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START InSight Network

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Work in Progress

Stiamo lavorando a:
prospettive europee sul radicalismo di matrice islamista, prevenzione e de-radicalizzazione. 


START InSight – Un approccio innovativo

Uno sguardo nuovo e multidisciplinare 

Dentro la squadra di START InSight ricerca, inchiesta e giornalismo interagiscono, si sostengono e si rafforzano a vicenda, per portare alla società civile, ai legislatori, agli addetti ai lavori un nuovo modo di guardare a tematiche importanti e delicate.

Il nostro sguardo è rivolto in particolare al Mediterraneo, al mondo arabo e islamico, ai conflitti, all’approfondimento delle questioni legate alla radicalizzazione, al terrorismo, alle politiche europee in materia di sicurezza.

Il nostro team si occupa di analisi, produzione editoriale, divulgazione, formazione, consulenza e network-building.

Ci trovate a Lugano (Svizzera), Torino e Roma (Italia). Lavoriamo in italiano, inglese, francese.


“Jihad” – La lettura

JIHAD. La risposta italiana al terrorismo: le sanzioni e le inchieste giudiziarie. Con storie di «foreign fighters» in Italia.

di Stefano Dambruoso (Dike giuridica editrice, maggio 2018)

Il libro offre al lettore una trattazione poliedrica del fenomeno dei Foreign Fighters e delle modifiche introdotte dal Legislatore, tra cui il recentissimo D.lgs. 1 marzo 2018, n. 21
Inoltre, compie un’analisi sociologica del fenomeno, necessaria per comprendere le novità prospettate agli operatori del settore sicurezza e agli analisti, analizza identità, provenienza, residenza dei Foreign Fighters e indica le strategie di contrasto, prevenzione e deradicalizzazione portate avanti da Intelligence, Forze di Polizia e Magistratura
Infine, esamina la risposta del Legislatore Italiano e le nuove leggi introdotte dai paesi europei colpiti dai drammatici attentati degli ultimi anni che consentono di svolgere un’analisi comparativa e aggiornare la propria preparazione e formazione e approfondire la conoscenza di questo pericoloso fenomeno.


Dual Use e Resilienza

IL PROGRAMMA DI GOVERNO

Le componenti civile e militare nel campo della difesa e della sicurezza sono oggi un’unica realtà. La Difesa verso una maggiore collaborazione pubblico-privato per la sicurezza nazionale.

di Claudio Bertolotti
per gentile concessione del sito www.claudiobertolotti.com

1o settembre 2018

Ad agosto avevo anticipato in un mio articolo la necessaria urgenza di procedere alla creazione di un Piano di Difesa Civile Nazionale, partendo da una riflessione sviluppata nel corso della redazione di un lavoro commissionato dal Centro Innovazione della Difesa nel 2017 e scritto a quattro mani con chi, di lì a qualche mese, avrebbe assunto l’incarico di ministro della Difesa:Elisabetta Trenta.

Oggi il Ministero della Difesa ha reso pubblico il proprio documento di integrazione concettuale delle linee programmatiche del dicastero su un tema tanto caro al Ministro Elisabetta Trenta che, forte della propria esperienza e convinzione personale, ha trasformato un’idea in un indirizzo politico attraverso la collaborazione e la cooperazione tra soggetti privati e pubblici, enti istituzionali, università e  aziende: collaborazione che è oggi il prerequisito necessario alla realizzazione di grandi progetti di cui lo Stato non può più (e non deve) farsi carico in via esclusiva.

E’ il documento sul Dual Use e la resilienza al quale chi scrive ha contribuito insieme ad Elisabetta Trenta, in particolare sullo sviluppo del concetto di vantaggio collettivo derivante dall’opportunità della collaborazione pubblico-privato e sull’analisi delle criticità e dei punti deboli della “resilienza collaborativa” e la “prontezza civile”.

Nello specifico il documento reso pubblico dal ministero si suddivide in cinque parti. Dopo una prima sezione introduttiva viene illustrata la necessità di adattamento dello strumento militare al cambiamento dell’ambiente operativo futuro, con particolare attenzione alla sempre più attuale “minaccia ibrida” e all’effetto delle implicazioni al cambiamento.

Segue la parte sul “5&5 strategico” – la combinazione tra la prospettiva strategica della NATO e delle caratteristiche strategiche fondamentali – e il vantaggio del progresso tecnologico, che pone l’attenzione sull’importanza del duplice uso sistemico, la capacità militare a duplice uso e le principali tecnologie emergenti a supporto del duplice uso sistemico.

Il capitolo cardine del documento è quello relativo al duplice uso sistemico a supporto della resilienza, all’interno del quale parte del mio contributo di pensiero.

Infine, le conclusioni con l’indicazione di alcune soluzioni concettuali che indicano come necessario lo sviluppo del processo di trasformazione dello strumento militare per la comprensione dell’ambiente operativo futuro e la coerente definizione delle priorità della trasformazione, dei gap di capacità e delle soluzioni percorribili.


Il ritorno dell’ISIS? Iraq a rischio (ISPI Commentary)

di Claudio Bertolotti

articolo tratto dall’intervista a RAI – Radio3 Mondo (AUDIO) pubblicato per ISPI, Commentary del 3 settembre 2018

Il 31 agosto 2010 l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama dichiarava la fine della missione di combattimento in Iraq, chiudendo il capitolo della guerra americana iniziato nel 2003 con l’invasione statunitense a cui è seguita la caduta di Saddam Hussein e il periodo di violenza ininterrotta che ne è derivato. La sconfitta dello Stato islamico nella sua natura territoriale e statuale annunciata nel dicembre del 2017 ha indotto l’opinione pubblica internazionale a considerare chiusa la partita con quello che viene considerato il principale gruppo terrorista jihadista contemporaneo.  Nel 2018 gli attacchi violenti portati recentemente a termine dallo Stato islamico nella provincia di Anbar e a Kirkuk, e la stessa permanenza di gruppi affiliati allo Stato islamico in Siria, mostrano quanto sia difficile e ancora lontana la stabilizzazione regionale. Il problema è che la stessa esistenza e la presenza residuale dello Stato islamico rendono e renderanno impossibile stabilizzare le aree centrali, settentrionali e occidentali dell’Iraq se non verranno adottate soluzioni politiche volte a coinvolgere le comunità locali consentendo loro di accedere a forme di potere e rappresentanza.

Un recente report pubblicato a fine luglio dall’Analytical Support and Sanctions Monitoring Team dell’ONU, riporta la presenza di circa 20-30.000 miliziani dello Stato islamico tra Siria e Iraq. Notizia che ha allarmato molti e attirato l’attenzione mediatica su un fenomeno in fase di ridimensionamento ma ancora molto pericoloso.

da 15.000 a 17.000 soggetti affiliati allo Stato islamico sarebbero ancora in Iraq, altri 14.000 invece in Siria

Una prima considerazione: i numeri sembrano alti, ma è praticamente impossibile poter verificare la corrispondenza dei dati riportati con la situazione sul terreno. Una conferma in questo senso proviene dal 14° report del Lead Inspector General al Congresso degli Stati Uniti sull’Operazione militare anti-ISIS Inherent Resolve (OIR). Attenendoci a questi dati, 15/17.000 soggetti affiliati allo Stato islamico sarebbero in Iraq, altri 14.000 in Siria. Numeri verosimili in linea con i 100.000 combattenti stimati totali dello Stato islamico nel suo momento di maggior espansione nel 2015-16, dei quali 30.000 stranieri.

la natura sociale dello Stato islamico è alimentata dalla marginalizzazione delle comunità sunnite irachene attuata dal governo centrale a prevalenza sciita

È però necessario partire da un punto cardine, che spesso passa in secondo piano nelle analisi generaliste: la natura sociale dello Stato islamico, che nasce nella seconda metà degli anni Duemila alimentato dalla marginalizzazione delle comunità sunnite irachene, in particolare quelle periferiche, attuata dal governo centrale a prevalenza sciita. Proprio dalla reazione di quelle comunità è nata prima la resistenza, poi l’opposizione armata insurrezionale e infine il proto-stato islamico di cui Abu-Bakr al-Baghdadi si è proclamato califfo nel 2014.

Quando noi oggi parliamo di 30.000 soggetti, è a quella tipologia di individui che rivolgiamo le nostre attenzioni, non una massa combattente, un’armata strutturata e monolitica. Ma individui e gruppi, più o meno organizzati, di cui una componente in aderenza agli ordini dei vertici dello Stato islamico, che fanno parte o che combattono anche per la difesa dei propri villaggi e delle proprie comunità e che, con entusiasmo o meno, hanno aderito al primo modello di opposizione armata. E non è un caso che lo Stato islamico, che oggi ha perso mordente tra le popolazioni irachene stia procedendo a eliminare le autorità tribali che si oppongono al progetto del califfato dove le forze regolari irachene non sono in grado di garantire la sicurezza, come testimoniano le poco meno di duecento uccisioni registrate negli ultimi sei mesi nelle aree periferiche dell’Iraq.

Una massa eterogenea, di cui fanno parti correnti qaediste e dello Stato islamico – teoricamente in competizione tra di loro – che è composta da una parte di soggetti oggi priva di una guida militare, politica, ideologica strutturata e unitaria ma che è in grado di operare in cellule e nuclei in linea con la strategia jihadista. Questo potrebbe fare la differenza, poiché la debolezza di singoli gruppi, o soggetti isolati, potrebbe trasformarsi in punto di forza qualora si creassero le giuste condizioni: la prima è una guida autorevole, la seconda è il favore delle popolazioni locali.

Abu Bakr al-Baghdadi, o il suo successore, potrebbero occupare il vertice di una nuova organizzazione armata

Per la prima, è una questione di tempo, e al-Baghdadi, o il suo successore, potrebbero occupare il vertice di una nuova organizzazione armata. La seconda dipende invece da come il governo iracheno, più che quello siriano, saprà coinvolgere tutte le componenti sociali del paese senza correre il rischio di emarginare, o escludere da forme di potere, la forte componente sunnita che ha sostenuto l’emergere dello Stato islamico.

Inoltre va considerata la massa della componente autoctona, locale, al fianco della residua componente straniera, quella dei foreign fighters, che in parte è rientrata nei paesi di origine, alcuni anche europei, in parte è invece emigrata in altre aree di crisi, come l’Asia meridionale e in particolare l’Afghanistan.

Lo Stato islamico, di necessità virtù, ha fatto un passo indietro – ridimensione territoriale a cui non poteva opporsi – per farne due in avanti: espansione ideologica e presenza puntiforme in tutto l’arco grande mediorientale e dell’est asiatico.

Una nuova fase dunque: sul piano operativo e organizzativo le capacità dello Stato islamico sono ridimensionate ma comunque funzionali, la logistica è in grado di svolgere il proprio compito, la capacità comunicativa non è stata intaccata. Anche la capacità finanziaria ha mantenuto livelli significativi.

Lo Stato islamico si è così ridimensionato nei numeri ma non nelle capacità in proporzione a quei numeri e si sta così riorganizzando in senso insurrezionale, in maniera analoga allo Stato islamico d’Iraq del periodo 2006/2013.

Oggi però si impone la crescente presenza di un nuovo fronte, che potrebbe unire parte delle diverse correnti dell’insurrezione armata jihadista che ha combattuto in Siria e Iraq: dallo Stato islamico propriamente detto, agli jihadisti dell’ex Jabat al-Nusrah, all’Hay’at Tahir al Sham, ai gruppi turcofoni del Fursan al-Imam e del Turkestan Islamic Party, ad Ansar al Islam.

Insomma una galassia jihadista, di cui fa parte, in cerca di un nuovo obiettivo comune e pronta a radicarsi su quello stesso terreno fertile in cui il fenomeno post-Stato islamico ha le sue radici più profonde.

* Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.