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Sfida all’ordine internazionale liberale: analisi e futuro dell’asse Russia-Cina-Iran

di Matteo Testa

Articolo originale pubblicato su IARI – Istituto Analisi Relazioni Internazionali

L’ordine internazionale liberale si trova di fronte ad una nuova minaccia, forse una delle più grandi e temibili dalla fine della guerra fredda: un asse tripartito che unisce Pechino, Mosca e Teheran. Si può parlare davvero di un’alleanza tra questi tre paesi? Cosa unisce tre stati così diversi tra loro? Ma soprattutto, il sistema internazionale vigente saprà reggere l’urto e rimanere saldo al suo posto o crollerà sotto i colpi di questa inusuale alleanza?

Le sanzioni imposte dall’occidente a Mosca a seguito dell’invasione russa in Ucraina sono state, fin dalla loro prima attuazione, oggetto di grande dibattito sia nel mondo politico europeo che in quello statunitense. Il contesto europeo si è rivelato chiaramente più sensibile su questo tema, dato che le conseguenze del sistema sanzionatorio sono ricadute principalmente sugli stati del vecchio continente. Le principali criticità riguardo le sanzioni, a detta di molti, sono inerenti proprio all’efficacia delle stesse sul lungo periodo; il punto centrale è comprendere se le misure adottate non si riveleranno maggiormente negative per i sanzionatori piuttosto che per il sanzionato. Tuttavia, vi è un effetto sul quale tutti gli osservatori (politici, economici, attori della sicurezza) concordano: le misure imposte alla Russia, oltre a quelle già esistenti e antecedenti allo scoppio della guerra, hanno isolato ancora di più il Cremlino a livello internazionale. Mosca si è trovata dunque ulteriormente emarginata dalla composizione dell’attuale scacchiere internazionale e, secondo il terzo principio della dinamica applicato alle relazioni internazionali, ha intensificato con la stessa rapidità e decisione i rapporti con due paesi che erano già partner della Russia, ma che adesso diventano due player ancora più chiave nelle strategie russe: Cina e Iran. Entrambi i paesi, infatti, condividono con la Russia il fatto di non essere i migliori amici di Washington e Bruxelles, per usare un eufemismo. Se Pechino è vista come la grande minaccia a livello economico per gli anni a venire che può minare la leadership mondiale americana, le preoccupazioni circa Teheran riguardano la sfera della sicurezza internazionale, in particolar modo sul nucleare con tutte le vicende relative al JCPOA e il ritiro americano dall’accordo del 2018.

Per cercare di capire meglio come si stia sviluppando l’asse tripartito Mosca-Pechino-Teheran è fondamentale analizzare e comprendere le reazioni di Cina ed Iran non solo allo scoppio della guerra, ma anche nei confronti delle sanzioni imposte alla Russia. L’Iran, dal canto suo, ha visto l’inizio delle ostilità in Ucraina essenzialmente come un’opportunità per rafforzare i suoi rapporti con Mosca ed aumentare il suo leverage nei confronti della Russia nell’ambito delle relazioni russo-iraniane: questo è avvenuto (e continua anche oggi) soprattutto attraverso la vendita di droni iraniani al Cremlino, armi che vengono utilizzati ormai regolarmente nel conflitto e che si sono rivelate uno strumento di grande aiuto per la Russia. L’Iran nel luglio 2022 è inoltre diventato il principale acquirente di grano russo e la speranza generale di Teheran è che l’attenzione dell’occidente sulla guerra alle porte dell’Europa distragga gli Stati Uniti e l’Unione Europea dal processo di espansionismo iraniano avviato in Medio Oriente. A riprova del consolidamento della relazioni tra i due paesi, nel 2022 è stato registrato un numero record di incontri tra alti funzionari russi e iraniani, tra cui una visita a Teheran del presidente russo Vladimir Putin. Tali visite sono state rivolte dal punto di vista russo anche e specialmente a livello domestico, per mostrare al popolo russo che il paese non è così isolato come l’Occidente vuole far credere.

Pechino, invece, per ovvie ragioni si trova in una situazione totalmente differente rispetto all’Iran. La Cina ha avuto una reazione, sia alle sanzioni che allo scoppio del conflitto, in linea con la sua politica estera e con la sua strategia diplomatica. La responsabilità della guerra, nell’ottica cinese, non è da attribuirsi solamente alla Russia, ma anche agli Stati Uniti che hanno ignorato per molto tempo le considerazione russe in materia di sicurezza nazionale; per quanto concerne le sanzioni, Pechino non condivide le misure imposte dall’occidente alla Russia ma non tanto in quanto segno di supporto a Mosca ma piuttosto perché supportare tali provvedimenti significherebbe piegarsi alla volontà di Washington, posizione inaccettabile per la Cina di Xi. Dal punto di vista delle considerazioni geopolitiche, invece, la Cina ha molto da guadagnare dalla guerra in Ucraina. In primo luogo, il conflitto e lo status internazionale che si sta profilando per la Russia da qui agli anni a venire contribuisce a rendere Mosca sempre più uno junior partner nelle relazioni bilaterali con Pechino, scenario che corrisponde esattamente a come il regime di Xi Jinping ha da sempre visto il rapporto tra i due paesi; inoltre la Cina sta assistendo con i suoi occhi ai meccanismi di risposta dell’occidente, utili per comprendere come l’Europa e gli Stati Uniti reagirebbero di fronte a un simile attacco militare effettuato da Pechino (leggasi Taiwan).

Alla luce delle considerazioni e delle riflessioni svolte finora, si può tentare adesso di comprendere la dinamica che guida i rapporti tra questi tre paesi, che alcuni analisti hanno già definito come un triangolo di interessi che mira a generare un ordine mondiale alternativo a quello vigente. Questa “alleanza”, infatti, non rispetta i canoni delle alleanze classiche e formalizzate; tale mancanza di conformità alla definizione di alleanza come essa è intesa a Washington e nell’Europa occidentale è perfettamente in linea con le posizioni dei suoi componenti, che ripudiano la visione occidentale dell’ordine internazionale e compongono un fronte unico (almeno all’apparenza) contrapposto all’ampio blocco filoccidentale e statunitense. Oltre a questo primo elemento già di per sé significativo, le relazioni tra Pechino, Mosca e Teheran sono molto più complesse e intricate di quanto possano sembrare a un primo sguardo: si tratta di una vera e propria matassa geopolitica, dove numerosi interessi coesistono e, a volte, competono per uno stesso obiettivo. In assenza di obiettivi formalizzati comuni, infatti, gli interessi nazionali di ciascun paese sono quelli che continuano a essere i driver principali che guidano le azioni di politica estera, cercando in qualche caso una sorta di convergenza, ove questa appare possibile.

La guerra in Ucraina, ad esempio, ha reso la Russia il paese più sanzionato al mondo, primato che condivide proprio con l’Iran; se da una parte, proprio con l’intenzione di intensificare i rapporti come accennato in precedenza, i due paesi si sono sensibilmente avvicinati, questo è avvenuto comunque in chiave strumentale. La Russia di Putin ha cercato, nelle vare riunioni svolte, di comprendere come meglio poter aggirare le sanzioni dell’Occidente, pratica nella quale il governo di Raisi è ormai molto abile, offrendo in cambio supporto al programma satellitare iraniano, da sempre deficitario e carente di risorse. Allo stesso tempo, però, sempre a seguito delle sanzioni la Russia ha visto diminuite notevolmente le vendite del suo gas ai paesi europei e si è dunque rivolta verso il mercato dell’Asia centrale, vendendo a prezzi stracciati; tutto ciò è andato a danno proprio dell’Iran, suo (teorico) partner e principale fornitore di gas agli stati di questa regione. Anche la Cina ha diminuito in maniera significativa le importazioni di gas iraniano sostituendolo con quello russo: questa scelta da parte del governo cinese potrà rivelarsi centrale nelle sorti dell’economia di Teheran, perché erano proprio le esportazioni di gas verso la Cina che hanno tenuto a galla l’economia del paese nonostante le sanzioni occidentali.

Un ulteriore elemento chiave nelle relazioni di questo alternative triangle, oltre alla dimensione commerciale, è sicuramente l’aspetto della difesa e della sicurezza. Teheran infatti si sta avvicinando sempre di più all’asse securitario russo-cinese: nel 2021, ad esempio, l’Iran ha firmato con la Cina una partnership strategica della durata di 25 anni ed ha in programma di firmare un accordo simile con la Russia, come ribadito nella visita di Raisi a Mosca all’inizio del 2022. Un segnale chiaro e tangibile dell’avvicinamento tra i tre paesi nemici dell’occidente è avvenuto a settembre del 2022, quando l’Iran ha firmato un memorandum che gli garantirà nel vicino futuro piena membership nella Shangai Cooperation Organization (SCO), un gruppo regionale di sicurezza guidato proprio da Mosca e Pechino. Un fattore da tenere in considerazione è sicuramente quello del tempismo: l’Iran, infatti, era in attesa di essere ammesso nella SCO da circa 15 anni e non è di certo un caso che l’intero processo si sia velocizzato proprio in questi mesi, alla luce dei recenti sviluppi internazionali. Nell’ambito della riflessione sulla sicurezza sull’asse tripartito, una menzione merita chiaramente anche la questione nucleare iraniana: con il fallimento del JPCOA e il ritiro americano dall’accordo, infatti, il tema è tornato di centrale importanza nello scacchiere internazionale. Dal canto loro, Russia e Cina hanno tutto l’interesse a far sì che un accordo sul nucleare iraniano venga raggiunto (svolta che porterebbe a un alleggerimento delle sanzioni e a un abbassamento della tensione nella regione), ma alle loro condizioni e sicuramente non sottostando alla volontà americana; questo è testimoniato, ad esempio, da alcune votazioni avvenute in seno alla IAEA (Internartional Atomic Energy Agency), durante le quali Pechino e Mosca hanno votato contro delle risoluzioni di censura verso Teheran per non aver risposto a delle domande su siti nucleari non dichiarati. Le risoluzioni sono passate comunque, ma si è trattato di un chiaro segnale della posizione delle due potenze: sostenere l’alleato in maniera strumentale e contemporaneamente rendere la vita più difficile al blocco a guida americana sulla questione nucleare.

Cercando di trarre delle riflessioni conclusive sull’analisi dell’asse Pechino-Mosca-Teheran, vi sono delle domande essenziali che è necessario porsi se si vogliono fare delle previsioni sul futuro dell’ordine internazionale costituito. In primo luogo, questo famigerato asse esiste veramente o si tratta solo di contingenze politiche-economiche che hanno avvicinato stati così diversi tra di loro? È plausibile una formalizzazione delle relazioni in un’alleanza canonica? Le risposte a tali quesiti si potranno avere solamente tra diversi anni e in base ai futuri sviluppi geopolitici, ma al momento è possibile affermare come è difficile pronosticare un’alleanza strutturata tra Russia, Cina e Iran in chiave anti occidentale e anti americana, in particolare per motivi interni a ciascuno di questi paesi: l’Iran sta attraversando proprio in queste settimane uno dei momenti più difficili dal ’79 ad oggi e la Russia ha ben altri problemi a cui pensare, principalmente a livello economico. Per la Cina, d’altro canto, vi sarebbero forse più svantaggi che vantaggi ad allearsi in maniera così chiara con due stati estremamente instabili e la priorità negli anni a venire per Pechino ha un nome ben preciso: Taiwan.

L’ultimo interrogativo al quale è importante rispondere è collegato a quanto appena detto: dato che questo asse si sviluppa solamente attorno agli interessi di ciascuno e non si presenta in una forma strutturata, può comunque rappresentare una minaccia per l’ordine internazionale vigente? La risposta in questo caso è più semplice che nel precedente: una comunanza di azioni tra i tre regimi analizzati, anche se solo strumentale, può e deve preoccupare il mondo occidentale per un serie di ragioni, partendo proprio dal fatto che il sistema attuale è di per sé già in crisi. Gli Stati Uniti convivono costantemente con un grado elevatissimo di divisioni a livello sia sociale che politico e la loro immagine a livello internazionale si sta deteriorando sempre di più; gli stati europei, inoltre, sono estremamente frammentati fra di loro, l’Unione Europea appare sempre più debole e incapace di reagire alle difficoltà e la crisi energetica sta contribuendo a peggiorare sempre di più la situazione. Se a queste debolezze si aggiungono il timore di un conflitto nucleare causato dalla Russia, i dubbi e le incertezze circa gli sviluppi e le intenzioni iraniane riguardo il nucleare e una Cina sempre più forte economicamente e che sta espandendo la propria influenza, lo scenario internazionale appare più incerto che mai. In un contesto così insicuro e con un numero così ampio di minacce, tutte diverse tra loro, solamente il tempo potrà dirci se l’ordine liberale internazionale saprà reggere e rimanere ben saldo al suo posto.


Cyber warfare nel conflitto russo-ucraino: strategie cyber, lessons learned e implicazioni per il futuro

di Matteo Testa

Articolo originale pubblicato su IARI – Istituto Analisi Relazioni Internazionali

Il conflitto russo-ucraino è stato definito in parte come la prima guerra del futuro, a causa della centralità della dimensione digitale e del nuovo cyber warfare. Come si è applicato al contesto bellico questa nuovo dominio e quali sono le maggiori implicazioni per il futuro dell’internet e dei conflitti armati?

Il 24 febbraio 2022 la Russia ha ufficialmente dato il via all’invasione su larga scala del territorio sovrano ucraino, con lo scopo di liberare (secondo la narrativa di Mosca) le regioni del Donbass, la cui popolazione si sentirebbe di appartenere più alla Russia che all’Ucraina, in una sorta di lotta, si direbbe in altri casi, per l’autodeterminazione dei popoli. La guerra è stata dunque cominciata con pretesti visti e rivisti nel corso della storia, con mezzi e strategie militari tipiche del più classico warfare e, almeno nella mente dei russi, con delle tempistiche di completamento decisamente brevi; se l’ultimo punto si è rivelato drasticamente errato, ai primi due si è aggiunto un elemento che permette di classificare il conflitto russo ucraino come il primo esempio di guerra del futuro.

La dimensione cyber dello scontro armato, infatti, rappresenta un fattore di significativa novità e soprattutto di enorme centralità nelle dinamiche della guerra: oltre a essere il primo caso dove gli attacchi cibernetici sono molto sofisticati e diretti alle infrastrutture sensibili di entrambe le parti in causa, il moderno cyber warfare aggiunge un nuovo dominio a quelli classici della terra, dell’aria e del mare, spostando in maniera decisiva l’asse delle forze in gioco. Le battaglie non si combatteranno più unicamente sul terreno, anzi, gli attacchi decisivi per determinare l’esito di un conflitto armato potrebbero avvenire senza sparare più un singolo proiettile.

Questo è quanto avvenuto, chiaramente solo in parte, nel caso russo ucraino. Proprio il giorno prima dell’inizio delle ostilità da parte di Mosca, infatti, il Cremlino ha attaccato la rete digitale infrastrutturale ucraina con un malware che è stato indicato da Microsoft, in uno studio redatto dalla stessa compagnia pochi giorni dopo l’inizio del conflitto, con il nome di FOXBLADE; senza entrare nelle specifiche del malware (anche perché Microsoft non le ha rilasciate per ragioni di sicurezza), FOXBLADE rappresenta una cyberweapon in grado di far partire attacchi DDoS dal proprio computer senza che l’utilizzatore ne sia a conoscenza. La sigla DDos sta per Distributed Denial of Service, si tratta di un’arma di sicurezza informatica che mira a interrompere le attività aziendali o a estorcere denaro alle organizzazioni prese di mira e che agisce utilizzando enormi volumi di traffico digitale sovraccaricando così i server o le connessioni di rete, rendendoli inutilizzabili. La dimensione dei cyber attacchi ha dunque giocato un ruolo primario fin dall’inizio del conflitto armato ed ha continuato a ricoprire una funzione centrale anche nelle fasi successive. Come riportato da Stas Prybytko, il responsabile dello sviluppo della banda larga mobile nel Ministero della trasformazione digitale ucraino, il modus operandi dei russi una volta conquistati ed occupati nuovi territori prevedeva una priorità su tutte: tagliare e sconnettere le reti digitali della regione occupata, così che le persone residenti in quell’area non potessero sapere cosa succedeva nelle zone circostanti e non potessero descrivere la reale situazione nei territori occupati.

Dall’altra parte, l’Ucraina del Presidente Zelensky ha cercato di rispondere alle minacce e agli attacchi digitali russi cercando, in primo luogo, di estromettere la Russia dall’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), entità che rappresenta sostanzialmente la governance internazionale di internet. Questa richiesta è arrivata praticamente all’inizio della guerra, il 28 febbraio, a testimonianza di come anche gli ucraini avessero bene in mente il ruolo fondamentale del dominio digitale fin dalle primissime fasi dello scontro. La richiesta ucraina è stata tuttavia respinta al mittente dal Presidente dell’ICANN Goran Murphy, con la motivazione che tale organizzazione non detiene l’autorità di esprimere sanzioni in materia e che il compito di ICANN è semplicemente sorvegliare che il funzionamento dell’internet rimanga esterno alle dinamiche politiche; accogliere l’istanza ucraina, secondo la visione di Murphy, avrebbe dunque significato andare contro i principi base dell’ICANN stessa.

Fra le due parti in conflitto Mosca è sicuramente quella che dispone delle maggiori capacità di sferrare cyber attacchi significativi. Questo è dovuto sicuramente alla grande rete di hacker russi ma anche alla tendenza del Cremlino di manipolare le informazioni, sia a livello domestico sia quelle dirette al mondo esterno, che ha fornito ai russi una notevole expertise in questo campo. Il già citato studio svolto da Microsoft, dal nome “Defending Ukraine: Early Lesson from the Cyber War”, evidenzia come la Russia abbia utilizzato una sofisticata strategia cyber che si compone di tre sforzi principali, distinti ma utilizzati anche simultaneamente. Si tratta nello specifico di attacchi informatici di tipo distruttivo rivolti all’interno dell’Ucraina, di operazioni di penetrazione e spionaggio all’esterno dell’Ucraina e infine di azioni di cyber-influenza che prendono di mira le persone di tutto il globo. Alcuni esempi lampanti di tale strategia sono state sicuramente le campagne di disinformazione e di manipolazione della narrativa sul conflitto operata da Mosca fin dall’inizio della guerra; ma anche attacchi concreti alle infrastrutture vitali ucraine, come quello del 28 febbraio, definito da alcuni analisti come il più severo dall’inizio della guerra. Questo cyber attacco ha colpito Ukrtelecom, la compagnia di telecomunicazioni nazionale ucraina, ed ha portato a delle significative interruzioni di internet nel paese per circa 15 ore che hanno colpito principalmente gli utenti privati e le aziende.

Kiev, dal canto suo, ha potuto contare praticamente dall’inizio degli scontri su uno strumento che si è rivelato essenziale finora per la resistenza dell’esercito ucraino, ovvero il sistema Starlink, offerto gratuitamente dal magnate Elon Musk su richiesta del Primo Ministro ucraino Mykhaylo Fedorov. Il ruolo giocato da Starlink testimonia una volta di più la centralità dei sistemi tecnologici-cibernetici applicati ai moderni contesti bellici: senza il supporto di Starlink, infatti, l’Ucraina molto probabilmente sarebbe già caduta sotto i colpi dei carri armati russi. Starlink è un complesso sistema che fornisce Internet alle regioni con scarse infrastrutture di telecomunicazioni, come in mare aperto, in aree remote lontane dalle città o in regioni in cui l’accesso a Internet è limitato dai governi e che funziona grazie a una vera e propria costellazione di satelliti (circa 3000) che SpaceX, la società aerospaziale privata di Elon Musk, ha rilasciato nella parte bassa dell’orbita terrestre. L’utilizzo di Starlink in Ucraina, dunque, ha avuto importanti applicazioni sia in ambito civile, in quanto ha permesso che le reti di comunicazioni venissero ripristinate in tempi record, ma soprattutto in ambito militare: grazie all’enorme numero di terminali Starlink dispiegati sul territorio ucraino, ad esempio, l’esercito ha potuto utilizzare droni da ricognizione collegati ai terminali Starlink per inviare informazioni di puntamento all’artiglieria, è riuscito ad individuare l’esatta posizione di mezzi pesanti russi ed è stato in grado di mantenere le comunicazioni aperte anche con propri soldati che si trovavano in prima linea durante uno scontro con i russi. Analizzate le principali caratteristiche e strategie cyber utilizzate nei primi 8 mesi di guerra, è possibile trarre qualche indicazioni per il futuro dei conflitti armati e del ruolo della dimensione digitale applicato alle guerre. In primis si può affermare come la strada intrapresa con l’inizio del conflitto russo-ucraino è destinata a diventare la tendenza preponderante per le guerre che verranno: il classico warfare rimarrà sicuramente al centro delle strategie e delle considerazioni militari, ma sarà accompagnato sempre di più dalle cyber weapon e dagli attacchi cibernetici, che potrebbero diventare l’arma decisiva nelle sorti di un conflitto armato. Sarà necessario inoltre rafforzare i sistemi di intelligence, con l’obiettivo di creare dei team di professionisti che sappiano valutare le reali capacità cyber di un determinato attore: nel caso russo, ad esempio, la maggior parte degli analisti politici aveva sovrastimato le capacità militari russe ed è possibile che lo stesso sia successo con le capacità cibernetiche attribuite a Mosca, che non è riuscita nel lungo periodo a causare danni significativi alle reti ucraine. Infine, stiamo assistendo a un significativo cambiamento strutturale di quelle che sono le front lines di uno scontro armato: non più solamente soldati con fucili impegnati al fronte, ma orde di hacker e informatici devono rappresentare ormai una priorità per i governi quando si discute di sicurezza nazionale. Investire in questa nuova tipologia di “addestramento” digitale può prefigurarsi dunque come la strategia madre per arrivare preparati alle guerre del futuro, che sono molto più prossime e vicine di quanto si creda.