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I nuovi orizzonti della radicalizzazione. Dal Rapporto #ReaCT2022

di Chiara Sulmoni

La pandemia dell’estremismo

 A livello globale, (da tempo) il terrorismo tende a fare meno vittime, anche se geograficamente è più diffuso e, particolarmente in Siria e nell’Africa sub-sahariana, la minaccia è cresciuta. A rilevarlo è il Global Peace Index (GPI) 2021, che misura l’impatto di una serie di indicatori sulla  “pacificità” delle nazioni. Lo stesso documento parla anche di un contesto internazionale in cui, se da un lato “i conflitti e le crisi emerse nella scorsa decade hanno iniziato a ridursi di intensità”, dall’altro il COVID19 ha portato nuove tensioni; fra il gennaio del 2020 e l’aprile del 2021, sono stati registrati oltre 5’000 eventi violenti legati alla pandemia (GPI 2021). L’impatto economico, sociale e anche psicologico delle diverse misure messe in atto per contenere la diffusione del virus ha contribuito a creare le condizioni per l’avanzata degli estremismi e l’adesione di un numero sempre maggiore di sostenitori e militanti alle varie cause, incluse le teorie complottiste, di natura politica, identitaria, anti-tecnologica, no-vax, che possono trovare eco in movimenti di protesta anti-governativi e azioni dimostrative come, ad esempio, le decine di attacchi vandalici nei confronti delle antenne 5G sospettate di propagare il COVID19; le operazioni di disturbo presso i centri di vaccinazione; le minacce a scienziati e politici ma anche, come riportato in Italia, a negozianti e ristoratori che richiedevano di esibire il Green Pass. Sempre più spesso, sulla rete e nelle piazze convivono e si sovrappongono orientamenti diversi che convergono temporaneamente su cause e battaglie comuni e/o con lo scopo di accrescere la propria visibilità e base di sostenitori.

   Secondo l’esperto di terrorismo Ali Soufan può darsi che in futuro forze dell’ordine, analisti e ricercatori guarderanno al 2020 come a uno spartiacque per ciò che concerne il reclutamento da parte di attori non-statali. Va tuttavia sottolineato che l’aumento sensibile e progressivo di proteste, disordini civili e instabilità politica è un tratto che il GPI “cattura” fin dal 2011; un trend particolarmente pronunciato negli Stati Uniti, dove le dimensioni del problema sono emerse con chiarezza il 6 gennaio 2021, quando una folla variegata di sostenitori del Presidente uscente Donald Trump, convinta di poter ribaltare l’esito del voto, si è sentita legittimata dalla narrativa delle ‘elezioni rubate’  – cavalcata da una parte della politica e dei media – ad assaltare il Campidoglio. L’insurrezione contro il passaggio di poteri fra le due amministrazioni americane, che ha lasciato sul terreno 5 morti e un centinaio di feriti ha generato una maggiore, per quanto tardiva, consapevolezza dei rischi collegati a una deriva estremista interna che è invece oggi diventata una questione prioritaria per la sicurezza nazionale. Gli oltre 700 individui arrestati e perseguiti dalla giustizia – fra i quali spicca un 12% dal background militare, secondo i dati del Program on Extremism della George Washington University – rappresentano un coacervo di esponenti, sostenitori e simpatizzanti di varie ideologie e sigle collegate ai mondi del suprematismo bianco, del neo-nazismo, delle milizie armate e dell’universo cospirazionista (movimento QAnon in testa), identificati e incriminati anche grazie alle loro attività e interazioni pienamente visibili sulle piattaforme social. Una fetta consistente di questi cittadini non è risultata poi ufficialmente affiliata ad alcuna organizzazione; in questo contesto, c’è chi parla ormai di radicalizzazione di massa.

New normal della radicalizzazione, profili e rischi che cambiano

   A venti anni quindi dagli attentati dell’11 settembre che hanno aperto un lungo capitolo di lotta al terrorismo a livello nazionale e internazionale e sotto varie forme – dagli interventi militari al rafforzamento delle misure di polizia e intelligence, dalle modifiche legislative allo studio interdisciplinare della materia, alle iniziative di prevenzione e de-radicalizzazione – la minaccia non solo non è svanita, ma è oggi più diffusa, frammentata e complessa da affrontare. L’ecosistema dell’estremismo violento è caratterizzato da una forte competizione, ma anche da un’esposizione crescente alle strategie, tattiche e “vittorie percepite” di gruppi ideologicamente lontani fra loro – gli analisti non hanno mancato di sottolineare, ad esempio, l’attenzione prestata dagli ambienti dell’estrema destra al “successo” dei Talebani, il cui ritorno al potere dopo una lunga battaglia insurrezionale non motiva unicamente i combattenti di al-Qaeda e/o della nebulosa jihadista, ma anche quelle formazioni che fanno della “società tradizionale” il loro baluardo, si oppongono ai valori liberali in Occidente e/o aspirano a un conflitto civile. La vicinanza e talvolta la coabitazione di temi – ad esempio, jihadisti vis-à-vis Accelerazionisti -, narrative e simbologia non comporta un annacquamento dei principi o delle convinzioni ideologiche ma piuttosto, si legge in una ricerca sull’argomento (ICSR, gennaio 2022), “una maggiore attenzione ai risultati più che alla dottrina” (practice). Con riferimento alla sfera salafita-jihadista, nel Rapporto ReaCT2022 anche Michael Krona sottolinea come “le comunità di sostenitori online stiano espandendo l’universo terroristico formando nuove entità che promuovono interpretazioni ideologiche più ampie, senza rimanere legate a una singola organizzazione”. Oggi la produzione di propaganda e narrativa estremista – ma anche l’incitamento all’azione – non sono più una prerogativa esclusiva dei media legati ai movimenti terroristici, ma un’operazione a cui concorre in maniera significativa anche una larga base di adepti e militanti che si muovono in autonomia, sia per ciò che concerne la creazione di nuovi contenuti – che possono scostarsi rispetto agli argomenti affrontati dai canali ufficiali del gruppo – che la loro disseminazione; un gran numero di incriminazioni e di condanne per reati legati al terrorismo (non solo di matrice jihadista) riguardano infatti attività di raccolta, assemblamento e condivisione di materiale utile anche per pianificare attacchi. A causa di questa frammentazione, la battaglia dei tech giants per “ripulire la rete” è tutt’altro che facile, vista anche l’abilità dei “fomentatori” nel dissimulare contenuti di post e account, ingannare algoritmi, migrare di piattaforma in piattaforma (anche quelle destinate ai ragazzi come TikTok) e muoversi nelle aree grigie e attraverso app criptate.

  La Gran Bretagna è uno dei paesi europei più colpiti da terrorismo e radicalizzazione e per questa ragione, fornisce dati e anticipa spunti di discussione e riflessione molto importanti. Recentemente Dean Haydon, il coordinatore nazionale senior della polizia anti-terrorismo, ha delineato i nuovi profili che stanno cambiando l’equazione nel paese: in sintesi, l’evoluzione del fenomeno ha portato oggi ad imbattersi con maggiore frequenza in individui di origini o di nazionalità britanniche, sempre più giovani e attratti dalle ideologie dell’estrema destra, che si auto-radicalizzano online e agiscono di propria iniziativa. Ma dalle segnalazioni per sospetta radicalizzazione nell’ambito del programma Prevent 2020/21, che interviene quando si manifestano quelli che potrebbero essere i primi segnali di estremismo, è anche emerso che il 51% dei casi è rappresentato dall’adesione a quelle che vengono definite “mixed, unstable or unclear ideologies” (MUU). Se si prende in considerazione anche un’altissima incidenza – una prevalenza – di situazioni che sembrano caratterizzate da problemi di salute mentale, dipendenze e/o altre difficoltà – che rendono soprattutto i giovanissimi vulnerabili alla propaganda in rete – si profila una realtà in cui è la violenza, intesa come canale di sfogo dei disagi personali e – spiegano gli esperti – mezzo per “(ri)acquisire una propria rilevanza”, a prevalere sulla motivazione ideologica. Facendo riferimento anche a un numero considerevole di persone affette da autismo che sono entrate nel circuito di Prevent, il Revisore Indipendente delle leggi sul terrorismo Jonathan Hall ha dichiarato che “è come se fosse emerso un problema sociale e se lo fossero ritrovato fra le mani gli esperti di controterrorismo”. In questo quadro, la radicalizzazione assume le connotazioni di un problema di salute pubblica che va studiato e affrontato da una prospettiva più ampia rispetto a quella adottata fino ad ora, quando un forte accento è stato posto sul ruolo dell’ideologia e di conseguenza, nell’ambito del contrasto, sulla contro-narrativa. Emblematico delle varie sfumature con le quali si trova confrontato chi deve determinare quali nuove forme di violenza rappresentino una minaccia terroristica è l’attacco che ha avuto luogo nel mese di agosto del 2021 a Plymouth, quando un 22enne che aveva familiarità con gli ambienti incel ha sparato a 7 persone per poi togliersi la vita. Noti da tempo negli Stati Uniti ma venuti in superficie solo recentemente in Europa, gli incel sono i cosiddetti celibi involontari, individui che non riescono a stabilire una relazione con l’altro sesso; chi studia il fenomeno spiega che dentro questa bolla che viene denominata anche ‘cultura’ incel – dotata di un proprio gergo specifico – possono manifestarsi risentimento e discorsi d’odio che spronano a commettere violenza contro le donne e che, più in generale, oscillano fra posizioni misogine, razziste, anti-semite e cospirazioniste. Fra il mese di marzo e il mese di novembre del 2021 le visite di utenti britannici – che includono ragazzi a partire dai 13 anni – ai tre principali forum online legati all’ideologia incel sono sestuplicate (dati rilevati da The Times con il Centre for Countering Digital Hate). Le statistiche del 2021 hanno registrato un numero record di arresti di bambini e ragazzi per reati di terrorismo.

I nuovi orizzonti della radicalizzazione non si registrano unicamente nel mondo anglosassone; con riferimento alla matrice jihadista, il Rapporto 2020 del Servizio delle Attività Informative della Svizzera aveva già attirato l’attenzione sugli individui “la cui radicalizzazione e propensione alla violenza vanno ricercate in crisi personali o problemi psichici piuttosto che in un’opera di convincimento ideologico. In generalela frequenza di atti di violenza che presentano un nesso marginale con l’ideologia o i gruppi jihadisti rimarrà costante o potrebbe addirittura aumentare. Nello stesso anno, nella Confederazione si sono verificati i primi due attacchi, a Morges e a Lugano, di questa matrice; gli autori -un uomo e una donna- rientrano nella casistica appena menzionata.

Ripensare la radicalizzazione in funzione della prevenzione

   Negli ultimi 15 anni, l’attenzione delle politiche di sicurezza e delle iniziative di contrasto al terrorismo si è focalizzata in particolar modo sulla propaganda e il reclutamento da parte di al-Qaeda, Stato Islamico e gruppi affini; lo jihadismo rimane tutt’ora la forma di terrorismo che fa più vittime e la stessa Europol (Te-Sat) segnala che – possibilmente anche per ragioni legate alla pressione esercitata dalla pandemia sul lavoro delle forze di sicurezza? – nel 2020 il numero di attacchi portati a termine ha superato quello degli attacchi sventati/falliti ed è raddoppiato rispetto all’anno precedente. Tuttavia, come emerge anche dalle prospettive prese in considerazione nei paragrafi precedenti, un nuovo rischio oggi si irradia da una realtà post-organizzata, in cui i soggetti agiscono in maniera indipendente ispirandosi solo vagamente allo Stato Islamico e dove radicalizzati e (potenziali) terroristi – pur compiendo azioni solitarie – si ‘esaltano’ e incoraggiano dentro comunità / ecosistemi di gruppo. Al di fuori dell’ambiente accademico, questo aspetto della (ri)socializzazione – della ricerca di un senso di condivisione e accoglienza dentro una comunità reale o virtuale – non sempre viene colto. Eppure, è centrale per poter comprendere appieno i processi di radicalizzazione, che annoverano tra i fattori scatenanti più significativi, proprio l’esclusione sociale. Simili dinamiche di appartenenza e di identificazione con un movimento o con una causa, in contrapposizione con altri/e, attraversano oggi anche la società più in generale che vive una situazione di forte polarizzazione, tribalismo e crescente ‘incapsulamento sociale’, tutti elementi che favoriscono l’incubazione dell’estremismo. Vista da questa prospettiva, la battaglia contro le teorie cospiratorie, che sono parte integrante delle narrative di numerose sigle più o meno violente, soprattutto della destra, e contro le fake news che ne pongono le basi, acquisisce un significato che è anche strategico e richiama nel contempo la politica e i media a una nuova consapevolezza. A causa delle numerose sfaccettature dei problemi sociali collegati alla violenza con i quali ci confrontiamo in questo momento storico, è opportuno “ripensare la radicalizzazione” attribuendo più peso alla prospettiva sociologica e psicologica anche in funzione della prevenzione, che non consiste solo nella repressione attraverso interventi di natura securitaria -di polizia- nelle fasi che precedono il crimine ma in una presenza e pianificazione di attività sul territorio a favore della collettività, volte a rafforzare le reti di sostegno per le situazioni di disagio sociale e personale, che si manifestano e si riscontrano a livello locale. Come già messo in rilievo nel Rapporto ReaCT2021, ciò implica una collaborazione fra attori diversi (ONG, istituzioni pubbliche e private, società civile, famiglie) e un dialogo costante fra ricercatori, operatori sul campo, forze dell’ordine e legislatori. Di fronte alla “creatività” e alla capacità di adattamento del terrorismo, nonché al new normal della radicalizzazione che definisce l’epoca attuale, è importante aggiornare gli approcci e gli strumenti a nostra disposizione.




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