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La guerra cognitiva: trauma, manipolazione e radicalizzazione nell’epoca dell’incertezza

di Anna Calabresi, psicologa psicoterapeuta. Esperta in Psicologia digitale, Scienze criminologiche e Contrasto al terrorismo internazionale.

Nell’epoca attuale, il conflitto non si limita ai campi di battaglia fisici, ma si insinua nei modi in cui percepiamo, interpretiamo e ricordiamo. Non colpisce solo i corpi, ma agisce sulle menti, distorcendo significati, rafforzando paure e seminando sfiducia. E trova forza proprio nelle ferite aperte. Perché quando il dolore collettivo non viene riconosciuto ed elaborato, può essere manipolato, diventando una lente deformante per leggere il presente e un terreno fertile per la radicalizzazione.

In questo paesaggio, la guerra cognitiva, il trauma collettivo e la radicalizzazione non sono realtà distinte, ma intrecci di un medesimo processo psico-sociale. Si alimentano a vicenda e si rafforzano in una spirale che attraversa individui e società, storia e memoria. Comprenderli nella loro interdipendenza è una necessità urgente per leggere lucidamente i contesti di crisi, ma anche per immaginare risposte nuove, capaci di prevenire fratture e di generare riparazione.

Capire questi meccanismi richiede uno sguardo capace di integrare psicologia, cultura e politica. Solo così potremo davvero difendere la nostra capacità di pensare e di scegliere.

Pensare sotto assedio: tra algoritmi, emozioni e propaganda

Non tutte le guerre si dichiarano con il boato di missili o il dispiegamento di truppe. Alcune si insinuano silenziosamente nella quotidianità, mascherate da informazione, intrattenimento e condivisione. Sono guerre che si combattono nei nostri dispositivi, nelle sinapsi e sul piano delle emozioni. La guerra cognitiva è la nuova frontiera del conflitto: non mira a distruggere corpi o infrastrutture, ma a occupare la mente e a manipolare il senso stesso del reale. Una guerra che non bombarda, ma polarizza e separa, che colpisce la nostra capacità di fidarci, di interpretare e di sentire il mondo come condiviso.

L’obiettivo della guerra cognitiva è disorientare, farci dubitare di ciò che vediamo, sentiamo e ricordiamo. È una strategia sottile e pervasiva che sfrutta le crepe emotive, i bias cognitivi, le fragilità individuali e collettive. Una nuova forma di assedio che passa attraverso big data, algoritmi predittivi, intelligenze artificiali e operazioni psicologiche mirate. E le democrazie, che si fondano su pluralismo, fiducia e senso critico, sono le più vulnerabili. Non perché più deboli, ma perché più aperte (NATO Review, 2021).

Nel teatro contemporaneo dell’informazione, media e social network sono attori protagonisti di una battaglia per l’influenza delle coscienze. Le emozioni, come indignazione, paura, e rabbia, diventano strumenti di manovra, leve invisibili con cui orientare scelte, plasmare opinioni e disinnescare il pensiero critico. Perché non è l’argomentazione razionale a muovere l’agire umano, ma la scossa emotiva. È l’emozione che guida la mano a votare, a cliccare “compra ora”, ad abbracciare un’ideologia.

In questo scenario si inserisce un’altra sfida sottile, ma cruciale: il rischio di delegare il pensiero all’intelligenza artificiale, trasformandola da partner cognitivo a sostituto percettivo. Si rischia di disabituare le nuove generazioni alla tolleranza della frustrazione. Quando tutto diventa accessibile, immediato e predittivo, l’attesa diventa insopportabile, il dubbio intollerabile e la complessità superflua. Ma è proprio lì, nel tempo sospeso tra domanda e risposta, che il pensiero umano si forma, si affina e si emancipa.

La nostra suscettibilità alla manipolazione non è un’anomalia, ma dipende dalla struttura stessa della mente. Siamo esseri sociali, programmati per fidarci. La fiducia nell’altro è stata, nel corso dell’evoluzione, un vantaggio. Ma è proprio questa apertura che può renderci vulnerabili all’inganno. Inoltre, il nostro pensiero non è sempre vigile, spesso si affida a scorciatoie cognitive che semplificano, ma anche deformano la realtà (Haselton, Nettle & Andrews, 2015). Il cervello, per sua natura, tende a risparmiare energia, privilegiando automatismi e risposte immediate. Il pensiero critico, invece, esige tempo, fatica e capacità di tollerare l’ambiguità. E in un’epoca che corre, questo non è ben visto.

In questo contesto, la difesa è per forza di cose anche psicologica e culturale. È urgente coltivare una resilienza cognitiva, quella forma di vigilanza critica che ci permette di non smarrirci nel labirinto di un ecosistema informativo instabile. Significa affinare lo sguardo, imparare a leggere lateralmente, a interrogarci sulla provenienza delle fonti, ma anche a riconoscere i segni sottili della propaganda, che agisce prima di tutto sulle nostre emozioni. Ma anche rinforzare la capacità di tollerare l’ambiguità e riconoscere la manipolazione.

Difendere la mente è oggi un atto politico. Se non possiamo più fidarci nemmeno delle nostre percezioni, allora il nemico non è più fuori, ma dentro, è la nostra stanchezza cognitiva, la nostra fame di certezze, la nostra disattenzione.

E come in ogni guerra, anche qui ciò che è in gioco è l’identità. Non solo individuale, ma collettiva: chi siamo, in cosa crediamo, come possiamo restare umani.

Guerra cognitiva e trauma collettivo: come la sofferenza condivisa diventa leva strategica

Se la guerra cognitiva mira a influenzare percezioni, emozioni e decisioni collettive, il trauma costituisce spesso la breccia attraverso cui questa strategia si insinua. Trauma e manipolazione si rafforzano reciprocamente: le ferite psichiche non elaborate rendono individui e comunità più vulnerabili alla propaganda e alla disinformazione. E queste ultime, a loro volta, si nutrono di ferite aperte per innestare narrazioni distorte.

Il trauma collettivo è memoria di un evento doloroso che si trasmette a livello transgenerazionale e modifica la percezione di sé e dell’altro. Quando una collettività è colpita da eventi come guerre, disastri naturali o pandemie, si spezza il senso stesso dell’esistenza condivisa. In assenza di una corretta elaborazione, il trauma non si dissolve, e può riemergere sotto forma di radicalizzazione, ostilità e violenza.

Autori come Gilad Hirschberger (2018), Vamik D. Volkan (2021) e altri hanno mostrato come il trauma collettivo non sia un semplice dato storico, ma una costruzione culturale che si tramanda. E questo processo riguarda vittime e perpetratori. Nelle comunità vittimizzate, questo può rafforzare la coesione interna, ma anche alimentare chiusure difensive. Nelle società che hanno agito violenza, invece, il trauma si esprime spesso come rimozione o riformulazione della colpa. Hirschberger riprende la celebre “zona grigia” descritta da Primo Levi, quella condizione ambigua dove i confini tra vittime e carnefici si confondono. In questi casi, la memoria può diventare campo di battaglia, alimentando ciò che gli studiosi definiscono “vittimizzazione competitiva”, cioè la tendenza di ogni gruppo a enfatizzare la propria sofferenza come unica o superiore. Ma proprio in questa tensione può aprirsi lo spazio per una rielaborazione più matura, dove il dolore non diventa alibi, ma consapevolezza.

La pandemia da Covid-19 ha inciso nell’inconscio collettivo come una ferita globale che ha oltrepassato confini geografici e culturali, dissolvendo in pochi giorni l’illusione di controllo e continuità che regolava il nostro vivere ordinario. Non è stato solo il contagio biologico a generare angoscia, ma la sospensione forzata del contatto, la perdita di riferimenti affettivi e simbolici. Un trauma diffuso che ha costretto milioni di persone a confrontarsi con l’isolamento, l’incertezza e un senso di vulnerabilità radicale, riattivando fratture profonde o imprimendone di nuove.

Il conflitto israelo-palestinese è un altro esempio paradigmatico. Se da un lato la memoria dell’Olocausto ha generato in Israele una percezione di vulnerabilità cronica, dall’altro, la lunga esperienza di occupazione e violenza, ha impresso nel popolo palestinese una ferita identitaria altrettanto profonda. Due traumi che si specchiano e si alimentano, rendendo la riconciliazione particolarmente difficile. In questo contesto, il trauma non solo divide, ma può essere usato per giustificare nuove forme di oppressione o di resistenza armata.

Il trauma, infatti, non si esaurisce nell’evento che lo ha generato. Come mostrano Van der Kolk (2021) e altri studiosi, ciò che ferisce davvero è la mancanza di contenimento e di elaborazione. Le risposte di emergenza – ipervigilanza, chiusura, aggressività – che inizialmente proteggono, se cronicizzate diventano disfunzionali. E l’esposizione prolungata alla sofferenza, anche solo mediatica, amplifica l’impatto psicologico, soprattutto tra bambini, anziani e soggetti vulnerabili.

Tuttavia, la psiche possiede risorse notevoli. La resilienza è una possibilità che si costruisce attraverso relazioni sicure, senso di agency, fiducia collettiva. È una forza che nasce anche dalla memoria condivisa, quando questa non paralizza ma orienta, non isola ma connette. E affinché il trauma collettivo possa trasformarsi in risorsa, serve un lavoro culturale e simbolico profondo. Non basta “superare” il passato, ma occorre dargli forma e significato attraverso processi di verità e riconciliazione, pratiche artistiche, percorsi clinici e pedagogici. Ogni gesto che consente di dire il dolore senza farsene dominare è un gesto trasformativo.

Elaborare un trauma collettivo significa, in definitiva, riscrivere la storia da dentro. Non per negare ciò che è stato, ma per restituirgli senso. Per passare dal subire il passato al costruire, insieme, una nuova possibilità di futuro.

Trauma collettivo e radicalizzazione: quando la frattura diventa identità

La radicalizzazione è il punto di intersezione tra il trauma collettivo e la guerra cognitiva, tra ferite non elaborate e manipolazioni strategiche. Non è soltanto un’adesione ideologica, ma una risposta psichica a un mondo percepito come caotico, ingiusto e umiliante. È un sintomo, prima che un progetto, che chiede contenimento e riconoscimento.

Spesso, chi si radicalizza è una persona già ferita in cerca di rifugio. Un’identità frammentata che trova nell’estremismo una forma di coerenza. Secondo le teorie più recenti, il percorso verso la radicalizzazione è suddivisibile in tappe progressive: la percezione di un’ingiustizia, l’esperienza di frustrazione che ne consegue, l’identificazione di un colpevole e infine la sua demonizzazione. Il trauma agisce in ciascuna di queste fasi conferendo un senso al caos fino a trasformare la sofferenza in missione.

Aderire a un gruppo radicale può rappresentare un tentativo di restituire senso al proprio vissuto. Per molti giovani in bilico tra culture non integrate, tra origini negate e presente precario, l’estremismo diventa una bussola. A tutto questo si sommano le dinamiche di gruppo, che intensificano e cementano l’adesione (Meneguz, 2005). Meccanismi psicologici noti, dalla dissonanza cognitiva al disimpegno morale, dal pensiero di gruppo alla de-individuazione, costruiscono ambienti chiusi dove la violenza viene normalizzata, l’empatia disattivata e l’identità irrigidita. L’altro diventa solo ostacolo, nemico e bersaglio.

In questa cornice, la propaganda estremista agisce come una sofisticata operazione simbolica. Immagini potenti e linguaggi emotivi vengono mobilitati per sedurre e trasformare il dolore in appartenenza. E laddove la sofferenza è rimasta senza nome, quella promessa identitaria può apparire irresistibile.

La radicalizzazione, allora, non è solo una questione ideologica o politica, è anche e soprattutto una risposta traumatica. Un modo distorto per dare forma e direzione a una ferita collettiva che non ha trovato contenimento. Per questo ogni intervento serio non può limitarsi al controllo o alla repressione, ma serve un lavoro profondo, clinico e culturale, che sappia offrire spazi di ascolto, narrazioni alternative e riconoscimenti autentici.

Solo così si può disinnescare il meccanismo che trasforma la ferita in ideologia e restituire alla memoria il suo compito più nobile: quello di orientare, non di incatenare.

Conclusioni: una risposta integrata per un rischio sistemico

Guerra cognitiva, trauma collettivo e radicalizzazione non sono solo sintomi di un’epoca ferita, ma anche lenti attraverso cui leggere le crepe del nostro tempo. Parlano di un presente in affanno, che cerca risposte mentre vacilla nei suoi riferimenti. Per questo non bastano soluzioni settoriali, né approcci isolati. Occorre una prospettiva integrata che attraversi i confini tra clinica, educazione, media e geopolitica. Difendere la mente, oggi, significa riconoscere la fragilità del pensiero, la potenza del dolore e il bisogno profondo di significato.

Non si cura il trauma collettivo con il silenzio, e non si disinnesca la radicalizzazione solo con misure repressive. Servono altri strumenti, cioè ascolto autentico, sguardo complesso, coraggio politico. Ma soprattutto, serve una volontà profonda di custodire ciò che ci rende pienamente umani: la capacità di pensare con profondità, di sentire con empatia e di trasformare il dolore in visione.

Questa volontà deve diventare cultura condivisa e impegno collettivo. A livello educativo, ciò implica introdurre programmi di alfabetizzazione mediatica e digitale nelle scuole, per coltivare resilienza cognitiva. A livello clinico e sociale, significa promuovere modelli di elaborazione del trauma collettivo su larga scala capaci di offrire senso e dignità all’esperienza traumatica, come memoriali, commissioni di verità e riconciliazione, progetti artistici comunitari, approcci terapeutici per il trattamento del trauma. È significativa in tal senso una ricerca di Lehnung et al. (2020) che ha testato un progetto EMDR con sopravvissuti yazidi in Iraq, dimostrando l’efficacia di protocolli culturalmente adattati. A livello tecnologico e politico, infine, urge una regolamentazione etica degli algoritmi che governano i social media e le intelligenze artificiali, per mitigarne gli effetti polarizzanti e manipolativi. Ma questa trasformazione richiede anche un gesto silenzioso: che ciascuno, nel proprio quotidiano, ritrovi il coraggio e il tempo di fermarsi a pensare. Perché senza uno sguardo che interroga, il trauma si sedimenta, mentre è proprio nella pausa, nella domanda, che può germogliare una consapevolezza nuova

Non basta sopravvivere alla ferita, occorre trasformarla in possibilità, memoria, responsabilità. E questa trasformazione è, prima di tutto, un atto culturale.


Il nuovo asse europeo della difesa e il posto dell’Italia

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Nell’Europa del 2025, la difesa torna al centro della politica. La firma del primo patto bilaterale tra Germania e Regno Unito dalla fine della Seconda guerra mondiale segna una svolta storica e simbolica. È un accordo articolato, con 17 progetti congiunti che spaziano dal rafforzamento della deterrenza sul fianco orientale della NATO allo sviluppo congiunto di capacità ad alta tecnologia, tra cui missili a lungo raggio e sistemi subacquei avanzati. Ma dietro la notizia si cela una trasformazione ben più ampia: l’evoluzione dell’architettura della sicurezza europea, che vede emergere un nuovo triangolo strategico – Londra, Berlino, Parigi – e chiede con urgenza a Roma di decidere se vuole restare alla periferia o sedersi al tavolo dove si disegna il futuro della sicurezza continentale.

È chiaro intanto che il nuovo patto anglo-tedesco non cancella l’asse franco-tedesco, né tanto meno lo rimpiazza. Al contrario, ne allarga i confini operativi e lo rafforza in chiave trilaterale, grazie anche alla continuità garantita dalle cooperazioni precedenti tra Regno Unito, Francia e Germania all’interno del formato E3. Il trattato siglato nel 2024 tra Parigi e Londra, con cui il Regno Unito ha esteso un ombrello nucleare europeo condiviso, ne è stato il primo segnale. La Germania, con questo nuovo passo, si rende protagonista di una strategia di alleanze multiple che punta a integrare la deterrenza NATO, sfruttando le capacità britanniche, la visione strategica francese e la propria potenza industriale.

A margine, ma si spera in modo sempre più visibile, si muove l’Italia. Pur ancora lontana dal target NATO del 5% del PIL in spesa militare – e con una discussione interna dominata da timori fiscali e disattenzione strategica – Roma ha iniziato a riallacciare i fili con ciascuno dei grandi partner europei. Con il Regno Unito è attiva da anni una collaborazione sulla sicurezza, rafforzata da esercitazioni congiunte e da una convergenza sulla lotta alla migrazione illegale e al traffico di esseri umani. Con la Germania l’intesa industriale si è consolidata attraverso Leonardo e Rheinmetall, in progetti comuni che riguardano la difesa antiaerea e la logistica militare. Il rapporto con la Francia è più profondo e strutturato, ma anche molto più difficile essendo caratterizzata da una competizione diretta in molti teatri e domini strategici. Oltre alla cooperazione industriale su piattaforme navali (come il programma Fincantieri–Naval Group), esiste però una convergenza politica sulla necessità di un “pilastro europeo” nella NATO e sul rilancio della difesa comune.

Il vero nodo, però, è strutturale. L’Unione Europea ha lanciato il programma ReArm Europe – ribattezzato Readiness 2030 – che prevede uno stanziamento di oltre 800 miliardi di euro per rafforzare l’autonomia strategica dell’Europa, includendo anche un fondo militare da 150 miliardi destinato all’industria della difesa. A questa iniziativa si affianca un nuovo quadro finanziario pluriennale, già approvato, che apre la strada a deroghe fiscali per la spesa militare, consentendo (o forse meglio dire costringendo) agli Stati di indebitarsi per rafforzare la propria sicurezza senza infrangere le regole di bilancio.

Su questo tema, l’Italia sembra muoversi con cautela, se non con vera e propria esitazione. Il governo ha espresso formalmente l’impegno a raggiungere il 5% di spesa, ma le modalità restano poco chiare e l’opinione pubblica è divisa. Il rischio è che il nostro Paese finisca per approcciare il riarmo europeo come una necessità tecnica, o nel peggiore dei casi come una delega in bianco per la spesa pubblica, e non come una scelta strategica. In tal modo, l’Italia si condannerebbe a essere un partner minore, spettatrice di un processo che altri stanno guidando con visione e audacia.

Eppure, le opportunità non mancano. L’Italia può entrare da protagonista nei progetti E3, candidarsi come piattaforma logistica per il fianco Sud della NATO, rilanciare la sua industria con programmi comuni e difendere un’autonomia tecnologica europea anche attraverso il proprio tessuto imprenditoriale. Ma per farlo serve una scelta politica chiara: investire davvero nella difesa non solo come costo, ma come garanzia di sovranità, crescita industriale e centralità strategica.

Il nuovo asse anglo‑tedesco non è pertanto una minaccia, ma un’occasione. A condizione che l’Italia smetta di osservare, e torni a pensarsi come potenza media responsabile, europea e strategicamente matura.


VERITA’ TRADITA


di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).

Trump ha costruito la sua seconda campagna elettorale su pochi e chiari punti: il muro con il Messico per l’arrivo di immigrati illegali, i dazi per portare benefici economici a un paese afflitto da inflazione, alti tassi e dove tutto o quasi è made in Cina, dalla cancellazione del movimento woke con i suoi allegati (vedi il D.E.I. -Diversity, Equality, Inclusion policy) e infine dall’apertura al pubblico dei fascicoli John F. Kennedy ed Epstein.

A distanza di sei mesi e mezzo, il procuratore generale Pam Bondi, che a febbraio aveva affermato che i “fascicoli Epstein” erano “sul mio tavolo” e in fase di revisione, non ha prodotto alcun risultato concreto: al contrario, la revisione si è conclusa con la dichiarazione ufficiale che i famosi “files” non contengono nuove informazioni rilevanti, né una lista incriminata di clienti, smentendo le aspettative alimentate per mesi. In particolare, un memo del Dipartimento di Giustizia e dell’FBI diffuso all’inizio di luglio ha concluso che non esiste alcuna “lista di clienti incriminati” né prove credibili di ricatto, confermando anche che Epstein si sarebbe tolto la vita.

Un sondaggio di  Quinnipiac, di settimana scorsa, segnala che il 63 % degli elettori disapprova il modo in cui l’amministrazione ha trattato la questione, con appena il 17 % di approvazione, mentre CNN in collaborazione con SSRS registra solo il 3 % di approvazione. La stragrande maggioranza degli americani (82 % dei Democratici e oltre 60 % dei Repubblicani) ritiene che Trump stia occultando prove, inclusa la presunta “client list” di Epstein.

Anche nel cuore del movimento MAGA si percepisce una frattura: circa il 40 % dei repubblicani sostiene la gestione governativa dei file Epstein, ma quasi un terzo la critica apertamente. Tra i conservatori più duri, l’esasperazione è palpabile: si accusa l’amministrazione di “tradire” le aspettative, tanto che il presidente della Camera Mike Johnson e il leader al Senato Thune sollecitano “trasparenza totale”.

Nel frattempo, Theresa Helm, una sopravvissuta agli abusi di Epstein, rilascia un’intervista nella quale racconta di essere stata adescata nei primi anni Duemila, quando studiava e lavorava in California. Avvicinata da coetanee con la promessa di opportunità professionali prestigiose, fu poi introdotta a Ghislaine Maxwell, l’amica/amante e procacciatrice. Maxwell fu così convincente che in poche ore Helm accetto l’offerta e qui ebbe inizio la sua odissea fino al lussuoso palazzo di New York dove fu schiavizzata. La Signora Helm, oggi, è un’attivista e coordinatrice dei servizi per le sopravvissute presso il National Center on Sexual Exploitation ed è una delle voci più determinate a chiedere che venga fatta piena luce sullo scandalo Epstein, chiedendo la pubblicazione integrale dei documenti investigativi. La sua denuncia si scaglia contro il sistema che, a suo dire, ha protetto per decenni i potenti a scapito delle vittime. “Non possiamo continuare a permettere che predatori ricchi e influenti evitino la giustizia grazie al denaro e alle connivenze politiche,” usato come arma politica, ma come simbolo della necessità di riformare un sistema che ha troppo spesso silenziato le vittime. “È tempo di ascoltare chi ha vissuto questi abusi sulla propria pelle, perché senza giustizia per le sopravvissute non può esserci alcuna giustizia per la società,” ha concluso.

Contemporaneamente alle interviste e articolo della Helm, il Wall Street Journal pubblica un’esclusiva in cui racconta che nel 2003, fu realizzata una raccolta di lettere per il 50° compleanno di Jeffrey Epstein, curata dalla Maxwell, in cui sarebbe inclusa una nota firmata da Donald Trump contenente un disegno provocatorio di una donna nuda e un messaggio hot: “may every day be another wonderful secret”. L’articolo del WSJ sostiene di aver visionato l’album, che risulterebbe tra i documenti esaminati dal Dipartimento di Giustizia durante le indagini su Epstein.

Dopo la pubblicazione dell’articolo, Trump ha reagito con una causa da 10 miliardi di dollari per diffamazione, dichiarando di voler “difendere la propria reputazione” e mettere fine a quella che definisce una “campagna di menzogne”.

 Il tentativo di censura ha avuto l’effetto opposto: l’articolo è diventato virale, ha monopolizzato il dibattito politico e mediatico, e ha riacceso l’attenzione nazionale su rapporti e documenti che fino a quel momento avevano avuto una diffusione più limitata.

Ma quali le implicazioni? Secondo la giornalista conservatrice Candice Owen, dietro questo caso, c’è tutta una rete fitta di relazioni che risalgono addirittura al padre della Maxwell, un noto e ricchissimo editore di origini ebraiche, morto cadendo misteriosamente dal suo yatch in mezzo all’Atlantico, che durante la Seconda guerra mondiale fece la spia un po’ per gl’inglesi poi per i russi e infine per il Mossad. Dico questo perché una delle teorie che circolano nella rete è che Epstein fosse un agente del Mossad che assicurando favori sessuali ai VIP del mondo politico ed economico potesse poi ottenere “favori”, che non conosciamo, per Israele.

Il risultato è un cortocircuito politico-mediatico dove si intrecciano frustrazioni interne e sospetti geopolitici. Da un lato, l’America di Trump si presenta come la paladina della trasparenza solo nei confronti dei nemici interni — vedi la retorica anti-woke o contro gli avversari democratici — mentre, al tempo stesso, rifiuta di fare chiarezza su uno degli scandali più opachi degli ultimi decenni. Dall’altro, l’eco delle teorie che collegano Epstein ai servizi di intelligence stranieri solleva interrogativi ancora più profondi: chi sono davvero gli intoccabili? E fino a che punto il sistema ha coperto abusi in nome di interessi superiori, siano essi economici, politici o addirittura internazionali?

Tuttavia, queste ipotesi sono prive di fondamenti e delineano un quadro di “paranoid style” nella politica, come descritto dal politologo Richard Hofstadter: una miscela di sospetto, esagerazioni e fantasia cospirativa che si autoalimenta, particolarmente presente nella retorica MAGA

In questo contesto, il caso Epstein si trasforma in un banco di prova sulla credibilità della promessa trumpiana di “liberare il popolo americano dalle élite corrotte”. La domanda che inizia a serpeggiare tra elettori e analisti è semplice: se anche i fascicoli Epstein restano chiusi, se anche le presunte connivenze internazionali vengono ignorate o coperte, che differenza c’è tra questa amministrazione e quelle precedenti? Un interrogativo che rischia di pesare come un macigno nei prossimi mesi di campagna elettorale, mentre si accumulano promesse mancate, accuse reciproche e il sospetto che, ancora una volta, la verità resti un lusso per pochi.

Il caso Epstein–Trump è diventato il battistrada di un conflitto politico mediatizzato: promessa di trasparenza, accuse di copertura e voci cospirative si sovrappongono in un contesto in cui la sfiducia verso le istituzioni diventa arma elettorale. Le teorie su Epstein come agente Mossad e la rete Maxwell appaiono alimentate da un sentimento anti-élite, esacerbato da dinamiche populiste e strumentalizzazione del complottismo politico. Ovviamente in questo panorama, chi è stato abusato e ha visto la sua vita rubata è completamente eclissato, soprattutto in un paese come gli Stati Uniti che detiene un triste primato per numero di bambini scomparsi vittime di abusi e schiavizzati.

Con oltre 460.000 minori segnalati come scomparsi ogni anno e più di mezzo milione di casi certificati di abuso, l’America si conferma non solo epicentro dello scandalo Epstein, ma anche simbolo di una crisi sistemica nella protezione dell’infanzia, dei giovani. A ciò si aggiungono i dati sul moderno sfruttamento minorile: negli Stati Uniti si stimano circa 400.000 persone – tra cui un numero significativo di minori – vittime di modern slavery, comprendente lavoro forzato, tratta e forme di schiavitù, tra cui lavoro coatto e sfruttamento sessuale. Di questi, circa 10.000 lavoratori forzati sono presenti nel paese, e un terzo di essi risulta minorenne. Complessivamente, tra abusi sessuali, sparizioni e lavoro forzato, oltre il 10 % dei minori negli Stati Uniti vive questa mostruosa realtà. In un contesto simile, le vittime vengo azzittite, oscurate in un dibattito su Epstein e Trump trasformando così un’opportunità di verità e giustizia in un meccanismo cinico, sintomatico di un sistema che continua a sacrificare i più vulnerabili in nome di giochi di potere e narrazioni politiche.


USA: OLTRE LA FACCIATA DELLA DEMOCRAZIA.

CRISI AMERICANA E VERITÀ NEGATE

di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).

Siamo tutti testimoni di un sisma politico globale, dove è evidente che il sistema politico che abbiamo inventato e messo in atto rappresenta a fatica la volontà dei popoli.

Negli Stati Uniti lo scontento per questa prima democrazia rappresentativa si è manifestato nei decenni con candidature indipendenti come quella di Ross Perot, imprenditore texano divenuto celebre anche per aver organizzato una rischiosa missione privata per liberare due suoi dipendenti detenuti a Teheran nel 1978, alla vigilia della rivoluzione iraniana.

Persino l’attuale Segretario per la Salute Robert Kennedy Jr, rifiutato dai democratici si è poi candidato per le ultime presidenziali come indipendente prima di venire fagocitato da Trump.

Oggi a distanza di qualche giorno dal 4 di luglio Musk ha registrato un terzo partito come risposta a Trump per aver compilato una finanziaria con tanti difetti gravi. Infatti, come ho già scritto precedentemente, questa legge non solo ha raggiunto il consenso minimo, direi risicato, ma ha troppe pecche che hanno creato maggiori divisioni sia nel partito repubblicano che in generale nel paese. Seppure Musk abbia avuto un’ennesima idea balzana ( “The very fact that our electoral system is a winner‑take‑all system discourages third parties… The big parties are like amoebas trying to go around the fringe groups and fold them in.” – Prof. Barbara Perry University of Virginia) di protesta, (d’altra parte come non biasimarlo, dopo essersi impegnato a trovare sprechi statali, solo una piccola parte è stata inserita nella legge), è stata già boicottata dagli stessi democratici.

La spaccatura all’interno del partito repubblicano per una finanziaria che, come al solito, protegge i più ricchi e toglie sussidi necessari a una fascia assai debole di americani che dal Covid ad oggi si trova in totale povertà.

Alternativamente Trump visti i legami con imprenditori favolosamente ricchi, poteva benissimo chiedere di “regalare” qualche miliardo per aiutare le fasce deboli, esattamente come fece Truman con il piano Marshall, aiutando la nostra ed altre nazioni in totale miseria a ricostruirsi.

  • Il Piano Marshall (1948–1952) mobilitò circa 12,4 miliardi di dollari dell’epoca (circa ~250 mld USD attuali), con lo scopo di ricostruire l’Europa dopo la guerra e combattere povertà e disordini interni
  • Contrariamente, Trump ha scelto di tagliare spese sociali e assistenziali, destinando i risparmi (e l’aumento del debito di oltre 2,4 trilioni USD sino al 2034) a favore dei redditi più alti, anziché utilizzarli per rafforzare il welfare delle fasce più povere.

Contemporaneamente Tucker Carlson, giornalista indipendente conservatore, intervista il Presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, e qui di seguito un riassunto del perchè di questa intervista: “Abbiamo appena concluso un’intervista con  
Masoud Pezeshkian , il presidente dell’Iran, il cardiochirurgo settantenne che guida il paese con cui eravamo in guerra circa una settimana e mezza fa. Sappiamo che saremo criticati per aver fatto questa intervista.

Perché l’abbiamo fatta comunque? L’abbiamo fatta perché eravamo in guerra con l’Iran dieci giorni fa, e potremmo tornarci di nuovo.  E quindi il nostro punto di vista — che è sempre rimasto coerente nel tempo — è che i cittadini americani hanno il diritto costituzionale e naturale di raccogliere tutte le informazioni possibili su questioni che li riguardano.

Se il loro paese sta facendo qualcosa con i loro soldi e in loro nome, hanno il diritto assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade.  E questo include ascoltare le persone con cui stanno combattendo. Ora, si può credere a tutto ciò che dice il presidente dell’Iran?

Probabilmente no.  Ma non è questo il punto.  Il punto è che dovreste poter decidere da soli se credergli o meno.  E ricordate che chiunque cerchi di negarvi questo diritto non è un vostro alleato, ma un vostro nemico.

A proposito, abbiamo anche inviato — per la terza volta negli ultimi mesi — una richiesta di intervista al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e speriamo che la accetti.

L’intervista è stata limitata da un paio di fattori:

  • Primo, è stata fatta a distanza, tramite un traduttore, e questo è sempre complicato.
  • Secondo, non parlo persiano, e ci sono molte domande che non ho fatto al presidente dell’Iran, in particolare domande a cui sapevo che non avrei ottenuto una risposta onesta, come:

“Il vostro programma nucleare è stato completamente disabilitato dalla campagna di bombardamenti condotta dal governo degli Stati Uniti una settimana e mezzo fa?”

Non c’era alcuna possibilità che rispondesse onestamente a questa domanda, quindi, non ho nemmeno provato a farla.  La risposta, in realtà — dal punto di vista americano, persino da quello della CIA — è inconoscibile.

Abbiamo evitato domande simili e ho fatto domande molto semplici, come:

  • Qual è il vostro obiettivo?; Volete la guerra con gli Stati Uniti?; Volete la guerra con Israele?  E così via.

Ancora una volta, lo scopo di questa intervista non era arrivare alla verità assoluta — cosa impossibile in un’intervista del genere.  Lo scopo era contribuire al patrimonio di conoscenza da cui gli americani possano trarre una propria opinione. Imparate tutto ciò che potete, e poi decidete voi.  Questo è ciò che promette l’America.”

Inutile commentare che questa intervista ha dato molto fastidio a Washington.

Poi c’è la versione religiosa che lega gli USA a Israele come un cordone ombelicale e che la maggior parte della gente non ha mai valutato nella sua complessa profondità.  In un’intervista all’ambasciatore americano in Israele Mike Huckebee viene spiegato come questo legame sia unico in tutti i sensi. Secondo l’ambasciatore i suoi stessi connazionali non comprendono come il legame religioso sia fondamentale: “Senza la fede ebraica non esisterebbe la fede cristiana.” -“Lo dico sempre ai miei amici ebrei: voi potete essere ebrei, non avere niente a che fare con me, non avete bisogno di me. Ma io non posso essere cristiano senza l’interezza di tutta questa storia di Dio nel mondo, che porta fino a ciò in cui credo come cristiano.”

E come relazione politica prosegue dicendo: “Mi piace dire alla gente che gli Stati Uniti hanno amici, hanno alleati, ma hanno un solo partner: Israele è davvero il loro unico vero partner; con questo intendo dire che il livello di cooperazione e affinità che abbiamo l’uno con l’altro somiglia molto più a un matrimonio che a una semplice amicizia fraterna.”

“E lo dico perché il livello di condivisione di informazioni di intelligence, l’hardware militare che costruiamo insieme, la tecnologia medica, la trasformazione economica che è avvenuta da entrambe le parti…”

“Il modo straordinario in cui siamo legati è tale da non assomigliare a nessun altro rapporto che abbiamo con qualunque altro Paese al mondo.” 

Quindi l’alleanza con Israele resta il pilastro non negoziabile di questa architettura, alimentata tanto da una strategia geopolitica quanto da un’eredità religiosa profonda, che fonda la fede cristiana su quella ebraica. Chi ignora questa dimensione, fatica a capire perché certi rapporti resistano a tutto — perfino alla realtà dei numeri o alle urgenze economiche gravi.

La democrazia rappresentativa vacilla, a iniziare proprio dal paese che per primo al mondo ha costruito una Costituzione moderna e repubblicana, pensata per garantire equilibrio tra poteri, libertà individuali e rappresentanza popolare: gli Stati Uniti d’America.

Oggi però questo modello appare logorato. Il sistema bipartitico ha smesso di rappresentare la pluralità reale della società, trasformandosi in una macchina autoreferenziale che esclude voci nuove e non applica i tentativi di riforma promessi perchè il mostro burocratico è più forte, o forse è più importante la guida del cambiamento.

Le candidature indipendenti, che un tempo erano espressione di protesta o visione alternativa, oggi vengono cooptate, screditate o svuotate di senso. Il nuovo candidato per il posto di sindaco di New York, Zohran Mamdani ne è un esempio recentissimo. Percepito come incongruente perché rompe le categorie tradizionali viene criticato dalla destra trumpiana come comunista lunatico, mentre per altri è una risorsa: incarnazione di una nuova politica identitaria e inclusiva. Ne nasce una tensione esplosiva dalla fusione tra dogmatismi religiosi e ideologia socialista radicata in un momento storico dove gli equilibri sono delicatissimi.

Il voto, oggi, viene ridotto a una scelta binaria tra due élite che ha perso parte del suo potere trasformativo. E mentre l’America si confronta con crescenti diseguaglianze, povertà strutturale, tensioni etniche e guerre a bassa intensità diplomatica, la promessa originaria della democrazia rischia di diventare una liturgia vuota.

Eppure, proprio nei margini — nelle voci non allineate, nei gesti simbolici, nei contrasti tra religione e politica — si intravede la possibilità di un risveglio. Non sarà forse più il tempo delle grandi costituzioni, ma quello delle coscienze informate.

Come ci ricorda Tucker Carlson nella sua discussa intervista: “Se il vostro paese fa qualcosa con i vostri soldi e in vostro nome, avete il diritto assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade.”

E forse oggi, la vera democrazia, comincia proprio da lì.


Da Kiev al Medioriente: il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24 TIMELINE.

di Claudio Bertolotti.

Da Kiev al Medioriente: il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24 TIMELINE (puntata del 4 luglio 2025).

Dopo la telefonata Trump-Putin
A conversazione conclusa, il presidente statunitense Donal J. Trump ha ammesso di non aver ottenuto “alcun passo avanti” verso il cessate-il-fuoco, lasciando trapelare delusione e irritazione. Pochi minuti dopo, dal Cremlino filtrava la ferma linea di Mosca: “gli obiettivi militari resteranno immutati” e i negoziati dovranno svolgersi «solo fra Mosca e Kyiv, senza mediatori».

L’ondata di missili e droni
Le parole hanno trovato immediata conferma nei fatti: fra la notte del 3 e l’alba del 4 luglio la Russia ha scatenato la più massiccia offensiva aerea dall’inizio della guerra — circa 550 vettori tra droni Shahed e missili balistici, diretti soprattutto su Kyiv ma anche su diverse città dell’ovest ucraino — un segnale assai eloquente di continuità bellica reuters.com.

La chiave di lettura
Putin sta usando la pressione militare come leva negoziale: più alza la soglia del dolore ucraino, più indebolisco la loro resilienza politica e la loro fiducia nelle difese occidentali». Quando lancia centinaia di droni e missili, il presidente russo Vladimir Putin sa che la contraerea ucraina non potrà intercettarli tutti. È una dimostrazione pratica del vantaggio tattico e operativo mantenuto da Mosca in questo conflitto e degli effetti in termini di vulnerabilità psicologica ucraina.

Non si tratta soltanto di terrorizzare i civili; la campagna aerea serve a preparare l’offensiva estiva: «la Russia chiama i coscritti due volte l’anno, in aprile e novembre; dopo due mesi d’addestramento sono pronti. Siamo esattamente all’apice di quel ciclo: da un momento all’altro Mosca potrebbe puntare su Odessa per chiudere l’accesso ucraino al Mar Nero

L’arma-tempo e il nodo degli aiuti USA
Il fattore decisivo è la pazienza strategica di Mosca: «Più il tempo passa, più Kiev dipende dagli arsenali occidentali, mentre la Russia rigenera continuamente le proprie riserve umane». In questo quadro, la decisione di Washington di sospendere parte delle forniture — in particolare i Patriot e le munizioni guidate — pesa in modo sproporzionato: «Kyiv non può permettersi buchi di poche settimane, figuriamoci di mesi».

Trump nega che si tratti di un vero “congelamento” e insiste sulla necessità di salvaguardare le scorte interne, ma il messaggio politico che arriva in Ucraina (e in Russia) è chiaro: la protezione USA non è più illimitata. Ma, a ben guardare i precedenti, è più probabile che tale scelta sia una concessione indiretta a Putin, con la clausola non scritta di riprendere la fornitura di equipaggiamenti militari all’Ucraina nel momento in cui Putin non dovesse aprire a una qualunque ipotesi negoziale.

Che cosa vedo all’orizzonte

  • Un’escalation “controllata”: Mosca continuerà a colpire infrastrutture civili e militari per logorare la rete di difesa aerea e mostrare l’impotenza di Kyiv.
  • Pressione su Odessa: il rafforzamento russo a sud fa pensare a un tentativo di sigillare definitivamente la costa ucraina.
  • Diplomazia in stallo: finché nell’arco atlantico non si chiarirà l’entità reale dello stop agli aiuti, qualunque negoziato resterà intrappolato in un gioco di specchi.
  • Fragilità europea: l’UE dipende dalla linea di Washington; senza un piano alternativo, rischia di trovarsi spettatrice di un accordo imposto dal terreno di battaglia.

Per concludere
La sequenza telefonata-bombardamenti mostra come Putin utilizzi sistematicamente l’azione militare per dettare i tempi politici, contando sul logoramento del sostegno occidentale. Se Washington non riattiverà in fretta la filiera degli armamenti — o se Mosca non incapperà in un errore strategico — le prossime settimane potrebbero segnare un ulteriore peggioramento per l’Ucraina, con un tavolo negoziale sempre più sbilanciato a favore del Cremlino.


Profilo di rischio degli autori di violenza politica negli Stati Uniti vs l’Unione Europea (UE 27) nel 2024 – primo trimestre 2025

di Andrea Molle negli Stati Uniti

Recenti analisi prodotte da agenzie per la sicurezza e istituti di ricerca rivelano una crescente convergenza nei profili demografici e geografici degli individui coinvolti in atti di violenza politica nelle democrazie occidentali. Sebbene le ideologie specifiche varino — temi razzisti ed etnici e le teorie complottiste anti-governative sono più diffuse negli Stati Uniti, mentre in Europa prevalgono i movimenti jihadisti e separatisti — il profilo tipico appare sorprendentemente simile su entrambe le sponde dell’Atlantico. Si tratta, in genere, di un uomo di giovane età, spesso compresa tra la tarda adolescenza e i vent’anni, che si radicalizza online e viene spinto ad agire in contesti dove la visibilità mediatica è elevata o dove i risentimenti locali offrono terreno fertile per la mobilitazione.

La tabella che segue presenta le statistiche più aggiornate fornite dall’FBI, dal Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS), dal rapporto TE-SAT 2025 di Europol, dal database START-PIRUS e da analisi spaziali fondate sul monitoraggio degli eventi ACLED (Armed Conflict Location  and Event Data). Insieme, queste fonti offrono un quadro dettagliato dell’attuale panorama delle minacce.

Variabili Stati Uniti Unione Europea
genere ≈ 85 % uomini (PIRUS, 1970–2021) ≈ 91 % uomini (TE‑SAT 2025 juveniles)
Età ≈ 68 % fra 18‑34 (PIRUS) > 60 % sotto i 35;29 % minori (TE‑SAT 2025)
Razza/etnia REMVE suprematisti bianchi = 52 % nell’FBI DVE disruptions FY 2024 Etno‑nazionalisti/separatisti =38 % degli attacchi nel 2024
Religione < 7 % ispirazione jihadista negli USA (HTA 2025); crescita della frangia
Christian‑identity
Ideologia jihadista in 24 dei 58 attacchi; estremismo politico “post-religioso” (TE‑SAT)
Affiliazione politica Anti‑gov./sovereign + partisan = 49 % degli episodi dal 2016 (CSIS) Micro – cellule accelerazioni-ste e neo‑Nazi in aumento (TE‑SAT)
Città / Campagna 72 % degli episodi in aree urbane   > 250 k; picco secondario nelle contee a bassa densità di milizie (arXiv 2025) Grandi capitali e periferie separatiste (Corsica, Paesi Baschi)

Tabella 1: Indicatori Comparativi del Rischio

la fascia più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni

Una chiara disparità di genere caratterizza gli individui coinvolti in atti di violenza politica sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Negli Stati Uniti, i dati del database START-PIRUS, relativi al periodo 1990–2021, mostrano che circa l’85% degli autori è di sesso maschile. La tendenza è ancora più marcata in Europa, dove il rapporto TE-SAT 2025 di Europol indica che il 91% dei sospetti arrestati per terrorismo giovanile nel 2024 era di sesso maschile. Questa netta predominanza rappresenta una delle caratteristiche costanti, trasversale a tutti gli orientamenti ideologici.

Anche l’età rappresenta un predittore significativo. In entrambe le regioni, la fascia più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni. Negli Stati Uniti, quasi il 70% degli autori rientra nella fascia tra i 18 e i 34 anni. Allo stesso modo, Europol riporta che il 29% di tutti gli arresti legati al terrorismo nell’UE nel 2024 ha riguardato minorenni o giovani adulti tra i 12 e i 20 anni. Questi dati evidenziano la crescente vulnerabilità delle fasce giovanili, in particolare all’interno degli ambienti digitali e dei social media.

Anche l’identità razziale ed etnica ha un ruolo rilevante nella definizione dei profili degli autori. Negli Stati Uniti, l’FBI ha classificato il 52% degli interventi contro estremisti violenti interni (DVE) nell’anno fiscale 2024 come motivati da ragioni razziali o etniche, con la maggioranza dei casi collegati a ideologie suprematiste bianche. Nell’Unione Europea, il quadro risulta più variegato: il 41% degli attacchi compiuti nel 2024 è stato attribuito ad attori jihadisti, mentre il 38% è stato condotto da gruppi etno-nazionalisti o separatisti, in particolare in aree interessate da conflitti legati all’autonomia regionale.

in Europa, il segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato da microcellule accelerazioniste e neo-naziste

L’ideologia religiosa, pur non essendo più dominante negli Stati Uniti, continua a rappresentare un fattore determinante negli attacchi in Europa. Negli USA, gli attentati ispirati al jihad costituiscono oggi meno del 7% dei casi di estremismo violento interno (DVE), segnalando un più ampio spostamento verso motivazioni secolari o ibride. Al contrario, in Europa queste motivazioni sono state responsabili del 41% di tutti gli attacchi terroristici mortali nel 2024, rendendo la religione un fattore molto più rilevante nel contesto europeo.

Infine, l’affiliazione politica è emersa come un elemento determinante dell’estremismo violento più recente. Negli Stati Uniti, i dati del Center for Strategic and International Studies (CSIS) indicano che il 49% degli episodi dal 2016 ha coinvolto attori anti-governativi, appartenenti al movimento dei “cittadini sovrani” o legati a polarizzazioni partitiche estreme. In Europa, il segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato da microcellule accelerazioniste e neo-naziste: gruppi piccoli, decentralizzati, spesso attivi a livello transnazionale e coordinati tramite piattaforme di comunicazione criptata.

Negli Stati Uniti, i cluster geografici di violenza politica non sono distribuiti uniformemente. Un’analisi spaziale basata sui dati degli eventi registrati da ACLED rivela che California, Texas, Florida e Georgia guidano la classifica nazionale per numero totale di episodi. Tuttavia, se si considera la popolazione, il primato in termini pro capite spetta al Pacifico nord-occidentale, in particolare agli stati dell’Oregon e di Washington. Al di fuori delle grandi aree metropolitane, emerge un secondo cluster che merita attenzione nelle contee rurali con reti militanti attive, tra cui alcune aree del nord dell’Idaho e dell’est dell’Oregon. Queste regioni, sebbene meno popolate, ospitano comunità con un forte sentimento anti-governativo e con infrastrutture logistiche in grado di sostenere attività estremiste.

Anche l’Unione Europea presenta un andamento altrettanto disomogeneo. L’Italia ha registrato il maggior numero di attacchi terroristici nel 2024, con 20 episodi, seguita dalla Francia con 14. Spagna e Francia guidano la classifica per numero totale di arresti legati alla violenza politica. Nel frattempo, atti di violenza separatista a bassa intensità ma persistenti continuano a verificarsi in aree come la Corsica e i Paesi Baschi, dove rivendicazioni storiche e identità regionali alimentano conflitti localizzati. Queste zone restano focolai di attività etno-nazionalista, nonostante l’attenzione più ampia si stia spostando verso minacce di natura transnazionale.

Un recente quadro statistico basato sui dati di Europol e START InSight curato da Claudio Bertolotti nel Rapporto annuale ReaCT2024 sul terrorismo e la radicalizzazione in Europa, conferma la persistenza della minaccia terroristica in Europa. Nel 2023 sono stati compiuti 43 attacchi e ne sono stati sventati altri 33, con oltre 600 arresti effettuati nei vari stati membri dell’UE. Francia e Austria guidano la classifica per numero di arresti, segnalando sia un’elevata intensità operativa sia una chiara priorità attribuita all’attività di intelligence. I dati evidenziano inoltre la sfida costante rappresentata dai gruppi etno-nazionalisti e separatisti — in particolare in Francia e Spagna — accanto a residui di minacce jihadiste. L’analisi di Bertolotti rafforza l’idea che i processi di radicalizzazione siano sempre più spinti da fattori ibridi, in cui si intrecciano ideologia, fragilità personali e vulnerabilità psicologiche, soprattutto tra i giovani disillusi.

Sebbene gli indicatori demografici e geografici aiutino a individuare chi sono gli autori e dove operano, comprendere come avviene il processo di radicalizzazione offre una prospettiva più profonda sulla traiettoria della minaccia.

gli spazi digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la mobilitazione

Indipendentemente dall’ideologia di riferimento, la maggior parte degli individui coinvolti in atti di violenza politica tende a seguire un percorso di radicalizzazione simile. In genere, tutto ha inizio con una crisi personale — come disagio emotivo, isolamento sociale o difficoltà economiche — che si sovrappone a narrative più ampie basate su teorie del complotto o rivendicazioni identitarie. Questi racconti offrono una chiave di lettura distorta attraverso cui l’individuo rielabora la propria condizione, attribuendo la colpa a istituzioni, governi o gruppi specifici. Con il tempo, il bisogno di significato o appartenenza lo spinge verso comunità online dove tali visioni vengono rafforzate. Sia l’FBI che Europol hanno segnalato i social media, le piattaforme di gaming e le app di messaggistica criptata come acceleratori cruciali in questo processo, in particolare tra gli utenti più giovani. Questi spazi digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la mobilitazione.

La probabilità che un individuo compia atti di violenza politica varia in base a una combinazione di fattori demografici, geografici e comportamentali. Il profilo a più alto rischio è quello di un uomo tra i 18 e i 34 anni, residente in un’area urbana politicamente polarizzata o in una regione con movimenti separatisti attivi. Questo individuo è generalmente molto immerso in contenuti estremisti online, spesso attraverso forum, social network o applicazioni di messaggistica criptata.

Un livello di rischio moderato è associato agli individui che vivono in contee rurali degli Stati Uniti dove è documentata l’attività di milizie. Questo gruppo comprende spesso persone con precedenti per violenza domestica o altri episodi di aggressione minore, suggerendo che un passato di aggressività interpersonale possa fungere da precursore alla violenza politica quando si intreccia con influenze ideologiche radicali.

All’estremo inferiore dello spettro di rischio si trovano gli adulti più anziani — in particolare le donne oltre i 45 anni — che non presentano alcuna traccia rilevante di attività online in ambienti estremisti. Questo segmento demografico risulta ampiamente sottorappresentato in tutti i dataset noti relativi alla violenza di matrice politica.

Per ridurre efficacemente la minaccia della violenza politica, le strategie di prevenzione devono concentrarsi sui gruppi più vulnerabili e sugli ambienti ad alto rischio. Una delle priorità più urgenti è l’intervento precoce rivolto ai giovani maschi tra i 13 e i 24 anni, che costituiscono il segmento in più rapida crescita tra coloro che si radicalizzano online. Programmi di sensibilizzazione e coinvolgimento attivo, mirati a intercettare questi individui prima che si integrino stabilmente in reti estremiste, possono ridurre in modo significativo il rischio a lungo termine.

Invece di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico, jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a schemi comportamentali comuni che attraversano trasversalmente tutte le ideologie

Allo stesso tempo, i centri di coordinamento federali e locali (fusion centers) dovrebbero allineare l’impiego delle risorse ai cluster geografici individuati dai dati ACLED e dai modelli spaziali elaborati da diversi analisti. Ciò implica concentrare gli sforzi non solo nei grandi centri urbani, ma anche in quelle contee specifiche dove è stata documentata un’attività estremista, passata o presente.

È fondamentale che i programmi di prevenzione superino le rigide classificazioni ideologiche. Invece di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico, jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a schemi comportamentali comuni — come crisi personali, isolamento sociale e radicalizzazione online — che attraversano trasversalmente tutte le ideologie.

Infine, è necessario prestare particolare attenzione ai cicli elettorali. Sia il Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) che il Center for Strategic and International Studies (CSIS) hanno documentato picchi ricorrenti di violenza politica e attività minacciose in corrispondenza delle principali elezioni. Una pianificazione preventiva e l’adozione di misure di sicurezza mirate durante questi periodi sono essenziali per mitigare il rischio di esplosioni di violenza.

Rischio Stimato per la Popolazione e Strategie di Mitigazione

Sebbene il panorama della violenza politica sia in continua evoluzione e sempre più visibile, il rischio effettivo di subire danni fisici per un cittadino medio rimane statisticamente molto basso, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Secondo i dati aggregati di FBI, DHS ed Europol, la probabilità annua che un civile venga ucciso in un attacco a motivazione politica è inferiore a 1 su 10 milioni nella maggior parte dei paesi occidentali. Per fare un paragone, si tratta di probabilità simili a quelle di essere colpiti da un fulmine o vittima di una fuga di gas domestico.

l’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa contribuisce ad alimentare nel tempo

Tuttavia, queste medie nascondono importanti sfumature. La percezione della minaccia risulta infatti molto più elevata in determinati contesti ad alta visibilità — come edifici governativi, manifestazioni politiche o istituzioni religiose — dove la probabilità di un attacco è effettivamente maggiore, specialmente durante fasi di forte tensione politica o in seguito a eventi polarizzanti. In tali ambienti, il rischio per alcune categorie di persone (funzionari pubblici, giornalisti, attivisti, membri di minoranze religiose o etniche) risulta sensibilmente più alto rispetto alla media della popolazione.

Negli ultimi cinque anni, negli Stati Uniti si è registrata una media annuale di 25–35 episodi documentati di violenza politica interna con esiti fisici gravi o intenti letali. Nell’Unione Europea, sebbene il numero di attacchi portati a termine sia inferiore, il volume di arresti e complotti sventati — oltre 400 solo nel 2024 — segnala un livello elevato di intenzionalità e di capacità di mobilitazione.

Il vero rischio, dunque, non risiede tanto negli eventi a elevato numero di vittime, quanto nell’erosione cumulativa della fiducia pubblica, della stabilità democratica e delle norme civiche. L’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa contribuisce ad alimentare nel tempo.

Tre dinamiche interconnesse aumentano l’esposizione al rischio per specifici gruppi:

Prossimità a istituzioni simboliche o politiche (es. sedi parlamentari, sinagoghe, ambasciate)
Visibilità demografica (es. minoranze religiose o razziali frequentemente bersaglio)
Partecipazione ad attività civiche ad alta esposizione (es. attivisti, funzionari eletti, giornalisti)

Per mitigare tali rischi, è necessario adottare un approccio preventivo multilivello, che coinvolga tanto le autorità quanto le comunità locali. Le strategie chiave includono:

  • Valutazione comportamentale delle minacce (Behavioral Threat Assessment): Formazione di personale in prima linea — insegnanti, assistenti sociali, responsabili delle risorse umane — per riconoscere i segnali precoci di radicalizzazione e intervenire prima che si concretizzi la mobilitazione.
  • Alfabetizzazione digitale e contrasto alla radicalizzazione: Promozione di competenze di verifica dei fatti, resilienza online e meccanismi di segnalazione tra le fasce giovanili, in particolare tra i maschi di età compresa tra i 13 e i 24 anni.
  • Partenariati di comunità: Investire in attori locali affidabili, come leader religiosi e organizzazioni di quartiere, per costruire relazioni, ridurre l’isolamento sociale e rafforzare il capitale sociale.
  • Pianificazione di sicurezza per i cicli elettorali: Schierare risorse di sicurezza mirate e strumenti di contrasto alla disinformazione durante le elezioni, ormai sistematicamente associate a picchi di minacce.
  • Centri di ricerca basati su dati quantitativi: Rafforzare la capacità dei centri di intelligence regionali di condividere in tempo reale analisi geospaziali e comportamentali tra forze dell’ordine e istituzioni civiche.

In definitiva, sebbene sia improbabile che la violenza politica colpisca direttamente il cittadino medio, i suoi effetti a catena possono compromettere profondamente la vita democratica se non vengono affrontati in modo adeguato. Per questo, l’attenzione non deve concentrarsi unicamente sulla sicurezza, ma anche sulla ricostruzione della fiducia nelle istituzioni e sul rafforzamento della resilienza sociale.

Fonti

[1] Europol. *European Union Terrorism Situation & Trend Report (TE‑SAT 2025)*. Luxembourg: Publications Office of the EU, 2025.

[2] DHS Office of Intelligence & Analysis. *Homeland Threat Assessment 2025*. Washington DC, 2024.

[3] University of Maryland START. *Profiles of Individual Radicalization in the United States (PIRUS) Research Brief*, March 2023 update.

[4] Claudio Bertolotti, ed., #ReaCT2023 – Report on Radicalization and Terrorism (Rome: START InSight, 2023), https://www.startinsight.eu/react2023-report-on-radicalization-and-terrorism/

[5] Riley McCabe. “The Rising Threat of Anti‑Government Domestic Terrorism: What the Data Tells Us.” CSIS Brief, October 21 2024.

[6] Ravi Varma Pakalapati & Gary E. Davis. “Spatial and Temporal Analysis of Political Violence in the United States.” arXiv preprint 2503.14399, March 2025.


NATO – Cosa implica quel 5% di spesa per l’Italia

di Andrea Molle dagli Stati Uniti

L’adozione, al vertice dell’Aia del 24-25 giugno, del nuovo obiettivo NATO di spesa al 5% del PIL non è un mero aggiornamento contabile: segna una svolta strategica che ridefinisce il concetto stesso di difesa. La formula 3,5% + 1,5% — tre punti e mezzo per “hard defence” in senso classico e un punto e mezzo per investimenti dual-use a sostegno della resilienza nazionale — cristallizza la lezione della guerra in Ucraina: senza vie di comunicazione rinforzate, scorte energetiche sicure e cyberspazio protetto, i carri armati non arrivano al fronte e i droni non decollano.

Per l’Italia la sfida è doppia. Da un lato, il governo Meloni si è impegnato a onorare il nuovo target pur mantenendo un sentiero di rientro del deficit; dall’altro, parte da un livello “puro” di circa 1,57%, ben al di sotto del 3,5% richiesto per la componente militare tradizionale. Tradotto in cifre, significa trovare nell’arco di dieci anni fra i 32 e i 42 miliardi di euro aggiuntivi l’anno solo per armamenti, addestramento e readiness operativa, a cui si sommano gli investimenti per infrastrutture e cyber-resilienza. Tuttavia, la stessa Alleanza ha chiarito che l’obiettivo del 5% è da raggiungere in modo progressivo: 3,5% per la difesa militare e 1,5% per la sicurezza civile, entrambi spalmati su un orizzonte decennale. L’aumento effettivo richiesto è quindi contenuto, pari a un massimo dello 0,3% del PIL all’anno. Si tratta di un impegno oneroso, ma non insostenibile.

Il Ministero della Difesa non potrà più diluire gli incrementi fra le tre Forze Armate come in passato. Per l’Esercito, relegato per anni al terzo posto dietro Marina e Aeronautica, l’occasione è irripetibile: colmare il ritardo su mezzi corazzati, artiglieria a lunga gittata, munizioni di precisione e capacità contro-UAS, garantire poligoni moderni e manutenzione, dotarsi di sensoristica strategica oggi appannaggio quasi esclusivo degli Stati Uniti. Senza questa svolta, gli impegni sul fianco Est resteranno nominali.

La quota dell’1,5% apre invece un terreno di politica industriale. Porti come Gioia Tauro, i corridoi ferroviari TEN-T e la dorsale 5G/quantum italiana possono essere co-finanziati dall’UE sotto l’ombrello “Military Mobility”, veicolando investimenti che valgono sia per la Difesa sia per la competitività logistica nazionale. Qui l’Esercito può diventare attore-ponte con Protezione Civile e infrastrutture critiche, ridefinendo il proprio ruolo di “forza-territorio” nel disegno di una difesa totale.

L’orizzonte 2035 offre una gradualità che attenua lo shock sul bilancio, ma non deve illudere: il procurement terrestre richiede cicli decennali. I contratti per Ariete, Dardo, PzH 2000 e SAMP/T NG vanno firmati ora se si vuole evitare un nuovo decennio di eterne mezze soluzioni. È un banco di prova anche politico: se Roma non riuscirà a trasformare il 5% in occasione di modernizzazione industriale e deterrenza credibile, il nuovo criterio rischierà di ridursi a un ulteriore indicatore-tabù come il vecchio 2%.

La posta in gioco, insomma, non è solo soddisfare Washington né evitare future minacce di dazi; è dimostrare ai partner che un’Italia con 5 milioni di riservisti virtuali, ma senza munizioni né strade percorribili da un Leopard, è un anello debole. Se la Penisola saprà invece coniugare ambizione europea, realismo contabile e impulso al proprio esercito, il 5% potrà diventare il volano di una sicurezza finalmente integrata fra caserme, fabbriche e ponti.

Questo nuovo paradigma impone anche una riscrittura del rapporto tra Forze Armate e società civile, dopo decenni di separazione culturale e funzionale. L’investimento nella resilienza nazionale, nella protezione delle infrastrutture critiche e nella risposta alle minacce ibride restituisce ai militari un ruolo visibile, concreto, integrato nel tessuto del Paese. Non più solo professionisti di missioni all’estero, ma attori centrali della sicurezza collettiva, custodi del territorio e partner della cittadinanza. È un’occasione storica per ricucire quel legame, fondandolo non sulla retorica ma sull’utilità strategica e sulla trasparenza democratica.