USA: OLTRE LA FACCIATA DELLA DEMOCRAZIA.
CRISI AMERICANA E VERITÀ NEGATE
di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).
Siamo tutti
testimoni di un sisma politico globale, dove è evidente che il sistema politico
che abbiamo inventato e messo in atto rappresenta a fatica la volontà dei
popoli.
Negli Stati
Uniti lo scontento per questa prima democrazia rappresentativa si è manifestato
nei decenni con candidature indipendenti come quella di Ross Perot, imprenditore
texano divenuto celebre anche per aver organizzato una rischiosa missione
privata per liberare due suoi dipendenti detenuti a Teheran nel 1978, alla
vigilia della rivoluzione iraniana.
Persino
l’attuale Segretario per la Salute Robert Kennedy Jr, rifiutato dai democratici
si è poi candidato per le ultime presidenziali come indipendente prima di
venire fagocitato da Trump.
Oggi a distanza di qualche giorno dal 4 di luglio Musk ha registrato un terzo partito come risposta a Trump per aver compilato una finanziaria con tanti difetti gravi. Infatti, come ho già scritto precedentemente, questa legge non solo ha raggiunto il consenso minimo, direi risicato, ma ha troppe pecche che hanno creato maggiori divisioni sia nel partito repubblicano che in generale nel paese. Seppure Musk abbia avuto un’ennesima idea balzana ( “The very fact that our electoral system is a winner‑take‑all system discourages third parties… The big parties are like amoebas trying to go around the fringe groups and fold them in.” – Prof. Barbara Perry University of Virginia) di protesta, (d’altra parte come non biasimarlo, dopo essersi impegnato a trovare sprechi statali, solo una piccola parte è stata inserita nella legge), è stata già boicottata dagli stessi democratici.
La spaccatura
all’interno del partito repubblicano per una finanziaria che, come al solito,
protegge i più ricchi e toglie
sussidi necessari a una fascia assai debole di americani che dal Covid ad oggi
si trova in totale povertà.
Alternativamente
Trump visti i legami con imprenditori favolosamente ricchi, poteva benissimo
chiedere di “regalare” qualche miliardo per aiutare le fasce deboli,
esattamente come fece Truman con il piano Marshall, aiutando la nostra ed altre
nazioni in totale miseria a ricostruirsi.
- Il Piano Marshall (1948–1952)
mobilitò circa 12,4 miliardi di dollari dell’epoca (circa
~250 mld USD attuali), con lo scopo di ricostruire l’Europa dopo la
guerra e combattere povertà e disordini interni
- Contrariamente, Trump ha scelto di tagliare
spese sociali e assistenziali, destinando i risparmi (e l’aumento del
debito di oltre 2,4 trilioni USD sino al 2034) a favore dei redditi più
alti, anziché utilizzarli per rafforzare il welfare delle fasce più povere.
Contemporaneamente Tucker Carlson, giornalista indipendente conservatore, intervista il Presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, e qui di seguito un riassunto del perchè di questa intervista: “Abbiamo appena concluso un’intervista con
Masoud Pezeshkian , il presidente dell’Iran, il cardiochirurgo settantenne che guida il paese con cui eravamo in guerra circa una settimana e mezza fa. Sappiamo che saremo criticati per aver fatto questa intervista.
Perché
l’abbiamo fatta comunque? L’abbiamo fatta
perché eravamo in guerra con l’Iran dieci giorni fa, e potremmo tornarci di
nuovo. E quindi il nostro punto di vista
— che è sempre rimasto coerente nel tempo — è che i cittadini americani hanno il
diritto costituzionale e naturale di raccogliere tutte le informazioni
possibili su questioni che li riguardano.
Se il loro
paese sta facendo qualcosa con i loro soldi e in loro nome, hanno il diritto
assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade. E questo include ascoltare le persone con
cui stanno combattendo. Ora, si può credere a tutto ciò che dice il
presidente dell’Iran?
Probabilmente
no. Ma non è questo
il punto. Il punto è che dovreste
poter decidere da soli se credergli o meno.
E ricordate che chiunque cerchi di negarvi questo diritto non è un
vostro alleato, ma un vostro nemico.
A proposito,
abbiamo anche inviato — per la terza volta negli ultimi mesi — una richiesta
di intervista al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e speriamo
che la accetti.
L’intervista è
stata limitata da un paio di fattori:
- Primo, è stata
fatta a distanza, tramite un traduttore, e questo è sempre complicato.
- Secondo, non parlo persiano, e ci sono molte
domande che non ho fatto al presidente dell’Iran, in particolare domande
a cui sapevo che non avrei ottenuto una risposta onesta, come:
“Il vostro
programma nucleare è stato completamente disabilitato dalla campagna di
bombardamenti condotta dal governo degli Stati Uniti una settimana e mezzo
fa?”
Non c’era
alcuna possibilità che rispondesse onestamente a questa domanda, quindi, non
ho nemmeno provato a farla. La
risposta, in realtà — dal punto di vista americano, persino da quello della
CIA — è inconoscibile.
Abbiamo evitato
domande simili e ho fatto domande molto semplici, come:
- Qual è il vostro obiettivo?; Volete la guerra con gli
Stati Uniti?; Volete la guerra con Israele?
E così via.
Ancora una
volta, lo scopo di questa intervista non era arrivare alla verità assoluta
— cosa impossibile in un’intervista del genere.
Lo scopo era contribuire al patrimonio di conoscenza da cui gli
americani possano trarre una propria opinione. Imparate tutto ciò che
potete, e poi decidete voi. Questo è
ciò che promette l’America.”
Inutile
commentare che questa intervista ha dato molto fastidio a Washington.
Poi c’è la
versione religiosa che lega gli USA a Israele come un cordone ombelicale e che
la maggior parte della gente non ha mai valutato nella sua complessa
profondità. In un’intervista
all’ambasciatore americano in Israele Mike Huckebee viene spiegato
come questo legame sia unico in tutti i sensi. Secondo l’ambasciatore i suoi
stessi connazionali non comprendono come il legame religioso sia fondamentale: “Senza
la fede ebraica non esisterebbe la fede cristiana.” -“Lo dico sempre ai
miei amici ebrei: voi potete essere ebrei, non avere niente a che fare con me,
non avete bisogno di me. Ma io non posso essere cristiano senza l’interezza di
tutta questa storia di Dio nel mondo, che porta fino a ciò in cui credo come
cristiano.”
E come
relazione politica prosegue dicendo: “Mi piace dire alla gente che gli
Stati Uniti hanno amici, hanno alleati, ma hanno un solo partner: Israele è
davvero il loro unico vero partner; con questo intendo dire che il livello di
cooperazione e affinità che abbiamo l’uno con l’altro somiglia molto più a un
matrimonio che a una semplice amicizia fraterna.”
“E lo dico
perché il livello di condivisione di informazioni di intelligence, l’hardware
militare che costruiamo insieme, la tecnologia medica, la trasformazione
economica che è avvenuta da entrambe le parti…”
“Il modo
straordinario in cui siamo legati è tale da non assomigliare a nessun altro
rapporto che abbiamo con qualunque altro Paese al mondo.”
Quindi
l’alleanza con Israele resta il pilastro non negoziabile di questa
architettura, alimentata tanto da una strategia geopolitica quanto da
un’eredità religiosa profonda, che fonda la fede cristiana su quella ebraica.
Chi ignora questa dimensione, fatica a capire perché certi rapporti resistano a
tutto — perfino alla realtà dei numeri o alle urgenze economiche gravi.
La democrazia rappresentativa vacilla, a iniziare proprio
dal paese che per primo al mondo ha costruito una Costituzione moderna e
repubblicana, pensata per garantire equilibrio tra poteri, libertà individuali
e rappresentanza popolare: gli Stati Uniti d’America.
Oggi però questo modello appare logorato. Il sistema
bipartitico ha smesso di rappresentare la pluralità reale della società,
trasformandosi in una macchina autoreferenziale che esclude voci nuove e non
applica i tentativi di riforma promessi perchè il mostro burocratico è più
forte, o forse è più importante la guida del cambiamento.
Le candidature indipendenti, che un tempo erano
espressione di protesta o visione alternativa, oggi vengono cooptate,
screditate o svuotate di senso. Il nuovo candidato per il posto di sindaco di
New York, Zohran Mamdani ne è un esempio recentissimo. Percepito
come incongruente perché rompe le categorie tradizionali viene criticato
dalla destra trumpiana come comunista lunatico, mentre per altri è una risorsa: incarnazione di una
nuova politica identitaria e inclusiva. Ne nasce una tensione esplosiva dalla
fusione tra dogmatismi religiosi e ideologia socialista radicata in un momento
storico dove gli equilibri sono delicatissimi.
Il voto, oggi, viene ridotto a una scelta binaria tra due
élite che ha perso parte del suo potere trasformativo. E mentre l’America si
confronta con crescenti diseguaglianze, povertà strutturale, tensioni etniche e
guerre a bassa intensità diplomatica, la promessa originaria della democrazia
rischia di diventare una liturgia vuota.
Eppure, proprio nei margini — nelle voci non allineate,
nei gesti simbolici, nei contrasti tra religione e politica — si intravede la
possibilità di un risveglio. Non sarà forse più il tempo delle grandi
costituzioni, ma quello delle coscienze informate.
Come ci ricorda Tucker Carlson nella sua discussa
intervista: “Se il vostro paese fa qualcosa con i vostri soldi e in vostro
nome, avete il diritto assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade.”
E forse oggi, la vera democrazia, comincia proprio da lì.
Profilo di rischio degli autori di violenza politica negli Stati Uniti vs l’Unione Europea (UE 27) nel 2024 – primo trimestre 2025
di Andrea Molle negli Stati Uniti
Recenti analisi
prodotte da agenzie per la sicurezza e istituti di ricerca rivelano una
crescente convergenza nei profili demografici e geografici degli individui
coinvolti in atti di violenza politica nelle democrazie occidentali. Sebbene le
ideologie specifiche varino — temi razzisti ed etnici e le teorie complottiste
anti-governative sono più diffuse negli Stati Uniti, mentre in Europa
prevalgono i movimenti jihadisti e separatisti — il profilo tipico appare
sorprendentemente simile su entrambe le sponde dell’Atlantico. Si tratta, in
genere, di un uomo di giovane età, spesso compresa tra la tarda adolescenza e i
vent’anni, che si radicalizza online e viene spinto ad agire in contesti dove
la visibilità mediatica è elevata o dove i risentimenti locali offrono terreno
fertile per la mobilitazione.
La tabella che
segue presenta le statistiche più aggiornate fornite dall’FBI, dal Dipartimento
della Sicurezza Interna (DHS), dal rapporto TE-SAT 2025 di Europol, dal
database START-PIRUS e da analisi spaziali fondate sul monitoraggio degli
eventi ACLED (Armed Conflict Location
and Event Data). Insieme, queste fonti offrono un quadro dettagliato
dell’attuale panorama delle minacce.
Variabili | Stati Uniti | Unione Europea |
genere | ≈ 85 % uomini (PIRUS, 1970–2021) | ≈ 91 % uomini (TE‑SAT 2025 juveniles) |
Età
|
≈ 68 % fra 18‑34 (PIRUS)
| > 60 % sotto i 35;29 % minori (TE‑SAT 2025) |
Razza/etnia | REMVE suprematisti bianchi = 52 % nell’FBI DVE disruptions FY 2024 | Etno‑nazionalisti/separatisti =38 % degli attacchi nel 2024 |
Religione | < 7 % ispirazione jihadista negli USA (HTA 2025); crescita della frangia Christian‑identity | Ideologia jihadista in 24 dei 58 attacchi; estremismo politico “post-religioso” (TE‑SAT) |
Affiliazione politica | Anti‑gov./sovereign + partisan = 49 % degli episodi dal 2016 (CSIS) | Micro – cellule accelerazioni-ste e neo‑Nazi in aumento (TE‑SAT) |
Città / Campagna | 72 % degli episodi in aree urbane > 250 k; picco secondario nelle contee a bassa densità di milizie (arXiv 2025) | Grandi capitali e periferie separatiste (Corsica, Paesi Baschi) |
Tabella 1: Indicatori Comparativi del Rischio
la fascia più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni
Una chiara
disparità di genere caratterizza gli individui coinvolti in atti di violenza
politica sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Negli Stati Uniti, i
dati del database START-PIRUS, relativi al periodo 1990–2021, mostrano che
circa l’85% degli autori è di sesso maschile. La tendenza è ancora più marcata
in Europa, dove il rapporto TE-SAT 2025 di Europol indica che il 91% dei
sospetti arrestati per terrorismo giovanile nel 2024 era di sesso maschile.
Questa netta predominanza rappresenta una delle caratteristiche costanti,
trasversale a tutti gli orientamenti ideologici.
Anche l’età
rappresenta un predittore significativo. In entrambe le regioni, la fascia
più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa
tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni. Negli Stati Uniti, quasi il
70% degli autori rientra nella fascia tra i 18 e i 34 anni. Allo stesso modo,
Europol riporta che il 29% di tutti gli arresti legati al terrorismo nell’UE
nel 2024 ha riguardato minorenni o giovani adulti tra i 12 e i 20 anni. Questi
dati evidenziano la crescente vulnerabilità delle fasce giovanili, in
particolare all’interno degli ambienti digitali e dei social media.
Anche l’identità razziale ed etnica ha un ruolo rilevante nella definizione dei profili degli autori. Negli Stati Uniti, l’FBI ha classificato il 52% degli interventi contro estremisti violenti interni (DVE) nell’anno fiscale 2024 come motivati da ragioni razziali o etniche, con la maggioranza dei casi collegati a ideologie suprematiste bianche. Nell’Unione Europea, il quadro risulta più variegato: il 41% degli attacchi compiuti nel 2024 è stato attribuito ad attori jihadisti, mentre il 38% è stato condotto da gruppi etno-nazionalisti o separatisti, in particolare in aree interessate da conflitti legati all’autonomia regionale.
in Europa, il segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato da microcellule accelerazioniste e neo-naziste
L’ideologia
religiosa, pur non essendo più dominante negli Stati Uniti, continua a
rappresentare un fattore determinante negli attacchi in Europa. Negli USA, gli attentati ispirati al
jihad costituiscono oggi meno del 7% dei casi di estremismo violento interno
(DVE), segnalando un più ampio spostamento verso motivazioni secolari o ibride.
Al contrario, in Europa queste motivazioni sono state responsabili del 41% di
tutti gli attacchi terroristici mortali nel 2024, rendendo la religione un
fattore molto più rilevante nel contesto europeo.
Infine,
l’affiliazione politica è emersa come un elemento determinante dell’estremismo
violento più recente. Negli Stati Uniti, i dati del Center for Strategic and
International Studies (CSIS) indicano che il 49% degli episodi dal 2016 ha
coinvolto attori anti-governativi, appartenenti al movimento dei “cittadini
sovrani” o legati a polarizzazioni partitiche estreme. In Europa, il
segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato
da microcellule accelerazioniste e neo-naziste: gruppi piccoli,
decentralizzati, spesso attivi a livello transnazionale e coordinati tramite
piattaforme di comunicazione criptata.
Negli Stati
Uniti, i cluster geografici di violenza politica non sono distribuiti
uniformemente. Un’analisi spaziale basata sui dati degli eventi registrati da
ACLED rivela che California, Texas, Florida e Georgia guidano la classifica
nazionale per numero totale di episodi. Tuttavia, se si considera la
popolazione, il primato in termini pro capite spetta al Pacifico
nord-occidentale, in particolare agli stati dell’Oregon e di Washington. Al
di fuori delle grandi aree metropolitane, emerge un secondo cluster che merita
attenzione nelle contee rurali con reti militanti attive, tra cui alcune
aree del nord dell’Idaho e dell’est dell’Oregon. Queste regioni, sebbene
meno popolate, ospitano comunità con un forte sentimento anti-governativo e con
infrastrutture logistiche in grado di sostenere attività estremiste.
Anche l’Unione
Europea presenta un andamento altrettanto disomogeneo. L’Italia ha registrato
il maggior numero di attacchi terroristici nel 2024, con 20 episodi, seguita
dalla Francia con 14. Spagna e Francia guidano la classifica per numero totale
di arresti legati alla violenza politica. Nel frattempo, atti di violenza
separatista a bassa intensità ma persistenti continuano a verificarsi in aree
come la Corsica e i Paesi Baschi, dove rivendicazioni storiche e identità
regionali alimentano conflitti localizzati. Queste zone restano focolai di
attività etno-nazionalista, nonostante l’attenzione più ampia si stia spostando
verso minacce di natura transnazionale.
Un recente quadro statistico basato sui dati di Europol e START InSight curato da Claudio Bertolotti nel Rapporto annuale ReaCT2024 sul terrorismo e la radicalizzazione in Europa, conferma la persistenza della minaccia terroristica in Europa. Nel 2023 sono stati compiuti 43 attacchi e ne sono stati sventati altri 33, con oltre 600 arresti effettuati nei vari stati membri dell’UE. Francia e Austria guidano la classifica per numero di arresti, segnalando sia un’elevata intensità operativa sia una chiara priorità attribuita all’attività di intelligence. I dati evidenziano inoltre la sfida costante rappresentata dai gruppi etno-nazionalisti e separatisti — in particolare in Francia e Spagna — accanto a residui di minacce jihadiste. L’analisi di Bertolotti rafforza l’idea che i processi di radicalizzazione siano sempre più spinti da fattori ibridi, in cui si intrecciano ideologia, fragilità personali e vulnerabilità psicologiche, soprattutto tra i giovani disillusi.
Sebbene gli indicatori demografici e geografici aiutino a individuare chi sono gli autori e dove operano, comprendere come avviene il processo di radicalizzazione offre una prospettiva più profonda sulla traiettoria della minaccia.
gli spazi digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la mobilitazione
Indipendentemente
dall’ideologia di riferimento, la maggior parte degli individui coinvolti in
atti di violenza politica tende a seguire un percorso di radicalizzazione
simile. In genere, tutto ha inizio con una crisi personale — come disagio
emotivo, isolamento sociale o difficoltà economiche — che si sovrappone a
narrative più ampie basate su teorie del complotto o rivendicazioni
identitarie. Questi racconti offrono una chiave di lettura distorta attraverso
cui l’individuo rielabora la propria condizione, attribuendo la colpa a
istituzioni, governi o gruppi specifici. Con il tempo, il bisogno di
significato o appartenenza lo spinge verso comunità online dove tali visioni
vengono rafforzate. Sia l’FBI che Europol hanno segnalato i social media, le
piattaforme di gaming e le app di messaggistica criptata come acceleratori
cruciali in questo processo, in particolare tra gli utenti più giovani. Questi spazi
digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra
pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la
mobilitazione.
La probabilità
che un individuo compia atti di violenza politica varia in base a una
combinazione di fattori demografici, geografici e comportamentali. Il profilo a
più alto rischio è quello di un uomo tra i 18 e i 34 anni, residente in un’area
urbana politicamente polarizzata o in una regione con movimenti separatisti
attivi. Questo individuo è generalmente molto immerso in contenuti estremisti
online, spesso attraverso forum, social network o applicazioni di messaggistica
criptata.
Un livello di
rischio moderato è associato agli individui che vivono in contee rurali degli
Stati Uniti dove è documentata l’attività di milizie. Questo gruppo comprende
spesso persone con precedenti per violenza domestica o altri episodi di
aggressione minore, suggerendo che un passato di aggressività interpersonale
possa fungere da precursore alla violenza politica quando si intreccia con
influenze ideologiche radicali.
All’estremo
inferiore dello spettro di rischio si trovano gli adulti più anziani — in
particolare le donne oltre i 45 anni — che non presentano alcuna traccia
rilevante di attività online in ambienti estremisti. Questo segmento
demografico risulta ampiamente sottorappresentato in tutti i dataset noti
relativi alla violenza di matrice politica.
Per ridurre efficacemente la minaccia della violenza politica, le strategie di prevenzione devono concentrarsi sui gruppi più vulnerabili e sugli ambienti ad alto rischio. Una delle priorità più urgenti è l’intervento precoce rivolto ai giovani maschi tra i 13 e i 24 anni, che costituiscono il segmento in più rapida crescita tra coloro che si radicalizzano online. Programmi di sensibilizzazione e coinvolgimento attivo, mirati a intercettare questi individui prima che si integrino stabilmente in reti estremiste, possono ridurre in modo significativo il rischio a lungo termine.
Invece di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico, jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a schemi comportamentali comuni che attraversano trasversalmente tutte le ideologie
Allo stesso
tempo, i centri di coordinamento federali e locali (fusion centers) dovrebbero
allineare l’impiego delle risorse ai cluster geografici individuati dai dati
ACLED e dai modelli spaziali elaborati da diversi analisti. Ciò implica
concentrare gli sforzi non solo nei grandi centri urbani, ma anche in quelle
contee specifiche dove è stata documentata un’attività estremista, passata o
presente.
È fondamentale
che i programmi di prevenzione superino le rigide classificazioni ideologiche. Invece
di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico,
jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a
schemi comportamentali comuni — come crisi personali, isolamento sociale e
radicalizzazione online — che attraversano trasversalmente tutte le
ideologie.
Infine, è
necessario prestare particolare attenzione ai cicli elettorali. Sia il
Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) che il Center for Strategic and
International Studies (CSIS) hanno documentato picchi ricorrenti di violenza
politica e attività minacciose in corrispondenza delle principali elezioni. Una
pianificazione preventiva e l’adozione di misure di sicurezza mirate durante
questi periodi sono essenziali per mitigare il rischio di esplosioni di
violenza.
Rischio
Stimato per la Popolazione e Strategie di Mitigazione
Sebbene il panorama della violenza politica sia in continua evoluzione e sempre più visibile, il rischio effettivo di subire danni fisici per un cittadino medio rimane statisticamente molto basso, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Secondo i dati aggregati di FBI, DHS ed Europol, la probabilità annua che un civile venga ucciso in un attacco a motivazione politica è inferiore a 1 su 10 milioni nella maggior parte dei paesi occidentali. Per fare un paragone, si tratta di probabilità simili a quelle di essere colpiti da un fulmine o vittima di una fuga di gas domestico.
l’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa contribuisce ad alimentare nel tempo
Tuttavia, queste
medie nascondono importanti sfumature. La percezione della minaccia risulta
infatti molto più elevata in determinati contesti ad alta visibilità — come
edifici governativi, manifestazioni politiche o istituzioni religiose — dove la
probabilità di un attacco è effettivamente maggiore, specialmente durante fasi
di forte tensione politica o in seguito a eventi polarizzanti. In tali
ambienti, il rischio per alcune categorie di persone (funzionari pubblici,
giornalisti, attivisti, membri di minoranze religiose o etniche) risulta
sensibilmente più alto rispetto alla media della popolazione.
Negli ultimi
cinque anni, negli Stati Uniti si è registrata una media annuale di 25–35
episodi documentati di violenza politica interna con esiti fisici gravi o
intenti letali. Nell’Unione Europea, sebbene il numero di attacchi portati a
termine sia inferiore, il volume di arresti e complotti sventati — oltre 400
solo nel 2024 — segnala un livello elevato di intenzionalità e di capacità di
mobilitazione.
Il vero
rischio, dunque, non
risiede tanto negli eventi a elevato numero di vittime, quanto nell’erosione
cumulativa della fiducia pubblica, della stabilità democratica e delle norme
civiche. L’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta
nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa
contribuisce ad alimentare nel tempo.
Tre dinamiche
interconnesse aumentano l’esposizione al rischio per specifici gruppi:
• Prossimità a
istituzioni simboliche o politiche (es. sedi parlamentari, sinagoghe,
ambasciate)
• Visibilità demografica (es. minoranze religiose o razziali
frequentemente bersaglio)
• Partecipazione ad attività civiche ad alta esposizione (es. attivisti,
funzionari eletti, giornalisti)
Per mitigare tali
rischi, è necessario adottare un approccio preventivo multilivello, che
coinvolga tanto le autorità quanto le comunità locali. Le
strategie chiave includono:
- Valutazione comportamentale delle
minacce (Behavioral Threat Assessment): Formazione di personale in prima linea —
insegnanti, assistenti sociali, responsabili delle risorse umane — per
riconoscere i segnali precoci di radicalizzazione e intervenire prima che
si concretizzi la mobilitazione.
- Alfabetizzazione digitale e contrasto
alla radicalizzazione: Promozione di competenze di verifica dei fatti, resilienza online e
meccanismi di segnalazione tra le fasce giovanili, in particolare tra i
maschi di età compresa tra i 13 e i 24 anni.
- Partenariati di comunità: Investire in attori locali
affidabili, come leader religiosi e organizzazioni di quartiere, per
costruire relazioni, ridurre l’isolamento sociale e rafforzare il capitale
sociale.
- Pianificazione di sicurezza per i
cicli elettorali:
Schierare risorse di sicurezza mirate e strumenti di contrasto alla
disinformazione durante le elezioni, ormai sistematicamente associate a
picchi di minacce.
- Centri di ricerca basati su dati
quantitativi:
Rafforzare la capacità dei centri di intelligence regionali di condividere
in tempo reale analisi geospaziali e comportamentali tra forze dell’ordine
e istituzioni civiche.
In definitiva,
sebbene sia improbabile che la violenza politica colpisca direttamente il
cittadino medio, i suoi effetti a catena possono compromettere profondamente la
vita democratica se non vengono affrontati in modo adeguato. Per questo,
l’attenzione non deve concentrarsi unicamente sulla sicurezza, ma anche sulla
ricostruzione della fiducia nelle istituzioni e sul rafforzamento della
resilienza sociale.
Fonti
[1] Europol. *European Union Terrorism Situation & Trend Report
(TE‑SAT 2025)*. Luxembourg: Publications Office of the EU, 2025.
[2] DHS Office of Intelligence & Analysis. *Homeland
Threat Assessment 2025*. Washington DC, 2024.
[3] University
of Maryland START. *Profiles of Individual Radicalization in the United
States (PIRUS) Research Brief*, March 2023 update.
[4] Claudio
Bertolotti, ed., #ReaCT2023 – Report on Radicalization and Terrorism
(Rome: START InSight, 2023),
https://www.startinsight.eu/react2023-report-on-radicalization-and-terrorism/
[5] Riley
McCabe. “The Rising Threat of Anti‑Government Domestic Terrorism: What the Data
Tells Us.” CSIS Brief, October 21 2024.
[6] Ravi Varma
Pakalapati & Gary E. Davis. “Spatial and Temporal Analysis of
Political Violence in the United States.” arXiv preprint 2503.14399,
March 2025.
NATO – Cosa implica quel 5% di spesa per l’Italia
di Andrea Molle dagli Stati Uniti
L’adozione, al
vertice dell’Aia del 24-25 giugno, del nuovo obiettivo NATO di spesa al 5% del
PIL non è un mero aggiornamento contabile: segna una svolta strategica che
ridefinisce il concetto stesso di difesa. La formula 3,5% + 1,5% — tre punti e
mezzo per “hard defence” in senso classico e un punto e mezzo per investimenti
dual-use a sostegno della resilienza nazionale — cristallizza la lezione della
guerra in Ucraina: senza vie di comunicazione rinforzate, scorte energetiche
sicure e cyberspazio protetto, i carri armati non arrivano al fronte e i droni
non decollano.
Per l’Italia la
sfida è doppia. Da un lato, il governo Meloni si è impegnato a onorare il nuovo
target pur mantenendo un sentiero di rientro del deficit; dall’altro, parte da
un livello “puro” di circa 1,57%, ben al di sotto del 3,5% richiesto per la
componente militare tradizionale. Tradotto in cifre, significa trovare
nell’arco di dieci anni fra i 32 e i 42 miliardi di euro aggiuntivi l’anno solo
per armamenti, addestramento e readiness operativa, a cui si sommano gli
investimenti per infrastrutture e cyber-resilienza. Tuttavia, la stessa
Alleanza ha chiarito che l’obiettivo del 5% è da raggiungere in modo
progressivo: 3,5% per la difesa militare e 1,5% per la sicurezza civile,
entrambi spalmati su un orizzonte decennale. L’aumento effettivo richiesto è
quindi contenuto, pari a un massimo dello 0,3% del PIL all’anno. Si tratta di
un impegno oneroso, ma non insostenibile.
Il Ministero
della Difesa non potrà più diluire gli incrementi fra le tre Forze Armate come
in passato. Per l’Esercito, relegato per anni al terzo posto dietro Marina e
Aeronautica, l’occasione è irripetibile: colmare il ritardo su mezzi corazzati,
artiglieria a lunga gittata, munizioni di precisione e capacità contro-UAS,
garantire poligoni moderni e manutenzione, dotarsi di sensoristica strategica
oggi appannaggio quasi esclusivo degli Stati Uniti. Senza questa svolta, gli
impegni sul fianco Est resteranno nominali.
La quota dell’1,5%
apre invece un terreno di politica industriale. Porti come Gioia Tauro, i
corridoi ferroviari TEN-T e la dorsale 5G/quantum italiana possono essere
co-finanziati dall’UE sotto l’ombrello “Military Mobility”, veicolando
investimenti che valgono sia per la Difesa sia per la competitività logistica
nazionale. Qui l’Esercito può diventare attore-ponte con Protezione Civile e
infrastrutture critiche, ridefinendo il proprio ruolo di “forza-territorio” nel
disegno di una difesa totale.
L’orizzonte 2035
offre una gradualità che attenua lo shock sul bilancio, ma non deve illudere:
il procurement terrestre richiede cicli decennali. I contratti per Ariete,
Dardo, PzH 2000 e SAMP/T NG vanno firmati ora se si vuole evitare un nuovo
decennio di eterne mezze soluzioni. È un banco di prova anche politico: se Roma
non riuscirà a trasformare il 5% in occasione di modernizzazione industriale e
deterrenza credibile, il nuovo criterio rischierà di ridursi a un ulteriore
indicatore-tabù come il vecchio 2%.
La posta in
gioco, insomma, non è solo soddisfare Washington né evitare future minacce di
dazi; è dimostrare ai partner che un’Italia con 5 milioni di riservisti
virtuali, ma senza munizioni né strade percorribili da un Leopard, è un anello
debole. Se la Penisola saprà invece coniugare ambizione europea, realismo
contabile e impulso al proprio esercito, il 5% potrà diventare il volano di una
sicurezza finalmente integrata fra caserme, fabbriche e ponti.
Questo nuovo
paradigma impone anche una riscrittura del rapporto tra Forze Armate e società
civile, dopo decenni di separazione culturale e funzionale. L’investimento
nella resilienza nazionale, nella protezione delle infrastrutture critiche e
nella risposta alle minacce ibride restituisce ai militari un ruolo visibile,
concreto, integrato nel tessuto del Paese. Non più solo professionisti di
missioni all’estero, ma attori centrali della sicurezza collettiva, custodi del
territorio e partner della cittadinanza. È un’occasione storica per ricucire
quel legame, fondandolo non sulla retorica ma sull’utilità strategica e sulla
trasparenza democratica.