La guerra cognitiva: trauma, manipolazione e radicalizzazione nell’epoca dell’incertezza
di Anna Calabresi, psicologa psicoterapeuta. Esperta in Psicologia digitale, Scienze criminologiche e Contrasto al terrorismo internazionale.
Nell’epoca
attuale, il conflitto non si limita ai campi di battaglia fisici, ma si insinua
nei modi in cui percepiamo, interpretiamo e ricordiamo. Non colpisce solo i
corpi, ma agisce sulle menti, distorcendo significati, rafforzando paure e
seminando sfiducia. E trova forza proprio nelle ferite aperte. Perché quando il
dolore collettivo non viene riconosciuto ed elaborato, può essere manipolato,
diventando una lente deformante per leggere il presente e un terreno fertile
per la radicalizzazione.
In
questo paesaggio, la guerra cognitiva, il trauma collettivo e la
radicalizzazione non sono realtà distinte, ma intrecci di un medesimo processo
psico-sociale. Si alimentano a vicenda e si rafforzano in una spirale che
attraversa individui e società, storia e memoria. Comprenderli nella loro
interdipendenza è una necessità urgente per leggere lucidamente i contesti di
crisi, ma anche per immaginare risposte nuove, capaci di prevenire fratture e
di generare riparazione.
Capire
questi meccanismi richiede uno sguardo capace di integrare psicologia, cultura
e politica. Solo così potremo davvero difendere la nostra capacità di pensare e
di scegliere.
Pensare sotto assedio: tra algoritmi, emozioni e
propaganda
Non tutte le guerre si dichiarano con il boato di
missili o il dispiegamento di truppe. Alcune si insinuano silenziosamente nella
quotidianità, mascherate da informazione, intrattenimento e condivisione. Sono
guerre che si combattono nei nostri dispositivi, nelle sinapsi e sul piano
delle emozioni. La guerra cognitiva è la nuova frontiera del conflitto: non
mira a distruggere corpi o infrastrutture, ma a occupare la mente e a
manipolare il senso stesso del reale. Una guerra che non bombarda, ma polarizza
e separa, che colpisce la nostra capacità di fidarci, di interpretare e di
sentire il mondo come condiviso.
L’obiettivo
della guerra cognitiva è disorientare, farci dubitare di ciò che vediamo,
sentiamo e ricordiamo. È una strategia sottile e pervasiva che sfrutta le crepe
emotive, i bias cognitivi, le fragilità individuali e collettive. Una nuova
forma di assedio che passa attraverso big data, algoritmi predittivi,
intelligenze artificiali e operazioni psicologiche mirate. E le democrazie, che
si fondano su pluralismo, fiducia e senso critico, sono le più vulnerabili. Non
perché più deboli, ma perché più aperte (NATO Review, 2021).
Nel
teatro contemporaneo dell’informazione, media e social network sono attori
protagonisti di una battaglia per l’influenza delle coscienze. Le emozioni,
come indignazione, paura, e rabbia, diventano strumenti di manovra, leve
invisibili con cui orientare scelte, plasmare opinioni e disinnescare il
pensiero critico. Perché non è l’argomentazione razionale a muovere l’agire
umano, ma la scossa emotiva. È l’emozione che guida la mano a votare, a
cliccare “compra ora”, ad abbracciare un’ideologia.
In
questo scenario si inserisce un’altra sfida sottile, ma cruciale: il rischio di
delegare il pensiero all’intelligenza artificiale, trasformandola da partner
cognitivo a sostituto percettivo. Si rischia di disabituare le nuove
generazioni alla tolleranza della frustrazione. Quando tutto diventa
accessibile, immediato e predittivo, l’attesa diventa insopportabile, il dubbio
intollerabile e la complessità superflua. Ma è proprio lì, nel tempo sospeso
tra domanda e risposta, che il pensiero umano si forma, si affina e si
emancipa.
La
nostra suscettibilità alla manipolazione non è un’anomalia, ma dipende dalla struttura
stessa della mente. Siamo esseri sociali, programmati per fidarci. La fiducia
nell’altro è stata, nel corso dell’evoluzione, un vantaggio. Ma è proprio
questa apertura che può renderci vulnerabili all’inganno. Inoltre, il nostro
pensiero non è sempre vigile, spesso si affida a scorciatoie cognitive che
semplificano, ma anche deformano la realtà (Haselton, Nettle & Andrews,
2015). Il cervello, per sua natura, tende a risparmiare energia, privilegiando
automatismi e risposte immediate. Il pensiero critico, invece, esige tempo,
fatica e capacità di tollerare l’ambiguità. E in un’epoca che corre, questo non
è ben visto.
In
questo contesto, la difesa è per forza di cose anche psicologica e culturale. È
urgente coltivare una resilienza cognitiva, quella forma di vigilanza critica
che ci permette di non smarrirci nel labirinto di un ecosistema informativo
instabile. Significa affinare lo sguardo, imparare a leggere lateralmente, a
interrogarci sulla provenienza delle fonti, ma anche a riconoscere i segni sottili
della propaganda, che agisce prima di tutto sulle nostre emozioni. Ma anche
rinforzare la capacità di tollerare l’ambiguità e riconoscere la manipolazione.
Difendere
la mente è oggi un atto politico. Se non possiamo più fidarci nemmeno delle
nostre percezioni, allora il nemico non è più fuori, ma dentro, è la nostra
stanchezza cognitiva, la nostra fame di certezze, la nostra disattenzione.
E come in ogni
guerra, anche qui ciò che è in gioco è l’identità. Non solo individuale, ma
collettiva: chi siamo, in cosa crediamo, come possiamo restare umani.
Guerra
cognitiva e trauma collettivo: come la sofferenza condivisa diventa leva
strategica
Se la guerra cognitiva mira a influenzare
percezioni, emozioni e decisioni collettive, il trauma costituisce spesso la
breccia attraverso cui questa strategia si insinua. Trauma e manipolazione si
rafforzano reciprocamente: le ferite psichiche non elaborate rendono individui
e comunità più vulnerabili alla propaganda e alla disinformazione. E queste
ultime, a loro volta, si nutrono di ferite aperte per innestare narrazioni distorte.
Il trauma collettivo è memoria di un evento
doloroso che si trasmette a livello transgenerazionale e modifica la percezione
di sé e dell’altro. Quando una collettività è colpita da eventi come guerre,
disastri naturali o pandemie, si spezza il senso stesso dell’esistenza
condivisa. In assenza di una corretta elaborazione, il trauma non si dissolve,
e può riemergere sotto forma di radicalizzazione, ostilità e violenza.
Autori come Gilad Hirschberger (2018), Vamik
D. Volkan (2021) e altri hanno mostrato come il trauma collettivo non sia un
semplice dato storico, ma una costruzione culturale che si tramanda. E questo
processo riguarda vittime e perpetratori. Nelle comunità vittimizzate, questo
può rafforzare la coesione interna, ma anche alimentare chiusure difensive.
Nelle società che hanno agito violenza, invece, il trauma si esprime spesso
come rimozione o riformulazione della colpa. Hirschberger riprende la celebre
“zona grigia” descritta da Primo Levi, quella condizione ambigua dove i confini
tra vittime e carnefici si confondono. In questi casi, la memoria può diventare
campo di battaglia, alimentando ciò che gli studiosi definiscono
“vittimizzazione competitiva”, cioè la tendenza di ogni gruppo a enfatizzare la
propria sofferenza come unica o superiore. Ma proprio in questa tensione può
aprirsi lo spazio per una rielaborazione più matura, dove il dolore non diventa
alibi, ma consapevolezza.
La pandemia da Covid-19 ha inciso
nell’inconscio collettivo come una ferita globale che ha oltrepassato confini
geografici e culturali, dissolvendo in pochi giorni l’illusione di controllo e
continuità che regolava il nostro vivere ordinario. Non è stato solo il
contagio biologico a generare angoscia, ma la sospensione forzata del contatto,
la perdita di riferimenti affettivi e simbolici. Un trauma diffuso che ha
costretto milioni di persone a confrontarsi con l’isolamento, l’incertezza e un
senso di vulnerabilità radicale, riattivando fratture profonde o imprimendone
di nuove.
Il conflitto israelo-palestinese è un altro
esempio paradigmatico. Se da un lato la memoria dell’Olocausto ha generato in
Israele una percezione di vulnerabilità cronica, dall’altro, la lunga
esperienza di occupazione e violenza, ha impresso nel popolo palestinese una
ferita identitaria altrettanto profonda. Due traumi che si specchiano e si
alimentano, rendendo la riconciliazione particolarmente difficile. In questo
contesto, il trauma non solo divide, ma può essere usato per giustificare nuove
forme di oppressione o di resistenza armata.
Il trauma, infatti, non si esaurisce
nell’evento che lo ha generato. Come mostrano Van der Kolk (2021) e altri
studiosi, ciò che ferisce davvero è la mancanza di contenimento e di
elaborazione. Le risposte di emergenza – ipervigilanza, chiusura, aggressività
– che inizialmente proteggono, se cronicizzate diventano disfunzionali. E
l’esposizione prolungata alla sofferenza, anche solo mediatica, amplifica
l’impatto psicologico, soprattutto tra bambini, anziani e soggetti vulnerabili.
Tuttavia, la psiche possiede risorse
notevoli. La resilienza è una possibilità che si costruisce attraverso
relazioni sicure, senso di agency, fiducia collettiva. È una forza che nasce
anche dalla memoria condivisa, quando questa non paralizza ma orienta, non
isola ma connette. E affinché il trauma collettivo possa trasformarsi in
risorsa, serve un lavoro culturale e simbolico profondo. Non basta “superare”
il passato, ma occorre dargli forma e significato attraverso processi di verità
e riconciliazione, pratiche artistiche, percorsi clinici e pedagogici. Ogni
gesto che consente di dire il dolore senza farsene dominare è un gesto
trasformativo.
Elaborare un trauma collettivo significa, in
definitiva, riscrivere la storia da dentro. Non per negare ciò che è stato, ma
per restituirgli senso. Per passare dal subire il passato al costruire,
insieme, una nuova possibilità di futuro.
Trauma collettivo e radicalizzazione: quando la
frattura diventa identità
La
radicalizzazione è il punto di intersezione tra il trauma collettivo e la
guerra cognitiva, tra ferite non elaborate e manipolazioni strategiche. Non è
soltanto un’adesione ideologica, ma una risposta psichica a un mondo percepito
come caotico, ingiusto e umiliante. È un sintomo, prima che un progetto, che
chiede contenimento e riconoscimento.
Spesso,
chi si radicalizza è una persona già ferita in cerca di rifugio. Un’identità
frammentata che trova nell’estremismo una forma di coerenza. Secondo le teorie
più recenti, il percorso verso la radicalizzazione è suddivisibile in tappe
progressive: la percezione di un’ingiustizia, l’esperienza di frustrazione che
ne consegue, l’identificazione di un colpevole e infine la sua demonizzazione.
Il trauma agisce in ciascuna di queste fasi conferendo un senso al caos fino a
trasformare la sofferenza in missione.
Aderire
a un gruppo radicale può rappresentare un tentativo di restituire senso al
proprio vissuto. Per molti giovani in bilico tra culture non integrate, tra
origini negate e presente precario, l’estremismo diventa una bussola. A tutto
questo si sommano le dinamiche di gruppo, che intensificano e cementano
l’adesione (Meneguz, 2005). Meccanismi psicologici noti, dalla dissonanza
cognitiva al disimpegno morale, dal pensiero di gruppo alla de-individuazione,
costruiscono ambienti chiusi dove la violenza viene normalizzata, l’empatia
disattivata e l’identità irrigidita. L’altro diventa solo ostacolo, nemico e
bersaglio.
In
questa cornice, la propaganda estremista agisce come una sofisticata operazione
simbolica. Immagini potenti e linguaggi emotivi vengono mobilitati per sedurre
e trasformare il dolore in appartenenza. E laddove la sofferenza è rimasta
senza nome, quella promessa identitaria può apparire irresistibile.
La
radicalizzazione, allora, non è solo una questione ideologica o politica, è
anche e soprattutto una risposta traumatica. Un modo distorto per dare forma e
direzione a una ferita collettiva che non ha trovato contenimento. Per questo
ogni intervento serio non può limitarsi al controllo o alla repressione, ma
serve un lavoro profondo, clinico e culturale, che sappia offrire spazi di
ascolto, narrazioni alternative e riconoscimenti autentici.
Solo
così si può disinnescare il meccanismo che trasforma la ferita in ideologia e
restituire alla memoria il suo compito più nobile: quello di orientare, non di
incatenare.
Conclusioni: una risposta integrata per un rischio sistemico
Guerra
cognitiva, trauma collettivo e radicalizzazione non sono solo sintomi di
un’epoca ferita, ma anche lenti attraverso cui leggere le crepe del nostro
tempo. Parlano di un presente in affanno, che cerca risposte mentre vacilla nei
suoi riferimenti. Per questo non bastano soluzioni settoriali, né approcci
isolati. Occorre una prospettiva integrata che attraversi i confini tra
clinica, educazione, media e geopolitica. Difendere la mente, oggi, significa
riconoscere la fragilità del pensiero, la potenza del dolore e il bisogno
profondo di significato.
Non
si cura il trauma collettivo con il silenzio, e non si disinnesca la
radicalizzazione solo con misure repressive. Servono altri strumenti, cioè
ascolto autentico, sguardo complesso, coraggio politico. Ma soprattutto, serve
una volontà profonda di custodire ciò che ci rende pienamente umani: la
capacità di pensare con profondità, di sentire con empatia e di trasformare il
dolore in visione.
Questa
volontà deve diventare cultura condivisa e impegno collettivo. A livello
educativo, ciò implica introdurre programmi di alfabetizzazione mediatica e
digitale nelle scuole, per coltivare resilienza cognitiva. A livello clinico e
sociale, significa promuovere modelli di elaborazione del trauma collettivo su
larga scala capaci di offrire senso e dignità all’esperienza traumatica, come
memoriali, commissioni di verità e riconciliazione, progetti artistici
comunitari, approcci terapeutici per il trattamento del trauma. È significativa
in tal senso una ricerca di Lehnung et al. (2020) che ha testato un progetto
EMDR con sopravvissuti yazidi in Iraq, dimostrando l’efficacia di protocolli
culturalmente adattati. A livello tecnologico e politico, infine, urge una
regolamentazione etica degli algoritmi che governano i social media e le
intelligenze artificiali, per mitigarne gli effetti polarizzanti e
manipolativi. Ma questa trasformazione richiede anche un gesto silenzioso: che
ciascuno, nel proprio quotidiano, ritrovi il coraggio e il tempo di fermarsi a
pensare. Perché senza uno sguardo che interroga, il trauma si sedimenta, mentre
è proprio nella pausa, nella domanda, che può germogliare una consapevolezza
nuova
Non
basta sopravvivere alla ferita, occorre trasformarla in possibilità, memoria,
responsabilità. E questa trasformazione è, prima di tutto, un atto culturale.
Il nuovo asse europeo della difesa e il posto dell’Italia
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
Nell’Europa del 2025, la
difesa torna al centro della politica. La firma del primo patto bilaterale tra
Germania e Regno Unito dalla fine della Seconda guerra mondiale segna una
svolta storica e simbolica. È un accordo articolato, con 17 progetti congiunti
che spaziano dal rafforzamento della deterrenza sul fianco orientale della NATO
allo sviluppo congiunto di capacità ad alta tecnologia, tra cui missili a lungo
raggio e sistemi subacquei avanzati. Ma dietro la notizia si cela una
trasformazione ben più ampia: l’evoluzione dell’architettura della sicurezza
europea, che vede emergere un nuovo triangolo strategico – Londra, Berlino,
Parigi – e chiede con urgenza a Roma di decidere se vuole restare alla
periferia o sedersi al tavolo dove si disegna il futuro della sicurezza
continentale.
È chiaro intanto che il
nuovo patto anglo-tedesco non cancella l’asse franco-tedesco, né tanto meno lo
rimpiazza. Al contrario, ne allarga i confini operativi e lo rafforza in chiave
trilaterale, grazie anche alla continuità garantita dalle cooperazioni
precedenti tra Regno Unito, Francia e Germania all’interno del formato E3. Il
trattato siglato nel 2024 tra Parigi e Londra, con cui il Regno Unito ha esteso
un ombrello nucleare europeo condiviso, ne è stato il primo segnale. La
Germania, con questo nuovo passo, si rende protagonista di una strategia di
alleanze multiple che punta a integrare la deterrenza NATO, sfruttando le
capacità britanniche, la visione strategica francese e la propria potenza
industriale.
A margine, ma si spera in
modo sempre più visibile, si muove l’Italia. Pur ancora lontana dal target NATO
del 5% del PIL in spesa militare – e con una discussione interna dominata da
timori fiscali e disattenzione strategica – Roma ha iniziato a riallacciare i
fili con ciascuno dei grandi partner europei. Con il Regno Unito è attiva da
anni una collaborazione sulla sicurezza, rafforzata da esercitazioni congiunte
e da una convergenza sulla lotta alla migrazione illegale e al traffico di
esseri umani. Con la Germania l’intesa industriale si è consolidata attraverso
Leonardo e Rheinmetall, in progetti comuni che riguardano la difesa antiaerea e
la logistica militare. Il rapporto con la Francia è più profondo e strutturato,
ma anche molto più difficile essendo caratterizzata da una competizione diretta
in molti teatri e domini strategici. Oltre alla cooperazione industriale su
piattaforme navali (come il programma Fincantieri–Naval Group), esiste però una
convergenza politica sulla necessità di un “pilastro europeo” nella NATO e sul
rilancio della difesa comune.
Il vero nodo, però, è
strutturale. L’Unione Europea ha lanciato il programma ReArm Europe –
ribattezzato Readiness 2030 – che prevede uno stanziamento di oltre 800
miliardi di euro per rafforzare l’autonomia strategica dell’Europa, includendo
anche un fondo militare da 150 miliardi destinato all’industria della difesa. A
questa iniziativa si affianca un nuovo quadro finanziario pluriennale, già
approvato, che apre la strada a deroghe fiscali per la spesa militare, consentendo
(o forse meglio dire costringendo) agli Stati di indebitarsi per rafforzare la
propria sicurezza senza infrangere le regole di bilancio.
Su questo tema, l’Italia
sembra muoversi con cautela, se non con vera e propria esitazione. Il governo
ha espresso formalmente l’impegno a raggiungere il 5% di spesa, ma le modalità
restano poco chiare e l’opinione pubblica è divisa. Il rischio è che il nostro
Paese finisca per approcciare il riarmo europeo come una necessità tecnica, o
nel peggiore dei casi come una delega in bianco per la spesa pubblica, e non
come una scelta strategica. In tal modo, l’Italia si condannerebbe a essere un
partner minore, spettatrice di un processo che altri stanno guidando con
visione e audacia.
Eppure, le opportunità
non mancano. L’Italia può entrare da protagonista nei progetti E3, candidarsi
come piattaforma logistica per il fianco Sud della NATO, rilanciare la sua
industria con programmi comuni e difendere un’autonomia tecnologica europea
anche attraverso il proprio tessuto imprenditoriale. Ma per farlo serve una
scelta politica chiara: investire davvero nella difesa non solo come costo, ma
come garanzia di sovranità, crescita industriale e centralità strategica.
Il nuovo asse anglo‑tedesco
non è pertanto una minaccia, ma un’occasione. A condizione che l’Italia smetta
di osservare, e torni a pensarsi come potenza media responsabile, europea e
strategicamente matura.
VERITA’ TRADITA
di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).
Trump ha costruito la sua seconda campagna elettorale su pochi e chiari
punti: il muro con il Messico per l’arrivo di immigrati illegali, i dazi per
portare benefici economici a un paese afflitto da inflazione, alti tassi e dove
tutto o quasi è made in Cina, dalla cancellazione del movimento woke con i suoi
allegati (vedi il D.E.I. -Diversity, Equality, Inclusion policy) e infine
dall’apertura al pubblico dei fascicoli John F. Kennedy ed Epstein.
A distanza di sei mesi e mezzo, il
procuratore generale Pam Bondi, che a
febbraio aveva affermato che i “fascicoli Epstein” erano “sul mio
tavolo” e in fase di revisione, non ha prodotto alcun risultato concreto:
al contrario, la revisione si è conclusa con la dichiarazione ufficiale che i
famosi “files” non contengono nuove informazioni rilevanti, né una lista
incriminata di clienti, smentendo le aspettative alimentate per mesi. In
particolare, un memo del Dipartimento di Giustizia e dell’FBI diffuso
all’inizio di luglio ha concluso che non esiste alcuna “lista di clienti
incriminati” né prove credibili di ricatto, confermando anche che Epstein
si sarebbe tolto la vita.
Un sondaggio di Quinnipiac, di settimana
scorsa, segnala che il 63 % degli elettori disapprova il modo in cui
l’amministrazione ha trattato la questione, con appena il 17 % di
approvazione, mentre CNN in
collaborazione con SSRS registra solo
il 3 % di approvazione. La stragrande maggioranza degli americani
(82 % dei Democratici e oltre 60 % dei Repubblicani) ritiene che
Trump stia occultando prove, inclusa la presunta “client list” di Epstein.
Anche nel cuore del movimento MAGA si percepisce
una frattura: circa il 40 % dei repubblicani sostiene la gestione
governativa dei file Epstein, ma quasi un terzo la critica apertamente. Tra i
conservatori più duri, l’esasperazione è palpabile: si accusa l’amministrazione
di “tradire” le aspettative, tanto che il presidente della Camera Mike Johnson
e il leader al Senato Thune sollecitano “trasparenza
totale”.
Nel frattempo, Theresa Helm, una
sopravvissuta agli abusi di Epstein, rilascia un’intervista nella quale
racconta di essere stata adescata nei primi anni Duemila, quando studiava e
lavorava in California. Avvicinata da coetanee con la promessa di opportunità
professionali prestigiose, fu poi introdotta a Ghislaine Maxwell,
l’amica/amante e procacciatrice. Maxwell fu così convincente che in poche ore
Helm accetto l’offerta e qui ebbe inizio la sua odissea fino al lussuoso
palazzo di New York dove fu schiavizzata. La Signora Helm, oggi, è un’attivista
e coordinatrice dei servizi per le sopravvissute presso il National Center on
Sexual Exploitation ed è una delle voci più determinate a chiedere che venga
fatta piena luce sullo scandalo Epstein, chiedendo la pubblicazione integrale
dei documenti investigativi. La sua denuncia si scaglia
contro il sistema che, a suo dire, ha protetto per decenni i potenti a scapito
delle vittime. “Non possiamo continuare a permettere che predatori ricchi e
influenti evitino la giustizia grazie al denaro e alle connivenze politiche,” usato
come arma politica, ma come simbolo della necessità di riformare un sistema che
ha troppo spesso silenziato le vittime. “È tempo di ascoltare chi ha vissuto
questi abusi sulla propria pelle, perché senza giustizia per le sopravvissute
non può esserci alcuna giustizia per la società,” ha concluso.
Contemporaneamente alle interviste e
articolo della Helm, il Wall Street Journal pubblica un’esclusiva in cui
racconta che nel 2003, fu realizzata una raccolta di lettere per il 50°
compleanno di Jeffrey Epstein, curata dalla Maxwell, in cui sarebbe inclusa una
nota firmata da Donald Trump contenente un disegno provocatorio di una donna
nuda e un messaggio hot: “may every day
be another wonderful secret”. L’articolo
del WSJ sostiene di aver visionato l’album, che risulterebbe tra i documenti
esaminati dal Dipartimento di Giustizia durante le indagini su Epstein.
Dopo la pubblicazione dell’articolo, Trump ha reagito con
una causa da 10 miliardi di dollari per diffamazione, dichiarando di voler
“difendere la propria reputazione” e mettere fine a quella che definisce una
“campagna di menzogne”.
Il tentativo di censura ha avuto l’effetto
opposto: l’articolo è diventato virale, ha monopolizzato il dibattito politico
e mediatico, e ha riacceso l’attenzione nazionale su rapporti e documenti che
fino a quel momento avevano avuto una diffusione più limitata.
Ma quali le implicazioni? Secondo la
giornalista conservatrice Candice Owen, dietro questo
caso, c’è tutta una rete fitta di relazioni che risalgono addirittura al padre
della Maxwell, un noto e
ricchissimo editore di origini ebraiche, morto cadendo misteriosamente dal suo
yatch in mezzo all’Atlantico, che durante la Seconda guerra mondiale fece la
spia un po’ per gl’inglesi poi per i russi e infine per il Mossad. Dico questo
perché una delle teorie che circolano nella rete è che Epstein fosse un agente
del Mossad che assicurando favori sessuali ai VIP del mondo politico ed
economico potesse poi ottenere “favori”, che non conosciamo, per Israele.
Il risultato è un cortocircuito
politico-mediatico dove si intrecciano frustrazioni interne e sospetti
geopolitici. Da un lato, l’America di Trump si
presenta come la paladina della trasparenza solo nei confronti dei nemici
interni — vedi la retorica anti-woke o contro gli avversari democratici —
mentre, al tempo stesso, rifiuta di fare chiarezza su uno degli scandali più
opachi degli ultimi decenni. Dall’altro, l’eco delle teorie che collegano
Epstein ai servizi di intelligence stranieri solleva interrogativi ancora più
profondi: chi sono davvero gli intoccabili? E fino a che punto il sistema ha
coperto abusi in nome di interessi superiori, siano essi economici, politici o
addirittura internazionali?
Tuttavia, queste ipotesi sono prive di
fondamenti e delineano un quadro di “paranoid style” nella
politica, come descritto dal politologo Richard Hofstadter: una miscela di
sospetto, esagerazioni e fantasia cospirativa che si autoalimenta,
particolarmente presente nella retorica MAGA
In questo contesto, il caso Epstein si trasforma
in un banco di prova sulla credibilità della promessa trumpiana di “liberare il
popolo americano dalle élite corrotte”. La domanda che inizia a serpeggiare tra
elettori e analisti è semplice: se anche i fascicoli Epstein restano chiusi, se
anche le presunte connivenze internazionali vengono ignorate o coperte, che
differenza c’è tra questa amministrazione e quelle precedenti? Un interrogativo
che rischia di pesare come un macigno nei prossimi mesi di campagna elettorale,
mentre si accumulano promesse mancate, accuse reciproche e il sospetto che,
ancora una volta, la verità resti un lusso per pochi.
Il caso
Epstein–Trump è diventato il battistrada di un conflitto politico mediatizzato:
promessa di trasparenza, accuse di copertura e voci cospirative si
sovrappongono in un contesto in cui la sfiducia verso le istituzioni diventa
arma elettorale. Le teorie su Epstein come agente Mossad e la rete Maxwell
appaiono alimentate da un sentimento anti-élite, esacerbato da dinamiche
populiste e strumentalizzazione del complottismo politico. Ovviamente in questo
panorama, chi è stato abusato e ha visto la sua vita rubata è completamente
eclissato, soprattutto in un paese come gli Stati Uniti che detiene un triste
primato per numero di bambini scomparsi vittime di abusi e schiavizzati.
Con oltre 460.000 minori segnalati come
scomparsi ogni anno e più di mezzo milione di casi certificati di abuso,
l’America si conferma non solo epicentro dello scandalo Epstein, ma anche
simbolo di una crisi sistemica nella protezione dell’infanzia, dei giovani. A
ciò si aggiungono i dati sul moderno sfruttamento minorile: negli Stati Uniti
si stimano circa 400.000 persone – tra cui un numero significativo di
minori – vittime di modern slavery, comprendente
lavoro forzato, tratta e forme di schiavitù, tra cui lavoro coatto e
sfruttamento sessuale. Di questi, circa 10.000 lavoratori
forzati sono presenti nel paese, e un terzo di
essi risulta minorenne. Complessivamente, tra abusi sessuali, sparizioni e
lavoro forzato, oltre il 10 % dei minori negli Stati Uniti vive
questa mostruosa realtà. In un contesto simile, le vittime vengo azzittite,
oscurate in un dibattito su Epstein e Trump trasformando così un’opportunità di
verità e giustizia in un meccanismo cinico, sintomatico di un sistema che
continua a sacrificare i più vulnerabili in nome di giochi di potere e
narrazioni politiche.
USA: OLTRE LA FACCIATA DELLA DEMOCRAZIA.
CRISI AMERICANA E VERITÀ NEGATE
di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).
Siamo tutti
testimoni di un sisma politico globale, dove è evidente che il sistema politico
che abbiamo inventato e messo in atto rappresenta a fatica la volontà dei
popoli.
Negli Stati
Uniti lo scontento per questa prima democrazia rappresentativa si è manifestato
nei decenni con candidature indipendenti come quella di Ross Perot, imprenditore
texano divenuto celebre anche per aver organizzato una rischiosa missione
privata per liberare due suoi dipendenti detenuti a Teheran nel 1978, alla
vigilia della rivoluzione iraniana.
Persino
l’attuale Segretario per la Salute Robert Kennedy Jr, rifiutato dai democratici
si è poi candidato per le ultime presidenziali come indipendente prima di
venire fagocitato da Trump.
Oggi a distanza di qualche giorno dal 4 di luglio Musk ha registrato un terzo partito come risposta a Trump per aver compilato una finanziaria con tanti difetti gravi. Infatti, come ho già scritto precedentemente, questa legge non solo ha raggiunto il consenso minimo, direi risicato, ma ha troppe pecche che hanno creato maggiori divisioni sia nel partito repubblicano che in generale nel paese. Seppure Musk abbia avuto un’ennesima idea balzana ( “The very fact that our electoral system is a winner‑take‑all system discourages third parties… The big parties are like amoebas trying to go around the fringe groups and fold them in.” – Prof. Barbara Perry University of Virginia) di protesta, (d’altra parte come non biasimarlo, dopo essersi impegnato a trovare sprechi statali, solo una piccola parte è stata inserita nella legge), è stata già boicottata dagli stessi democratici.
La spaccatura
all’interno del partito repubblicano per una finanziaria che, come al solito,
protegge i più ricchi e toglie
sussidi necessari a una fascia assai debole di americani che dal Covid ad oggi
si trova in totale povertà.
Alternativamente
Trump visti i legami con imprenditori favolosamente ricchi, poteva benissimo
chiedere di “regalare” qualche miliardo per aiutare le fasce deboli,
esattamente come fece Truman con il piano Marshall, aiutando la nostra ed altre
nazioni in totale miseria a ricostruirsi.
- Il Piano Marshall (1948–1952)
mobilitò circa 12,4 miliardi di dollari dell’epoca (circa
~250 mld USD attuali), con lo scopo di ricostruire l’Europa dopo la
guerra e combattere povertà e disordini interni
- Contrariamente, Trump ha scelto di tagliare
spese sociali e assistenziali, destinando i risparmi (e l’aumento del
debito di oltre 2,4 trilioni USD sino al 2034) a favore dei redditi più
alti, anziché utilizzarli per rafforzare il welfare delle fasce più povere.
Contemporaneamente Tucker Carlson, giornalista indipendente conservatore, intervista il Presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, e qui di seguito un riassunto del perchè di questa intervista: “Abbiamo appena concluso un’intervista con
Masoud Pezeshkian , il presidente dell’Iran, il cardiochirurgo settantenne che guida il paese con cui eravamo in guerra circa una settimana e mezza fa. Sappiamo che saremo criticati per aver fatto questa intervista.
Perché
l’abbiamo fatta comunque? L’abbiamo fatta
perché eravamo in guerra con l’Iran dieci giorni fa, e potremmo tornarci di
nuovo. E quindi il nostro punto di vista
— che è sempre rimasto coerente nel tempo — è che i cittadini americani hanno il
diritto costituzionale e naturale di raccogliere tutte le informazioni
possibili su questioni che li riguardano.
Se il loro
paese sta facendo qualcosa con i loro soldi e in loro nome, hanno il diritto
assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade. E questo include ascoltare le persone con
cui stanno combattendo. Ora, si può credere a tutto ciò che dice il
presidente dell’Iran?
Probabilmente
no. Ma non è questo
il punto. Il punto è che dovreste
poter decidere da soli se credergli o meno.
E ricordate che chiunque cerchi di negarvi questo diritto non è un
vostro alleato, ma un vostro nemico.
A proposito,
abbiamo anche inviato — per la terza volta negli ultimi mesi — una richiesta
di intervista al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e speriamo
che la accetti.
L’intervista è
stata limitata da un paio di fattori:
- Primo, è stata
fatta a distanza, tramite un traduttore, e questo è sempre complicato.
- Secondo, non parlo persiano, e ci sono molte
domande che non ho fatto al presidente dell’Iran, in particolare domande
a cui sapevo che non avrei ottenuto una risposta onesta, come:
“Il vostro
programma nucleare è stato completamente disabilitato dalla campagna di
bombardamenti condotta dal governo degli Stati Uniti una settimana e mezzo
fa?”
Non c’era
alcuna possibilità che rispondesse onestamente a questa domanda, quindi, non
ho nemmeno provato a farla. La
risposta, in realtà — dal punto di vista americano, persino da quello della
CIA — è inconoscibile.
Abbiamo evitato
domande simili e ho fatto domande molto semplici, come:
- Qual è il vostro obiettivo?; Volete la guerra con gli
Stati Uniti?; Volete la guerra con Israele?
E così via.
Ancora una
volta, lo scopo di questa intervista non era arrivare alla verità assoluta
— cosa impossibile in un’intervista del genere.
Lo scopo era contribuire al patrimonio di conoscenza da cui gli
americani possano trarre una propria opinione. Imparate tutto ciò che
potete, e poi decidete voi. Questo è
ciò che promette l’America.”
Inutile
commentare che questa intervista ha dato molto fastidio a Washington.
Poi c’è la
versione religiosa che lega gli USA a Israele come un cordone ombelicale e che
la maggior parte della gente non ha mai valutato nella sua complessa
profondità. In un’intervista
all’ambasciatore americano in Israele Mike Huckebee viene spiegato
come questo legame sia unico in tutti i sensi. Secondo l’ambasciatore i suoi
stessi connazionali non comprendono come il legame religioso sia fondamentale: “Senza
la fede ebraica non esisterebbe la fede cristiana.” -“Lo dico sempre ai
miei amici ebrei: voi potete essere ebrei, non avere niente a che fare con me,
non avete bisogno di me. Ma io non posso essere cristiano senza l’interezza di
tutta questa storia di Dio nel mondo, che porta fino a ciò in cui credo come
cristiano.”
E come
relazione politica prosegue dicendo: “Mi piace dire alla gente che gli
Stati Uniti hanno amici, hanno alleati, ma hanno un solo partner: Israele è
davvero il loro unico vero partner; con questo intendo dire che il livello di
cooperazione e affinità che abbiamo l’uno con l’altro somiglia molto più a un
matrimonio che a una semplice amicizia fraterna.”
“E lo dico
perché il livello di condivisione di informazioni di intelligence, l’hardware
militare che costruiamo insieme, la tecnologia medica, la trasformazione
economica che è avvenuta da entrambe le parti…”
“Il modo
straordinario in cui siamo legati è tale da non assomigliare a nessun altro
rapporto che abbiamo con qualunque altro Paese al mondo.”
Quindi
l’alleanza con Israele resta il pilastro non negoziabile di questa
architettura, alimentata tanto da una strategia geopolitica quanto da
un’eredità religiosa profonda, che fonda la fede cristiana su quella ebraica.
Chi ignora questa dimensione, fatica a capire perché certi rapporti resistano a
tutto — perfino alla realtà dei numeri o alle urgenze economiche gravi.
La democrazia rappresentativa vacilla, a iniziare proprio
dal paese che per primo al mondo ha costruito una Costituzione moderna e
repubblicana, pensata per garantire equilibrio tra poteri, libertà individuali
e rappresentanza popolare: gli Stati Uniti d’America.
Oggi però questo modello appare logorato. Il sistema
bipartitico ha smesso di rappresentare la pluralità reale della società,
trasformandosi in una macchina autoreferenziale che esclude voci nuove e non
applica i tentativi di riforma promessi perchè il mostro burocratico è più
forte, o forse è più importante la guida del cambiamento.
Le candidature indipendenti, che un tempo erano
espressione di protesta o visione alternativa, oggi vengono cooptate,
screditate o svuotate di senso. Il nuovo candidato per il posto di sindaco di
New York, Zohran Mamdani ne è un esempio recentissimo. Percepito
come incongruente perché rompe le categorie tradizionali viene criticato
dalla destra trumpiana come comunista lunatico, mentre per altri è una risorsa: incarnazione di una
nuova politica identitaria e inclusiva. Ne nasce una tensione esplosiva dalla
fusione tra dogmatismi religiosi e ideologia socialista radicata in un momento
storico dove gli equilibri sono delicatissimi.
Il voto, oggi, viene ridotto a una scelta binaria tra due
élite che ha perso parte del suo potere trasformativo. E mentre l’America si
confronta con crescenti diseguaglianze, povertà strutturale, tensioni etniche e
guerre a bassa intensità diplomatica, la promessa originaria della democrazia
rischia di diventare una liturgia vuota.
Eppure, proprio nei margini — nelle voci non allineate,
nei gesti simbolici, nei contrasti tra religione e politica — si intravede la
possibilità di un risveglio. Non sarà forse più il tempo delle grandi
costituzioni, ma quello delle coscienze informate.
Come ci ricorda Tucker Carlson nella sua discussa
intervista: “Se il vostro paese fa qualcosa con i vostri soldi e in vostro
nome, avete il diritto assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade.”
E forse oggi, la vera democrazia, comincia proprio da lì.
Profilo di rischio degli autori di violenza politica negli Stati Uniti vs l’Unione Europea (UE 27) nel 2024 – primo trimestre 2025
di Andrea Molle negli Stati Uniti
Recenti analisi
prodotte da agenzie per la sicurezza e istituti di ricerca rivelano una
crescente convergenza nei profili demografici e geografici degli individui
coinvolti in atti di violenza politica nelle democrazie occidentali. Sebbene le
ideologie specifiche varino — temi razzisti ed etnici e le teorie complottiste
anti-governative sono più diffuse negli Stati Uniti, mentre in Europa
prevalgono i movimenti jihadisti e separatisti — il profilo tipico appare
sorprendentemente simile su entrambe le sponde dell’Atlantico. Si tratta, in
genere, di un uomo di giovane età, spesso compresa tra la tarda adolescenza e i
vent’anni, che si radicalizza online e viene spinto ad agire in contesti dove
la visibilità mediatica è elevata o dove i risentimenti locali offrono terreno
fertile per la mobilitazione.
La tabella che
segue presenta le statistiche più aggiornate fornite dall’FBI, dal Dipartimento
della Sicurezza Interna (DHS), dal rapporto TE-SAT 2025 di Europol, dal
database START-PIRUS e da analisi spaziali fondate sul monitoraggio degli
eventi ACLED (Armed Conflict Location
and Event Data). Insieme, queste fonti offrono un quadro dettagliato
dell’attuale panorama delle minacce.
| Variabili | Stati Uniti | Unione Europea |
| genere | ≈ 85 % uomini (PIRUS, 1970–2021) | ≈ 91 % uomini (TE‑SAT 2025 juveniles) |
|
Età
|
≈ 68 % fra 18‑34 (PIRUS)
| > 60 % sotto i 35;29 % minori (TE‑SAT 2025) |
| Razza/etnia | REMVE suprematisti bianchi = 52 % nell’FBI DVE disruptions FY 2024 | Etno‑nazionalisti/separatisti =38 % degli attacchi nel 2024 |
| Religione | < 7 % ispirazione jihadista negli USA (HTA 2025); crescita della frangia Christian‑identity | Ideologia jihadista in 24 dei 58 attacchi; estremismo politico “post-religioso” (TE‑SAT) |
| Affiliazione politica | Anti‑gov./sovereign + partisan = 49 % degli episodi dal 2016 (CSIS) | Micro – cellule accelerazioni-ste e neo‑Nazi in aumento (TE‑SAT) |
| Città / Campagna | 72 % degli episodi in aree urbane > 250 k; picco secondario nelle contee a bassa densità di milizie (arXiv 2025) | Grandi capitali e periferie separatiste (Corsica, Paesi Baschi) |
Tabella 1: Indicatori Comparativi del Rischio
la fascia più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni
Una chiara
disparità di genere caratterizza gli individui coinvolti in atti di violenza
politica sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Negli Stati Uniti, i
dati del database START-PIRUS, relativi al periodo 1990–2021, mostrano che
circa l’85% degli autori è di sesso maschile. La tendenza è ancora più marcata
in Europa, dove il rapporto TE-SAT 2025 di Europol indica che il 91% dei
sospetti arrestati per terrorismo giovanile nel 2024 era di sesso maschile.
Questa netta predominanza rappresenta una delle caratteristiche costanti,
trasversale a tutti gli orientamenti ideologici.
Anche l’età
rappresenta un predittore significativo. In entrambe le regioni, la fascia
più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa
tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni. Negli Stati Uniti, quasi il
70% degli autori rientra nella fascia tra i 18 e i 34 anni. Allo stesso modo,
Europol riporta che il 29% di tutti gli arresti legati al terrorismo nell’UE
nel 2024 ha riguardato minorenni o giovani adulti tra i 12 e i 20 anni. Questi
dati evidenziano la crescente vulnerabilità delle fasce giovanili, in
particolare all’interno degli ambienti digitali e dei social media.
Anche l’identità razziale ed etnica ha un ruolo rilevante nella definizione dei profili degli autori. Negli Stati Uniti, l’FBI ha classificato il 52% degli interventi contro estremisti violenti interni (DVE) nell’anno fiscale 2024 come motivati da ragioni razziali o etniche, con la maggioranza dei casi collegati a ideologie suprematiste bianche. Nell’Unione Europea, il quadro risulta più variegato: il 41% degli attacchi compiuti nel 2024 è stato attribuito ad attori jihadisti, mentre il 38% è stato condotto da gruppi etno-nazionalisti o separatisti, in particolare in aree interessate da conflitti legati all’autonomia regionale.
in Europa, il segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato da microcellule accelerazioniste e neo-naziste
L’ideologia
religiosa, pur non essendo più dominante negli Stati Uniti, continua a
rappresentare un fattore determinante negli attacchi in Europa. Negli USA, gli attentati ispirati al
jihad costituiscono oggi meno del 7% dei casi di estremismo violento interno
(DVE), segnalando un più ampio spostamento verso motivazioni secolari o ibride.
Al contrario, in Europa queste motivazioni sono state responsabili del 41% di
tutti gli attacchi terroristici mortali nel 2024, rendendo la religione un
fattore molto più rilevante nel contesto europeo.
Infine,
l’affiliazione politica è emersa come un elemento determinante dell’estremismo
violento più recente. Negli Stati Uniti, i dati del Center for Strategic and
International Studies (CSIS) indicano che il 49% degli episodi dal 2016 ha
coinvolto attori anti-governativi, appartenenti al movimento dei “cittadini
sovrani” o legati a polarizzazioni partitiche estreme. In Europa, il
segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato
da microcellule accelerazioniste e neo-naziste: gruppi piccoli,
decentralizzati, spesso attivi a livello transnazionale e coordinati tramite
piattaforme di comunicazione criptata.
Negli Stati
Uniti, i cluster geografici di violenza politica non sono distribuiti
uniformemente. Un’analisi spaziale basata sui dati degli eventi registrati da
ACLED rivela che California, Texas, Florida e Georgia guidano la classifica
nazionale per numero totale di episodi. Tuttavia, se si considera la
popolazione, il primato in termini pro capite spetta al Pacifico
nord-occidentale, in particolare agli stati dell’Oregon e di Washington. Al
di fuori delle grandi aree metropolitane, emerge un secondo cluster che merita
attenzione nelle contee rurali con reti militanti attive, tra cui alcune
aree del nord dell’Idaho e dell’est dell’Oregon. Queste regioni, sebbene
meno popolate, ospitano comunità con un forte sentimento anti-governativo e con
infrastrutture logistiche in grado di sostenere attività estremiste.
Anche l’Unione
Europea presenta un andamento altrettanto disomogeneo. L’Italia ha registrato
il maggior numero di attacchi terroristici nel 2024, con 20 episodi, seguita
dalla Francia con 14. Spagna e Francia guidano la classifica per numero totale
di arresti legati alla violenza politica. Nel frattempo, atti di violenza
separatista a bassa intensità ma persistenti continuano a verificarsi in aree
come la Corsica e i Paesi Baschi, dove rivendicazioni storiche e identità
regionali alimentano conflitti localizzati. Queste zone restano focolai di
attività etno-nazionalista, nonostante l’attenzione più ampia si stia spostando
verso minacce di natura transnazionale.
Un recente quadro statistico basato sui dati di Europol e START InSight curato da Claudio Bertolotti nel Rapporto annuale ReaCT2024 sul terrorismo e la radicalizzazione in Europa, conferma la persistenza della minaccia terroristica in Europa. Nel 2023 sono stati compiuti 43 attacchi e ne sono stati sventati altri 33, con oltre 600 arresti effettuati nei vari stati membri dell’UE. Francia e Austria guidano la classifica per numero di arresti, segnalando sia un’elevata intensità operativa sia una chiara priorità attribuita all’attività di intelligence. I dati evidenziano inoltre la sfida costante rappresentata dai gruppi etno-nazionalisti e separatisti — in particolare in Francia e Spagna — accanto a residui di minacce jihadiste. L’analisi di Bertolotti rafforza l’idea che i processi di radicalizzazione siano sempre più spinti da fattori ibridi, in cui si intrecciano ideologia, fragilità personali e vulnerabilità psicologiche, soprattutto tra i giovani disillusi.
Sebbene gli indicatori demografici e geografici aiutino a individuare chi sono gli autori e dove operano, comprendere come avviene il processo di radicalizzazione offre una prospettiva più profonda sulla traiettoria della minaccia.
gli spazi digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la mobilitazione
Indipendentemente
dall’ideologia di riferimento, la maggior parte degli individui coinvolti in
atti di violenza politica tende a seguire un percorso di radicalizzazione
simile. In genere, tutto ha inizio con una crisi personale — come disagio
emotivo, isolamento sociale o difficoltà economiche — che si sovrappone a
narrative più ampie basate su teorie del complotto o rivendicazioni
identitarie. Questi racconti offrono una chiave di lettura distorta attraverso
cui l’individuo rielabora la propria condizione, attribuendo la colpa a
istituzioni, governi o gruppi specifici. Con il tempo, il bisogno di
significato o appartenenza lo spinge verso comunità online dove tali visioni
vengono rafforzate. Sia l’FBI che Europol hanno segnalato i social media, le
piattaforme di gaming e le app di messaggistica criptata come acceleratori
cruciali in questo processo, in particolare tra gli utenti più giovani. Questi spazi
digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra
pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la
mobilitazione.
La probabilità
che un individuo compia atti di violenza politica varia in base a una
combinazione di fattori demografici, geografici e comportamentali. Il profilo a
più alto rischio è quello di un uomo tra i 18 e i 34 anni, residente in un’area
urbana politicamente polarizzata o in una regione con movimenti separatisti
attivi. Questo individuo è generalmente molto immerso in contenuti estremisti
online, spesso attraverso forum, social network o applicazioni di messaggistica
criptata.
Un livello di
rischio moderato è associato agli individui che vivono in contee rurali degli
Stati Uniti dove è documentata l’attività di milizie. Questo gruppo comprende
spesso persone con precedenti per violenza domestica o altri episodi di
aggressione minore, suggerendo che un passato di aggressività interpersonale
possa fungere da precursore alla violenza politica quando si intreccia con
influenze ideologiche radicali.
All’estremo
inferiore dello spettro di rischio si trovano gli adulti più anziani — in
particolare le donne oltre i 45 anni — che non presentano alcuna traccia
rilevante di attività online in ambienti estremisti. Questo segmento
demografico risulta ampiamente sottorappresentato in tutti i dataset noti
relativi alla violenza di matrice politica.
Per ridurre efficacemente la minaccia della violenza politica, le strategie di prevenzione devono concentrarsi sui gruppi più vulnerabili e sugli ambienti ad alto rischio. Una delle priorità più urgenti è l’intervento precoce rivolto ai giovani maschi tra i 13 e i 24 anni, che costituiscono il segmento in più rapida crescita tra coloro che si radicalizzano online. Programmi di sensibilizzazione e coinvolgimento attivo, mirati a intercettare questi individui prima che si integrino stabilmente in reti estremiste, possono ridurre in modo significativo il rischio a lungo termine.
Invece di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico, jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a schemi comportamentali comuni che attraversano trasversalmente tutte le ideologie
Allo stesso
tempo, i centri di coordinamento federali e locali (fusion centers) dovrebbero
allineare l’impiego delle risorse ai cluster geografici individuati dai dati
ACLED e dai modelli spaziali elaborati da diversi analisti. Ciò implica
concentrare gli sforzi non solo nei grandi centri urbani, ma anche in quelle
contee specifiche dove è stata documentata un’attività estremista, passata o
presente.
È fondamentale
che i programmi di prevenzione superino le rigide classificazioni ideologiche. Invece
di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico,
jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a
schemi comportamentali comuni — come crisi personali, isolamento sociale e
radicalizzazione online — che attraversano trasversalmente tutte le
ideologie.
Infine, è
necessario prestare particolare attenzione ai cicli elettorali. Sia il
Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) che il Center for Strategic and
International Studies (CSIS) hanno documentato picchi ricorrenti di violenza
politica e attività minacciose in corrispondenza delle principali elezioni. Una
pianificazione preventiva e l’adozione di misure di sicurezza mirate durante
questi periodi sono essenziali per mitigare il rischio di esplosioni di
violenza.
Rischio
Stimato per la Popolazione e Strategie di Mitigazione
Sebbene il panorama della violenza politica sia in continua evoluzione e sempre più visibile, il rischio effettivo di subire danni fisici per un cittadino medio rimane statisticamente molto basso, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Secondo i dati aggregati di FBI, DHS ed Europol, la probabilità annua che un civile venga ucciso in un attacco a motivazione politica è inferiore a 1 su 10 milioni nella maggior parte dei paesi occidentali. Per fare un paragone, si tratta di probabilità simili a quelle di essere colpiti da un fulmine o vittima di una fuga di gas domestico.
l’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa contribuisce ad alimentare nel tempo
Tuttavia, queste
medie nascondono importanti sfumature. La percezione della minaccia risulta
infatti molto più elevata in determinati contesti ad alta visibilità — come
edifici governativi, manifestazioni politiche o istituzioni religiose — dove la
probabilità di un attacco è effettivamente maggiore, specialmente durante fasi
di forte tensione politica o in seguito a eventi polarizzanti. In tali
ambienti, il rischio per alcune categorie di persone (funzionari pubblici,
giornalisti, attivisti, membri di minoranze religiose o etniche) risulta
sensibilmente più alto rispetto alla media della popolazione.
Negli ultimi
cinque anni, negli Stati Uniti si è registrata una media annuale di 25–35
episodi documentati di violenza politica interna con esiti fisici gravi o
intenti letali. Nell’Unione Europea, sebbene il numero di attacchi portati a
termine sia inferiore, il volume di arresti e complotti sventati — oltre 400
solo nel 2024 — segnala un livello elevato di intenzionalità e di capacità di
mobilitazione.
Il vero
rischio, dunque, non
risiede tanto negli eventi a elevato numero di vittime, quanto nell’erosione
cumulativa della fiducia pubblica, della stabilità democratica e delle norme
civiche. L’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta
nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa
contribuisce ad alimentare nel tempo.
Tre dinamiche
interconnesse aumentano l’esposizione al rischio per specifici gruppi:
• Prossimità a
istituzioni simboliche o politiche (es. sedi parlamentari, sinagoghe,
ambasciate)
• Visibilità demografica (es. minoranze religiose o razziali
frequentemente bersaglio)
• Partecipazione ad attività civiche ad alta esposizione (es. attivisti,
funzionari eletti, giornalisti)
Per mitigare tali
rischi, è necessario adottare un approccio preventivo multilivello, che
coinvolga tanto le autorità quanto le comunità locali. Le
strategie chiave includono:
- Valutazione comportamentale delle
minacce (Behavioral Threat Assessment): Formazione di personale in prima linea —
insegnanti, assistenti sociali, responsabili delle risorse umane — per
riconoscere i segnali precoci di radicalizzazione e intervenire prima che
si concretizzi la mobilitazione.
- Alfabetizzazione digitale e contrasto
alla radicalizzazione: Promozione di competenze di verifica dei fatti, resilienza online e
meccanismi di segnalazione tra le fasce giovanili, in particolare tra i
maschi di età compresa tra i 13 e i 24 anni.
- Partenariati di comunità: Investire in attori locali
affidabili, come leader religiosi e organizzazioni di quartiere, per
costruire relazioni, ridurre l’isolamento sociale e rafforzare il capitale
sociale.
- Pianificazione di sicurezza per i
cicli elettorali:
Schierare risorse di sicurezza mirate e strumenti di contrasto alla
disinformazione durante le elezioni, ormai sistematicamente associate a
picchi di minacce.
- Centri di ricerca basati su dati
quantitativi:
Rafforzare la capacità dei centri di intelligence regionali di condividere
in tempo reale analisi geospaziali e comportamentali tra forze dell’ordine
e istituzioni civiche.
In definitiva,
sebbene sia improbabile che la violenza politica colpisca direttamente il
cittadino medio, i suoi effetti a catena possono compromettere profondamente la
vita democratica se non vengono affrontati in modo adeguato. Per questo,
l’attenzione non deve concentrarsi unicamente sulla sicurezza, ma anche sulla
ricostruzione della fiducia nelle istituzioni e sul rafforzamento della
resilienza sociale.
Fonti
[1] Europol. *European Union Terrorism Situation & Trend Report
(TE‑SAT 2025)*. Luxembourg: Publications Office of the EU, 2025.
[2] DHS Office of Intelligence & Analysis. *Homeland
Threat Assessment 2025*. Washington DC, 2024.
[3] University
of Maryland START. *Profiles of Individual Radicalization in the United
States (PIRUS) Research Brief*, March 2023 update.
[4] Claudio
Bertolotti, ed., #ReaCT2023 – Report on Radicalization and Terrorism
(Rome: START InSight, 2023),
https://www.startinsight.eu/react2023-report-on-radicalization-and-terrorism/
[5] Riley
McCabe. “The Rising Threat of Anti‑Government Domestic Terrorism: What the Data
Tells Us.” CSIS Brief, October 21 2024.
[6] Ravi Varma
Pakalapati & Gary E. Davis. “Spatial and Temporal Analysis of
Political Violence in the United States.” arXiv preprint 2503.14399,
March 2025.
NATO – Cosa implica quel 5% di spesa per l’Italia
di Andrea Molle dagli Stati Uniti
L’adozione, al
vertice dell’Aia del 24-25 giugno, del nuovo obiettivo NATO di spesa al 5% del
PIL non è un mero aggiornamento contabile: segna una svolta strategica che
ridefinisce il concetto stesso di difesa. La formula 3,5% + 1,5% — tre punti e
mezzo per “hard defence” in senso classico e un punto e mezzo per investimenti
dual-use a sostegno della resilienza nazionale — cristallizza la lezione della
guerra in Ucraina: senza vie di comunicazione rinforzate, scorte energetiche
sicure e cyberspazio protetto, i carri armati non arrivano al fronte e i droni
non decollano.
Per l’Italia la
sfida è doppia. Da un lato, il governo Meloni si è impegnato a onorare il nuovo
target pur mantenendo un sentiero di rientro del deficit; dall’altro, parte da
un livello “puro” di circa 1,57%, ben al di sotto del 3,5% richiesto per la
componente militare tradizionale. Tradotto in cifre, significa trovare
nell’arco di dieci anni fra i 32 e i 42 miliardi di euro aggiuntivi l’anno solo
per armamenti, addestramento e readiness operativa, a cui si sommano gli
investimenti per infrastrutture e cyber-resilienza. Tuttavia, la stessa
Alleanza ha chiarito che l’obiettivo del 5% è da raggiungere in modo
progressivo: 3,5% per la difesa militare e 1,5% per la sicurezza civile,
entrambi spalmati su un orizzonte decennale. L’aumento effettivo richiesto è
quindi contenuto, pari a un massimo dello 0,3% del PIL all’anno. Si tratta di
un impegno oneroso, ma non insostenibile.
Il Ministero
della Difesa non potrà più diluire gli incrementi fra le tre Forze Armate come
in passato. Per l’Esercito, relegato per anni al terzo posto dietro Marina e
Aeronautica, l’occasione è irripetibile: colmare il ritardo su mezzi corazzati,
artiglieria a lunga gittata, munizioni di precisione e capacità contro-UAS,
garantire poligoni moderni e manutenzione, dotarsi di sensoristica strategica
oggi appannaggio quasi esclusivo degli Stati Uniti. Senza questa svolta, gli
impegni sul fianco Est resteranno nominali.
La quota dell’1,5%
apre invece un terreno di politica industriale. Porti come Gioia Tauro, i
corridoi ferroviari TEN-T e la dorsale 5G/quantum italiana possono essere
co-finanziati dall’UE sotto l’ombrello “Military Mobility”, veicolando
investimenti che valgono sia per la Difesa sia per la competitività logistica
nazionale. Qui l’Esercito può diventare attore-ponte con Protezione Civile e
infrastrutture critiche, ridefinendo il proprio ruolo di “forza-territorio” nel
disegno di una difesa totale.
L’orizzonte 2035
offre una gradualità che attenua lo shock sul bilancio, ma non deve illudere:
il procurement terrestre richiede cicli decennali. I contratti per Ariete,
Dardo, PzH 2000 e SAMP/T NG vanno firmati ora se si vuole evitare un nuovo
decennio di eterne mezze soluzioni. È un banco di prova anche politico: se Roma
non riuscirà a trasformare il 5% in occasione di modernizzazione industriale e
deterrenza credibile, il nuovo criterio rischierà di ridursi a un ulteriore
indicatore-tabù come il vecchio 2%.
La posta in
gioco, insomma, non è solo soddisfare Washington né evitare future minacce di
dazi; è dimostrare ai partner che un’Italia con 5 milioni di riservisti
virtuali, ma senza munizioni né strade percorribili da un Leopard, è un anello
debole. Se la Penisola saprà invece coniugare ambizione europea, realismo
contabile e impulso al proprio esercito, il 5% potrà diventare il volano di una
sicurezza finalmente integrata fra caserme, fabbriche e ponti.
Questo nuovo
paradigma impone anche una riscrittura del rapporto tra Forze Armate e società
civile, dopo decenni di separazione culturale e funzionale. L’investimento
nella resilienza nazionale, nella protezione delle infrastrutture critiche e
nella risposta alle minacce ibride restituisce ai militari un ruolo visibile,
concreto, integrato nel tessuto del Paese. Non più solo professionisti di
missioni all’estero, ma attori centrali della sicurezza collettiva, custodi del
territorio e partner della cittadinanza. È un’occasione storica per ricucire
quel legame, fondandolo non sulla retorica ma sull’utilità strategica e sulla
trasparenza democratica.