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L’antica arte dietro le insurrezioni moderne.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

In un’epoca di sorveglianza satellitare, intelligenza artificiale e sciami di droni, potrebbe sembrare strano—addirittura anacronistico—cercare nei testi antichi indicazioni strategiche per comprendere le guerre di oggi. Eppure, gli attori non statali più agili e pericolosi non stanno necessariamente innovando. Più spesso, stanno riscoprendo. Che sia per scelta consapevole o per intuizione, gruppi come i Talebani, Hezbollah o i cartelli messicani si affidano a strategie che sarebbero immediatamente riconoscibili a un generale al servizio di un imperatore cinese, un console romano o un rajah indiano.

Basta guardare a come questi gruppi usano l’inganno come arma. Il grande stratega cinese Sun Tzu, oltre 2.500 anni fa, scriveva che “tutta la guerra si basa sull’inganno”—e le sue parole restano valide sul campo di battaglia digitale tanto quanto lo erano nelle foreste dell’antica Cina. L’ISIS ha dimostrato questo principio con una precisione spaventosa, simulando ritirate per attirare gli avversari in imboscate, gonfiando la propria forza attraverso video propagandistici ben costruiti, e spostando costantemente i propri leader e le proprie basi per evitare l’annientamento. In Afghanistan, i Talebani fornivano sistematicamente false informazioni alle truppe NATO attraverso intermediari locali—salvo poi sfruttare i varchi lasciati scoperti. Capivano, forse senza troppa filosofia, che sembrare deboli quando si è forti (e viceversa) paralizza il nemico. Il campo di battaglia diventa in questo modo psicologico e non solo fisico.

Questa preferenza per l’evasione rispetto allo scontro frontale ha radici profonde. Il generale romano Quinto Fabio Massimo, di fronte al genio militare di Annibale, evitò battaglie dirette e scelse invece di indebolire il nemico con tattiche di logoramento. Gli insurgents moderni operano allo stesso modo. Non hanno bisogno di vincere le battaglie—devono solo evitare di perderle. In Iraq e Afghanistan, le milizie usavano ordigni esplosivi improvvisati non per distruggere interi eserciti, ma per logorarne il morale e guadagnare tempo. In Yemen, i ribelli Houthi sfruttano la conoscenza del terreno montuoso per tendere imboscate e poi scomparire. Nel sud del Libano, Hezbollah ha trasformato interi villaggi in roccaforti, costruito reti di tunnel, e provocato l’intervento israeliano in incursioni sanguinose. Non controllano il territorio: controllano il tempo.

Ma l’antica arte della guerra non si fermava allo scontro diretto. Nell’Arthashastra, il trattato indiano scritto da Kautilya nel IV secolo a.C., la guerra è descritta come un gioco a più livelli: spionaggio, infiltrazione, sabotaggio economico. Oggi, molti attori non statali applicano tattiche simili attraverso un mix di attività militari, civili e politiche. Hezbollah, ad esempio, opera non solo come gruppo armato, ma anche come partito politico e fornitore di servizi sociali in Libano. Hamas fa lo stesso a Gaza. Questi gruppi hanno capito che il potere non deriva solo dalle armi, ma anche dalla fiducia—o dalla dipendenza—della popolazione. In Messico, i cartelli mantengono il controllo offrendo lavoro, favori, persino assistenza sociale, in cambio di lealtà o silenzio. La violenza, quando usata, è selettiva e spettacolare: più teatro che guerra.

Questa strategia si intreccia con un’altra verità senza tempo: il ruolo centrale della guerra psicologica. Tucidide, nel raccontare la Guerra del Peloponneso, sosteneva che le vere cause dei conflitti non fossero materiali, ma emotive—paura, onore, interesse. Gli attori non statali lo capiscono bene. Una bomba in un mercato, un attacco suicida in una città occidentale, non mirano a vincere militarmente ma a provocare panico, polarizzazione, e risposte sproporzionate. Gli attacchi dell’11 settembre, orchestrati da Al-Qaeda, erano pensati precisamente per questo: provocare una reazione eccessiva. Gli Stati Uniti furono in questo modo trascinati in due decenni di guerra e crisi interna. Per questi gruppi, la vittoria non si misura in territori conquistati, ma nel caos generato.

C’è poi la questione della forma—o meglio, della sua assenza. Il leggendario spadaccino giapponese Miyamoto Musashi, nel Libro dei Cinque Anelli, descrive il guerriero ideale come privo di forma fissa. La flessibilità è essa stessa una strategia. I gruppi non statali moderni mostrano una sorprendente capacità di adattamento. L’ISIS si è trasformato da insurrezione clandestina a pseudo-stato con entrate petrolifere e una propria burocrazia—per poi tornare nell’ombra come rete di cellule una volta perso il controllo territoriale. In Siria, milizie e gruppi estremisti hanno cambiato nome, alleanze, composizione, adattandosi al mutare delle circostanze. Questo mutamento costante li rende imprevedibili—e soprattutto, difficili da sradicare.

Per molti esperti occidentali di strategia, questo tipo di guerra è esasperante. Non segue le regole. Non ci sono uniformi, né fronti chiari, né battaglie decisive. Ma è proprio questo il punto. I movimenti insurrezionali più efficaci non cercano di imitare gli eserciti moderni: abbracciano i principi più antichi della guerra. Colpiscono nell’ombra, vincono il controllo della narrazione, usano il tempo come arma, e spariscono quando necessario.

Queste strategie possono essere antiche, ma non sono affatto obsolete. Anzi, la tecnologia contemporanea—i social media, le comunicazioni criptate, i deepfake—le ha rese ancora più potenti. Mentre gli eserciti tradizionali arrancano nell’adattarsi, gli attori non statali godono del vantaggio di una visione ideologica chiara, controllo narrativo e pazienza strategica. In un’epoca di instabilità cronica, farebbe bene smettere di considerare questi gruppi come semplici residui di stati falliti. Sono, a tutti gli effetti, eredi di una lunga tradizione di pensiero strategico raffinato. Il futuro della guerra irregolare è già qui—e somiglia sorprendentemente al passato.


Influenze straniere nell’America che pensa: dalle università alle Big Tech

di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti
giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)

Fondi esteri e antisemitismo nei campus

Negli Stati Uniti, la crescente ondata di antisemitismo nei campus universitari ha portato sotto i riflettori la questione dei finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo, in particolare dal Qatar. A preoccupare il Congresso e diversi osservatori è il ruolo che tali fondi potrebbero giocare nel condizionare il clima accademico e la libertà di espressione nelle università americane. 

Secondo un recente rapporto pubblicato dalla Foundation for Defense of Democracies (FDD), il Qatar figura tra i cinque maggiori donatori agli atenei statunitensi nel 2024. Il documento ha riacceso un dibattito già avviato all’inizio dell’anno, quando il Comitato della Camera per l’Istruzione e la Forza Lavoro ha approvato una proposta di legge per imporre maggiore trasparenza ai finanziamenti esteri ricevuti dalle istituzioni accademiche. Il provvedimento è una risposta diretta alle preoccupazioni sollevate anche al Senato nel marzo scorso, durante l’audizione del Dr. Charles Asher Small, direttore dell’Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy (ISGAP). Secondo i dati presentati, l’università Texas A&M avrebbe ricevuto oltre un miliardo di dollari dal Qatar, mentre Cornell ne avrebbe incassati quasi dieci. Columbia University, invece, avrebbe beneficiato di almeno 7,17 milioni di dollari.

Small ha denunciato come gran parte di questi fondi non sia stata regolarmente dichiarata al Dipartimento dell’Istruzione, in presunta violazione della normativa federale. Ma il punto centrale delle sue accuse riguarda il possibile impatto di questi finanziamenti sull’ambiente accademico: «Abbiamo osservato un incremento del 300% degli episodi antisemiti nei campus che hanno ricevuto fondi stranieri non dichiarati, in particolare da regimi autoritari come il Qatar», ha affermato.

Nel luglio 2024, lo stesso Small aveva testimoniato alla Commissione Finanze della Camera, collegando l’afflusso di fondi esentasse alla crescita di movimenti e dichiarazioni antisemite tra studenti e docenti.

E nel maggio 2024 durante un’audizione della Camera sull’antisemitismo, il deputato Burgess Owens (R-Utah) ha chiesto conto al presidente della Northwestern University, Michael Schill, di un finanziamento da 600 milioni di dollari destinato al campus di Doha, in Qatar. La Qatar Foundation, da parte sua, ha sempre respinto ogni accusa di interferenza nelle scelte accademiche delle università americane.

Già nel 2023, il Congresso aveva proposto una legge bipartisan – la DETERRENT Act – per vietare i finanziamenti alle università americane da parte di paesi accusati di sostenere il terrorismo.

Se l’ospitalità data dal Qatar a leader di organizzazioni come i Fratelli Musulmani o Hamas getta benzina sul fuoco dei critici, una correlazione fra antisemitismo e investimenti nell’educazione in USA rimane da provare. Gli interrogativi sono tuttavia legittimi e il tema è altamente divisivo. Se da un lato le università difendono le collaborazioni internazionali come strumenti di progresso e innovazione, dall’altro cresce la richiesta di regolamentare i rapporti con i paesi esteri, nel nome della trasparenza, dell’integrità accademica e del rispetto dei valori democratici.

Come beneficiano le università americane dagli investimenti arabi

Le università americane ricevono finanziamenti significativi da paesi arabi come Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Questi investimenti portano diversi vantaggi, ma anche potenziali rischi. Vediamoli nel dettaglio:

🏫 1. Sostegno finanziario

  • Donazioni consistenti: Paesi come il Qatar hanno donato centinaia di milioni di dollari a università di alto livello. Ad esempio, il Qatar ha finanziato il campus della Texas A&M a Doha e quello di medicina della Cornell.
  • Sviluppo infrastrutturale: Le donazioni aiutano a costruire strutture moderne, laboratori e centri di ricerca.

🎓 2. Sviluppo internazionale

  • Apertura di campus esteri: Le università statunitensi aprono sedi in luoghi come “Education City” a Doha, ampliando la loro visibilità globale.
  • Nuove iscrizioni: Attirano studenti benestanti dal Golfo, spesso paganti l’intera retta, migliorando la sostenibilità economica.

🧪 3. Ricerca e collaborazione accademica

  • Finanziamento di progetti scientifici: I governi arabi finanziano ricerche in energia, medicina, tecnologia.
  • Borse di studio e cattedre: Supportano lo studio dell’Islam, della lingua araba e della politica mediorientale.

🌍 4. Diplomazia culturale

  • Scambi interculturali: Collaborazioni e presenze di studenti stranieri promuovono il dialogo culturale.
  • Partnership strategiche: Rafforzano i rapporti diplomatici ed economici tra Stati Uniti e paesi del Golfo.

⚠️ I Rischi

Anche se i benefici sono reali, si possono individuare diversi potenziali problemi:

  • Influenza sui contenuti accademici: Alcuni donatori potrebbero cercare di indirizzare programmi o ricerche secondo i propri interessi.
  • Autocensura e pressione politica: Studenti e docenti potrebbero sentirsi limitati nel criticare i paesi finanziatori.
  • Reputazione e propaganda: I regimi autoritari possono usare questi legami per ripulire la loro immagine internazionale (“reputation laundering”).

Foto di PublicDomainPictures da Pixabay

Oltre ai paesi arabi, la Cina è l’altro grande investitore.

Università americane e fondi dalla Cina: tra investimenti, soft power e rischi per la sicurezza nazionale

Dopo anni di crescenti rapporti accademici e culturali, gli investimenti della Cina nelle università statunitensi sono oggi al centro di un dibattito sempre più acceso su trasparenza, libertà accademica e tutela della sicurezza nazionale. Mentre Pechino rafforza la sua proiezione globale, gli Stati Uniti si interrogano sull’impatto di tali relazioni sul proprio sistema educativo.

💰 Contratti e finanziamenti milionari

Secondo un’indagine del Wall Street Journal, tra il 2012 e il 2024 circa 200 università americane hanno sottoscritto accordi con entità cinesi per un valore complessivo di 2,32 miliardi di dollari. Le collaborazioni spaziano dalla ricerca congiunta allo sviluppo di campus e infrastrutture accademiche. L’università più finanziata risulta essere New York University, grazie alla sua presenza a Shanghai.

A questo si aggiunge un altro canale di sostegno economico indiretto ma significativo: gli studenti cinesi iscritti negli Stati Uniti. Le loro rette universitarie rappresentano un flusso annuo di circa 12 miliardi di dollari, secondo dati del Congresso.

🏫 Gli Istituti Confucio: cultura o propaganda?

Al centro della controversia anche i Confucius Institutes, programmi finanziati dal governo cinese per promuovere la lingua e la cultura cinese all’interno dei campus statunitensi. Se inizialmente accolti come strumenti di scambio culturale, nel tempo sono stati accusati di veicolare propaganda politica e di imporre limiti alla libertà accademica, in particolare su temi sensibili come Tiananmen, Taiwan o il Tibet.  Il Congresso americano ha reagito con decisione, introducendo misure per limitare i fondi federali alle università che ospitano questi istituti. In molti casi, le università hanno deciso di chiuderli autonomamente per evitare problemi reputazionali e politici.

Preoccupazioni per la sicurezza nazionale

Le autorità statunitensi temono che i rapporti accademici con la Cina possano fungere da canale per la trasmissione di tecnologie sensibili e furto di proprietà intellettuale. In diversi casi, la stampa ha documentato come la ricerca finanziata da fondi pubblici americani abbia finito per favorire lo sviluppo militare cinese, suscitando interrogativi sul controllo dei progetti congiunti.

In risposta, il Congresso e alcune agenzie federali hanno avviato un percorso legislativo volto a rafforzare la trasparenza e il monitoraggio dei fondi stranieri ricevuti dalle università americane.

Filantropia e ricerca: un terreno ambiguo

Oltre agli accordi istituzionali, si segnalano anche ingenti donazioni filantropiche individuali da parte di miliardari cinesi. È il caso dell’Istituto Tianqiao e Chrissy Chen, che ha stanziato un miliardo di dollari per progetti di neuroscienze presso il Caltech e altri centri di ricerca. Se da un lato tali contributi hanno favorito importanti progressi scientifici, dall’altro pongono interrogativi sulla neutralità della ricerca e sull’influenza silenziosa del potere economico cinese.

L’intensificarsi della competizione tra Stati Uniti e Cina ha ormai travolto anche il mondo accademico. In gioco non c’è solo la libertà di ricerca, ma la capacità delle istituzioni americane di difendere i propri valori democratici in un contesto sempre più interconnesso e geopoliticamente instabile.

L’infiltrazione cinese nel mondo accademico statunitense non rappresenta un caso isolato, ma si inserisce in una strategia più ampia di Pechino volta a esercitare influenza su settori chiave della società americana. Oltre alle università, anche le grandi piattaforme tecnologiche sono diventate canali privilegiati di penetrazione, sia economica che ideologica. È in questo contesto che si inseriscono le rivelazioni di Sarah Wynn-Williams, ex dirigente di Meta, che ha denunciato pubblicamente presunti rapporti di cooperazione tra il colosso di Menlo Park e il governo cinese. L’ex direttrice delle politiche pubbliche globali di Facebook (ora Meta) è al centro di un acceso dibattito dopo aver pubblicato il mese scorso le sue memorie:

📘 “Careless People: A Cautionary Tale of Power, Greed, and Lost Idealism””: un memoir esplosivo

L’11 marzo scorso la Wynn-Williams ha pubblicato Careless People. un libro che offre uno sguardo critico sull’evoluzione di Facebook in Meta. Nel testo, l’autrice descrive un ambiente aziendale dominato da ambizione e mancanza di scrupoli, accusando i vertici di aver collaborato con il Partito Comunista Cinese per sviluppare strumenti di censura e di aver preso decisioni che potrebbero compromettere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Meta ha cercato di impedirne la promozione, ottenendo un’ingiunzione arbitrale che vietava a Wynn-Williams di discutere pubblicamente del contenuto dell’opera. Nonostante ciò, il libro è in testa a tutte le classifiche di vendita.

🏛️ Testimonianza al Congresso

In seguito, alcuni giorni fa, esattamente il 9 aprile 2025, la Wynn-Williams ha testimoniato davanti alla Sottocommissione per il Crimine e il Controterrorismo del Senato, presieduta dal senatore Josh Hawley. 

Invitata dal senatore quale presidente della Sottocommissione, Sarah ha dato uno spaccato su Meta e i rapporti della società con paesi esteri agghiaccianti. Durante le due ore di domande e risposte, l’ex dirigente di Facebook ha mosso accuse gravi nei confronti del colosso tecnologico, sostenendo che Meta avrebbe collaborato attivamente con il governo cinese per sviluppare strumenti di censura destinati al mercato asiatico. Wynn-Williams ha affermato che l’azienda avrebbe anche trasmesso dati sensibili a ricercatori legati all’Esercito Popolare di Liberazione cinese, contribuendo – secondo le sue parole – a progetti potenzialmente dannosi per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Ha raccontato di episodi concreti di interferenza straniera, come la cancellazione dell’account di un dissidente cinese su richiesta delle autorità di Pechino, e ha espresso forti riserve su un progetto di cavo sottomarino che, se approvato, avrebbe potuto facilitare l’accesso della Cina ai dati degli utenti americani. Ha rivelato che Meta avrebbe preso di mira adolescenti vulnerabili con campagne pubblicitarie studiate in base al loro stato emotivo, sfruttando momenti di insicurezza per promuovere prodotti o contenuti, una pratica che ha definito “profondamente immorale” o giovani madri in stato depressivo, sempre con lo stesso scopo. Queste rivelazioni hanno avuto ampio eco nell’opinione pubblica e al Congresso, alimentando richieste bipartisan di maggiore regolamentazione delle Big Tech e di indagini formali sui rapporti di Meta con regimi autoritari.

La Williams ha definito Zuckerberg un pagliaccio che cambia di vestito a seconda delle sue personali esigenze, che a parer suo, sono esclusivamente concentrate nel voler stare accanto al “Potere” – “tutto è disegnato per avere sempre più potere a livello globale”.

🧾 Reazioni e conseguenze

Meta ha respinto le accuse, definendole infondate e obsolete, e ha sottolineato che Wynn-Williams è stata licenziata nel 2017 per scarso rendimento e comportamento tossico. Tuttavia, la sua testimonianza ha suscitato un intenso dibattito pubblico e lei stessa ha invitato i membri della Commissione di Congresso a chiedere ulteriori indagini sulle pratiche dell’azienda. Nonostante le pressioni legali, Wynn-Williams ha dichiarato di aver deciso di parlare “a rischio personale considerevole” perché ritiene che il pubblico americano abbia il diritto di conoscere la verità sulle operazioni di Meta.

Sarah Wynn-Williams

Dalle università alle piattaforme digitali, ciò che emerge con chiarezza è una strategia coordinata di penetrazione da parte di potenze straniere come Cina e Qatar, che cercano di esercitare influenza sui luoghi in cui si formano il pensiero, il consenso e l’identità democratica americana.

In questo scenario, i finanziamenti accademici opachi, le alleanze tecnologiche silenziose e le pratiche di censura travestite da cooperazione rappresentano un rischio sistemico. Non si tratta solo di proteggere l’autonomia delle istituzioni – scuole, centri di ricerca, aziende – ma anche di resistere a un modello alternativo di controllo e conformismo che avanza con logiche autoritarie e mezzi sottili.

Proteggere significa costruire regole, vigilanza, trasparenza. La vera posta in gioco non è solo la sovranità tecnologica o educativa, ma la tenuta stessa della cultura democratica su cui si fondano gli Stati Uniti.


DO UT DES

Di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti
giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)

Parlare di cambiamento agli italiani non è mai semplice
 Abbiamo alle spalle una storia di trasformazioni annunciate, riforme promesse e rivoluzioni mancate. Sappiamo che il cambiamento, spesso, è servito più a conservare che a innovare. Lo sapeva bene Falconeri nel Gattopardo, quando diceva: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».  Eppure, oggi ci troviamo davanti a un bivio reale, che tocca il commercio globale, le relazioni internazionali e il nostro stesso modo di produrre e consumare. In questo contesto, l’appello alla calma e alla riflessione lanciato dalla Presidente del Consiglio – “Calma e valutiamo” – appare non solo opportuno, ma necessario, perché il rischio non è solo quello di sbagliare risposta: è quello di non comprendere la domanda: Quale cambiamento vogliamo?

Il protezionismo, nel corso della storia, è stato adottato da molti Paesi con obiettivi e risultati differenti. In alcuni casi ha difeso industrie nascenti, in altri ha acuito crisi economiche e isolato i mercati. Non è né uno strumento neutro, né sempre efficace, ma è sicuramente una leva politica che riflette un preciso approccio alle sfide economiche globali.

Come ha osservato Lucio Miranda, Presidente di Export USA, in una recente intervista, l’introduzione di dazi da parte degli Stati Uniti non rappresenta necessariamente una catastrofe per le imprese italiane. Miranda sottolinea che, sebbene queste misure possano avere un impatto, non è detto che conducano inevitabilmente a una recessione. Piuttosto, evidenzia come il vero fattore destabilizzante sia l’incertezza che tali politiche generano nei mercati e tra gli operatori economici. È questa sensazione di instabilità, più che le misure stesse, a poter creare difficoltà. In questo scenario, è fondamentale analizzare con attenzione le implicazioni delle politiche protezioniste degli USA, considerando sia le lezioni del passato sia le specificità del contesto attuale. Solo attraverso una valutazione ponderata e priva di allarmismi si potranno individuare le strategie più efficaci per tutelare gli interessi economici italiani e del resto del mondo.  Per comprendere meglio le implicazioni delle politiche protezionistiche nel presente, è utile volgere lo sguardo al passato. Diversi Paesi, in momenti storici critici, hanno adottato misure di protezione commerciale — dai dazi alle barriere non tariffarie — con l’obiettivo di difendere la produzione interna, rilanciare l’occupazione o rispondere a crisi economiche. Ecco una panoramica, in ordine cronologico, di alcuni dei casi più rilevanti:

  • Gran Bretagna (1815–1846)
    Dopo le guerre napoleoniche, il Regno Unito adottò le famigerate Corn Laws, che imponevano dazi sulle importazioni di grano per proteggere i produttori agricoli interni. Le leggi furono abrogate solo nel 1846, segnando una svolta verso il libero scambio.
  • Stati Uniti (1861–1934)
    Per oltre 70 anni, gli Stati Uniti mantennero tariffe doganali molto elevate per proteggere la propria industria manifatturiera. Le tariffe raggiunsero l’apice con lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, che contribuì alla contrazione del commercio mondiale durante la Grande Depressione.
  • India (1947–1991)
    Dopo l’indipendenza, l’India adottò un modello autarchico noto come Licenza Raj, basato su dazi elevati, licenze di importazione e pianificazione statale. Questo sistema rallentò la crescita economica fino alla liberalizzazione degli anni ’90.
  • Giappone (1950–1980)
    Durante la ricostruzione postbellica e il boom industriale, il Giappone applicò rigide barriere non tariffarie e sussidi selettivi per proteggere settori strategici come l’automotive e l’elettronica, attirandosi critiche dalle economie occidentali.
  • Unione Europea (dal 1962 a oggi)
    Con la creazione della Politica Agricola Comune (PAC), l’UE ha adottato dazi e sussidi interni per garantire la stabilità del settore agricolo. Il sistema è stato oggetto di critiche nei negoziati internazionali, ma resta ancora in vigore, seppur riformato.
  • Cina (1980–oggi)
    Dopo le riforme di Deng Xiaoping, la Cina ha sviluppato un modello misto di apertura e protezionismo strategico, basato su barriere non tariffarie, requisiti di trasferimento tecnologico e forte sostegno statale all’industria.
  • Argentina (2003–2015)
    Sotto i governi di Néstor e Cristina Kirchner, l’Argentina impose forti restrizioni alle importazioni per tutelare la produzione interna e contenere la fuga di capitali, in un contesto di instabilità economica.
  • Stati Uniti (dal 2018)
    Con l’amministrazione Trump, Washington ha reintrodotto dazi su acciaio, alluminio e prodotti tecnologici provenienti da Cina, UE e altri Paesi. Le misure hanno innescato una serie di ritorsioni commerciali, con effetti ancora oggi parzialmente in atto.

Ma le borse stanno reagendo male! Secondo Bessent (il Segretario del Dipartimento del Tesoro), la priorità, è quella di rafforzare i fondamentali dell’economia. Questo significa garantire tasse stabili, prevedibilità per le imprese, energia abbondante e a basso costo, un processo di deregolamentazione e un trattamento equo della forza lavoro. Solo così si potrà contare su un mercato azionario forte e duraturo.

Riguardo ai dazi la loro funzione è di contrastare modelli economici alternativi come quello cinese ad esempio: “I proventi dei dazi possono essere sostanziosi. Secondo i modelli economici classici, se applichi un dazio del 10%, si stima che il tasso di cambio compensi per circa il 40% di quel valore (cioè un 4%), un altro 4% viene assorbito dal produttore straniero, e il consumatore americano subisce un impatto residuo, forse intorno al 2%.  Uno studio recente del MIT, ha mostrato che i primi dazi imposti da Trump alla Cina — circa il 20% — hanno generato un aumento generale dei prezzi di appena dello 0,7%.”

Allora bisogna chiedersi quale sia la differenza fondamentale tra le azioni protezionistiche del passato e quelle che stiamo osservando oggi. Mentre un tempo i dazi servivano quasi esclusivamente a proteggere l’industria nazionale bloccando o scoraggiando le importazioni, oggi la strategia è molto più articolata. Oggi il protezionismo non si limita ad innalzare barriere, ma punta anche ad attrarre investimenti stranieri diretti, spingendo aziende estere a costruire fabbriche direttamente negli Stati Uniti. Stiamo guardando a una forma di protezionismo “attivo”, che non si accontenta di difendere il mercato interno, ma mira a rilocalizzare la produzione e ricostruire la base industriale americana, svanita negli ultimi decenni. Un esempio concreto è rappresentato dalle case automobilistiche asiatiche ed europee che stanno aprendo nuovi stabilimenti in Texas o in Tennessee, o dai giganti della tecnologia che riorganizzano le loro supply chain per produrre qui in america.

Secondo Bessent, le prospettive future delle tariffe commerciali, per uscire da un sistema di dazi generalizzati non è l’abbattimento arbitrario ma l’incentivare il ritorno della produzione sul suolo americano: “La soluzione migliore per superare un muro di dazi è spostare la tua fabbrica: dalla Cina, dal Messico, dal Vietnam — e portala qui.”

Il piano prevede una prima fase in cui le entrate da dazi saranno sostanziali, ma nel tempo con la costruzione di fabbriche negli Stati Uniti, renderanno i dazi molto meno necessari, e di conseguenza, le entrate fiscali proverranno non più dalle tariffe, ma dalle imposte sul reddito, dai nuovi posti di lavoro e dalla crescita economica interna.

I dazi caleranno perché staremo producendo qui. E di conseguenza calerà anche il nostro deficit commerciale, che, accoppiato con una riduzione della forza lavoro federale, il contenimento dell’indebitamento pubblico, e il rilancio del settore privato, creerà le condizioni per un riequilibrio strutturale dell’economia americana, più solida, autonoma e competitiva nel lungo periodo.”

Questo approccio, si traduce anche in una politica industriale implicita, che cambia profondamente le dinamiche del commercio e dell’occupazione, con potenziali effetti a lungo termine sulla competitività del Paese.”

Mr. Bessent, intervenuto su quello che considera un cambio radicale ma necessario nella direzione economica degli Stati Uniti, ha dichiarato senza mezzi termini che il vecchio sistema non stava più funzionando: “Quando un sistema non funziona, ci vuole coraggio per cambiarlo.”

Il vecchio sistema era basato su un’economia sostenuta artificialmente da debito crescente e spesa pubblica, fosse insostenibile nel lungo periodo. “Sarebbe stato facile entrare e continuare a emettere debito, a creare posti di lavoro nel governo. Esternamente sarebbe sembrato tutto perfetto, come un culturista doppato: muscoli visibili, ma organi vitali compromessi. Ecco, stavamo uccidendo il sistema dall’interno.”

Le più gravi crisi economiche degli ultimi decenni sono, secondo lui, esempi lampanti di un’economia apparentemente florida ma profondamente fragile:

“Se guardi al 2007-2008, l’economia sembrava andare a gonfie vele — fino al crollo. Stessa cosa con la bolla del dot-com, e con i casi di frode come Enron e WorldCom. Anche lì tutto sembrava stabile… finché improvvisamente non lo è stato più.”

L’attuale amministrazione sta intervenendo prima che si arrivi a un punto di rottura, mettendo in sicurezza il sistema economico. “È come dopo l’11 settembre, quando si è scoperto che le compagnie aeree non volevano investire nelle porte blindate per la cabina di pilotaggio, perché la FAA non ha insistito abbastanza. Ora quelle porte ci sono. Noi stiamo facendo la stessa cosa: stiamo installando le porte blindate prima dello schianto.”

Come ha risposto la CINA? Quali le possibili ritorsioni?

Pechino non ha molto margine di ritorsione, per motivi strutturali.  “Se guardiamo alla storia economica — che ho anche insegnato — il Paese con il surplus commerciale, cioè la Cina, è in realtà nella posizione più debole. Noi siamo i debitori, loro i creditori, ma sono loro ad avere più da perdere.” Secondo Bessent, l’economia cinese è la più squilibrata della storia moderna. Il suo modello si basa in modo eccessivo sull’export, a livelli mai visti se rapportati al PIL e alla popolazione. “La Cina è oggi in una recessione deflazionistica, o addirittura in una depressione. Stanno cercando di uscirne esportando, ma noi non possiamo permetterglielo.”

Eppure, nonostante queste fragilità interne, Pechino ha reagito con fermezza alle nuove tariffe statunitensi. Come riportano il New York Post e il Wall Street Journal, la Cina ha risposto imponendo una tariffa del 34% su tutte le importazioni dagli Stati Uniti, in vigore dal 10 aprile 2025, e bloccando le autorizzazioni per nuovi investimenti cinesi in asset americani.

Non solo: sono state introdotte restrizioni sulle esportazioni di terre rare, materiali critici per le tecnologie avanzate, e avviata una causa presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) contro la Casa Bianca per violazione delle regole commerciali internazionali. Queste mosse, pur essendo simbolicamente forti, potrebbero rivelarsi più dannose per Pechino stessa, vista la sua dipendenza dalle esportazioni verso il mercato americano. Ma qual’è il “miglior scenario possibile”: “Penso che il Presidente Trump abbia infranto il modello economico cinese con questi dazi, noi produciamo di più e consumiamo meno, loro producono meno e aumentano il consumo interno. Rrterà una competizione economica, ma almeno livelleremo il campo da gioco.”

Nei prossimi anni la Cina potrebbe essere costretta a ripensare il proprio modello, che considera ormai rotto. Bessent ha anche richiamato una metafora nota nel mondo finanziario: “Se prendi un piccolo prestito da una banca, è la banca ad avere il controllo, ma se il prestito è enorme, sei tu ad avere il potere. Ecco: il deficit commerciale cinese con gli Stati Uniti è così grande che non possono fare a meno del nostro mercato.”

Invece dall’altra parte dell’oceano l’Europa dovrà ribilanciare, in quanto si trova davanti a una sfida simile a quella degli Stati Uniti. Quando Donald Trump, durante un vertice internazionale, definì “una follia” la decisione dell’Europa di costruire Nord Stream 2, aumentando la dipendenza energetica dalla Russia, Trump disse a noi europei: “ma siete pazzi? Già prendete la maggior parte dell’energia da Mosca e volete pure raddoppiare?” Sappiamo com’è finita.

IERI E OGGI – DA REAGAN A TRUMP

Nel 1980, Reagan vinse le elezioni promettendo cambiamento. Due anni dopo, l’America attraversò una recessione profonda — ma nel 1984 arrivò una delle più grandi vittorie elettorali della storia. “All’epoca si diceva che stesse impazzendo, che ‘Star Wars’ era una follia, che stava spendendo troppo, che avrebbe distrutto il bilancio federale. E invece cosa successe? Il Muro di Berlino cadde. L’Unione Sovietica crollò.”  Reagan usò la strategia sovietica contro i sovietici stessi: “Escalate to de-escalate — alzò così tanto la posta in gioco, che Mosca non riuscì a tenere il passo.”

E proprio come allora, l’obiettivo oggi non è eliminare il governo, ma renderlo più efficace: “L’ufficio guidato da Doge non serve a cancellare lo Stato, ma a renderlo più efficiente. La vera sfida è: possiamo fare meglio, con meno?”

Ma quali sono allora le differenze tra ieri e oggi?  “Io credo che questa strada funzionerà. So che quello che facevamo prima non funzionava. E ho fiducia — una fiducia altissima — che questa volta sì, ci riusciremo.” Come prova, ha citato i risultati della precedente amministrazione Trump, in particolare il fatto che molte previsioni catastrofiche non si sono avverate: “Dicevano che i dazi alla Cina avrebbero causato inflazione, che avrebbero danneggiato i lavoratori. E invece, i lavoratori a cottimo hanno guadagnato più dei supervisori. Il 50% più povero delle famiglie ha visto la propria ricchezza crescere più rapidamente del 10% più ricco.”

D’altra parte, il mestiere del Signor Bessent è quello di vendere il debito americano al mondo intero, un compito che comporta un senso di responsabilità enorme, perché non riguarda solo gli Stati Uniti, ma l’intero sistema economico globale. “Gli Stati Uniti non possono permettersi di fallire. Non possiamo permetterci di ‘andare a gambe all’aria. Quando ha assunto l’incarico, il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni era vicino al 5% — un livello che, può diventare insostenibile per un’economia che deve rifinanziare enormi volumi di debito. “Il 5% è una soglia scomoda, sia per i mercati, sia per il Tesoro.”

Sebbene la situazione si sia parzialmente stabilizzata, Bessent continua a monitorare con attenzione tre aree di rischio:

  1. Il mancato avanzamento dei tagli alla spesa e la lotta contro sprechi, frodi e inefficienze.
  2. Il pericolo che la riforma fiscale si blocchi, con l’effetto paradossale di portare all’aumento delle tasse più grande della storia.
  3. I rischi geopolitici: Iran, Taiwan, e ogni possibile escalation internazionale che potrebbe mettere tutto a rischio.

Nonostante le criticità, Bessent si mostra fiducioso: “Abbiamo già risparmiato 100 miliardi di dollari grazie al calo dei rendimenti dal 5% a sotto il 4%. Ogni punto base vale un miliardo.”

E aggiunge: “Stiamo impostando le vele per una fase fiscale più stabile. I mercati iniziano a capirlo. E no, gli Stati Uniti non andranno in default.” Ha anche condiviso una formula semplificata per spiegare la dinamica fiscale americana:

 G = S – T, ovvero spesa meno tasse.  (G- Government Deficit; S – Spesa Pubblica, Spending; T – Taxes entrate fiscali).

“Tutti amano spendere, sia i repubblicani che i democratici. Noi vogliamo tassare meno,….e se  la spesa scendesse davvero? Nessuno ci ha mai creduto seriamente. Nemmeno Reagan… ma vogliamo fare meglio, con meno.”


“Dalla Russia con amore”: le nuove minacce per l’Italia e il ruolo della Russia tra cyberspazio, salute pubblica, disinformazione e spionaggio.

di Claudio Bertolotti.

Articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico 1/2025 del Centro Alti Studi per la Difesa – Scuola Superiore Universitaria.

Abstract

L’articolo analizza le principali minacce alla sicurezza nazionale italiana attribuite alla Russia, con un focus su tre aree strategiche: cyber security, disinformazione e spionaggio. La Russia emerge come una delle principali sfide per l’Italia in ambito informatico, grazie alla sua capacità di condurre attacchi mirati volti a ottenere informazioni sensibili o a interferire con le infrastrutture critiche. Parallelamente, l’uso sistematico della disinformazione da parte di Mosca rappresenta uno strumento per influenzare l’opinione pubblica e le decisioni politiche in Italia, sfruttando social media e media tradizionali per diffondere contenuti falsi o manipolati. Il tema dello spionaggio si inserisce nel quadro di cooperazioni bilaterali come l’operazione “Dalla Russia con amore” del 2020, durante la quale sono emersi rischi legati alla raccolta di informazioni sensibili sotto il pretesto di assistenza sanitaria. Questo aspetto si collega a casi emblematici come l’arresto di Walter Biot, ufficiale della Marina militare italiana, accusato di spionaggio a favore della Russia. L’articolo sottolinea la necessità di strategie di contrasto multidimensionali per fronteggiare queste minacce, combinando tecnologie avanzate, cooperazione internazionale e rafforzamento della resilienza istituzionale.

Situazioni di emergenza, crisi e vulnerabilità: il terreno ideale per l’emergere di nuove minacce.

Le dinamiche delle relazioni internazionali e le politiche globali incidono profondamente sulla competizione tra attori statali e non statali, influenzando i settori politico, sociale ed economico. L’assertività dimostrata da alcuni Paesi nell’arena internazionale sta contribuendo, inoltre, a ridefinire gli equilibri di potere sia a livello regionale che globale. Fenomeni come l’emergenza pandemica da Covid-19, il conflitto tra Russia e Ucraina e la crisi energetica stanno già lasciando un’impronta destinata a perdurare a lungo, sia per l’Italia che per molte altre nazioni, con effetti significativi in ambito economico e sociale.

La pandemia da Covid-19 ha messo a dura prova l’Italia, evidenziando vulnerabilità sistemiche e criticità latenti. Essa ha generato una crisi sanitaria senza precedenti, con un incremento esponenziale dei contagi e dei decessi, oltre a un sovraccarico del sistema sanitario. A ciò si è aggiunta una crisi economica e sociale, caratterizzata da un aumento della disoccupazione e da una contrazione dei consumi, conseguenze dirette delle misure restrittive come i lockdown, che hanno portato alla chiusura di numerose attività produttive.

Prima che gli impatti della pandemia potessero essere completamente assorbiti, il 24 febbraio 2022 è scoppiato il conflitto in Ucraina, avviato dall’invasione russa. Questa guerra ha innescato una nuova crisi economica, aggravata dall’aumento dei costi delle materie prime e dalla riduzione dei flussi commerciali. Parallelamente, ha provocato una crisi politica internazionale, con l’introduzione di sanzioni contro la Russia e complicazioni nell’approvvigionamento energetico per molti Paesi europei.

La crisi energetica che ne è derivata ha ulteriormente peggiorato il quadro economico, determinando un ulteriore incremento dei prezzi delle risorse primarie e difficoltà di accesso all’energia. Questi fattori hanno avuto un impatto diretto sull’economia italiana, riducendo la competitività delle imprese nazionali. Questo contesto evidenzia la complessità delle relazioni internazionali e la volatilità dei rapporti tra alleati e rivali, sottolineando l’imprevedibilità di eventi capaci di ostacolare l’accesso alle risorse energetiche, condizionandone disponibilità e prezzi. Tali dinamiche hanno ripercussioni significative sui piani sociale, politico ed economico, rendendo indispensabile una gestione attenta e strategica di questi fenomeni globali (Bertolotti, 2023).

Minacce emergenti per la sicurezza dell’Italia e capacità della Russia (e sue linee d’azione).

La sicurezza e la difesa dell’Italia sono messe a rischio da una serie di minacce emergenti, che si manifestano in vari ambiti in relazione al contesto globale. Tra queste, il cybercrime rappresenta una delle sfide più rilevanti. Con la crescente dipendenza dalle tecnologie digitali, le infrastrutture critiche e le imprese italiane diventano bersagli sempre più vulnerabili ad attacchi informatici. Tali attacchi, spesso condotti attraverso metodi sofisticati, mirano a sottrarre informazioni sensibili o compromettere sistemi, causando danni significativi. La Russia, in particolare, è considerata una delle principali fonti di queste minacce, utilizzando il cyberspazio per attività di spionaggio e interferenza sulle infrastrutture strategiche.

Un ulteriore rischio è rappresentato dallo spionaggio industriale, che colpisce i settori d’eccellenza del sistema produttivo italiano e il know-how nazionale. In un contesto di competizione globale, settori come l’automotive, l’aerospazio, la difesa e l’energia risultano particolarmente esposti a tali pratiche. Le tecnologie avanzate e le innovazioni di punta diventano obiettivi di attacchi mirati, con conseguenze strategiche per la competitività del Paese.

Anche il sistema sanitario nazionale è vulnerabile. Gli attacchi informatici contro questo settore possono compromettere la fornitura di servizi essenziali, mettere a rischio i dati personali di pazienti e operatori, e generare perdite economiche significative per le strutture sanitarie. Queste azioni possono avere un impatto devastante sulla salute pubblica, aggravando ulteriormente situazioni di emergenza.

La disinformazione e propaganda costituiscono un’altra minaccia emergente, con la capacità di manipolare l’opinione pubblica attraverso la diffusione di notizie false o distorte. Social media e media tradizionali sono spesso usati per creare confusione e incertezza, influenzando le decisioni politiche e ostacolando la gestione di crisi. In un contesto già fragile, segnato dagli effetti della pandemia e della crisi energetica, tali dinamiche possono amplificare le divisioni sociali, minando la stabilità e la coesione nazionale.

La crisi energetica, inoltre, si configura come una minaccia significativa. La dipendenza dalle risorse esterne e l’aumento dei prezzi delle materie prime hanno un impatto diretto sull’economia italiana e sulla competitività delle imprese, rendendo più complessa la gestione delle emergenze e il processo decisionale delle autorità (Bertolotti, 2023).

Il ruolo della Russia.

La Russia si posiziona come uno degli attori principali nello scenario delle minacce emergenti per l’Italia. Grazie a una vasta capacità nel campo degli attacchi informatici, Mosca utilizza tecnologie avanzate per condurre azioni di hacking, impiegare malware sofisticati e sfruttare tecniche di phishing e ingegneria sociale. Questi strumenti, spesso supportati da gruppi APT (Advanced Persistent Threat) collegati al governo russo, permettono di interferire con sistemi protetti e ottenere informazioni strategiche.

In ambito geopolitico, la Russia ha sviluppato un approccio integrato alla comunicazione strategica e alla diplomazia digitale. Come descritto dal presidente Vladimir Putin nel 2012, il soft power viene utilizzato per perseguire obiettivi di politica estera senza ricorrere direttamente a strumenti militari. Organizzazioni come il “Russian World” e il “Gorchakov Fund of Public Diplomacy”, insieme all’Agenzia Rossotrudnichestvo, sono attori chiave di questa strategia, operando attraverso la diffusione di informazioni mirate e narrative alternative sui social network.

Durante la pandemia da Covid-19, la Russia ha intensificato il proprio impegno propagandistico attraverso l’invio di aiuti umanitari a vari Paesi, tra cui l’Italia. Tali iniziative, veicolate attraverso una comunicazione mirata sui social media, sono state utilizzate per consolidare la propria influenza a livello internazionale. Questo approccio ha permesso al Cremlino di guadagnare consenso in regioni strategiche come i Balcani, il Medio Oriente e l’America Latina, oltre che all’interno dell’Unione Europea.

La combinazione di disinformazione, propaganda e capacità cyber rende la Russia un attore centrale nelle dinamiche delle minacce emergenti, con impatti significativi sulla sicurezza e sulla stabilità globale. Per l’Italia, affrontare queste sfide richiede strategie coordinate e mirate, capaci di tutelare le infrastrutture critiche, proteggere la coesione sociale e rafforzare la resilienza nazionale.

Invitare la spia in casa: l’Operazione “Dalla Russia con amore”. Un’analisi delle dinamiche e implicazioni.

Durante le fasi iniziali della pandemia di Covid-19, il 7° Reggimento di difesa chimica, biologica, radiologica e nucleare “Cremona” (CBRN) dell’Esercito Italiano fu coinvolto, tra marzo e maggio 2020, in attività di sanificazione e decontaminazione. Questo impegno includeva il supporto ai centri di accoglienza per persone provenienti dall’estero e la sanificazione di oltre 180 strutture in Lombardia. A queste operazioni partecipò un contingente russo inviato nell’ambito dell’operazione “Dalla Russia con amore”, che portò alla formazione di 9 task force miste italo-russe (Senato della Repubblica, Doc. CLXIV n. 31, p. 85). L’intervento, inizialmente concentrato nella provincia di Bergamo, evidenziò vulnerabilità legate alla raccolta di informazioni da parte di attori esterni, con il rischio che l’aiuto offerto fosse usato come pretesto per penetrare il perimetro di sicurezza nazionale.

La missione russa vide il coinvolgimento di 104 operatori, tra cui i due epidemiologi di spicco Natalia Y. Pshenichnaya e Aleksandr V. Semenov. La presenza russa, tuttavia, fu oggetto di limitazioni: il contributo iniziale previsto di 400 operatori fu ridotto a 100 per decisione dell’allora ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Inoltre, il generale Luciano Portolano, comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze, respinse richieste di estendere le operazioni russe a siti strategici come basi militari e uffici governativi, tra cui la base di Ghedi (Brescia), utilizzata dalla NATO, limitandole ad ospedali e case di cura. Durante queste attività, i russi tentarono più volte di raccogliere campioni di virus e offrirono incentivi economici a ricercatori italiani per ottenere dati scientifici. Un esempio significativo fu l’offerta di 250mila euro a un dirigente dell’ospedale Spallanzani di Roma, che favorì il vaccino russo “Sputnik” a scapito del progetto italiano “Reithera” (Jacoboni, 2022).

Il Contesto e le Controversie.

L’accordo tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte fu raggiunto telefonicamente il 21 marzo 2020. Tuttavia, l’intervento russo, percepito come una forma di “assegno in bianco” da parte dell’Italia, fu attuato in modo non coordinato, senza consultare adeguatamente il governo italiano. Il contributo russo includeva esperti militari, specialisti in minacce biologiche e chimiche, e unità tecniche per lo studio di agenti patogeni, ma mancavano dispositivi per il rilevamento specifico del Covid-19.

Le aree selezionate dai russi per la sanificazione sollevarono preoccupazioni: molti dei siti erano vicini a infrastrutture sensibili come basi NATO contenenti arsenali nucleari. Questi fattori portarono il governo italiano a interrompere prematuramente l’operazione, considerandola un potenziale rischio per la sicurezza nazionale.

Ruolo degli epidemiologi russi

Un elemento di rilievo fu la presenza non autorizzata dei due epidemiologi russi, Pshenichnaya e Semenov, entrambi operativi presso la Rospotrebnadzor, l’ente russo responsabile della gestione della pandemia. I due avevano precedentemente lavorato a Wuhan e dichiararono che l’obiettivo della loro missione era acquisire esperienza sulle modalità di gestione del Covid-19 adottate in altri Paesi. Tuttavia, due mesi dopo la loro partenza dall’Italia, pubblicarono un report critico sulla gestione italiana della pandemia (Santarelli, 2022), alimentando dubbi sul reale scopo della loro presenza (Bertolotti, 2023).

Considerazioni finali

L’operazione “Dalla Russia con amore” solleva interrogativi sulla gestione di aiuti internazionali in contesti di emergenza e sui rischi connessi alla sicurezza nazionale. Mentre l’intervento russo fu ufficialmente presentato come un contributo umanitario, molteplici azioni suggeriscono che potesse servire anche come strumento per raccogliere informazioni strategiche e consolidare l’influenza geopolitica di Mosca. Queste dinamiche sottolineano l’importanza di un coordinamento rigoroso e di un’attenta valutazione dei rischi legati alla cooperazione internazionale in situazioni di crisi.

Analisi dell’operazione russa in Italia: una strategia di guerra ibrida 

L’intervento militare russo in Italia durante la pandemia di Covid-19 rappresenta un esempio pratico dell’applicazione della cosiddetta “guerra ibrida,” utilizzata da Mosca per ottenere un vantaggio strategico temporaneo nel contesto dell’emergenza sanitaria globale (Santarelli, 2022). A differenza della Cina, che si limitò a fornire consulenza tramite videoconferenze, l’Italia accolse e offrì ampia libertà di azione ai militari russi. Questo permise loro di raccogliere preziose informazioni sulla gestione e diffusione del virus, informazioni che furono sfruttate per una campagna di propaganda sia interna che internazionale, inclusa la promozione del vaccino russo “Sputnik V.”

L’operazione russa sembrava perseguire tre obiettivi principali. Primo, l’acquisizione di informazioni strategiche attraverso attività di spionaggio, con l’obiettivo di sviluppare una strategia di gestione della pandemia basata sulle conoscenze acquisite in Italia. Secondo, la propaganda interna ed esterna, finalizzata a esaltare i progressi della Russia e a promuovere l’adozione del vaccino “Sputnik” da parte di altri Paesi, inclusa l’Italia. Terzo, una campagna di “guerra informativa” volta a screditare la gestione italiana della crisi sanitaria, attraverso il contributo e le dichiarazioni di autorevoli epidemiologi russi. 

Implicazioni per la Sicurezza Nazionale 

L’operazione “Dalla Russia con amore” evidenzia la necessità di valutare attentamente le implicazioni per la sicurezza nazionale in situazioni di emergenza. Questo caso offre un esempio concreto di come attori esterni possano sfruttare contesti critici per infiltrare le loro reti di intelligence, raccogliere dati strategici o penetrare sistemi di sicurezza nazionale. In nome di una presunta assistenza umanitaria, tali operazioni possono minare la stabilità interna e rafforzare l’influenza geopolitica di Paesi terzi. 

L’esperienza italiana dimostra l’importanza di mantenere un controllo rigoroso e di definire limiti chiari nelle collaborazioni internazionali in situazioni emergenziali, al fine di prevenire rischi per l’integrità e la sicurezza dello Stato (Bertolotti, 2023).

Bibliografia

Bertolotti, C. (2023). Le minacce emergenti per l’Italia e il ruolo della Russia (cyber, sanitaria, disinformazione, spionaggio), in “La Russia nel contesto post-bipolare (RUSPOL). I rapporti con l’Europa tra competizione e cooperazione”, 2° Geopolitical Brief, Geopolitica.info, la Sapienza, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Roma.

Bērziņš, J. (2014). Russia’s New Generation Warfare in Ukraine: Implications for Latvian Defense Policy, Policy Paper No 02, (Riga: National Defence Academy of Latvian Center for Security and Strategic Research), 5.

Putin, V. (2012). Russia and the Changing World. Rossiyskaya Gaseta, 29 febbraio 2012.

Santarelli, M., (2022). Dalla Russia con amore. Aiuti covid o spionaggio dalla Russia? Cosa c’è dietro la missione dell’esercito russo a Bergamo, Agenda Digitale, 17 gennaio 2022.

Senato della Repubblica (2020), XVIII Legislatura, Doc. CLXIV n. 31, “Relazione sullo stato della spesa, sull’efficacia nell’allocazione delle risorse e sul grado di efficienza dell’azione amministrativa svolta dal ministero della Difesa, corredata del rapporto sull’attività di analisi e revisione delle procedure di spesa e dell’allocazione delle relative risorse in bilancio”, p. 85.

Tsvetkova, N., Rushchin D. (2021). Russia’s Public Diplomacy: From Soft Power to Strategic Communication. Journal of Political Marketing, 20(1), 50-59.