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USA: OLTRE LA FACCIATA DELLA DEMOCRAZIA.

CRISI AMERICANA E VERITÀ NEGATE

di Melissa de Teffé da Washington, DC – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US).

Siamo tutti testimoni di un sisma politico globale, dove è evidente che il sistema politico che abbiamo inventato e messo in atto rappresenta a fatica la volontà dei popoli.

Negli Stati Uniti lo scontento per questa prima democrazia rappresentativa si è manifestato nei decenni con candidature indipendenti come quella di Ross Perot, imprenditore texano divenuto celebre anche per aver organizzato una rischiosa missione privata per liberare due suoi dipendenti detenuti a Teheran nel 1978, alla vigilia della rivoluzione iraniana.

Persino l’attuale Segretario per la Salute Robert Kennedy Jr, rifiutato dai democratici si è poi candidato per le ultime presidenziali come indipendente prima di venire fagocitato da Trump.

Oggi a distanza di qualche giorno dal 4 di luglio Musk ha registrato un terzo partito come risposta a Trump per aver compilato una finanziaria con tanti difetti gravi. Infatti, come ho già scritto precedentemente, questa legge non solo ha raggiunto il consenso minimo, direi risicato, ma ha troppe pecche che hanno creato maggiori divisioni sia nel partito repubblicano che in generale nel paese. Seppure Musk abbia avuto un’ennesima idea balzana ( “The very fact that our electoral system is a winner‑take‑all system discourages third parties… The big parties are like amoebas trying to go around the fringe groups and fold them in.” – Prof. Barbara Perry University of Virginia) di protesta, (d’altra parte come non biasimarlo, dopo essersi impegnato a trovare sprechi statali, solo una piccola parte è stata inserita nella legge), è stata già boicottata dagli stessi democratici.

La spaccatura all’interno del partito repubblicano per una finanziaria che, come al solito, protegge i più ricchi e toglie sussidi necessari a una fascia assai debole di americani che dal Covid ad oggi si trova in totale povertà.

Alternativamente Trump visti i legami con imprenditori favolosamente ricchi, poteva benissimo chiedere di “regalare” qualche miliardo per aiutare le fasce deboli, esattamente come fece Truman con il piano Marshall, aiutando la nostra ed altre nazioni in totale miseria a ricostruirsi.

  • Il Piano Marshall (1948–1952) mobilitò circa 12,4 miliardi di dollari dell’epoca (circa ~250 mld USD attuali), con lo scopo di ricostruire l’Europa dopo la guerra e combattere povertà e disordini interni
  • Contrariamente, Trump ha scelto di tagliare spese sociali e assistenziali, destinando i risparmi (e l’aumento del debito di oltre 2,4 trilioni USD sino al 2034) a favore dei redditi più alti, anziché utilizzarli per rafforzare il welfare delle fasce più povere.

Contemporaneamente Tucker Carlson, giornalista indipendente conservatore, intervista il Presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, e qui di seguito un riassunto del perchè di questa intervista: “Abbiamo appena concluso un’intervista con  
Masoud Pezeshkian , il presidente dell’Iran, il cardiochirurgo settantenne che guida il paese con cui eravamo in guerra circa una settimana e mezza fa. Sappiamo che saremo criticati per aver fatto questa intervista.

Perché l’abbiamo fatta comunque? L’abbiamo fatta perché eravamo in guerra con l’Iran dieci giorni fa, e potremmo tornarci di nuovo.  E quindi il nostro punto di vista — che è sempre rimasto coerente nel tempo — è che i cittadini americani hanno il diritto costituzionale e naturale di raccogliere tutte le informazioni possibili su questioni che li riguardano.

Se il loro paese sta facendo qualcosa con i loro soldi e in loro nome, hanno il diritto assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade.  E questo include ascoltare le persone con cui stanno combattendo. Ora, si può credere a tutto ciò che dice il presidente dell’Iran?

Probabilmente no.  Ma non è questo il punto.  Il punto è che dovreste poter decidere da soli se credergli o meno.  E ricordate che chiunque cerchi di negarvi questo diritto non è un vostro alleato, ma un vostro nemico.

A proposito, abbiamo anche inviato — per la terza volta negli ultimi mesi — una richiesta di intervista al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e speriamo che la accetti.

L’intervista è stata limitata da un paio di fattori:

  • Primo, è stata fatta a distanza, tramite un traduttore, e questo è sempre complicato.
  • Secondo, non parlo persiano, e ci sono molte domande che non ho fatto al presidente dell’Iran, in particolare domande a cui sapevo che non avrei ottenuto una risposta onesta, come:

“Il vostro programma nucleare è stato completamente disabilitato dalla campagna di bombardamenti condotta dal governo degli Stati Uniti una settimana e mezzo fa?”

Non c’era alcuna possibilità che rispondesse onestamente a questa domanda, quindi, non ho nemmeno provato a farla.  La risposta, in realtà — dal punto di vista americano, persino da quello della CIA — è inconoscibile.

Abbiamo evitato domande simili e ho fatto domande molto semplici, come:

  • Qual è il vostro obiettivo?; Volete la guerra con gli Stati Uniti?; Volete la guerra con Israele?  E così via.

Ancora una volta, lo scopo di questa intervista non era arrivare alla verità assoluta — cosa impossibile in un’intervista del genere.  Lo scopo era contribuire al patrimonio di conoscenza da cui gli americani possano trarre una propria opinione. Imparate tutto ciò che potete, e poi decidete voi.  Questo è ciò che promette l’America.”

Inutile commentare che questa intervista ha dato molto fastidio a Washington.

Poi c’è la versione religiosa che lega gli USA a Israele come un cordone ombelicale e che la maggior parte della gente non ha mai valutato nella sua complessa profondità.  In un’intervista all’ambasciatore americano in Israele Mike Huckebee viene spiegato come questo legame sia unico in tutti i sensi. Secondo l’ambasciatore i suoi stessi connazionali non comprendono come il legame religioso sia fondamentale: “Senza la fede ebraica non esisterebbe la fede cristiana.” -“Lo dico sempre ai miei amici ebrei: voi potete essere ebrei, non avere niente a che fare con me, non avete bisogno di me. Ma io non posso essere cristiano senza l’interezza di tutta questa storia di Dio nel mondo, che porta fino a ciò in cui credo come cristiano.”

E come relazione politica prosegue dicendo: “Mi piace dire alla gente che gli Stati Uniti hanno amici, hanno alleati, ma hanno un solo partner: Israele è davvero il loro unico vero partner; con questo intendo dire che il livello di cooperazione e affinità che abbiamo l’uno con l’altro somiglia molto più a un matrimonio che a una semplice amicizia fraterna.”

“E lo dico perché il livello di condivisione di informazioni di intelligence, l’hardware militare che costruiamo insieme, la tecnologia medica, la trasformazione economica che è avvenuta da entrambe le parti…”

“Il modo straordinario in cui siamo legati è tale da non assomigliare a nessun altro rapporto che abbiamo con qualunque altro Paese al mondo.” 

Quindi l’alleanza con Israele resta il pilastro non negoziabile di questa architettura, alimentata tanto da una strategia geopolitica quanto da un’eredità religiosa profonda, che fonda la fede cristiana su quella ebraica. Chi ignora questa dimensione, fatica a capire perché certi rapporti resistano a tutto — perfino alla realtà dei numeri o alle urgenze economiche gravi.

La democrazia rappresentativa vacilla, a iniziare proprio dal paese che per primo al mondo ha costruito una Costituzione moderna e repubblicana, pensata per garantire equilibrio tra poteri, libertà individuali e rappresentanza popolare: gli Stati Uniti d’America.

Oggi però questo modello appare logorato. Il sistema bipartitico ha smesso di rappresentare la pluralità reale della società, trasformandosi in una macchina autoreferenziale che esclude voci nuove e non applica i tentativi di riforma promessi perchè il mostro burocratico è più forte, o forse è più importante la guida del cambiamento.

Le candidature indipendenti, che un tempo erano espressione di protesta o visione alternativa, oggi vengono cooptate, screditate o svuotate di senso. Il nuovo candidato per il posto di sindaco di New York, Zohran Mamdani ne è un esempio recentissimo. Percepito come incongruente perché rompe le categorie tradizionali viene criticato dalla destra trumpiana come comunista lunatico, mentre per altri è una risorsa: incarnazione di una nuova politica identitaria e inclusiva. Ne nasce una tensione esplosiva dalla fusione tra dogmatismi religiosi e ideologia socialista radicata in un momento storico dove gli equilibri sono delicatissimi.

Il voto, oggi, viene ridotto a una scelta binaria tra due élite che ha perso parte del suo potere trasformativo. E mentre l’America si confronta con crescenti diseguaglianze, povertà strutturale, tensioni etniche e guerre a bassa intensità diplomatica, la promessa originaria della democrazia rischia di diventare una liturgia vuota.

Eppure, proprio nei margini — nelle voci non allineate, nei gesti simbolici, nei contrasti tra religione e politica — si intravede la possibilità di un risveglio. Non sarà forse più il tempo delle grandi costituzioni, ma quello delle coscienze informate.

Come ci ricorda Tucker Carlson nella sua discussa intervista: “Se il vostro paese fa qualcosa con i vostri soldi e in vostro nome, avete il diritto assoluto di sapere il più possibile su ciò che accade.”

E forse oggi, la vera democrazia, comincia proprio da lì.


Da Kiev al Medioriente: il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24 TIMELINE.

di Claudio Bertolotti.

Da Kiev al Medioriente: il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24 TIMELINE (puntata del 4 luglio 2025).

Dopo la telefonata Trump-Putin
A conversazione conclusa, il presidente statunitense Donal J. Trump ha ammesso di non aver ottenuto “alcun passo avanti” verso il cessate-il-fuoco, lasciando trapelare delusione e irritazione. Pochi minuti dopo, dal Cremlino filtrava la ferma linea di Mosca: “gli obiettivi militari resteranno immutati” e i negoziati dovranno svolgersi «solo fra Mosca e Kyiv, senza mediatori».

L’ondata di missili e droni
Le parole hanno trovato immediata conferma nei fatti: fra la notte del 3 e l’alba del 4 luglio la Russia ha scatenato la più massiccia offensiva aerea dall’inizio della guerra — circa 550 vettori tra droni Shahed e missili balistici, diretti soprattutto su Kyiv ma anche su diverse città dell’ovest ucraino — un segnale assai eloquente di continuità bellica reuters.com.

La chiave di lettura
Putin sta usando la pressione militare come leva negoziale: più alza la soglia del dolore ucraino, più indebolisco la loro resilienza politica e la loro fiducia nelle difese occidentali». Quando lancia centinaia di droni e missili, il presidente russo Vladimir Putin sa che la contraerea ucraina non potrà intercettarli tutti. È una dimostrazione pratica del vantaggio tattico e operativo mantenuto da Mosca in questo conflitto e degli effetti in termini di vulnerabilità psicologica ucraina.

Non si tratta soltanto di terrorizzare i civili; la campagna aerea serve a preparare l’offensiva estiva: «la Russia chiama i coscritti due volte l’anno, in aprile e novembre; dopo due mesi d’addestramento sono pronti. Siamo esattamente all’apice di quel ciclo: da un momento all’altro Mosca potrebbe puntare su Odessa per chiudere l’accesso ucraino al Mar Nero

L’arma-tempo e il nodo degli aiuti USA
Il fattore decisivo è la pazienza strategica di Mosca: «Più il tempo passa, più Kiev dipende dagli arsenali occidentali, mentre la Russia rigenera continuamente le proprie riserve umane». In questo quadro, la decisione di Washington di sospendere parte delle forniture — in particolare i Patriot e le munizioni guidate — pesa in modo sproporzionato: «Kyiv non può permettersi buchi di poche settimane, figuriamoci di mesi».

Trump nega che si tratti di un vero “congelamento” e insiste sulla necessità di salvaguardare le scorte interne, ma il messaggio politico che arriva in Ucraina (e in Russia) è chiaro: la protezione USA non è più illimitata. Ma, a ben guardare i precedenti, è più probabile che tale scelta sia una concessione indiretta a Putin, con la clausola non scritta di riprendere la fornitura di equipaggiamenti militari all’Ucraina nel momento in cui Putin non dovesse aprire a una qualunque ipotesi negoziale.

Che cosa vedo all’orizzonte

  • Un’escalation “controllata”: Mosca continuerà a colpire infrastrutture civili e militari per logorare la rete di difesa aerea e mostrare l’impotenza di Kyiv.
  • Pressione su Odessa: il rafforzamento russo a sud fa pensare a un tentativo di sigillare definitivamente la costa ucraina.
  • Diplomazia in stallo: finché nell’arco atlantico non si chiarirà l’entità reale dello stop agli aiuti, qualunque negoziato resterà intrappolato in un gioco di specchi.
  • Fragilità europea: l’UE dipende dalla linea di Washington; senza un piano alternativo, rischia di trovarsi spettatrice di un accordo imposto dal terreno di battaglia.

Per concludere
La sequenza telefonata-bombardamenti mostra come Putin utilizzi sistematicamente l’azione militare per dettare i tempi politici, contando sul logoramento del sostegno occidentale. Se Washington non riattiverà in fretta la filiera degli armamenti — o se Mosca non incapperà in un errore strategico — le prossime settimane potrebbero segnare un ulteriore peggioramento per l’Ucraina, con un tavolo negoziale sempre più sbilanciato a favore del Cremlino.


Profilo di rischio degli autori di violenza politica negli Stati Uniti vs l’Unione Europea (UE 27) nel 2024 – primo trimestre 2025

di Andrea Molle negli Stati Uniti

Recenti analisi prodotte da agenzie per la sicurezza e istituti di ricerca rivelano una crescente convergenza nei profili demografici e geografici degli individui coinvolti in atti di violenza politica nelle democrazie occidentali. Sebbene le ideologie specifiche varino — temi razzisti ed etnici e le teorie complottiste anti-governative sono più diffuse negli Stati Uniti, mentre in Europa prevalgono i movimenti jihadisti e separatisti — il profilo tipico appare sorprendentemente simile su entrambe le sponde dell’Atlantico. Si tratta, in genere, di un uomo di giovane età, spesso compresa tra la tarda adolescenza e i vent’anni, che si radicalizza online e viene spinto ad agire in contesti dove la visibilità mediatica è elevata o dove i risentimenti locali offrono terreno fertile per la mobilitazione.

La tabella che segue presenta le statistiche più aggiornate fornite dall’FBI, dal Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS), dal rapporto TE-SAT 2025 di Europol, dal database START-PIRUS e da analisi spaziali fondate sul monitoraggio degli eventi ACLED (Armed Conflict Location  and Event Data). Insieme, queste fonti offrono un quadro dettagliato dell’attuale panorama delle minacce.

Variabili Stati Uniti Unione Europea
genere ≈ 85 % uomini (PIRUS, 1970–2021) ≈ 91 % uomini (TE‑SAT 2025 juveniles)
Età ≈ 68 % fra 18‑34 (PIRUS) > 60 % sotto i 35;29 % minori (TE‑SAT 2025)
Razza/etnia REMVE suprematisti bianchi = 52 % nell’FBI DVE disruptions FY 2024 Etno‑nazionalisti/separatisti =38 % degli attacchi nel 2024
Religione < 7 % ispirazione jihadista negli USA (HTA 2025); crescita della frangia
Christian‑identity
Ideologia jihadista in 24 dei 58 attacchi; estremismo politico “post-religioso” (TE‑SAT)
Affiliazione politica Anti‑gov./sovereign + partisan = 49 % degli episodi dal 2016 (CSIS) Micro – cellule accelerazioni-ste e neo‑Nazi in aumento (TE‑SAT)
Città / Campagna 72 % degli episodi in aree urbane   > 250 k; picco secondario nelle contee a bassa densità di milizie (arXiv 2025) Grandi capitali e periferie separatiste (Corsica, Paesi Baschi)

Tabella 1: Indicatori Comparativi del Rischio

la fascia più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni

Una chiara disparità di genere caratterizza gli individui coinvolti in atti di violenza politica sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Negli Stati Uniti, i dati del database START-PIRUS, relativi al periodo 1990–2021, mostrano che circa l’85% degli autori è di sesso maschile. La tendenza è ancora più marcata in Europa, dove il rapporto TE-SAT 2025 di Europol indica che il 91% dei sospetti arrestati per terrorismo giovanile nel 2024 era di sesso maschile. Questa netta predominanza rappresenta una delle caratteristiche costanti, trasversale a tutti gli orientamenti ideologici.

Anche l’età rappresenta un predittore significativo. In entrambe le regioni, la fascia più comune per processi di radicalizzazione e mobilitazione è quella compresa tra la tarda adolescenza e i primi trent’anni. Negli Stati Uniti, quasi il 70% degli autori rientra nella fascia tra i 18 e i 34 anni. Allo stesso modo, Europol riporta che il 29% di tutti gli arresti legati al terrorismo nell’UE nel 2024 ha riguardato minorenni o giovani adulti tra i 12 e i 20 anni. Questi dati evidenziano la crescente vulnerabilità delle fasce giovanili, in particolare all’interno degli ambienti digitali e dei social media.

Anche l’identità razziale ed etnica ha un ruolo rilevante nella definizione dei profili degli autori. Negli Stati Uniti, l’FBI ha classificato il 52% degli interventi contro estremisti violenti interni (DVE) nell’anno fiscale 2024 come motivati da ragioni razziali o etniche, con la maggioranza dei casi collegati a ideologie suprematiste bianche. Nell’Unione Europea, il quadro risulta più variegato: il 41% degli attacchi compiuti nel 2024 è stato attribuito ad attori jihadisti, mentre il 38% è stato condotto da gruppi etno-nazionalisti o separatisti, in particolare in aree interessate da conflitti legati all’autonomia regionale.

in Europa, il segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato da microcellule accelerazioniste e neo-naziste

L’ideologia religiosa, pur non essendo più dominante negli Stati Uniti, continua a rappresentare un fattore determinante negli attacchi in Europa. Negli USA, gli attentati ispirati al jihad costituiscono oggi meno del 7% dei casi di estremismo violento interno (DVE), segnalando un più ampio spostamento verso motivazioni secolari o ibride. Al contrario, in Europa queste motivazioni sono state responsabili del 41% di tutti gli attacchi terroristici mortali nel 2024, rendendo la religione un fattore molto più rilevante nel contesto europeo.

Infine, l’affiliazione politica è emersa come un elemento determinante dell’estremismo violento più recente. Negli Stati Uniti, i dati del Center for Strategic and International Studies (CSIS) indicano che il 49% degli episodi dal 2016 ha coinvolto attori anti-governativi, appartenenti al movimento dei “cittadini sovrani” o legati a polarizzazioni partitiche estreme. In Europa, il segmento in più rapida crescita tra gli arresti per terrorismo è rappresentato da microcellule accelerazioniste e neo-naziste: gruppi piccoli, decentralizzati, spesso attivi a livello transnazionale e coordinati tramite piattaforme di comunicazione criptata.

Negli Stati Uniti, i cluster geografici di violenza politica non sono distribuiti uniformemente. Un’analisi spaziale basata sui dati degli eventi registrati da ACLED rivela che California, Texas, Florida e Georgia guidano la classifica nazionale per numero totale di episodi. Tuttavia, se si considera la popolazione, il primato in termini pro capite spetta al Pacifico nord-occidentale, in particolare agli stati dell’Oregon e di Washington. Al di fuori delle grandi aree metropolitane, emerge un secondo cluster che merita attenzione nelle contee rurali con reti militanti attive, tra cui alcune aree del nord dell’Idaho e dell’est dell’Oregon. Queste regioni, sebbene meno popolate, ospitano comunità con un forte sentimento anti-governativo e con infrastrutture logistiche in grado di sostenere attività estremiste.

Anche l’Unione Europea presenta un andamento altrettanto disomogeneo. L’Italia ha registrato il maggior numero di attacchi terroristici nel 2024, con 20 episodi, seguita dalla Francia con 14. Spagna e Francia guidano la classifica per numero totale di arresti legati alla violenza politica. Nel frattempo, atti di violenza separatista a bassa intensità ma persistenti continuano a verificarsi in aree come la Corsica e i Paesi Baschi, dove rivendicazioni storiche e identità regionali alimentano conflitti localizzati. Queste zone restano focolai di attività etno-nazionalista, nonostante l’attenzione più ampia si stia spostando verso minacce di natura transnazionale.

Un recente quadro statistico basato sui dati di Europol e START InSight curato da Claudio Bertolotti nel Rapporto annuale ReaCT2024 sul terrorismo e la radicalizzazione in Europa, conferma la persistenza della minaccia terroristica in Europa. Nel 2023 sono stati compiuti 43 attacchi e ne sono stati sventati altri 33, con oltre 600 arresti effettuati nei vari stati membri dell’UE. Francia e Austria guidano la classifica per numero di arresti, segnalando sia un’elevata intensità operativa sia una chiara priorità attribuita all’attività di intelligence. I dati evidenziano inoltre la sfida costante rappresentata dai gruppi etno-nazionalisti e separatisti — in particolare in Francia e Spagna — accanto a residui di minacce jihadiste. L’analisi di Bertolotti rafforza l’idea che i processi di radicalizzazione siano sempre più spinti da fattori ibridi, in cui si intrecciano ideologia, fragilità personali e vulnerabilità psicologiche, soprattutto tra i giovani disillusi.

Sebbene gli indicatori demografici e geografici aiutino a individuare chi sono gli autori e dove operano, comprendere come avviene il processo di radicalizzazione offre una prospettiva più profonda sulla traiettoria della minaccia.

gli spazi digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la mobilitazione

Indipendentemente dall’ideologia di riferimento, la maggior parte degli individui coinvolti in atti di violenza politica tende a seguire un percorso di radicalizzazione simile. In genere, tutto ha inizio con una crisi personale — come disagio emotivo, isolamento sociale o difficoltà economiche — che si sovrappone a narrative più ampie basate su teorie del complotto o rivendicazioni identitarie. Questi racconti offrono una chiave di lettura distorta attraverso cui l’individuo rielabora la propria condizione, attribuendo la colpa a istituzioni, governi o gruppi specifici. Con il tempo, il bisogno di significato o appartenenza lo spinge verso comunità online dove tali visioni vengono rafforzate. Sia l’FBI che Europol hanno segnalato i social media, le piattaforme di gaming e le app di messaggistica criptata come acceleratori cruciali in questo processo, in particolare tra gli utenti più giovani. Questi spazi digitali forniscono non solo contenuti ideologici, ma anche validazione tra pari, diventando così un terreno fertile per il reclutamento e la mobilitazione.

La probabilità che un individuo compia atti di violenza politica varia in base a una combinazione di fattori demografici, geografici e comportamentali. Il profilo a più alto rischio è quello di un uomo tra i 18 e i 34 anni, residente in un’area urbana politicamente polarizzata o in una regione con movimenti separatisti attivi. Questo individuo è generalmente molto immerso in contenuti estremisti online, spesso attraverso forum, social network o applicazioni di messaggistica criptata.

Un livello di rischio moderato è associato agli individui che vivono in contee rurali degli Stati Uniti dove è documentata l’attività di milizie. Questo gruppo comprende spesso persone con precedenti per violenza domestica o altri episodi di aggressione minore, suggerendo che un passato di aggressività interpersonale possa fungere da precursore alla violenza politica quando si intreccia con influenze ideologiche radicali.

All’estremo inferiore dello spettro di rischio si trovano gli adulti più anziani — in particolare le donne oltre i 45 anni — che non presentano alcuna traccia rilevante di attività online in ambienti estremisti. Questo segmento demografico risulta ampiamente sottorappresentato in tutti i dataset noti relativi alla violenza di matrice politica.

Per ridurre efficacemente la minaccia della violenza politica, le strategie di prevenzione devono concentrarsi sui gruppi più vulnerabili e sugli ambienti ad alto rischio. Una delle priorità più urgenti è l’intervento precoce rivolto ai giovani maschi tra i 13 e i 24 anni, che costituiscono il segmento in più rapida crescita tra coloro che si radicalizzano online. Programmi di sensibilizzazione e coinvolgimento attivo, mirati a intercettare questi individui prima che si integrino stabilmente in reti estremiste, possono ridurre in modo significativo il rischio a lungo termine.

Invece di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico, jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a schemi comportamentali comuni che attraversano trasversalmente tutte le ideologie

Allo stesso tempo, i centri di coordinamento federali e locali (fusion centers) dovrebbero allineare l’impiego delle risorse ai cluster geografici individuati dai dati ACLED e dai modelli spaziali elaborati da diversi analisti. Ciò implica concentrare gli sforzi non solo nei grandi centri urbani, ma anche in quelle contee specifiche dove è stata documentata un’attività estremista, passata o presente.

È fondamentale che i programmi di prevenzione superino le rigide classificazioni ideologiche. Invece di concentrarsi esclusivamente su minacce legate all’estremismo politico, jihadista o separatista, gli interventi dovrebbero essere progettati intorno a schemi comportamentali comuni — come crisi personali, isolamento sociale e radicalizzazione online — che attraversano trasversalmente tutte le ideologie.

Infine, è necessario prestare particolare attenzione ai cicli elettorali. Sia il Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) che il Center for Strategic and International Studies (CSIS) hanno documentato picchi ricorrenti di violenza politica e attività minacciose in corrispondenza delle principali elezioni. Una pianificazione preventiva e l’adozione di misure di sicurezza mirate durante questi periodi sono essenziali per mitigare il rischio di esplosioni di violenza.

Rischio Stimato per la Popolazione e Strategie di Mitigazione

Sebbene il panorama della violenza politica sia in continua evoluzione e sempre più visibile, il rischio effettivo di subire danni fisici per un cittadino medio rimane statisticamente molto basso, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Secondo i dati aggregati di FBI, DHS ed Europol, la probabilità annua che un civile venga ucciso in un attacco a motivazione politica è inferiore a 1 su 10 milioni nella maggior parte dei paesi occidentali. Per fare un paragone, si tratta di probabilità simili a quelle di essere colpiti da un fulmine o vittima di una fuga di gas domestico.

l’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa contribuisce ad alimentare nel tempo

Tuttavia, queste medie nascondono importanti sfumature. La percezione della minaccia risulta infatti molto più elevata in determinati contesti ad alta visibilità — come edifici governativi, manifestazioni politiche o istituzioni religiose — dove la probabilità di un attacco è effettivamente maggiore, specialmente durante fasi di forte tensione politica o in seguito a eventi polarizzanti. In tali ambienti, il rischio per alcune categorie di persone (funzionari pubblici, giornalisti, attivisti, membri di minoranze religiose o etniche) risulta sensibilmente più alto rispetto alla media della popolazione.

Negli ultimi cinque anni, negli Stati Uniti si è registrata una media annuale di 25–35 episodi documentati di violenza politica interna con esiti fisici gravi o intenti letali. Nell’Unione Europea, sebbene il numero di attacchi portati a termine sia inferiore, il volume di arresti e complotti sventati — oltre 400 solo nel 2024 — segnala un livello elevato di intenzionalità e di capacità di mobilitazione.

Il vero rischio, dunque, non risiede tanto negli eventi a elevato numero di vittime, quanto nell’erosione cumulativa della fiducia pubblica, della stabilità democratica e delle norme civiche. L’impatto più pervasivo della violenza politica si manifesta nel clima di paura, sfiducia istituzionale e polarizzazione sociale che essa contribuisce ad alimentare nel tempo.

Tre dinamiche interconnesse aumentano l’esposizione al rischio per specifici gruppi:

Prossimità a istituzioni simboliche o politiche (es. sedi parlamentari, sinagoghe, ambasciate)
Visibilità demografica (es. minoranze religiose o razziali frequentemente bersaglio)
Partecipazione ad attività civiche ad alta esposizione (es. attivisti, funzionari eletti, giornalisti)

Per mitigare tali rischi, è necessario adottare un approccio preventivo multilivello, che coinvolga tanto le autorità quanto le comunità locali. Le strategie chiave includono:

  • Valutazione comportamentale delle minacce (Behavioral Threat Assessment): Formazione di personale in prima linea — insegnanti, assistenti sociali, responsabili delle risorse umane — per riconoscere i segnali precoci di radicalizzazione e intervenire prima che si concretizzi la mobilitazione.
  • Alfabetizzazione digitale e contrasto alla radicalizzazione: Promozione di competenze di verifica dei fatti, resilienza online e meccanismi di segnalazione tra le fasce giovanili, in particolare tra i maschi di età compresa tra i 13 e i 24 anni.
  • Partenariati di comunità: Investire in attori locali affidabili, come leader religiosi e organizzazioni di quartiere, per costruire relazioni, ridurre l’isolamento sociale e rafforzare il capitale sociale.
  • Pianificazione di sicurezza per i cicli elettorali: Schierare risorse di sicurezza mirate e strumenti di contrasto alla disinformazione durante le elezioni, ormai sistematicamente associate a picchi di minacce.
  • Centri di ricerca basati su dati quantitativi: Rafforzare la capacità dei centri di intelligence regionali di condividere in tempo reale analisi geospaziali e comportamentali tra forze dell’ordine e istituzioni civiche.

In definitiva, sebbene sia improbabile che la violenza politica colpisca direttamente il cittadino medio, i suoi effetti a catena possono compromettere profondamente la vita democratica se non vengono affrontati in modo adeguato. Per questo, l’attenzione non deve concentrarsi unicamente sulla sicurezza, ma anche sulla ricostruzione della fiducia nelle istituzioni e sul rafforzamento della resilienza sociale.

Fonti

[1] Europol. *European Union Terrorism Situation & Trend Report (TE‑SAT 2025)*. Luxembourg: Publications Office of the EU, 2025.

[2] DHS Office of Intelligence & Analysis. *Homeland Threat Assessment 2025*. Washington DC, 2024.

[3] University of Maryland START. *Profiles of Individual Radicalization in the United States (PIRUS) Research Brief*, March 2023 update.

[4] Claudio Bertolotti, ed., #ReaCT2023 – Report on Radicalization and Terrorism (Rome: START InSight, 2023), https://www.startinsight.eu/react2023-report-on-radicalization-and-terrorism/

[5] Riley McCabe. “The Rising Threat of Anti‑Government Domestic Terrorism: What the Data Tells Us.” CSIS Brief, October 21 2024.

[6] Ravi Varma Pakalapati & Gary E. Davis. “Spatial and Temporal Analysis of Political Violence in the United States.” arXiv preprint 2503.14399, March 2025.


NATO – Cosa implica quel 5% di spesa per l’Italia

di Andrea Molle dagli Stati Uniti

L’adozione, al vertice dell’Aia del 24-25 giugno, del nuovo obiettivo NATO di spesa al 5% del PIL non è un mero aggiornamento contabile: segna una svolta strategica che ridefinisce il concetto stesso di difesa. La formula 3,5% + 1,5% — tre punti e mezzo per “hard defence” in senso classico e un punto e mezzo per investimenti dual-use a sostegno della resilienza nazionale — cristallizza la lezione della guerra in Ucraina: senza vie di comunicazione rinforzate, scorte energetiche sicure e cyberspazio protetto, i carri armati non arrivano al fronte e i droni non decollano.

Per l’Italia la sfida è doppia. Da un lato, il governo Meloni si è impegnato a onorare il nuovo target pur mantenendo un sentiero di rientro del deficit; dall’altro, parte da un livello “puro” di circa 1,57%, ben al di sotto del 3,5% richiesto per la componente militare tradizionale. Tradotto in cifre, significa trovare nell’arco di dieci anni fra i 32 e i 42 miliardi di euro aggiuntivi l’anno solo per armamenti, addestramento e readiness operativa, a cui si sommano gli investimenti per infrastrutture e cyber-resilienza. Tuttavia, la stessa Alleanza ha chiarito che l’obiettivo del 5% è da raggiungere in modo progressivo: 3,5% per la difesa militare e 1,5% per la sicurezza civile, entrambi spalmati su un orizzonte decennale. L’aumento effettivo richiesto è quindi contenuto, pari a un massimo dello 0,3% del PIL all’anno. Si tratta di un impegno oneroso, ma non insostenibile.

Il Ministero della Difesa non potrà più diluire gli incrementi fra le tre Forze Armate come in passato. Per l’Esercito, relegato per anni al terzo posto dietro Marina e Aeronautica, l’occasione è irripetibile: colmare il ritardo su mezzi corazzati, artiglieria a lunga gittata, munizioni di precisione e capacità contro-UAS, garantire poligoni moderni e manutenzione, dotarsi di sensoristica strategica oggi appannaggio quasi esclusivo degli Stati Uniti. Senza questa svolta, gli impegni sul fianco Est resteranno nominali.

La quota dell’1,5% apre invece un terreno di politica industriale. Porti come Gioia Tauro, i corridoi ferroviari TEN-T e la dorsale 5G/quantum italiana possono essere co-finanziati dall’UE sotto l’ombrello “Military Mobility”, veicolando investimenti che valgono sia per la Difesa sia per la competitività logistica nazionale. Qui l’Esercito può diventare attore-ponte con Protezione Civile e infrastrutture critiche, ridefinendo il proprio ruolo di “forza-territorio” nel disegno di una difesa totale.

L’orizzonte 2035 offre una gradualità che attenua lo shock sul bilancio, ma non deve illudere: il procurement terrestre richiede cicli decennali. I contratti per Ariete, Dardo, PzH 2000 e SAMP/T NG vanno firmati ora se si vuole evitare un nuovo decennio di eterne mezze soluzioni. È un banco di prova anche politico: se Roma non riuscirà a trasformare il 5% in occasione di modernizzazione industriale e deterrenza credibile, il nuovo criterio rischierà di ridursi a un ulteriore indicatore-tabù come il vecchio 2%.

La posta in gioco, insomma, non è solo soddisfare Washington né evitare future minacce di dazi; è dimostrare ai partner che un’Italia con 5 milioni di riservisti virtuali, ma senza munizioni né strade percorribili da un Leopard, è un anello debole. Se la Penisola saprà invece coniugare ambizione europea, realismo contabile e impulso al proprio esercito, il 5% potrà diventare il volano di una sicurezza finalmente integrata fra caserme, fabbriche e ponti.

Questo nuovo paradigma impone anche una riscrittura del rapporto tra Forze Armate e società civile, dopo decenni di separazione culturale e funzionale. L’investimento nella resilienza nazionale, nella protezione delle infrastrutture critiche e nella risposta alle minacce ibride restituisce ai militari un ruolo visibile, concreto, integrato nel tessuto del Paese. Non più solo professionisti di missioni all’estero, ma attori centrali della sicurezza collettiva, custodi del territorio e partner della cittadinanza. È un’occasione storica per ricucire quel legame, fondandolo non sulla retorica ma sull’utilità strategica e sulla trasparenza democratica.