si riassume ad esempio nella guerra cosmica contro il deep state. Il controllo esercitato da diversi gruppi cospirazionisti sui loro membri, l’incapsulamento sociale, è così pervasivo da far perdere loro la distinzione tra la realtà e la fantasia. Il fallimento della profezia relativa alla rielezione di Donald Trump alla presidenza americana ha attivato meccanismi di razionalizzazione che fanno inoltre presagire una prossima escalation violenta. L’analisi dei social networks e dei repost evidenzia come il cospirazionismo militante si stia integrando nel mondo del suprematismo bianco e dell’estremismo di destra nel quale alcuni suoi membri hanno una funzione di vero e proprio front. Ovviamente, non è lecito sostenere che tutti i militanti cospirazionisti siano coinvolti con gruppi più o meno violenti di estrema destra, come gli Oath Keepers, i Boogaloo Bois, i Proud Boys e, anche, con organizzazioni terroristiche neonaziste come la Atomwaffen Division. Si tratta di una minoranza, ma per molti è un’evoluzione naturale soprattutto se in cerca di un’esperienza più militante. Inoltre, sono gli stessi movimenti estremisti a usare i networks cospirazionisti per portare nuovi membri alla loro causa pescandoli, ad esempio, tra i fan delusi di QAnon o tra gli espulsi da gruppi sciolti dalle autorità. Questi individui sembrano costituire un bacino di reclutamento ideale dell’estrema destra che potrebbe, con poco sforzo e in breve tempo, incrementare esponenzialmente i propri ranghi con individui facilmente indottrinabili. In questo caso il rischio sembra essere rappresentato da possibili attacchi ad infrastrutture e altri obiettivi sensibili, notoriamente esposti all’azione di singoli individui radicalizzati (lone wolves) che magari operano al loro interno. Non va inoltre dimenticato che spesso questi individui posseggono capacità tecniche e, in alcuni casi, hanno prestato servizio nelle forze armate. Un primo esempio lo si è avuto già pochi giorni fa nello Stato della Florida, dove un’attacco hacker alla rete idrica della città Oldsmar, con l’obiettivo di avvelenarne le acque potabili, è stato fortunatamente sventato.

In conclusione, l’azione deve essere indirizzata prima di tutto a comprendere questo nuovo fenomeno e, in seconda battuta, a contrastare le condizioni in cui si sviluppa. Relativamente al problema politico, è necessario sensibilizzare le direzioni dei partiti sulla necessità di ridurre l’ambiguità del proprio messaggio e impedire ad elementi cospirazionisti di conseguire posizioni di potere all’interno delle loro strutture organizzative. Relativamente ai disordini e alle attività criminali è necessario intervenire sia monitorando i gruppi cospirazionisti militanti, formali e informali, sciogliendoli laddove necessario, che prevedendo percorsi legali consoni volti a disincentivare l’attività criminale. Infine, relativamente al terrorismo, è necessario affrontare il problema del cospirazionismo militante imparando dall’esperienza del radicalismo islamista sia sotto il profilo operativo, degli interventi di contrasto che, soprattutto, nelle attività di prevenzione e de-radicalizzazione.

Scarica l’analisi in formato PDF

Photo by Brendan Beale on Unsplash