L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa conferma gli sforzi del Kazakhstan in favore dei diritti umani
di Francesco Lombardi.
Con
la Dichiarazione n. 806 dell’aprile scorso, dal titolo “Integrazione della
dimensione di genere nella regione dell’Asia centrale”, l’Assemblea Parlamentare
del Consiglio d’Europa è intervenuta sul problema delle tante donne cui sono
negati i più elementari diritti umani, quando non addirittura costrette a
vivere in condizioni di sudditanza, talvolta ai limiti della schiavitù. La Dichiarazione
si inserisce nella “Strategia
per l’uguaglianza di genere per il periodo 2024-2029” adottata dal Consiglio d’Europa lo sorso anno. Infatti,
in linea con gli impegni precedenti, questa Strategia guida i lavori dell’Organizzazione
internazionale verso una maggiore uguaglianza di genere, con un orizzonte di
sei anni. Si tratta di una Strategia volta ad affrontare sfide attuali ed
emergenti, che si snoda attorno a sei obiettivi, con lo scopo di garantire l’emancipazione
femminile e la parità di genere nel contesto delle attuali sfide geopolitiche.
Ed è in questo quadro che la Dichiarazione 806 pone il focus
su un drammatico problema che, purtroppo, pur nella sua tragicità, non trova
sui nostri media tutti gli spazi che meriterebbe: la spaventosa situazione che
stanno vivendo le donne afghane dopo il ritorno al potere dei Talebani. Le
misure progressivamente sempre più oppressive per le donne, introdotte dai
Talebani, sono diventate il simbolo non solo
della crisi interna del paese, ma anche della fragilità dei risultati ottenuti
in materia di diritti umani. La Dichiarazione prende atto del
fatto che, già nel 2019, l’Unione Europea e il Programma delle Nazioni Unite
per lo Sviluppo (UNDP, organizzazione internazionale sussidiaria dell’Organizzazione
delle Nazioni Unite nata il 1 gennaio 1966)
lanciarono un’iniziativa per offrire
opportunità di istruzione alle donne afghane in Kazakhstan, Uzbekistan e Kirghizistan. Entro il 2027, si prevede, infatti, che
oltre 100 donne afghane conseguiranno titoli accademici e professionali presso
università dell’Asia centrale. Altresì, va rimarcato che, di recente, con una Risoluzione
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si è costituito il “Centro
Regionale delle Nazioni Unite per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per l’Asia
centrale e l’Afghanistan” ad Almaty (Kazakhstan); ente destinato ad attuare progetti e programmi regionali volti
ad assistere i paesi della regione nel raggiungimento di uno sviluppo sostenibile
nelle tre dimensioni, economica, sociale e ambientale, in stretto coordinamento
con altre realtà delle Nazioni Unite coinvolte. Si tratta di un progetto del
Presidente del Kazakhstan Kassym-Jomart Tokayev presentato durante la 74a
sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 2019. I membri
firmatari della Dichiarazione 806 (che ha ricevuto il sostegno unanime di tutti
e cinque i gruppi politici dell’Assemblea) invitano ora gli stati membri del
Consiglio d’Europa a sostenere con forza e cooperare con il neonato polo
regionale delle Nazioni Unite di Almaty
come piattaforma chiave per coordinare gli sforzi internazionali nella regione
e aiutare i paesi dell’Asia centrale nei loro sforzi per assistere le donne
afghane.
Il Consiglio d’Europa è
un’organizzazione internazionale, fondata nel 1949, con sede a Strasburgo, che
raggruppa 46 Stati membri, quasi tutti i paesi europei ed alcuni esterni al
continente. La sua missione principale è quella di promuovere la
democrazia, i diritti umani e lo stato di diritto in Europa. In tale ambito, l’Assemblea Parlamentare rappresenta
le forze politiche dei Parlamenti degli stati
membri e promuove l’estensione della cooperazione europea a tutti gli stati
democratici d’Europa. E’ composta da 306 parlamentari (e altrettanti supplenti)
che formano le delegazioni dei paesi membri. Il numero dei
rappresentanti dei diversi paesi è legato alla consistenza della popolazione e
varia da un minimo di due ad un massimo di diciotto. L’Italia vi è rappresentata da 18 membri
effettivi e 18 supplenti.
La
creazione del Centro Regionale delle Nazioni Unite per gli Obiettivi di
Sviluppo Sostenibile (SDG) ad Almaty rappresenta un riconoscimento del ruolo che
sta assumendo il Kazakhstan in Asia centrale. Un Paese caratterizzato da sempre
maggiore stabilità, che si è scrollata di dosso velocemente la scomoda eredità
sovietica, realizzando ora riforme giuridiche, economiche e sociali intese a
portare la società kazaka verso standard sempre più vicini ai modelli liberali
ed occidentali. Un ruolo enfatizzato dalla stessa Assemblea
Parlamentare del Consiglio d’Europa
che (con una ulteriore Dichiarazione, la 809) ha riconosciuto ed apprezzato gli
sforzi del Kazakhstan nella sua politica di tolleranza zero nei confronti della
violenza contro donne e bambini, dei maltrattamenti e della corruzione. Inoltre,
viene riconosciuto il modello di successo con cui il Kazakhstan promuove l’armonia interetnica e l’unità nazionale. In un
mondo dove le differenze religiose, culturali ed etniche sono motivo di crisi
anche molto violente, il modello di tolleranza del Kazakhstan, in presenza di circa 130 differenti etnie, rappresenta un
esempio di successo per il mantenimento dell’unità nazionale e l’equilibrio
sociale. Pare dunque non troppo lontano il giorno in cui il Kazakhstan diverrà uno dei membri non europei del Consiglio d’Europa,
al pari di altri che già ne fanno parte.
La
nuova responsabilità assunta con le Nazioni Unite per il coordinamento degli
sforzi umanitari nella regione, infatti, garantendo il sostegno
infrastrutturale e politico al nuovo Centro, conferma l’impegno della giovane
repubblica a ritagliarsi un ruolo non secondario nell’agone internazionale, su
temi sempre all’ordine del giorno e mai facili da maneggiare. Un impegno sempre
più evidente e riconosciuto, come peraltro anche dimostrato dal fatto che esso
è da un po’ di tempo meta di continue visite di leader politici e di
imprenditori stranieri interessati ad avviare od implementare partneship di
varia natura, non solo in campo energetico.
Da Kiev e Mosca, passando per Istanbul e Teheran e guardando a Gerusalemme.
di Claudio Bertolotti.
Dall’intervista a Irene Cosul Cuffaro, per il quotidiano La Verità del 19 maggio 2025.
Il commento per Officina Geopolitica di START InSight
Si è conclusa la prima sessione dei negoziati tra Russia e Ucraina a Istanbul: colloqui che si sono limitati allo scambio di prigionieri. Un flop, o attorno a questo summit c’erano aspettative troppo alte?
Quelli di Istanbul sono i primi formali tra
delegazioni russe e ucraine dal 2022, e se non possono essere letti come un
fallimento non possono altrettanto essere considerati un progresso sostanziale.
L’unico risultato concreto – lo scambio di 1.000 prigionieri per parte – è un
segnale limitato ma significativo. Non tanto per il contenuto, quanto per il
fatto che certifica l’apertura di un canale diplomatico tra Kiev e Mosca. E, in
un contesto di guerra convenzionale prolungata e simmetrica, ciò rappresenta
già un dato politico rilevante.
Le aspettative attorno al summit erano
indubbiamente elevate, e forse mal calibrate. È utile ricordare che nei
conflitti armati i leader non si incontrano per definire un accordo, ma per
formalizzare intese già costruite a monte, nelle sedi tecniche. La mancata
partecipazione di Putin e Zelensky ha confermato la natura interlocutoria
dell’incontro: un primo contatto operativo, non ancora un terreno di mediazione
strategica.
Dal punto di vista russo, l’iniziativa risponde a
una logica di lungo periodo: Mosca è consapevole di poter mantenere un
vantaggio sia sul piano militare – consolidando le linee di contatto – sia su
quello diplomatico, sfruttando la fatica dell’Occidente e la crescente
ambivalenza di alcune cancellerie europee. In questo scenario, la disponibilità
al dialogo si traduce in uno strumento di pressione, utile a presentare
l’immagine di un attore razionale e disposto al compromesso, senza in realtà
cedere nulla sul terreno.
In sintesi, lo scambio di prigionieri è un passo
modesto, ma simbolicamente importante. È la conferma che un canale diretto
esiste, e che il confronto non è solo militare ma anche – e sempre più –
politico. Nulla di risolutivo, certo. Ma in una guerra di logoramento, anche le
aperture minime vanno lette come indicatori di una possibile, futura
transizione negoziale.
Evocare
ulteriori sanzioni contro Mosca a tavoli aperti, come fatto da Ursula von der
Leyen e Donald Trump, non è una mossa controproducente?
Evocare l’ipotesi di nuove sanzioni contro Mosca
nel pieno di un tentativo di apertura negoziale – come hanno fatto Ursula von
der Leyen e Donald Trump – rappresenta una mossa che rischia di rivelarsi, nel
migliore dei casi, sterile. Nel peggiore, profondamente controproducente. È
ormai un dato consolidato: il sistema sanzionatorio occidentale, per quanto
articolato e pervasivo, non ha prodotto gli effetti strategici attesi. La
Russia non ha subito un reale depotenziamento della propria capacità militare,
né si è ritrovata isolata sul piano internazionale.
Mosca ha saputo dimostrarsi resiliente,
ricalibrando le proprie linee di approvvigionamento e proiettandosi verso
mercati alternativi, dalla Cina all’Iran, fino a partner africani e
latinoamericani. Sul piano politico-diplomatico, la narrazione russa non solo
non si è indebolita, ma ha saputo trovare nuove sponde, mantenendo margini di
manovra significativi nei principali teatri internazionali. E anche sul fronte
militare-industriale, nonostante le restrizioni, il sistema ha retto:
adattamento, riconversione e triangolazioni commerciali hanno garantito
continuità operativa. Il danno d’immagine, pur presente, non ha intaccato in
modo decisivo la postura strategica del Cremlino.
In questo contesto, la minaccia di nuove
sanzioni, soprattutto se lanciata mentre si tenta di aprire un canale
diplomatico, rischia di generare l’effetto opposto: irrigidire le posizioni,
rafforzare la retorica interna russa dell’accerchiamento, e offrire pretesti
utili alla propaganda. Si tratta di un’iniziativa che – anche qualora non
intenzionale – riduce lo spazio negoziale. Quando si parla di diplomazia, il
tempismo è parte della strategia: e in questo caso, la dichiarazione arriva
fuori tempo massimo.
A
ottobre ci sarà un vertice russo con la Lega araba. Putin si è detto fiducioso che l’incontro contribuirà a “garantire la pace, la sicurezza e la
stabilità nelle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa”. Una contromossa
in risposta all’avvicinamento di Trump ai Paesi sunniti del Golfo?
L’annuncio del vertice
tra Russia e Lega araba previsto per ottobre, accompagnato dalle dichiarazioni
di Vladimir Putin sull’obiettivo di rafforzare “pace, sicurezza e stabilità” in
Medio Oriente e Nord Africa, va letto attraverso una lente strategica che tiene
conto del posizionamento russo nella regione e delle dinamiche competitive in
atto – su tutte, quelle con gli Stati Uniti e la Turchia.
Più che una semplice
iniziativa diplomatica, si tratta di una contromossa calibrata, in risposta al
rinnovato attivismo americano sotto la guida di Donald Trump, che ha ripreso
l’opera di ricompattamento con le monarchie sunnite del Golfo. In questo
contesto, la Russia intende riaffermare il proprio ruolo di potenza
extraregionale capace di interloquire con tutti gli attori – inclusi quelli
arabi – senza vincoli ideologici o storici, come ha già dimostrato in Siria
dove la competizione con la Turchia ha dato ragione a quest’ultima, con cui
Mosca ora deve scendere a compromessi. Con Ankara, infatti, la relazione è
ambivalente: cooperazione tattica in alcuni ambiti (come Astana), ma
competizione strategica sul controllo delle leve di influenza regionali, dalla
Libia al Caucaso, fino al Sahel.
Il vertice con la Lega
araba è dunque un’operazione a doppio livello: da un lato, consolidare
l’immagine di Mosca come attore di equilibrio in uno scenario mediorientale
frammentato; dall’altro, sottrarre spazio all’influenza turca e americana,
proponendosi come partner credibile in ambito sicurezza, energia e gestione delle
crisi. Non è un progetto nuovo, ma oggi si rafforza nella consapevolezza che
l’assenza di un chiaro ordine regionale postamericano apre margini d’azione a
chi, come la Russia, ha saputo investire in modo opportunistico ma costante.
In definitiva, più che un
vertice, quello di ottobre è un atto di posizionamento. Un segnale, indirizzato
a Washington e Ankara, che il vuoto di potere nel mondo arabo è uno spazio
ancora contendibile – e che Mosca non ha alcuna intenzione di lasciarlo agli
altri.
Erdogan
non resterà a guardare…
Il rapporto tra Erdogan e
Putin è un esempio di realismo politico applicato: una relazione ibrida, fatta
di cooperazione tattica e competizione strategica. Ankara e Mosca si trovano
spesso su fronti opposti – dalla Siria al Caucaso – ma sanno riconoscere, e
talvolta sfruttare, convergenze di breve periodo funzionali ai rispettivi
interessi.
In Siria, la Turchia ha
sostenuto l’opposizione armata, mentre la Russia ha salvaguardato la
sopravvivenza del regime di Assad. Eppure, attraverso i processi di Astana e
Soči, i due Paesi hanno costruito una coesistenza operativa: Ankara ha ottenuto
libertà d’azione contro le milizie curde nel nord della Siria, mentre Mosca ha
preservato l’integrità del proprio alleato a Damasco. Una logica di scambio,
fondata sul rispetto delle rispettive aree di influenza, ma priva di una reale
fiducia reciproca.
Sul piano energetico, il
partenariato è più strutturato: gas, nucleare e infrastrutture rafforzano
l’interdipendenza, ma non eliminano la volontà turca di affermarsi come attore
autonomo, capace di giocare su più tavoli, compreso quello occidentale. Erdogan
persegue una strategia multilivello che lo posiziona al centro delle dinamiche
regionali, senza mai vincolarsi del tutto a un solo partner.
In questo senso, il
rapporto con la Russia non è né alleanza né ostilità, ma una forma di
equilibrio instabile e adattivo, dove Ankara si muove con audace lucidità,
trasformando le ambiguità in leva politica.
Il
presidente americano ha dichiarato che Usa
e Iran si stanno avvicinando a un’intesa sul nucleare. Scenario plausibile, al di là delle
dichiarazioni?
Tra calcolo tattico e
sfiducia strategica, l’intesa nucleare USA-Iran resta possibile, ma sarà
fragile, temporanea e priva di solide basi.
Dal punto di vista strategico,
un riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran sul tema del nucleare non può essere
escluso, ma va inquadrato con attenzione. Il ritorno di Donald Trump alla Casa
Bianca costituisce un elemento chiave: è stato proprio lui, nel 2018, a
ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare (JCPOA), firmato
tre anni prima dall’amministrazione Obama. Se oggi si aprisse un nuovo
negoziato sotto la sua presidenza, difficilmente si tratterebbe di un ritorno a
quell’intesa. Più probabilmente, si punterebbe su un accordo parziale o
temporaneo, finalizzato a obiettivi tattici – come porre limiti provvisori
all’arricchimento dell’uranio o favorire scambi umanitari – piuttosto che su
un’intesa strutturata e duratura.
Poi, ci sono motivazioni
contingenti che potrebbero spingere entrambi i Paesi verso una forma di
dialogo. Da un lato, l’Iran è sempre più sotto pressione a causa della crisi
economica interna e del crescente malcontento popolare, e potrebbe considerare
un’intesa come una boccata d’ossigeno, anche solo momentanea. Dall’altro lato,
gli Stati Uniti potrebbero essere interessati a ridurre le tensioni in Medio
Oriente per concentrare risorse e attenzione sul quadrante indo-pacifico, dove
la sfida strategica con la Cina continua ad ampliarsi.
Rimangono però ostacoli concreti.
La sfiducia reciproca è ancora elevata, il programma nucleare iraniano ha fatto
notevoli progressi ed è oggi molto più vicino alla soglia militare rispetto al
passato, e l’establishment conservatore di Teheran appare poco incline a fare
concessioni che potrebbero essere percepite come un segno di debolezza interna.
Pertanto, ritengo che
l’ipotesi di una “de-escalation negoziata” non sia fuori dalla realtà, ma più
che un accordo organico e stabile, si tratterebbe verosimilmente di una
soluzione limitata, fragile e potenzialmente reversibile.
E
con che conseguenze per i rapporti tra Stati Uniti e Israele?
Ogni passo verso Teheran
rischia di allontanare Washington da Gerusalemme, riaprendo una frattura
strategica che Israele potrebbe colmare con azioni unilaterali. Perché giungo a
questa conclusione?
Perché un possibile
riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran sul nucleare rischierebbe di inasprire
le tensioni con Israele, che considera Teheran una minaccia esistenziale. Anche
un’intesa limitata verrebbe vista da Gerusalemme come una pericolosa
concessione, capace di rafforzare l’Iran e le sue milizie alleate nella
regione. Un allentamento della pressione americana potrebbe inoltre
compromettere la capacità deterrente israeliana e incrinare ulteriormente la
fiducia tra Washington e Gerusalemme. Già in passato, la relazione privilegiata
tra Trump e Israele ha mostrato crepe ogni volta che si è affacciata l’ipotesi
di un dialogo con l’Iran. Oggi, un’intesa – verosimilmente fragile e circoscritta
– avrebbe conseguenze profonde, spingendo Israele verso un approccio sempre più
autonomo, anche sul piano militare.
La diplomazia pubblica russa nella guerra cognitiva: attori, narrazioni e strumenti digitali.
Nel contesto della competizione geopolitica contemporanea, la guerra cognitiva si configura come una dimensione emergente della conflittualità ibrida, in cui l’informazione, la percezione e l’influenza culturale assumono un ruolo strategico. In questo ambito, la Federazione Russa ha sviluppato una complessa architettura di diplomazia pubblica orientata non solo alla promozione dell’immagine nazionale, ma alla produzione intenzionale di narrazioni che favoriscano i propri interessi strategici e delegittimino quelli dei competitor internazionali. Analizziamo qui i principali strumenti e attori della diplomazia pubblica russa, con particolare attenzione al ruolo svolto dal concetto di “Mondo Russo”, dagli istituti statali di proiezione culturale e dall’impiego della diplomazia digitale nel contesto pandemico. Particolare attenzione sarà dedicata al caso italiano, con riferimento all’operazione “Dalla Russia con amore”, emblematica per comprendere la sovrapposizione tra assistenza umanitaria e strumenti di guerra informativa.
1. Il “Mondo Russo” come dispositivo ideologico
Il
concetto di Russkij
Mir (Mondo Russo) rappresenta un pilastro fondamentale nella
strategia comunicativa e geopolitica della Federazione Russa. Questa ideologia
combina elementi di identità linguistica, memoria storica e solidarietà
diasporica per consolidare l’influenza di Mosca sulle comunità russofone nel
mondo. Non si tratta solo di un collante culturale, ma di un paradigma
geopolitico che giustifica l’intervento e la presenza russa nei Paesi ex
sovietici e oltre.
Origini e Sviluppo del Concetto di
Russkij Mir
Il termine Russkij Mir
ha radici storiche profonde, ma è stato rilanciato nel discorso politico russo
contemporaneo a partire dagli anni 2000. Nel 2007, il presidente Vladimir Putin
ha istituito la Fondazione Russkij Mir con l’obiettivo di promuovere la lingua
e la cultura russa all’estero. Questo concetto è stato ulteriormente sviluppato
per includere una visione del mondo in cui la Russia si presenta come
protettrice dei russofoni ovunque essi si trovino, giustificando così
interventi politici e militari in nome della difesa dei “compatrioti”.
Strumenti di Promozione del Russkij Mir
La promozione del Russkij Mir avviene attraverso
una serie di strumenti istituzionali e narrativi:
Fondazione Russkij
Mir: organizzazione che finanzia progetti culturali e
educativi per diffondere la lingua e la cultura russa.
Rossotrudničestvo: agenzia governativa che coordina la cooperazione umanitaria
internazionale e sostiene le comunità russofone all’estero.
Chiesa Ortodossa
Russa: istituzione che svolge un ruolo chiave nel
rafforzare l’identità spirituale e culturale russa, spesso in sinergia con le
politiche statali.
Media e Diplomazia
Pubblica: utilizzo di media statali e social media per
diffondere narrazioni favorevoli alla Russia e per influenzare l’opinione
pubblica internazionale.
Implicazioni Geopolitiche
Il Russkij Mir funge da
giustificazione ideologica per le politiche espansionistiche della Russia. È stato utilizzato per legittimare l’annessione della Crimea nel
2014 e il sostegno ai separatisti nelle regioni orientali dell’Ucraina. La narrativa del Russkij Mir sostiene che la Russia ha il diritto e il dovere di proteggere
i russofoni ovunque si trovino, anche attraverso l’intervento militare .
Critiche e Controversie
Il concetto di Russkij Mir
è stato oggetto di critiche sia interne che internazionali. Molti lo vedono
come una forma di neo-imperialismo che mina la sovranità degli Stati vicini.
Inoltre, l’uso della lingua e della cultura come strumenti di influenza
politica solleva preoccupazioni riguardo alla manipolazione dell’identità
culturale per fini geopolitici.
2. Gli attori istituzionali: Gorchakov Fund e Rossotrudnichestvo
Due istituzioni svolgono un ruolo cardinale nella diplomazia pubblica
russa: il “Gorchakov Fund for Public Diplomacy” e Rossotrudnichestvo.
Il Gorchakov Fund for Public Diplomacy
Istituito nel 2010 su iniziativa del Ministero degli Affari Esteri russo,
il Gorchakov Fund ha l’obiettivo di promuovere la visione geopolitica del
Cremlino nel contesto internazionale. Finanzia progetti, conferenze e programmi
accademici mirati a consolidare l’influenza russa all’estero, in particolare
nei Paesi dell’ex Unione Sovietica. Il Fondo sostiene organizzazioni non profit
russe e straniere, nonché centri di ricerca orientati alla politica estera,
attraverso l’erogazione di sovvenzioni. Inoltre, implementa programmi
scientifici ed educativi per giovani esperti, figure pubbliche e giornalisti,
come il “Dialogue for the Future” e il “Diplomatic Seminar of
Young Specialists”
Rossotrudnichestvo
Fondata nel 2008, Rossotrudnichestvo è l’agenzia federale russa incaricata
di gestire le relazioni con la diaspora e sviluppare iniziative di cooperazione
umanitaria, educazione e promozione linguistica. Opera in oltre 80 Paesi
attraverso i Centri Russi di Scienza e Cultura, promuovendo la lingua e la
cultura russa, e organizzando programmi educativi e culturali. Tra le sue
attività principali vi sono il programma “New Generation”, che offre
viaggi di studio in Russia per giovani leader stranieri, e “Hello,
Russia!”, rivolto ai giovani compatrioti all’estero. Rossotrudnichestvo
svolge un ruolo attivo nella politica estera russa, consolidando le attività
dei sostenitori pro-Russia nella regione post-sovietica e diffondendo la
narrativa del Cremlino.
Entrambe le istituzioni sono strumenti chiave della strategia di soft power
russa, mirata a rafforzare l’influenza culturale e politica di Mosca a livello
globale.
3. Diplomazia digitale, disinformazione e il caso italiano
Uno degli elementi più innovativi della strategia russa è
l’adozione della diplomazia digitale, intesa come utilizzo sistematico delle
tecnologie informatiche per finalità di influenza politica e manipolazione
dell’informazione. Le piattaforme digitali, i social media e i portali
informativi alternativi vengono impiegati per veicolare narrazioni filo-russe,
alimentare il dubbio e polarizzare le opinioni pubbliche, sfruttando spesso il
meccanismo della disinformazione e delle fake news.
Durante la pandemia da Covid-19, la Russia ha intensificato tali operazioni, presentandosi come attore responsabile e solidale (si pensi agli aiuti medici inviati in Italia), mentre diffondeva contenuti che screditavano i sistemi sanitari e politici dei Paesi occidentali. Questo approccio ha trovato espressione nell’operazione “Dalla Russia con amore”, che ha visto il dispiegamento di personale militare russo in Lombardia nel 2020, ufficialmente per attività di sanificazione. Tuttavia, numerose fonti italiane ed europee hanno sollevato preoccupazioni in merito al potenziale utilizzo di tale missione come strumento di spionaggio e raccolta informativa su infrastrutture sensibili. Come ho avuto modo di approfondire in un mio precedente articolo, tale operazione rappresenta un esempio concreto di applicazione della guerra ibrida russa, in cui propaganda, disinformazione e attività di intelligence convergono nel contesto di una crisi umanitaria.
Conclusioni
La diplomazia pubblica russa si configura come uno
strumento strutturato e deliberatamente orientato alla proiezione di influenza,
parte integrante di una più ampia strategia di guerra cognitiva. Essa si fonda
su una combinazione di dispositivi simbolici (come il “Mondo Russo”),
istituzioni statali operative (come il Gorchakov Fund e Rossotrudnichestvo), e
tecnologie comunicative digitali sofisticate. Il caso dell’operazione “Dalla
Russia con amore” dimostra come, in contesti di emergenza, la cooperazione
umanitaria possa trasformarsi in un’occasione di penetrazione informativa e di
influenza strategica. Comprendere tali dinamiche è oggi essenziale per
proteggere la resilienza cognitiva delle democrazie e prevenire l’erosione
della fiducia pubblica nelle istituzioni.
Bibliografia
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minacce per l’Italia e il ruolo della Russia tra cyberspazio, salute pubblica,
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L’ITALIA CHE SERVE A TRUMP
In un’Europa frammentata, l’Italia di Giorgia Meloni diventa l’alleato decisivo per la visione trumpiana dell’Occidente
di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)
In un contesto globale segnato da instabilità e dalla ridefinizione degli
equilibri internazionali, l’Italia emerge come potenziale perno in una nuova
configurazione dell’Occidente. La presidenza Trump, tornata al centro della
scena internazionale, rilancia una visione basata sulla centralità degli Stati
sovrani, sul pragmatismo economico e su un’alleanza atlantica non più mediata
dalle istituzioni multilaterali, ma fondata su rapporti diretti tra governi
affini.
In questa prospettiva, l’Italia sembra rispondere con coerenza e tempestività. L’approccio di Meloni — che combina atlantismo con rivendicazione di autonomia nazionale — si inserisce in un disegno più ampio che guarda a una riorganizzazione dei rapporti tra Europa e Stati Uniti.
La vera domanda, ora, è: quale sarà lo sviluppo di questo momento storico?
La risposta sembra intrecciarsi con un nuovo asse internazionale: un’Italia più autonoma ma pienamente inserita in un Occidente in trasformazione, dove il rapporto con gli Stati Uniti — e in particolare con il mondo che ruota attorno a Donald Trump — potrebbe risultare decisivo per ridefinire non solo il ruolo dell’Italia, ma anche quello dell’Europa.
Donald Trump e la nuova strategia verso l’Europa: sovranità contro
burocrazia
Già durante il suo primo mandato presidenziale (2017–2021), Donald Trump
aveva manifestato una visione critica nei confronti dell’architettura europea.
La sua politica estera rompeva con l’approccio tradizionale americano di
sostegno incondizionato alle istituzioni multilaterali, ponendo al centro il
principio della sovranità nazionale come fondamento della cooperazione
internazionale.
Nel discorso
all’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite del 2018,
Trump dichiarò senza mezzi termini: “Rifiutiamo l’ideologia del
globalismo e abbracciamo la dottrina del patriottismo.” Questa visione
si tradusse in una serie di azioni concrete: la pressione sugli alleati NATO
affinché aumentassero la loro spesa per la difesa (ennesima sollecitazione
americana); l’opposizione a trattati multilaterali considerati penalizzanti per
gli Stati Uniti; il sostegno implicito a quei governi europei che rivendicavano
maggiore autonomia decisionale rispetto a Bruxelles, come la Polonia,
l’Ungheria e, più recentemente, l’Italia.
Sul piano
strategico, Trump ha sempre visto con diffidenza l’Unione Europea perché troppo
burocratizzata, percependola non come alleato complementare, ma come potenziale
concorrente economico. Come affermò nel
2020 in un’intervista a Fox News: “L’Unione Europea è stata creata per
approfittare degli Stati Uniti. Io lo so. E anche loro lo sanno.”
La sua proposta
di un “Patto tra
Nazioni libere“, più che una coalizione
istituzionale rigida, mirava a costruire una rete di Stati sovrani legati da
interessi comuni e dalla difesa delle rispettive identità nazionali. Questo
approccio richiama una tradizione storica americana. Già nel 1947, il presidente
Harry S.
Truman, in un messaggio speciale al Congresso,
sottolineava: “Considerata dal punto di vista della nostra economia, la
ripresa europea è essenziale.” Trump
ha richiamato questo stesso principio, in forme aggiornate, nel suo discorso
all’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite del 2017:
“Il successo delle Nazioni Unite dipende dalla forza indipendente dei suoi
membri.”
Per Trump,
dunque, un’Europa forte — ma composta da Stati sovrani, non da un’unica entità
burocratica — è un elemento strategico per garantire stabilità globale e
reciproca prosperità economica. La sua critica all’Unione Europea non si
concentra sull’idea di cooperazione tra Paesi, bensì sulla trasformazione della
UE in una struttura sovranazionale percepita come distante dai popoli e
penalizzante per gli interessi nazionali.
Il suo ritorno
alla Casa Bianca 2025 ha visto la messa in atto del “progetto Trump” ossia la
ridefinizione delle relazioni transatlantiche occupando così un posto centrale
nell’agenda geopolitica, per aprire nuovi spazi di manovra per quei Paesi
europei — come l’Italia — che intendano riaffermare il primato degli interessi
nazionali.
Da questa prospettiva, l’interesse
verso leader come Giorgia Meloni si inserisce in un disegno più ampio: favorire
la costruzione di un’Europa basata sulla collaborazione tra nazioni libere e
forti, capaci di relazionarsi direttamente con gli Stati Uniti in un quadro di
parità e di rispetto reciproco. Non è solo una convergenza ideologica, ma una
strategia pragmatica, volta a bilanciare la competizione globale con nuove
alleanze dinamiche e resilienti.
l rapporto privilegiato tra Italia e Stati Uniti: una lunga alleanza, non
senza ombre
Fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il legame tra Italia e Stati Uniti si è consolidato come uno dei pilastri fondamentali dell’ordine atlantico. Con la firma del Trattato del Nord Atlantico nel 1949 e l’ingresso dell’Italia nella NATO, Roma divenne un alleato strategico imprescindibile per Washington, non solo per la posizione geografica nel Mediterraneo, ma anche come baluardo democratico in Europa durante la Guerra Fredda. Nel corso dei decenni, tuttavia, questo rapporto non è stato privo di tensioni e di dinamiche complesse. In più occasioni, gli Stati Uniti hanno esercitato una forma di influenza diretta e indiretta sulla politica interna italiana, soprattutto nei momenti più delicati della vita istituzionale. Il primo caso fu quello dell’ambasciatrice Claire Booth Luce, (moglie del fondatore di Time) che durante il suo mandato (1953–1956), esercitò un’influenza significativa sulla politica italiana promuovendo attivamente politiche anticomuniste, sovrintendendo a programmi di aiuti segreti destinati a rafforzare i governi centristi e a contenere l’espansione del Partito Comunista, in linea con la strategia americana di difesa dell’Europa occidentale.
Giorgia Meloni e il principio di non ingerenza: riaffermare la sovranità
nell’alleanza
In questo
contesto storico si inserisce l’approccio di Giorgia Meloni, che, pur
riaffermando con forza l’alleanza atlantica, ha introdotto una differenza
sostanziale: il rifiuto di ogni forma di ingerenza esterna nella politica
interna italiana. Una linea di condotta
chiara, ribadita recentemente: “Confermiamo la nostra posizione di non
ingerenza negli affari politici degli altri Stati” e “Non sono mai una
sostenitrice di quelli che commentano la politica altrui. L’ho subìto.” (Governo.it)
Attraverso questa postura, l’Italia si propone come un alleato affidabile,
ma capace di difendere con fermezza la propria autonomia decisionale, in linea
con una concezione moderna dell’amicizia tra nazioni libere e sovrane.
L’Italia come motore per una nuova Europa
Oggi più che
mai, l’Unione Europea si trova davanti a un bivio storico. Le crisi internazionali, la crescente distanza
tra istituzioni comunitarie e cittadini, le sfide economiche e migratorie hanno
reso evidente che il modello attuale — fortemente centralizzato e burocratico —
fatica a rispondere alle esigenze reali degli Stati membri. Sempre più voci si
levano a favore di una revisione profonda delle dinamiche comunitarie, per
evitare che il progetto europeo si trasformi in una costruzione astratta, incapace
di rappresentare le identità nazionali e le aspirazioni popolari. . Ma se l’Italia saprà proporsi come
laboratorio di questo nuovo equilibrio europeo, potrebbe aprirsi una nuova
strada a una stagione politica capace di ridare senso e legittimità al progetto
europeo stesso, evitando che l’Unione si riduca a un mero esercizio burocratico
privo di anima. La sfida è ambiziosa
Un’alleanza strategica tra Italia e Stati Uniti: vantaggi e sfide nel rapporto
tra Giorgia Meloni e Donald Trump
Il recente
incontro tra la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e il Presidente degli
Stati Uniti, Donald Trump, ha evidenziato una forte sintonia su temi chiave
come la sicurezza, l’immigrazione e la difesa dei valori occidentali. Meloni ha
sottolineato l’importanza di rafforzare la cooperazione transatlantica,
dichiarando: “Quando parlo
dell’Occidente, non parlo di uno spazio geografico:
parlo di una civiltà. Voglio rendere questa civiltà più forte” e Meloni ri-frasando
Trump ha dichiarato: “Il mio obiettivo è rendere l’Occidente di nuovo
grande.”
Questa affermazione sottolinea, senza citarli, le tante sfide che non solo l’Italia ma tutta l’Europa sta affrontando: dall’immigrazione africana e asiatica, all’influenza della sharia nei diversi ordinamenti nazionali, l’incapacità di tramandare le tradizioni a nuove generazioni autoctone e molte, molte altre prove.
Tuttavia,
questa alleanza, Italia-USA, presenta non poche ostacoli: dalle politiche
protezionistiche di Trump, con l’introduzione di nuovi dazi sui prodotti
europei, l’approccio transazionale di Trump dove è data
precedenza al bilateralismo snobbando Bruxelles; tutto ciò, potrebbe mettere a
dura prova la capacità dell’Italia di mantenere un equilibrio tra la sua
relazione statunitense e i suoi obblighi europei.
Parallelamente,
tutta l’Europa si trova esposta agli effetti delle tensioni globali: la guerra in Ucraina, i conflitti in Medio
Oriente, il crescente protezionismo commerciale e i cambiamenti climatici
contribuiscono a generare instabilità economica, aumento dei costi energetici e
pressioni migratorie, aggravando ulteriormente il quadro macroeconomico.
Conclusione: un’Italia autonoma in un Occidente in trasformazione
In un’epoca di instabilità globale e di crisi dei modelli politici
tradizionali, l’Italia ha l’opportunità storica di proporsi come forza
propulsiva per una nuova Europa, fondata sulla cooperazione tra nazioni libere
e sovrane.
Come disse
Lord Acton, “Freedom is the right to do as you please. Liberty is the right to do as you
ought.” (freedom, intesa come assenza di costrizioni, e liberty,
ovvero la libertà esercitata nel rispetto di un ordine giusto).
La sfida oggi è proprio questa: difendere la libertà di scelta nelle relazioni internazionali, ma farlo
con la responsabilità di costruire ponti, tutelare la propria identità e
rafforzare i valori condivisi dell’Occidente. Il successo di questa visione
dipenderà dalla capacità, da parte di tutti, di accantonare in sede europea le
vecchie diatribe, per affermare un ordine multipolare più equo, ma saldo nei
principi occidentali. Forse, in questo contesto, l’Italia potrà davvero
proporsi come interlocutore credibile tra le due sponde dell’Atlantico,
contribuendo alla costruzione di un nuovo equilibrio internazionale?
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