L’Etiopia non è solo il cuore pulsante dell’Africa orientale, ma anche un crocevia di interessi geopolitici ed economici di primaria importanza per l’Italia. Con una popolazione in rapida crescita e un’economia tra le più dinamiche del continente, il paese rappresenta un potenziale strategico ancora in gran parte inesplorato.
Sebbene la sua storia sia segnata da conflitti e tensioni interne, l’Etiopia si proietta verso il futuro con ambizioni di sviluppo e modernizzazione. La sua posizione geografica, che la rende un nodo essenziale per le rotte commerciali del Corno d’Africa, e il suo ruolo di leadership nel continente africano, con Addis Abeba sede dell’Unione Africana, la collocano al centro di dinamiche cruciali per la stabilità e la sicurezza regionale.
Per l’Italia, l’Etiopia rappresenta un’opportunità unica. Dalle collaborazioni nel settore energetico e infrastrutturale alla sicurezza e alla lotta al terrorismo, passando per il rilancio degli scambi commerciali, il legame tra i due paesi può rafforzarsi ulteriormente grazie alle iniziative del Piano Mattei, volto a rilanciare il ruolo italiano in Africa attraverso una cooperazione concreta e mirata.
Ma quali sono le sfide da affrontare? E quali le reali opportunità che l’Italia può cogliere in questo contesto? Un’analisi approfondita di questa relazione (disponibile nell’allegato documento in formato Pdf) permetterà di comprendere come e perché l’Etiopia sia un partner chiave per il futuro della politica estera ed economica italiana.
Lo abbiamo anticipato, l’Etiopia si conferma come un attore chiave nel contesto geopolitico dell’Africa orientale. Con una popolazione che supera i 120 milioni di abitanti e un’economia in crescita sostenuta dagli investimenti infrastrutturali e dal settore agricolo, il paese rappresenta una realtà con cui l’Italia intende rafforzare i rapporti. La sua posizione strategica, tra il Corno d’Africa e le principali rotte commerciali internazionali, la rende un perno per la stabilità dell’intera regione. Tuttavia, le sfide interne, tra cui tensioni etniche e instabilità politica, rappresentano fattori critici da gestire con una strategia di lungo termine. In questo contesto, il “Piano Mattei” emerge come un’opportunità per consolidare la presenza italiana nel paese attraverso una cooperazione che spazia dalla sicurezza allo sviluppo economico.
L’importanza
dell’Etiopia nel contesto geopolitico
L’Etiopia confina con Eritrea, Sudan, Sud Sudan,
Kenya, Somalia e Gibuti, trovandosi al centro di una regione attraversata da
profonde tensioni geopolitiche. La mancanza di uno sbocco marittimo dal 1993 ha
reso essenziale l’accesso ai porti di Gibuti per il commercio internazionale,
rafforzando la necessità di investimenti infrastrutturali. Inoltre, la presenza
della sede dell’Unione Africana ad Addis Abeba sottolinea il ruolo politico centrale
del paese nel continente.
Struttura
politica e sfide interne
L’Etiopia è organizzata come una Repubblica Federale
Parlamentare, con un assetto politico che, nonostante le riforme, continua a
essere segnato da divisioni etniche e conflitti interni. Dal 2018, il governo
del Primo Ministro Abiy Ahmed ha tentato di modernizzare il paese, ma ha dovuto
fronteggiare una grave crisi nel Tigray (2020-2022) e continue tensioni nelle
regioni di Oromia e Amhara. L’instabilità politica si riflette anche nella
sicurezza interna, con la presenza di milizie locali che spesso sfidano
l’autorità centrale.
Economia e
opportunità di sviluppo
Nonostante le difficoltà, l’Etiopia mantiene un tasso
di crescita economica significativo, sostenuto dai settori chiave:
– Agricoltura (40% del PIL): principale fonte di
reddito del paese, con l’export di caffè e sesamo tra i più rilevanti.
– Industria (25%): in forte espansione, grazie agli
investimenti nelle infrastrutture e nella manifattura.
– Energia e trasporti: con la modernizzazione della
rete ferroviaria Addis Abeba-Gibuti e il potenziamento della produzione
idroelettrica, sebbene la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam
(GERD) abbia generato tensioni con Egitto e Sudan.
Il Piano
Mattei e le opportunità di collaborazione con l’Italia
L’Italia ha una lunga storia di rapporti con
l’Etiopia, caratterizzata da momenti di difficoltà ma anche da significative
collaborazioni. Oggi, il “Piano Mattei” si configura come un’iniziativa
strategica per rafforzare i legami tra i due paesi attraverso azioni mirate nei
seguenti ambiti:
1. Sviluppo
delle infrastrutture: progetti per il miglioramento delle reti di
trasporto, con particolare attenzione ai collegamenti ferroviari e stradali per
potenziare il commercio regionale.
2. Settore
della difesa e sicurezza: programmi di formazione per le forze armate
etiopi, cooperazione nella lotta al terrorismo e supporto tecnico per la
gestione della sicurezza interna.
3. Collaborazione
energetica: investimenti nel settore delle energie rinnovabili, in
particolare per lo sviluppo di progetti idroelettrici e solari.
4. Innovazione
agricola e sicurezza alimentare: trasferimento di tecnologie italiane per
la modernizzazione dell’agricoltura etiope, migliorando la produttività e la
sostenibilità del settore.
5. Relazioni
bilaterali e sviluppo economico: promozione di investimenti italiani in
Etiopia per incentivare la crescita industriale e manifatturiera, con il
supporto di aziende e istituzioni finanziarie.
Competitor e
potenziali partner nell’area
L’Italia non è l’unico attore internazionale a
guardare con interesse all’Etiopia. Tra i principali competitor si annoverano
la Cina, fortemente presente nel
settore infrastrutturale con investimenti nella ferrovia Addis Abeba-Gibuti e
nella costruzione di grandi opere; la Turchia,
che ha consolidato la propria presenza attraverso investimenti manifatturieri e
la vendita di armamenti, tra cui droni militari; la Russia, che cerca di rafforzare i rapporti nel settore della difesa
e dell’energia; e gli Stati Uniti,
tradizionalmente coinvolti in programmi di sviluppo e sicurezza nella regione.
Tuttavia, l’Italia può contare su potenziali alleati
strategici. La Francia, con cui
condivide l’interesse per la stabilità del Corno d’Africa e il rafforzamento
delle infrastrutture regionali, potrebbe essere un partner complementare. Anche
l’Unione Europea, nell’ambito delle proprie politiche di sviluppo e investimenti
in Africa, rappresenta un interlocutore di rilievo per un’azione congiunta in
Etiopia. A livello regionale, il Kenya e Gibuti si configurano come partner
commerciali cruciali per sviluppare corridoi logistici e sinergie economiche.
Prospettive
future e implicazioni strategiche
L’Etiopia si trova a un crocevia: da un lato, il suo
potenziale economico e la sua posizione strategica la rendono un partner
cruciale per l’Italia e per l’Europa; dall’altro, le tensioni interne e le
sfide regionali rappresentano un rischio per la stabilità. Il successo del
“Piano Mattei” dipenderà dalla capacità di garantire investimenti
efficaci e sostenibili, mantenendo un dialogo diplomatico costante e
supportando il rafforzamento della sicurezza interna. Per l’Italia, consolidare
i rapporti con l’Etiopia significa non solo ampliare le opportunità economiche,
ma anche contribuire alla stabilità del Corno d’Africa, con implicazioni
positive per l’intero Mediterraneo.
Lo Stato Islamico Khorasan: espansione verso l’Europa?
Nel 2023, Da’esh (ISIS) ha continuato a realizzare
attacchi isolati in Europa, generalmente con un supporto organizzativo
limitato. L’articolo rileva l’efficacia crescente delle misure antiterrorismo
europee che avrebbe probabilmente reso meno conveniente per i leader di ISIS
impiegare le rare risorse umane in tali attacchi. L’Autore, nel suo articolo,
esplora come il gruppo Stato islamico sembri prediligere la conservazione delle
proprie strutture organizzative in Europa, delegando l’azione a pochi individui
o cellule isolate. Inoltre, si discute il coinvolgimento crescente del ramo
Khorasan (IS-K) di ISIS nella pianificazione di attacchi in Europa o contro
obiettivi europei all’estero, come dimostrato da un complotto del 2020 contro
basi NATO in Germania. Nonostante i numerosi complotti identificati nel 2023,
vi è una certa discrezionalità nell’attribuzione di questi piani esclusivamente
a IS-K, suggerendo una cooperazione intra-ISIS più ampia. L’articolo rileva
che, nonostante le apparenze, Da’esh Khorasan non sta necessariamente
espandendosi, ma piuttosto assumendo nuovi compiti assegnatigli dalla
leadership centrale, pressata dalla scarsità di risorse.
Nel 2023 Da’esh ha continuato a compiere occasionalmente
attacchi isolati in Europa, di solito con un sostegno organizzativo
apparentemente limitato. Poiché l’antiterrorismo europeo è diventato sempre più
efficace, il rapporto costo-efficacia derivante dall’impegno di rare risorse
umane in attacchi isolati deve essere apparso discutibile ai leader dello Stato
Islamico e fonti di polizia in tutta Europa tendono a pensare che l’Isis
preferisca effettivamente salvaguardare qualunque struttura organizzativa abbia
ancora in Europa, lasciando il compito di sventolare la bandiera a pochi
individui o cellule isolate. In effetti, ancora all’inizio del 2022 fonti di
polizia in Europa non vedevano una minaccia imminente da parte di Da’esh, la
cui presenza era limitata a propagandisti, reclutatori e raccoglitori di fondi
online. Fonti talebane hanno confermato la detenzione di un agente dello Stato
Islamico in Afghanistan, che aveva raccolto migliaia di euro in Germania e
Spagna (Giustozzi, 2022). Fonti dell’intelligence talebana notano anche che
gran parte della propaganda online della branca del Khorasan di Da’esh viene
ora prodotta al di fuori dell’Afghanistan, compresa l’Europa. Dopo la caduta di
Kabul nell’agosto 2021, Da’esh Khorasan ha iniziato a pubblicare una parte
significativa di questa propaganda in inglese. Le ragioni potrebbero essere
molteplici, non tutte legate all’Europa. Una possibile ragione, rilevante per
la sicurezza europea, è l’intento di stimolare il reclutamento in Europa,
magari per rimpiazzare la perdita di molti operatori mediatici del Da’esh a
causa della repressione della polizia negli ultimi anni. Anche quando nel
luglio 2023 la polizia ha non solo arrestato diversi cospiratori dell’IS in
Germania e nei Paesi Bassi e li ha descritti come “in contatto con membri” del
ramo IS-K, ma ha anche osservato che erano impegnati nella raccolta di fondi e
non vi era alcuna indicazione che stavano attivamente preparando un attacco
terroristico (Stewart ASyI, 2023).
1. L’IS-K e
l’ambizione di colpire l’Europa.
Alcuni osservatori hanno tuttavia notato una tendenza
recente, riguardante il crescente coinvolgimento organizzativo del ramo
Khorasan (IS-K) nella pianificazione di attacchi in Europa, o contro obiettivi
europei in Turchia. Le autorità tedesche hanno affermato nel 2020 che la
cellula dietro un complotto volto ad attaccare le basi NATO in Germania,
sventato dalla polizia nell’aprile 2020, aveva ricevuto l’ordine di agire da un
quadro di Da’esh Khorasan in Afghanistan (Nodirbek, 2021). L’episodio, però, ha
attratto poca attenzione e le prove condivise dalle autorità tedesche restano poco
chiare. Ciò che ha davvero attirato l’attenzione di molti osservatori è stato
il rapporto dell’intelligence statunitense emerso tra le fughe di notizie di
Discord, che mostravano come a febbraio 2023 15 diversi complotti di Da’esh
Khorasan per effettuare attacchi contro interessi occidentali in Europa,
Turchia, Medio Oriente e altrove erano stato identificati dalle forze armate
statunitensi (Lamothe, Warrick, 2024). Sebbene queste cifre sembrino
impressionanti, contrastano stranamente con il fatto che nel marzo 2023 il
comando centrale degli Stati Uniti valutava che Da’esh Khorasan avrebbe avuto
la capacità di organizzare attacchi contro gli interessi occidentali in Asia o
in Europa solamente “entro 6 mesi”. La discrepanza è difficile da spiegare, a
meno che per i militari i 15 complotti sopra menzionati non fossero da prendere
troppo sul serio, o da non attribuire esclusivamente o anche principalmente a
Da’esh Khorasan. A questo riguardo, fonti turche parlano del coinvolgimento di
Centroasiatici legati a Da’esh Khorasan e di membri del ramo turco di Da’esh in
almeno alcuni di questi complotti, quali quelli contro i consolati svedese e
olandese in territorio turco. Anche lo stesso rapporto summenzionato
dell’intelligence statunitense rilevava che Da’esh Khorasan “faceva affidamento
su risorse provenienti dall’esterno dell’Afghanistan”.[1] Pur avendo ordinato gli attacchi dall’Afghanistan,
secondo quanto riferito, Da’esh Khorasan avrebbe fatto affidamento su mezzi e
personale già presenti sul posto.
L’Afghanistan e la
struttura sviluppata dell’IS.
Nel 2023 fonti all’interno di Da’esh Khorasan in
Afghanistan hanno confermato al gruppo di ricerca dell’autore di aver
coordinato operazioni in Turchia e in Europa con altri rami di Da’esh,
sottolineando tuttavia che ciò è avvenuto sotto la guida della leadership
centrale del “Califfato”. Ciò implica che Da’esh Khorasan in quanto tale non ha
determinato la strategia complessiva che presiedeva alla pianificazione di
questi attacchi. Le stesse fonti interne a Da’esh Khorasan indicano che
l’Afghanistan ospita diverse commissioni militari per i paesi vicini, come
l’Iran e l’Asia centrale, ma non hanno menzionato alcuna entità del genere
focalizzata su Europa, Turchia o Medio Oriente. Fonti contattate
dall’International Crisis Group in Siria hanno indicato nel 2023 che i
Centroasiatici che operavano in passato agli ordini di Da’esh Levante sono
stati trasferiti sotto la responsabilità di Khorasan (International Crisis
Group, 2023). Secondo le summenzionate fonti all’interno di Khorasan, almeno
inizialmente, ciò avrebbe dovuto preludere al loro trasferimento in
Afghanistan, che però è avvenuto molto più lentamente del previsto.
Il quadro che queste fonti ritraggono è quello di una
struttura di Da’esh Khorasan relativamente sviluppata in Turchia e Siria, con
più di 200 membri che lavorano nel centro finanziario dell’IS-K in Turchia, più
400-500 centroasiatici sparsi tra Siria e Turchia, ex membri della branca
siriana che o sono stati riassegnati al Khorasan o hanno cambiato casacca
spontaneamente (le fonti non sono chiare su questo punto), in attesa di essere
trasferiti nel Khorasan o comunque di sentirsi dire cosa fare. In Europa la
presenza di Da’esh Khorasan sarebbe molto più modesta, con 60 membri. Secondo
le stesse fonti, a settembre 2022 si trovavano circa 30 europei appartenenti
all’IS-K in Afghanistan e Pakistan. Di questi, 16 provenivano dalla Germania,
dieci dalla Francia e quattro dal Belgio. C’erano anche quattro americani e
qualche turco. Questi individui con passaporti di paesi europei e nordamericani
vengono descritti come evacuati dal Medio Oriente dopo il crollo del Califfato,
piuttosto che inviati incaricati di organizzare attacchi a lungo raggio in
Europa. Sebbene tutti questi numeri non possano essere verificati, sembrano
compatibili con le informazioni sopra riassunte e fornite da Europol, ICG e
altri.
Questo quadro suggerisce continui scambi di membri tra Khorasan
e altri rami di Da’esh in Turchia, Europa e Siria (che tra l’altro avvengono
anche altrove), anche se la velocità e l’intensità di questi scambi sono
diminuite nel tempo. C’è sempre stata una notevole integrazione tra i rami di
Da’esh, nonostante molti all’epoca del lancio di Da’esh Khorasan ipotizzassero
che si trattasse di una mossa opportunistica, con pochi rapporti organici con
il “Califfato”. Più che di espansione delle operazioni dell’IS-K in Europa, in
conclusione, si dovrebbe parlare di cooperazione tra filiali intra-Da’esh. Tale
cooperazione sembra senza dubbio essersi ampliata nel 2022-2023, il che fa
sorgere una domanda sul perché.
L’IS sarebbe in
attesa?
A questo proposito, vale la pena notare che l’IS-K non
rivendica né pubblicizza la sua presunta “espansione”. Anche quando
sollecitate, le fonti dell’IS-K in Afghanistan si sono tenute ben lontane dal
vantarsi di tale espansione. Al contrario, tendono a minimizzarne l’importanza.
Ciò sembra strano, dato che:
1. Da’esh Khorasan ha condotto una sofisticata campagna
mediatica, il cui futuro principale è amplificare i suoi limitati risultati e
fare affermazioni ingiustificate;
2. se l’“espansione” fosse davvero tale, costerebbe a
Da’esh Khorasan una parte considerevole delle sue limitate risorse, e che
3. le chats private dell’IS-K sui social media e le
nostre interviste con i membri mostrano chiaramente che l’organizzazione fatica
a spiegare ai propri membri e simpatizzanti perché le sue attività sono state
così limitate nel 2023.
Forse Da’esh Khorasan potrebbe semplicemente stare
aspettando, prima di promuovere la sua “espansione” al di fuori del mandato
della provincia di Khorasan (Afghanistan, Khyber Pakhtunkhwa del Pakistan, Asia
Centrale, Cina, Iran) finché non riuscirà a portare a termine un attacco con
successo. Tuttavia, Da’esh Khorasan non mostra alcuna timidezza simile nel
rivendicare il suo intento di portare la jihad in Cina (dove, nonostante anni
di propaganda, non è riuscito a ottenere nulla) o in Asia Centrale, dove i suoi
successi sono stati minimi (lanciando razzi oltre il confine verso Tagikistan e
Uzbekistan). Se lo scopo primario di Da’esh Khorasan fosse quello di affermare
di aver aperto nuovi fronti in Europa, Turchia e Medio Oriente, perché non
dovrebbe adottare tattiche simili a quelle impiegate nella provincia di
Khorasan ed effettuare facili attacchi contro obiettivi soffici, per poi
produrre affermazioni ampiamente gonfiate sui danni inflitti?
La forza dell’IS
In sintesi, la spiegazione più logica è che il “Califfato”,
che è al suo punto più debole dalla sua nascita, abbia chiesto aiuto a Da’esh
Khorasan per riconquistare le vette mediatiche con qualche attacco di alto
profilo contro obiettivi europei. Una possibilità è che il “Califfato” potrebbe
ora essere così debole in Europa e dintorni da non avere più la forza di
lanciarvi una campagna sistematica di intensificazione delle operazioni.
Un’altra possibilità è che, in linea con quanto osservato all’inizio di questo
articolo, la leadership centrale di Da’esh possa aver deciso di aumentare la
propria visibilità intensificando le operazioni terroristiche, salvaguardando
allo stesso tempo quello che rimane della sua struttura in Europa e affidandosi
invece a elementi di Da’esh Khorasan, che non fanno parte della stessa
struttura e non rischiano di comprometterla se catturati.
Perché Khorasan e non altri rami di Da’esh? Come accennato
in precedenza, Da’esh Khorasan ha da anni una presenza significativa in
Turchia, con nascondigli e reti dedicate al supporto delle operazioni
finanziarie. Questo polo finanziario ora fatica a svolgere il suo compito
originario, a causa della forte pressione delle autorità turche, quindi la sua
conversione a ruoli più operativi potrebbe sembrare logica. Inoltre, come
accennato, i Centroasiatici si stavano preparando per essere trasferiti in
Afghanistan, avendo esaurito la loro utilità in Siria, dove operare
clandestinamente è molto più difficile per loro che per i nativi siriani o
anche per gli iracheni. Dato che solo poche decine riescono a compiere il
viaggio ogni mese, coloro che rimangono inattivi in Turchia e Siria possono
ben essere mobilitati per altri compiti. In breve, Da’esh Khorasan era
prontamente disponibile e ben posizionato per fornire sostegno alla leadership
centrale, i cui rami siriano e iracheno sono stati notevolmente indeboliti
negli ultimi anni. Nessun altro ramo di Da’esh si trova in una posizione
simile.
Conclusioni
In conclusione, Da’esh Khorasan probabilmente non è
realmente “in espansione”. I membri coinvolti negli attentati pianificati erano
già con Da’esh Khorasan o vi si stavano trasferendo (nel caso degli asiatici
centrali). Ciò che sembra essere cambiato è che a Da’esh Khorasan sono stati
assegnati compiti aggiuntivi da una leadership centrale, che è a corto di soldi
e risorse umane e ha bisogno di aumentare il proprio profilo mediatico per
avere la possibilità di riemergere dalla crisi. Ciò spiegherebbe anche perché i
membri di Da’esh Khorasan in Afghanistan non sono particolarmente entusiasti di
questo sviluppo, che almeno nel breve termine non fa altro che sottrarre loro delle
già scarse risorse umane.
[1] ‘Daesh’s massacre plan’, Yeni Safak,
20 July 2023.
di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
“Il diritto di resistenza è
un diritto di difesa, ma non implica l’uso della violenza, bensì la possibilità
di opporsi all’abuso di potere con strumenti legali e pacifici. – e i leader
della terra devono affrontare il compito più difficile che ci sia, ossia quello
di evitare una guerra nucleare, mentre cercano di preservare la libertà è
necessario introdurre programmi di disarmo”
Questa una mia sintesi di quanto detto da Norberto Bobbio e da Robert Kennedy
dove ambo enfatizzano l’importanza della difesa dei diritti attraverso mezzi
legittimi e non violenti, mantenendo il rispetto per l’ordine e la giustizia,
sono concetti che purtroppo non riescono ancora a trovare applicazione. La
corsa agli armamenti rimane la scelta primaria di quasi tutti i presidenti
americani. Questa corsa però, porta sempre in seno una minaccia evidente,
sottraendo economie vitali ad altro. Durante
l’epoca reaganiana, gli Stati Uniti volevano installare missili nucleari lungo
la linea divisioria tra Europa occidentale e l’URSS. Il presidente stesso era
finito sulla copertina del Times con “The Evil Empire” riferendosi all’ex
Unione Sovietica; numerose erano le
manifestazioni contro quest’idea, considerando che erano trascorsi solo 4
decenni dalla fine della seconda guerra mondiale, e i nonni, ancora vivi o
sopravvisuti, ci raccontavano, a tavola la domenica dei drammi della guerra. L’Eruopa
era quindi ancora una volta il terreno di battaglia. Ma Reagan, sapeva che non
sarebbe riuscito a installare i missili lungo la linea divisoria tra i paesei
dell’est e dell’ ovest europeo. Fu per merito di esperti come il Generale
Abrahamson, se Reagan riuscì a mettere in ginocchio il suo nemico numero
uno, grazie all’idea di creare una corsa
agli armamenti “spaziale”, con il “Progetto SDI” – Space Defence Initiative.
Reagan immaginava una strategia di difesa in grado di intercettare e
distruggere i missili balistici intercontinentali (ICBM) durante le diverse
fasi del loro volo, inclusi il lancio, la fase intermedia e quella finale.
L’SDI era ambizioso, incorporava tecnologie avanzate come stazioni spaziali
laser, piattaforme missilistiche a terra e sofisticati sensori per rilevare e
tracciare le minacce. Sicuramente lasciò tutti sbalorditi, militari e non. Sembrava
che Star Wars fosse una realtà imminente.
L’SDI ebbe un impatto duraturo
sulla politica della difesa statunitense e sulle relazioni internazionali, stimolando
investimenti significativi nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie per la
difesa missilistica, alcune delle quali gettarono le basi per i futuri sistemi.
Inoltre, l’SDI influenzò le negoziazioni sul controllo degli armamenti, in
particolare con l’Unione Sovietica. Forzò la creazione di osservatori
diplomatico-militari per capire fin dove si sarebbe spinta questa nuova
iniziativa. Seppur da civile, ebbi l’occasione di vederla da vicino.
La decisione di Reagan nel 1983
scatenò di conseguenza, una nuova corsa agli armamenti con l’Unione Sovietica, (la
Cina di Deng Xiaoping era troppo impegnata nell’ammodernamento interno) mettendo
sotto pressione l’economia sovietica in modo significativo. L’URSS, già in
difficoltà economiche e militari, faticava a tenere il passo con le tecnologie
avanzate degli Stati Uniti. L’SDI fu visto come una minaccia per il deterrente
nucleare sovietico, e costrinse l’URSS a sviluppare contromisure, ma le
difficoltà tecniche e i costi elevati, la resero consapevole di non poter
competere in un’ulteriore escalation militare. Così l’URSS firma il Trattato INF (Intermediate-Range
Nuclear Forces Treaty), nel 1987 con gli gli Stati Uniti. Il trattato
mirava a eliminare tutte le armi nucleari e convenzionali di raggio intermedio,
cioè missili con una gittata compresa tra 500 e 5.500 chilometri, dai
rispettivi arsenali. L’accordo fu una tappa importante nella distensione della
Guerra Fredda, in quanto contribuì a ridurre il rischio di conflitti nucleari
in Europa e a diminuire la presenza di armi nucleari a corto e medio raggio.
Entrambe le superpotenze si impegnarono a distruggere i missili in questione,
con verifiche reciproche per garantire il rispetto del trattato.
Dopo 32 anni, nel dicembre del 2019,
il presidente Trump firma il National Defense Authorization Act, creando
ufficialmente la United States Space Force, il sesto ramo delle forze
armate degli Stati Uniti. Questo passo riconosce lo spazio come un dominio
critico per la sicurezza nazionale, con l’obiettivo di migliorare le capacità
del paese nelle operazioni spaziali.
La creazione della Space Force
rappresenta una pietra miliare significativa, da quando fu creata l’Air Force
nel lontanto 1947. La mission di questo
nuova forza militare, ha il compito di organizzare, addestrare e fornire
equipaggiamento ai professionisti dello spazio per proteggere gli interessi del
paese e dei suoi alleati nello spazio. Già
durante la campagna elettorale, Trump aveva detto che avrebbe creato una Space
National Guard a supporto della Space Force, squadre specializzate nella
gestione dei dati satellitari, per garantire il mantenimento della superiorità
tecnologica. Oggi invece, in conferenza stampa, Trump ha annunciato di voler istituire
un sistema di difesa missilistica di nuova generazione, ispirato all’Iron Dome
israeliano*, chiamata “Iron Dome for America”, che ha
l’obiettivo di proteggere gli Stati Uniti da minacce aeree. Il Segretario alla
Difesa Pete Hegseth ha sottolineato una rapida implementazione, in linea
con la promessa elettorale di Trump di sviluppare uno scudo di difesa
missilistica all’avanguardia, costruito internamente.
Anche se l’iniziativa “Iron
Dome for America” si concentra sul miglioramento delle capacità di difesa
missilistica, non si tratta di un nuovo ramo militare simile all’Iniziativa di
Difesa Strategica proposta durante l’amministrazione del presidente Ronald
Reagan. Invece, rappresenta un’espansione delle infrastrutture di difesa
esistenti per rafforzare la sicurezza nazionale contro le minacce emergenti.
L’annuncio di Trump di voler
sviluppare una versione americana, con l’obiettivo di migliorare le capacità di
difesa missilistica degli Stati Uniti esemplifica la serietà delle minacce che
questo paese ha vissuto negli ultimi anni. Purtroppo per la scrivente non è
dato sapere esattamente la gravità di queste, ma sono intuibili da un paio di
brevi affermazioni fatte da Pam Bondi, Procuratore di Stato per la Florida, durante
l’audizione presso il Comitato Giudiziario del Senato, per la sua conferma a Procuratore Generale
degli Stati Uniti.
Questi sviluppi evidenziano il
crescente riconoscimento dello spazio come una componente vitale della
strategia di difesa nazionale statunitense.
*L’Iron Dome (cupola di ferro) è
un sistema avanzato di difesa aerea sviluppato da Israele per intercettare e
distruggere missili a corto raggio e proiettili di artiglieria che minacciano
le aree popolate. Da quando è stato attivato nel 2011, è stato fondamentale per
proteggere i civili israeliani da varie minacce missilistiche. Sviluppato con
il supporto degli Stati Uniti, l’Iron Dome è composto da tre componenti
principali:
Radar di rilevamento e tracciamento: Identifica le minacce in arrivo.
Gestione della battaglia e controllo delle armi Valuta la minaccia e determina la necessità di intercettazione.
Unità di lancio missili: Lancia missili intercettori per neutralizzare la minaccia. Quando un razzo viene rilevato, il sistema calcola la sua traiettoria per determinare se atterrerà in un’area popolata. In tal caso, lancia un missile intercettore per distruggere la minaccia in volo.
Rivoluzione Trump: a Davos l’appello al cambiamento globale.
di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
Nel discorso virtuale al Forum Economico Mondiale di Davos del 2025, il Presidente Donald Trump ha condiviso la sua audace visione per l’economia globale, la politica estera e la riduzione degli armamenti nucleari. Il suo discorso ha suscitato intense discussioni e, durante la sessione di domande e risposte, domande poste da quattro eminenti figure internazionali dove le risposte del Presidente hanno offerto una visione ancora più dettagliata della situazione.
L’Economia Globale, i Tassi di
Interesse e l’Inflazione:
Domanda di Steve Schwarzman (Blackstone
Group*):“….Presidente Trump, molti uomini d’affari
europei hanno espresso una grande frustrazione con il regime normativo nell’UE
e attribuiscono la lentezza alla crescita dei tassi d’interesse a numerosi
fattori, ma soprattutto alle regolamentazioni. Lei ha adottato un approccio completamente
diverso. Potrebbe spiegarci la teoria di ciò che sta facendo, come intende
farlo e quale risultato si aspetta? Grazie.”
* Il Blackstone
Group è una delle più grandi società di gestione degli investimenti a
livello globale, specializzata principalmente in private equity, immobili,
hedge funds e crediti. Fondata nel 1985 da Stephen Schwarzman
e Peter Peterson, la società ha sede a New York ed è conosciuta per la
sua vasta portata e influenza nel settore finanziario.
Risposta di Donald Trump:
“Voglio parlare dell’Unione
Europea. Ho molti amici leader di vari paesi, e quasi tutti sono assai frustrati
da quanto tempo sia necessario per ottenere le approvazioni richieste. Per
esempio, prima ancora di entrare in politca, avevo un progetto in Irlanda approvato
dagli irlandesi in una settimana, ma quando ho dovuto richiedere quella della UE,
mi hanno detto che ci sarebbero voluti dai cinque ai sei anni. Non ho nemmeno
inoltrato la richiesta. Questo è un problema enorme, e mi sono reso conto che
l’UE ha un sistema burocratico lentissimo che frena le opportunità economiche……Dal
punto di vista americano, gli Stati Uniti sono trattati molto ingiustamente. Ci
sono tariffe pesanti sui prodotti americani, ma l’UE esporta massicciamente
verso di noi e senza gli stessi ostacoli. Anche in ambito agricolo e
automobilistico, ci sono politiche commerciali inique, con l’UE che non accetta
i nostri prodotti agricoli e non compra le nostre auto, ma continua a inviarci
milioni di auto. La situazione crea un deficit commerciale che ammonta a
centinaia di miliardi di dollari. Molti dei miei amici vogliono poter competere
meglio, ma non possono farlo con un sistema così farraginoso. Voglio essere
costruttivo, perché amo l’Europa e le sue nazioni, ma le politiche e i processi
sono troppo complicati e l’UE tratta gli Stati Uniti in modo molto ingiusto,
soprattutto con le tasse sul valore aggiunto e altre imposte.”
Rivedendo i numeri l’UE ha
acquistato 12,3 miliardi di dollari di esportazioni agricole statunitensi per
il 2023, rendendola il quarto mercato dopo Cina, Messico e Canada. Mentre se i
produttori automobilistici statunitensi hanno spesso avuto difficoltà a
competere in Europa, secondo un rapporto del dicembre 2023 dell’Associazione
dei Costruttori Automobilistici Europei, l’UE è il secondo mercato di
esportazione più grande per i veicoli statunitensi, importando 271.476 veicoli
nel 2022, per un valore di quasi 9 miliardi di euro (alcuni di questi veicoli
sono prodotti da case automobilistiche europee in stabilimenti negli Stati Uniti).
Trump ha anche menzionato le multe milionarie a Meta e Apple, senza però specificare
che avevano evaso le tasse dell’Unione – sono stati multati dall’UE per
pratiche fiscali considerate elusione delle normative fiscali europee: Apple
per aver ricevuto aiuti fiscali illegali dall’Irlanda, riducendo artificialmente
le sue imposte; allo stesso modo, Meta è stata multata per aver creato
strutture societarie in Europa che permettevano di ridurre in modo
significativo le imposte da pagare, violando le leggi fiscali comunitarie.
2. Energia e sicurezza degli approvvigionamenti:
Domanda di Patrick Pouyanné, CEO
di TotalEnergies: “Signor Presidente, come sappiamo, l’energia è in cima alla sua agenda
e per me è un onore rappresentare l’industria energetica in questo gruppo.
TotalEnergies è infatti la quarta, più grande compagnia al mondo, nel settore
petrolifero, del gas e dell’elettricità. Non le chiederò nulla riguardo ai
prezzi del petrolio, è abbastanza chiaro cosa si aspetta da noi – nel suo
discorso Trump ha chiesto a tutti i produttori di petrolio mondiali di
abbassare i prezzi. Passando al gas, la nostra compagnia è il principale
esportatore di GNL (gas naturale liquefatto) degli Stati Uniti. Siamo un
contributore forte e investiamo in progetti GNL in Texas, con un investimento
di 20 miliardi di dollari. Non sono 200 miliardi, ma sono comunque 20 miliardi,
e contribuiamo alla fornitura per l’Europa esportando gas. Alcuni esperti
temono che, se si sviluppano troppi progetti simili negli Stati Uniti, questo
potrebbe avere un impatto inflazionistico sui prezzi del gas domestico e
suggeriscono una moratoria. Le chiedo: qual è la sua opinione su una tale
moratoria sugli investimenti in GNL negli Stati Uniti? Cosa accadrebbe se
osservassimo un aumento dei prezzi del gas domestico a causa delle
esportazioni? Infine, una domanda importante per l’Europa: sarebbe disposto a
garantire la certezza di approvvigionamento energetico dagli Stati Uniti verso
l’Europa?”
Risposta di Donald Trump:
“Sì, in risposta alla sua
domanda, sì, garantirei la fornitura, se facciamo un accordo, lo manterremo,
perché molte persone hanno avuto questo problema: fanno un accordo ma non
riescono a garantire l’approvvigionamento a causa dei problemi legati alla
guerra o altre difficoltà. Garantiamo… Uno dei primi problemi che ho
affrontato durante il primo mandato fu con due impianti enormi in Louisiana che
stavano subendo lunghi ritardi nelle approvazioni ambientali, da più di dieci
anni. Questi impianti avrebbero dovuto costare circa 12-15 miliardi di dollari,
ma non riuscivano a ottenere i permessi, e io ho accelerato il processo
portandoli a termine in meno di una settimana. È stato fatto grazie al mio
intervento diretto, senza l’aiuto dei consulenti. Daremo approvazioni molto
rapide negli Stati Uniti, come per gl’impianti per l’AI. Sarà una cosa enorme.
Costruiremo impianti elettrici, e io li farò approvare tramite la “dichiarazione di emergenza”. Posso
ottenere approvazioni personalmente (come
Presidente ndt), senza dover aspettare anni. Il grande problema è che
abbiamo bisogno di doppia energia rispetto a quella che abbiamo attualmente
negli Stati Uniti. Immaginate cosa succederebbe se l’AI diventasse davvero
grande come vogliamo. Quindi farò una “dichiarazione di emergenza” in
modo che possano iniziare subito i lavori… – Trump aggiunge qui un’altra
sua idea riguardo alla necessità di molti impianti di avere fonti energetiche
più potenti e affidabili – …Penso che sia stata principalmente una mia
idea…, ma dissi di costruire un impianto elettrico accanto al loro stabilimento,
come un edificio separato ma collegato. E loro mi dissero: ‘Davvero?, ma stai
scherzando?’ E io dissi: ‘No, non sto scherzando. Non dovete collegarvi alla
rete, che è vecchia e potrebbe essere eliminata o rompersi. Se viene eliminata,
non avrete elettricità.’ Così permetteremo loro (i proprietari degli impianti) di costruire velocemente il
loro impianto e la centrale elettrica. Possono alimentarla con qualsiasi cosa
vogliano, e potrebbero anche usare il carbone come riserva. Carbone pulito, se
ci fosse un problema con una conduttura, per esempio, nel caso in cui una
conduttura di gas o petrolio venga distrutta, alcune aziende negli Stati Uniti
hanno carbone proprio accanto agli impianti, quindi se ci fosse un’emergenza,
potrebbero usare quel carbone pulito a breve termine. È qualcosa che molte
persone non sanno, ma niente può distruggere il carbone, né il maltempo né una
bomba. Potrebbe ridursi un po’, o cambiare forma, ma il carbone è molto forte…,
e non costerà molto di più. Abbiamo più carbone di chiunque altro, e anche più
petrolio e gas di chiunque altro. Quindi faremo in modo che gli impianti
abbiano le proprie strutture di generazione elettrica direttamente collegate
agli impianti, senza doversi preoccupare di una esterna pubblica.” Un’idea certamente innovativa.
Domanda di Brian Moynihan, CEO di Bank
of America: “Signor Presidente, se ricorda, cinque anni fa è venuto qui e abbiamo
conosciuto più di 150 CEO, da tutto il mondo, abbiamo discusso con loro delle
sue politiche e delle sue procedure. Questa settimana è stata memorabile a
partire dai decreti esecutivi che ha menzionato prima: letteralmente una serie
di decreti per l’immigrazione, il commercio e molte altri. Come rappresentante
degli Stati Uniti qui, mi hanno posto molte domande su cosa significhi tutto
questo e come il presidente intenda conciliare tutto ciò con il suo chiaro
obiettivo di crescita, prosperità, crescita dei mercati, crescita del mercato
azionario, un buon mercato obbligazionario e la riduzione dei prezzi. Come
pensa che gli impatti di tutti questi decreti s’intrecceranno con il suo
impegno per continuare la crescita del PIL, abbattere l’inflazione e avere
anche un buon apprezzamento dei prezzi delle azioni per i cittadini
americani?”
Risposta
di Donald Trump:
“Penso che in realtà questo
abbasserà l’inflazione, aumenterà l’occupazione, avremo molti posti di lavoro e
molte aziende che si trasferiranno qui. Sai, Brian, siamo scesi dal 40% al 21%,
ho ridotto l’imposta sulle società dal 40% al 21%, e se guardi a livello statale
e cittadino, in molti casi era anche più alta del 40%. L’ho portato al 21% e
ora lo abbasseremo dal 21% al 15%, ma c’è un grande ‘se’: se produci il tuo
prodotto negli Stati Uniti. Quindi avremo la tassa più bassa, quasi la più
bassa, sarà il 21% che è già bassa a livello mondiale, il 15% è praticamente il
minimo che si possa ottenere, e di gran lunga la più bassa per un paese grande,
ricco e potente, non c’è competizione. Quindi la abbasseremo al 15% se produci
il tuo prodotto negli Stati Uniti. Questo creerà un’energia incredibile.
Probabilmente torneremo anche alla deduzione annuale, come facevamo in passato.
La deduzione annuale che si accumulava nel tempo e poi scadeva. Ma torneremo su
questo quando faremo il rinnovo del piano fiscale Trump. Dobbiamo farlo
approvare dai Democratici, ma se i Democratici non lo approveranno, non so come
possano sopravvivere a un aumento delle tasse del 45%, perché sarebbe così. E
penso che lo approveranno. Penso che sia molto difficile per un gruppo politico
dire: ‘Facciamo pagare alla gente il 45% in più’. In realtà stiamo facendo una
riduzione per le aziende e le piccole imprese, dove la tassa scenderà al 15%,
che è davvero qualcosa di notevole.
Per quanto ti riguarda, hai fatto
un lavoro fantastico, ma spero che inizi ad aprire le tue banche ai
conservatori, perché molti conservatori si lamentano che le banche non
permettono loro di fare affari con la banca, e questo include Bank of America.
Questi conservatori non accettano affari conservatori e non so se i regolatori
lo abbiano imposto a causa di Biden o cosa, ma tu, Jamie e tutti gli altri,
spero che apriate le vostre banche ai conservatori, perché quello che state
facendo è sbagliato*.”
*Il Presidente Donald Trump ha
recentemente accusato Bank of America e JPMorgan Chase di discriminare i
clienti conservatori negando loro i servizi bancari. In risposta, entrambe le
banche hanno emesso dichiarazioni negando queste accuse. Bank of America ha
sottolineato che non ha un “test litmus politico” e che serve oltre
70 milioni di clienti, accogliendo anche i conservatori. JPMorgan Chase si è
difesa affermando che non ha mai chiuso un conto per motivi politici e che
segue la legge e le direttive degli enti regolatori.
Entrambe hanno dovuto affrontare
critiche riguardo alle loro politiche sui conti, con accuse di
“de-banking” nei confronti dei clienti conservatori. Ad esempio, nel
2020, Bank of America ha chiuso i conti di Timothy Two Project International,
una ONG con sede negli Stati Uniti, affermando che l’organizzazione “gestiva
un tipo di attività che abbiamo scelto di non servire”.
In risposta a queste preoccupazioni, un gruppo di 15 procuratori generali di
vari Stati ha inviato una lettera a Bank of America, chiedendo un rapporto
sulle sue politiche e pratiche relative ai conti, in particolare riguardo a
termini come “tolleranza al rischio”, “rischio
reputazionale”, “odio” e “intolleranza”. Hanno anche
richiesto che la banca aggiornasse i suoi termini di servizio per dichiarare esplicitamente
che non discrimina i clienti in base a opinioni religiose o politiche.
Domanda di Ana Botín, presidente
esecutivo di Banco Santander:
“Signor Presidente,
congratulazioni per una vittoria storica. Credo che lei non mi conosca tanto
bene quanto i miei colleghi qui presenti, quindi mi permetta di darle qualche
fatto. Santander è una delle banche più grandi al mondo per numero di clienti,
170 milioni, che sono più di quelli del mio amico Brian o del mio amico Jamie.
Siamo un grande investitore negli Stati Uniti, con milioni di clienti e 12.000
dipendenti, siamo uno dei maggiori finanziatori di auto e recentemente abbiamo
lanciato una banca completamente digitale chiamata Open Bank. Crediamo
fermamente che le banche abbiano un ruolo fondamentale nell’economia e che
possano accelerare la crescita e aiutare molti più clienti. Questo è ciò che
stiamo facendo negli Stati Uniti. Come ha sottolineato Brian, apprezziamo molto
il suo impegno per la deregolamentazione e la riduzione della burocrazia. La
mia domanda è: quali sono le sue priorità in merito e quanto velocemente si
realizzeranno? La ringrazio molto.”
Risposta di Donald Trump:
“Sò molto della vostra banca e
avete fatto un lavoro fantastico, congratulazioni. Ci muoveremo molto
rapidamente, ci stiamo già muovendo rapidamente. Abbiamo fatto cose negli
ultimi tre giorni che nessuno pensava fossero possibili in anni, e tutto sta
prendendo forma, avrà un enorme impatto sull’economia, un enorme impatto
positivo. I soldi venivano sprecati in cose folli. Voglio dire, il Green New
Deal è stato un totale disastro. Com’è stato perpetrato e concepito da persone
che erano studenti mediocri, anzi, meno che mediocri, aggiungerei, e che non
avevano nemmeno mai seguito un corso sull’energia o l’ambiente. Ricordate, il
mondo doveva finire in 12 anni, vi ricordate? Ebbene, i 12 anni sono passati e
se ne sono andati. Queste persone hanno davvero spaventato i Democrati, ma è
stato uno spreco enorme di denaro. Durante i miei quattro anni abbiamo avuto
l’aria più pulita, l’acqua più pulita, eppure avevamo l’economia più produttiva
nella storia del nostro paese, fino a quando è arrivato il Covid. Avevamo
l’economia più produttiva della nostra storia, di gran lunga. E, in realtà, se
guardiamo a livello globale, stavamo battendo tutti, dalla Cina a tutti gli
altri. E ora pensiamo che, con quello che abbiamo imparato e tutto il resto che
è successo, pensiamo di poter superare quella performance, anzi, di molto, ma
c’è una cosa che chiederemo: chiederemo il rispetto dalle altre nazioni. Con il
Canada abbiamo un enorme deficit, non lo avremo più, non possiamo più farlo.
Non so se sia buono per loro. Come sapete probabilmente, dico sempre che
possono diventare uno stato, diventare il nostro 51° stato, così non avremo più
il deficit, non dovremo tariffarli, ma le trattative con il Canada sono state
complesse per anni ed è ingiusto avere un deficit di 200 o 250 miliardi di
dollari. Non abbiamo bisogno che facciano le nostre auto, non abbiamo bisogno
del loro legname perché abbiamo le nostre foreste, non abbiamo bisogno del loro
petrolio e gas, ne abbiamo più di chiunque altro. …. Non c’è praticamente
nessuna nazione al mondo che non abbia approfittato di noi, e lo attribuisco a
noi, ai politici che per qualche motivo, probabilmente principalmente per
stupidità, ma si potrebbe anche dire per altri motivi, ma principalmente
stupidità, hanno permesso che altre nazioni approfittassero di noi e non
possiamo permetterlo più. Abbiamo un debito, è molto piccolo se lo confrontiamo
con il valore delle risorse che possediamo. Vogliamo che il debito venga
annientato, e saremo in grado di farlo abbastanza rapidamente.
Mi piacerebbe davvero poter
incontrare il Presidente Putin presto e fermare questa guerra. E questo non dal
punto di vista economico o altro, ma dal punto di vista di milioni di vite che vengono
sprecate, bellissimi giovani vengono uccisi sul campo di battaglia. Sapete, la
pallottola vola in terra piatta, come ho detto, e la pallottola va, non c’è
modo di nascondersi, l’unica cosa che può fermare la pallottola è un corpo
umano. E dovete vedere le foto di quello che sta succedendo, è una carneficina
e dobbiamo davvero fermare quella guerra, è orribile, e non sto parlando di
economia, non sto parlando di risorse naturali, sto parlando del fatto che ci
sono così tanti giovani che vengono uccisi in questa guerra, e questo senza
contare le persone che sono morte mentre le città venivano distrutte, edificio
per edificio.
Conclusione:
Il discorso del Presidente Trump
a Davos ha come sempre suscitato contrasti a seconda di quali interessi sia
andato a toccare. Ma fra tutte le idee che ha esposto non possiamo negare la
validità di due che se vedessero la luce del sole sarebbero per certo un passo
gigante per i risultati positivi che rappresentano a livello globale:
Riduzione
del costo del petrolio:
“Chiederò anche all’Arabia
Saudita e all’OPEC di abbassare il costo del petrolio. Onestamente, sono
sorpreso che non l’abbiano fatto prima delle elezioni… Se il prezzo
scendesse, la guerra tra Russia e Ucraina finirebbe immediatamente. Adesso il
prezzo è abbastanza alto e quindi la guerra continua. Bisogna abbassare il
prezzo del petrolio, bisogna fermare quella guerra. Avrebbero dovuto farlo
tanto tempo fa, sono molto responsabili, in effetti, per quello che sta
accadendo. Milioni di vite vengono perse. Abbassando il prezzo del petrolio,
chiederò che i tassi di interesse scendano immediatamente e allo stesso modo
dovrebbero scendere in tutto il mondo. I tassi di interesse dovrebbero seguirci
ovunque. Tutto il progresso che vedete sta accadendo grazie alla nostra
vittoria storica.”
Denuclearizzazione:
Trump
vuole lavorare per ridurre gli arsenali nucleari, aggiungendo che Russia e Cina
sono concordi nel supportare la riduzione delle proprie capacità nucleari.
“Vorremmo vedere la denuclearizzazione… e vi dirò che il presidente
Putin ha davvero apprezzato l’idea di ridurre notevolmente gli armamenti
nucleari.”
Trump, durante il suo primo
mandato, non è riuscito a coinvolgere la Cina nelle negoziazioni per estendere
un trattato di controllo degli armamenti nucleari con la Russia, chiamato New
START, che impone limiti chiave sugli armamenti nucleari schierati e scadrà nel
febbraio 2026. Questa presidenza ha
espresso l’impegno continuo per rimodellare le relazioni internazionali e
garantire un futuro più stabile per le generazioni a venire. Questa volta ci
sono buone chances che funzioni.
Il discorso di Trump: una lettura approfondita.
di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
Ho
vissuto diversi anni a Washington, DC e ho avuto modo di toccare con mano la
difficoltà di scrivere un discorso politico per non parlare di quello
presidenziale per l’inaugurazione. Se avete mai visto la serie televisiva West
Wing, se ne percepisce la fatica.
Di solito non è mai una sola mano a scrivere, ma un team, e quello di ieri è stato un “second best” ossia è stato sicuramente fatto molto bene, ma, ad oggi, nessuno è ancora riuscito a superare i discorsi di Kennedy, come quello per l’insediamento nel 1961 dove persino noi di oltreoceano ne ricordiamo la famosa frase: “non chiedere cosa può fare il tuo paese per te, ma cosa tu puoi fare per il tuo paese”.
A questo secondo giro di boa, per un uomo che è stato umiliato, deriso, perseguitato e criticato mondialmente, Trump ha sicuramente dimostrato, nonostante l’età, che si può ancora imparare, capire e cambiare. Sia Trump come JFK sono e vengono da famiglie di imprenditori, ma a differenza di John, e non Joe il padre, aveva quella generazione di differenza che gli permise di vestire le sue parole di grazia, di eleganza, un po’ come quando ci si cambia dal vestito da lavoro a quello per il ballo di fine anno. Trump, come Joe, ha avuto otto anni! Sono tanti, sia per capire che per decidere d’imparare. Ha avuto l’umiltà di lasciare che vestissero il suo programma con quelle parole eleganti, vicine alla cultura americana che avrebbero regalato fiducia, speranza, coraggio, unità, senza deturpare ai suoi occhi, il suo stile John Wayne.
Vediamo:
As we gather today, our government confronts a crisis of trust
Mentre ci riuniamo oggi, il nostro governo affronta una crisi di fiducia.
“As we gather today, our government confronts a crisis of trust.” La parola chiave è trust. Il leit motif americano è In God we Trust. La sfiducia nazionale sulle politiche in generale ha cause diverse che noi in Italia conosciamo molto bene: promesse, promesse, promesse, ma nulla di mantenuto. La generosità di Biden con l’Inflation Redaction Act, Job Act, e la creazione dell’app per gli immigrati per prendere appuntamenti con i funzionari dell’immigrazione, è stata tradita dai risultati, dove gli americani si sono trovati dopo quattro anni più poveri, deflagrata di diritti, case e beni.
Quindi partire parlando di fiducia sottolinea, da un lato, il modo diretto di parlare di un uomo d’affari ma, dall’altro, lo veste culturalmente di sostanza storica andando alle origini religiose, così:
Sunlight is pouring over the entire world, and America has the chance to seize this opportunity like never before.
Il sole splende su tutto il mondo e l’America ha la possibiltà di cogliere questa opportunità mai come adesso. Ecco il primo riferimento biblico, (Giovanni 8:12; Matteo 5:14-16; Salmo 36: 9 e altri).
Qualsiasi
persona di successo ci racconterebbe con semplicità che per arrivare e ottenere
quello che ha, è passato attraverso le forche caudine, si è sporcata le mani,
ha perso mille battaglie prima di raggiungere la mèta. Ma riconosce che le
possibilità di farcela ci sono e sono concrete come la certezza che il sole
sorge su tutti buoni o cattivi tutti i giorni, non è altro che il dovere di
qualsiasi leader di spronare i sudditi e avere speranza. Guardate il sole, è
alto e noi possiamo vedere le cose diversamente e cambiarle, perchè possiamo.
“Abbiamo un sistema sanitario pubblico che non funziona
nei momenti di disastro, eppure si spendono più soldi per esso che in qualsiasi
altro paese nel mondo. E abbiamo un sistema educativo che insegna ai nostri
bambini a vergognarsi di se stessi, in molti casi a odiare il nostro paese
nonostante l’amore che cerchiamo disperatamente di offrire loro.”
Con pochissime parole tocca due delle cause primarie di bancarotta americana: i costi sanitari e i costi per l’educazione. I primi sono dovuti soprattutto dall’ingordigia delle case farmaceutiche che, come chi produce armi, si sono arricchiti senza limiti.
Per
quanto riguarda l’educazione, lo sbaglio iniziale fu commesso dal governo
federale che offrì alle università di garantire i prestiti per gli studenti in
modo che potessero pagare le loro tasse universitarie. Così le università
perdendo qualsiasi senso morale, decisero di aumentare le tasse universitarie
visto appunto che il governo federale avrebbe garantito i prestiti. A causa di
questa politica, oggi il debito complessivo è di 1,7 trilioni di dollari.
Tra inflazione e debiti negli ultimi 10/15 anni c’è stata un’erosione importante della classe media. Il potere d’acquisto della casa è sceso, mentre i prezzi sono aumentati.
La
maggior parte della classe media americana non riesce ad essere proprietaria
della propria casa e mediamente il 50% di questo ceto ha un lascito non superiore
ai 10.000 dollari sempre che non abbia (molto probabile) debiti con le carte di
credito.
“Oggi è il Giorno di Martin Luther King e in suo onore — questo sarà un grande onore — ci sforzeremo insieme per rendere il suo sogno una realtà. Faremo sì che il suo sogno diventi realtà.”
Contrariamente a quanto gli è stato imputato dalla stampa, Trump non è mai stato nè maschilista, nè razzista, nè contro l’omosessualità. Ci sono tantissime testimonianze negli anni che lo dimostrano: da donazioni a gruppi di colore, all’aver assunto come capo cantiere nel 1979 una donna! Trump è il frutto dell’America meritocratica. Ecco perchè ha cancellato le quote d’ammissione a posti di lavoro federali. Il privato può continuare liberamente a fare le proprie selezioni. D’altra parte aiutare affinchè tutti abbiano una chance non sempre dà i risultati sperati. Quanto sono state dibattute le quote rosa in Italia? Eppure Elli Shlein e il nostro Presidente del Consiglio, mi pare, si siano conquistate i loro posti da sole.
Tornando al sogno di Martin Luther King, a Trump la guerra non interessa. Ci sono troppi problemi interni per perdere tempo e spendere soldi che non hanno alcun ritorno, soprattutto se si è obbligati a guerreggiare quelle degli altri.
Per quanto riguarda i dazi e rapporti esteri in generale, il rapporto di Trump è molto semplice e potrebbe essere riassunto da un antico detto di diritto romano: “do ut des”. Se sei corretto con me, lo sarò anche io. Guardando l’Unione Europea è difficile, non dargli torto, visto che di unione abbiamo molto poco. Anzi forse questo schiaffo sarà l’opportunità per noi europei di decidere la nostra identità seguendo fatti più concreti e non negoziando singolarmente ogni posizione. In relazione al Messico, così come in relazione ai paesi del centro America, inclusi Venezuela e Colombia, il discorso cambia. Così come noi europei abbiamo lasciato e continuiamo a lasciare milioni di euro alla Turchia di Erdogan per arginare l’arrivo dal Medio Oriente (vedi Siria), dall’Asia (Afghanistan) o dall’Africa profughi ed immigrati, così gli Stati Uniti hanno elargito somme importanti anche al Messico, affinchè facesse da barrage all’invasione di milioni di persone. Non è stato così.
Con Panama invece la situazione è sia economica che strategica. Il controllo del canale è principalmente nelle mani di società cinesi, una situazione che, seppur diversa, richiama alla mente quella del 1962, quando Khrushchev tentò di inviare missili balistici a Cuba, costringendo Kennedy a reagire con forza. Oggi, seppur il contesto sia diverso, Trump non vuole trovarsi nella situazione d’essere ricattato nel caso il canale venga chiuso per volere cinese. Molti non sanno che la Cina, da anni, è responsabile di gravi spionaggi industriali e attacchi interni agli Stati Uniti. In tale quadro, Trump non solo chiede una riduzione dei costi di passaggio del canale, lievitati negli anni, ma, giustamente, anche garanzie di libertà di navigazione.
Trump vuole quello che vogliamo tutti, essere libero d’agire con i suoi beni e rendere il suo paese indipendente soprattutto dal punto di vista manifatturiero. Da decenni la manifattura americana non esiste più, ma al più si assembla qui o a Juarez, in Messico, di fronte a El Paso, Texas. Tutto è prodotto altrove, soprattutto in Cina, il tasto più dolente di questa economia.
I will end the practice of catch and release
Metterò fine alla pratica del prendere e rilasciare.
La politica del “prendere e rilasciare” è stata usata per descrivere la pratica dell’arrestare gli immigrati illegali, per poi rilasciarli aspettando la loro comparizione in tribunale davanti al giudice per perorare la richiesta di asilo, non necessariamente politico. Essendo il numero di illegali, entrati nel territorio, esorbitante, spesso la data per fare richiesta di asilo in tribunale era lontana almeno un anno. Questo ha dato, nel frattempo, agli immigrati illegali la possibilità di radicarsi nel territorio se non addirittura sparire nel nulla, senza presentarsi alle autorità. Trump invece vuole istituire l’approccio del “catch and deport” (prendere e trasferire). Ciò comporterebbe la detenzione dell’illegale fino al completamento dell’udienza. La politica del “catch and release” è stata oggetto di infiniti dibattiti, pro e contro, per i costi, i posti limitati nelle carceri, mentre altri ritengono che indebolisca le leggi sull’immigrazione e la sicurezza nazionale. Vedremo.
A coronamento di questa inversione, Trump ha invocato una legge del 1798 l’Alien Enemies Act (Legge sugli Stranieri Nemici – faceva parte di una serie di leggi conosciute come gli Alien and Sedition Acts, – Leggi sugli Stranieri e la Sedizione – approvate dal Congresso durante la presidenza di John Adams, la legge conferiva specificamente al presidente l’autorità di trattenere o deportare qualsiasi cittadino maschio di una nazione ostile durante i periodi di guerra. Adottata durante un periodo di crescenti tensioni tra gli Stati Uniti e la Francia, noto come la Quasi-Guerra, fu promulgata grazie alle forti pressioni dei Federalisti particolarmente preoccupati per i diversi atti di spionaggio e ingerenze di potenze straniere negli affari interni). Si riferisce all’ipotesi di immigrazione illegale programmata dalla Cina, e da altri paesi come l’Iran che avrebbero inviato fondamentalisti musulmani o cellule terroristiche per ora dormienti, spie e assassini con il compito di infiltrarsi nelle società, minando la sicurezza e la stabilità, raccogliendo informazioni sensibili, e preparando il terreno per future destabilizzazioni politiche e sociali.
Questa
citazione durante il discorso evidenzia non solo la preparazione di Trump, che
probabilmente non era a conoscenza di questa normativa, ma anche che si sia
organizzato con team di lavoro altamente qualificato che lo supporta
attivamente.
Arriviamo
quindi alla parte centrale del discorso dedicato all’economia. La strategia,
anche questa semplice e chiara è di risparmiare soldi all’estero, chiedere
quindi ai paesi Nato, cosa già per altro nota, di pagare ognuno le sue quote,
di chiudere le guerre, soprattutto quella Ukraina dove ormai è di dominio
pubblico che gli oligarchi si stanno vendendo le armi “donate” dagli americani
e di conseguenza, per soldi, sovvenzionando terroristi e mercato nero;
abbassare il tasso d’inflazione causato secondo lui dall’alto costo energetico.
Drill, Baby drill
Trivelliamo!
Da qui la frase: “Drill, Baby drill, – trivelliamo!” , che gli permetterebbe di mettere in crisi immediatamente la Russia e l’Iran, dandogli subito una leva negoziale efficacissima con ambo, sia per il fronte ucraino che quello Israeliano. Infine sovvenzionando attraverso benefici di imposte la creazione di manifatture americane a iniziare ovviamente dal mercato più importante: quello automobilistico. Ecco quindi creazione di posti di lavoro, sovvenzioni per start up e tanto altro.
Men are men and women are women.
Gli uomini sono uomini e le donne sono donne.
“Men are men and women are women”. Citiamo la frase, ma solo per dovere di cronaca.
Infine, per concludere, rispondo indirettamente a tutti quelli che si meravigliano del fatto che accanto a Trump ci fossero tutti gli imprenditori più importanti e innovativi degli USA. I soldi non hanno colore politico, ma solo opportunità, e mi viene spontaneo pensare se qualcuno di voi o chi per voi nel momento clout della propria vita non abbia sfoggiato il meglio di sè, o in suo possesso. Ognuno di quei notabili rappresenta un gioiello di famiglia che vale moltissimo e contrariamente alla mentalità italiana, sempre divisionista, gli americani lavorano in team.
Non mi sorprenderebbe sapere che Bill Gates abbia parlato con Trump di carne bovina o di produzione agricola (è il più grande proprietario americano di terreni agricoli, ranch e foreste, per un ammontare di 112 mila ettari in 19 Stati). Non sarei stupita se Besos, il maggior esperto di logistica fosse incaricato di migliorare lo stato pietoso in cui versano le Poste americane. D’altra parte, seppur sia imprevedibile, Trump è un uomo che dice quello pensa e dice quello che fa e che farà. Gli obbiettivi sono tantissimi, ma il carrozzone burocratico degli Stati è difficile da spezzare, iniziando proprio dal’FBI, il cui direttore ha già detto che vorrebbe trasformare il palazzo a Washington, in un museo e spedire tutti i suoi 7000 impiegati sul territorio a cacciare criminali. “D’altra parte questo è il loro lavoro!” ha detto Kash Patel.
Rinascita e Unità: L’inaugurazione di un’America Rinnovata?
di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
Quando
mi chiamarono per darmi la data in cui avrei dovuto giurare fedeltà alla
bandiera americana, dopo aver fatto domanda di naturalizzazione, fu per me un
momento molto toccante. Questo paese che mi ero trovata ad abbracciare nei suoi
credo e anche contraddizioni mi aveva conquistata.
Ho
sempre amato studiare storia, soprattutto le biografie: da John Quincy Adams, a
Thomas Jefferson, per non parlare della storia di come J.F. Kennedy stabilì e
ne scrisse un libro del Premio “Profiles in Courage”, la narrazione di come
personaggi unici stabilirono diritti e opportunità per tutti, furono i miei
compagni in questo viaggo identitario, convincendomi così che la decisione che
avevo presa, con il cuore e non per necessità, fosse giusta.
In
un cassetto di cimeli di famiglia avevo conservato con gelosia il piccolo
nastrino che si indossa non nei momenti ufficiali, della nota “Presidential Medal
of Freedom”, la più alta onorificenza americana che mio padre ottenne da
Roosvelt durante la seconda guerra mondiale. Quel giorno decisi di indossarla
per onorare quegli stessi valori che hanno reso questa nazione la più generosa
in assoluto.
Chi
mai ha dato soldi a popoli sconfitti perchè potessero come una fenice risorgere
dalle macerie. Truman e Marshall. Ma fu soprattutto quest’ultimo l’ideatore,
perchè questo paese era nato sulla ricerca di libertà, libertà di culto,
principalmente e poi di democrazia, dove tutti potessero convivere. È stato un
tragitto lunghissimo e costosissimo. Pensiamo alla guerra civile. Ma senza di loro
non avremmo vinto due guerre nefaste da dittatori orribili.
Rientrata
qui dopo un’assenza ventennale ho ritrovato un’America in ginocchio. Il gigante
non c’era più, il paese depresso, senza identità propria, incattivito dalle
pessime propagande politiche che hanno visto dialoghi colmi di parole
offensive, invettive che potevano solo appartenere a situazioni storiche
lontane e sicuramente non genuine.
L’inaugurazione
di oggi, di Trump e di JD Vance, è stato un momento, al di là dell’elenco delle
politiche future, già scritte e oggi ribadite, di unione, di orgoglio e di
religiosità.
Ho
ascoltato passaggi biblici ispirati, perchè se scelti con sapienza guariscono
il cuore e non creano un senso divisorio, dove Dio diventa il protettore di
alcuni a scapito del nemico. Oggi ho percepito, un senso di unione, di pace, e
di commozione oltre che di speranza.
Questa
nazione in ginocchio economicamente, con una percentuale di drogati, homeless,
e poveri in procinto di perdere la casa, per non parlare di chi non ce l’ha più
per il fuoco o le inondazioni, oggi questo gigante ferito ha alzato la testa,
ma in modo diverso da quel famoso settembre del 2011.
Sicuramente
la cornice del Campidoglio, ispirato al bellissimo Pantheon di Roma, dove tanti
abili toscani, dagli scalpellini ai pittori, rendendolo un palazzo di bellezza
unica, perchè in Italia sappiamo bene cosa è la bellezza, ci ha commossi di più.
Il
discorso di Trump durato una mezz’ora scarsa, ha toccato tante cose, ma vorrei
citare solo due paragrafi brevi quasi di chiusura:
“Negli ultimi
anni, la nostra nazione ha sofferto molto. Ma la riporteremo indietro e la
renderemo grande di nuovo. Più grande che mai. Saremo una nazione come
nessun’altra. Piena di compassione, coraggio ed eccezionalità. Il nostro potere
fermerà tutte le guerre e porterà un nuovo spirito di unità in un mondo che è
stato arrabbiato, violento e totalmente imprevedibile. L’America sarà
rispettata di nuovo e ammirata di nuovo, anche dalle persone di religione, di
fede e buona volontà. Saremo prosperi. Saremo orgogliosi. Saremo forti e
vinceremo come mai prima d’ora. Non saremo conquistati. Non saremo intimiditi.
Non saremo spezzati. E non falliremo.”
In questo viaggio di rinascita, l’America avrà
l’opportunità di riscoprire le sue radici e il suo spirito indomito. Con una
nuova energia, riaffermeremo il nostro ruolo nel mondo, come faro di libertà,
opportunità e giustizia. Le sfide che ci attendono saranno affrontate con il
coraggio di chi sa che ogni grande nazione può cadere, ma solo chi ha una
volontà incrollabile può rialzarsi e prosperare.
Indipendentemente dalle fazioni è bello vedere pace,
serenità e sperare in una prosperità non volgare come quella di starlette e
affamati di notorietà, ma piuttosto quella semplice del focolare famigliare,
qualunque esso sia, dove i talenti vengono remunerati e dove tutti hanno un
loro posto colmo di affetti.
L’eredità di Joe Biden: una valutazione della sua presidenza.
di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
La presidenza di Joe Biden, iniziata a gennaio del 2021 e conclusasi venerdì 18, 2025, ha segnato un periodo significativo nella storia americana, sfortunatamente più per le controversie interne e internazionali che per le innovazioni e i progressi che le società oggi richiedono. Sicuramente le sfide che questa amministrazione ha dovuto affrontare sono state molteplici e gravi. Il Covid, due guerre militari da distinguere da quelle economiche, lo spionaggio cinese sfacciato e aggressivo, e infine, la malattia di Biden, che da prima del famoso dibattito con Trump, (pensiamo alle immagini di Biden che vaga durante il G7 in Puglia) ci ha portati a porci questa domanda: “Ma chi sta governando gli Stati Uniti?”. L’eredità di qualsiasi presidente è definita dalla sua leadership durante periodi storici difficili e sicuramente Biden è stato il protagonista di questo. Se i primi due anni sono stati vissuti, almeno dalla popolazione, come una rinascita positiva, dove il grande Padre della nazione iniziava a prendersi cura del “popolo” afflitto dall’inflazione, dalla perdita di lavoro per il Covid, e da un’economia internazionale ferma, l’arrivo di milioni di immigrati illegali le cui sovvenzioni federali hanno prosciugato diverse casse dello Stato. Qui analizziamo in sintesi i pro e i contro.
L’avvio: ripresa
economica e vittorie legislative
Uno degli aspetti
più significativi della politica Biden è stato il suo ruolo nel guidare
l’economia degli Stati Uniti dopo le conseguenze della pandemia di COVID-19.
Quando Biden è entrato in carica nel gennaio 2021, il paese stava ancora
affrontando le ripercussioni economiche della pandemia, che aveva causato una
diffusa perdita di posti di lavoro, interruzioni nelle catene di
approvvigionamento e una grave crisi sanitaria pubblica. L’amministrazione
Biden ha subito iniziato a lavorare per stabilizzare l’economia.
American Rescue Plan (ARP):
Nel marzo del 2021,
Biden ha approvato l’American Rescue Plan, un pacchetto di stimolo da 1,9
trilioni di dollari progettato per dare assistenza finanziaria diretta alla
popolazione, sovvenzionare la distribuzione dei vaccini e supportare le
economie di quegli Stati federali o città in gravi difficoltà economiche. Il
piano includeva incentivazioni come l’estensione dei benefici di disoccupazione
e altre misure di soccorso volte a mitigare l’impatto finanziario della
pandemia. L’ARP è stato accreditato per aver aiutato milioni di americani ad
affrontare la tempesta economica, portando a una rapida ripresa della spesa dei
consumatori e a una riduzione dei tassi di povertà.
Crescita economica e creazione di
posti di lavoro:
Gli sforzi di recupero economico di Biden sono stati in gran parte efficaci
nella creazione di posti di lavoro. Alla fine del 2021, l’economia degli Stati
Uniti aveva assicurato 6,6 milioni di posti di lavoro, segnando così una svolta
storica. Il tasso di disoccupazione, che durante la pandemia era salito alle
stelle, è sceso sotto la leadership di Biden, raggiungendo i livelli
pre-pandemia già a metà del 2021, con una crescita economica complessiva per il
2021 del 5,9%, il tasso più alto in quasi quattro decenni.
Investimenti in
infrastrutture: The infrastructure Investment Act and the Job Act. A novembre 2021
sono stati allocati 1,2 trilioni di dollari per progetti infrastrutturali in
tutto il paese. Questo storico disegno di legge ha finanziato la riparazione e
l’aggiornamento di strade, ponti, trasporti pubblici e reti a banda larga, tra
le altre infrastrutture critiche, creando quindi anche posti di lavoro. Questo
disegno di legge, acclamato perchè più
che necessario, è stato visto come un importante successo per l’agenda politica
interna di questa amministrazione.
Contemporaneamente,
la Federal Reserve, sotto la guida di Jerome Powell, ha adottato politiche
monetarie espansive, abbassando i tassi di interesse e acquistando asset per
garantire liquidità nei mercati finanziari. Questo ha stabilizzato l’economia
momentaneamente. Nel complesso, le politiche economiche di Biden hanno
stimolato una rapida ripresa, con una crescita del PIL del 5,9% nel 2021 e una
significativa riduzione della disoccupazione. Tuttavia, l’aumento dei prezzi al
consumo, secondo il CPI (l’Indice dei Prezzi al Consumo) depurato dagli
aggiustamenti stagionali, è del 19,4% da quando Biden è entrato in carica, evidenziando
la difficoltà di gestire gli effetti collaterali delle politiche di stimolo in
un contesto di forte crescita.
4. Inflation Reduction Act (IRA):
Ad agosto del 2022, Biden ha firmato l’ Inflation Reduction Act in legge.
Nonostante il nome, l’oggetto della legge era quello di combattere il
cambiamento climatico, abbassare i prezzi dei farmaci da prescrizione e
riformare il codice fiscale. L’IRA è forse meglio conosciuto per il suo storico
investimento in energie rinnovabili, con disposizioni volte a ridurre le
emissioni di gas serra e promuovere fonti di energia alternative. Supportato da
ambo i partiti questa legislazione è stata uno dei principali successi di Biden
nell’ambito della politica climatica e della sanità.
Politiche
sociali: progressi nei diritti civili: La presidenza di
Biden si è occupata anche di diritti civili e giustizia sociale.
1. Respect for Marriage Act:
Nel dicembre 2022, Biden ha firmato in legge il Respect for Marriage Act. Questa legislazione cruciale ha abrogato il Defense of Marriage Act e
ha sancito nel diritto federale il matrimonio tra persone dello stesso sesso e
tra persone di razze diverse, offrendo protezione legale per le coppie LGBTQ+ e
per quelle interrazziali. Questo è stato visto come una vittoria monumentale
per il movimento per i diritti LGBTQ+ e ha segnato un cambiamento storico nel
panorama giuridico riguardo all’uguaglianza matrimoniale negli Stati Uniti. (*Il
Defense of Marriage Act (DOMA) era una legge federale degli Stati Uniti,
firmata dal presidente Bill Clinton nel 1996, che definiva il matrimonio come
l’unione esclusiva tra un uomo e una donna, impedendo così il riconoscimento
del matrimonio tra persone dello stesso sesso a livello federale. Inoltre, la
legge permetteva agli stati di non riconoscere i matrimoni tra persone dello
stesso sesso celebrati in altri Stati. Nel 2013, la Corte Suprema degli Stati
Uniti ha dichiarato incostituzionale una parte fondamentale del DOMA,
affermando che impedire il riconoscimento federale dei matrimoni tra persone
dello stesso sesso violava il principio di uguaglianza protetto dalla
Costituzione. Di conseguenza, il DOMA è stato progressivamente smantellato, e
nel 2022, la Respect for Marriage Act ha abrogato definitivamente il
DOMA, garantendo il riconoscimento federale del matrimonio tra persone dello
stesso sesso.)
2. Diritti LGBTQ+:
L’amministrazione Biden ha preso misure rapide per proteggere i diritti LGBTQ+
in vari ambiti, tra cui l’istruzione, la sanità e il lavoro. La sua
amministrazione ha annullato politiche discriminatorie, tra cui il divieto per
le persone transgender di servire nell’esercito, e ha adottato misure per
proteggere gli studenti LGBTQ+ nelle scuole dalla discriminazione. Biden ha
anche emesso ordini esecutivi per garantire l’accesso all’assistenza sanitaria
per gli individui LGBTQ+, affrontare le disparità sanitarie e combattere la
discriminazione contro gli LGBTQ+.
Politica estera:
la scena globale
La politica estera di Biden è stata
segnata da molte controversie. Il suo approccio radicato nel rinnovato impegno
con il mondo dopo la dottrina “America First”
dell’amministrazione Trump, si è concentrato sul multilateralismo, inizialmente
capovolgendo quasi tutte le scelte fatte dall’amministrazione precedente e cercando
di affrontare le molteplici sfide globali come il cambiamento climatico e
l’autoritarismo.
1. Risposta all’invasione russa dell’Ucraina:
Uno degli aspetti definitivi della politica estera di Biden è stata la sua
risposta all’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Biden ha rapidamente
imposto una serie di sanzioni economiche contro la Russia, incluso il
congelamento dei beni di funzionari e oligarchi russi in mano agli americani, ha coordinato il supporto internazionale per
l’Ucraina, guidando gli alleati NATO nel fornire armamenti, finanziamenti miliardari
e aiuti umanitari. Il sostegno di Biden all’Ucraina ha consolidato la sua
posizione come leader impegnato a difendere la democrazia contro l’aggressione
autoritaria.
2. Posizionamento riguardo la Cina:
L’amministrazione Biden ha preso diverse azioni contro la Cina, sia dirette che
indirette, concentrandosi su una serie di settori strategici che vanno dalla
sicurezza, alla difesa militare ed economica della nazione, ai diritti umani.
Ecco alcune delle principali azioni:
3. Politica di Confronto sulla
Sicurezza e la Difesa:
AUKUS (2021): Come parte della strategia per contrastare l’influenza crescente della
Cina nell’Indo-Pacifico, Biden ha collaborato con il Regno Unito e l’Australia
per creare l’alleanza AUKUS, che include la fornitura di sottomarini nucleari
all’Australia e altre iniziative di cooperazione militare. Questa alleanza costituisce
un contrappeso alla potenza navale crescente della Cina nella regione.
Quad (2021): L’amministrazione Biden ha rafforzato l’alleanza del Quad (Stati
Uniti, Giappone, India e Australia), che mira a rafforzare la cooperazione in
ambito di sicurezza, commercio, e altre aree strategiche, rispondendo così alle
crescenti sfide poste dalla Cina nell’Indo-Pacifico.
Tecnologia 5G e cyber security: La Cina è vista come una minaccia alla sicurezza digitale, e Biden ha
sostenuto iniziative per difendersi da attacchi informatici provenienti dalla
Cina. Ha vietato la partecipazione di Huawei nelle reti 5G.
Sanzioni contro aziende cinesi: Queste misure proibiscono alle
aziende americane di vendere tecnologie e componenti critici a queste società,
limitando l’accesso a componenti essenziali per la costruzione di
infrastrutture 5G e la produzione di semiconduttori avanzati. L’obiettivo principale
di queste restrizioni è ridurre il rischio di spionaggio e sabotaggio
informatico, proteggendo così le reti e i sistemi sensibili degli Stati Uniti. Inoltre,
l’amministrazione ha introdotto nuove limitazioni, come l’inserimento di
ulteriori aziende cinesi nella lista nera del Dipartimento del Commercio,
vietando loro l’accesso al mercato statunitense.
TikTok e Preoccupazioni sulla
Sicurezza dei Dati: TikTok, una delle piattaforme social
più popolari al mondo, è di proprietà della compagnia cinese ByteDance
ed è in questo momento soggetto incriminato per la manipolazione di dati di
milioni di americani. La legge richiede
che la società madre di TikTok, ByteDance, venda l’applicazione a un acquirente
approvato dagli Stati Uniti entro il 19 gennaio 2025, altrimenti la famosa app sarà rimossa dagli store di applicazioni
statunitensi. Il presidente eletto,
Donald Trump, ha dichiarato che è probabile che conceda un’estensione di 90
giorni, una volta assunto l’incarico. La situazione rimane incerta.
4. Diplomazia e Alleanze Globali:
Rinnovato impegno con alleati globali: Biden ha lavorato per rafforzare le alleanze con alleati storici come
l’Unione Europea, il Giappone, e l’India, cercando di costruire una coalizione
contro le politiche economiche e geostrategiche della Cina. L’obiettivo è
rendere più efficace una risposta collettiva alle pratiche commerciali cinesi
percepite come sleali.
5. Diritti Umani:
Sostegno alla causa dei diritti umani
in Xinjiang: Biden ha preso una posizione forte
contro le violazioni dei diritti umani in Xinjiang, denunciando la
repressione della minoranza uigura e definendo le azioni cinesi come genocidio.
Ha imposto sanzioni contro i funzionari cinesi accusati di essere responsabili
di abusi.
Hong Kong e le libertà civili: Biden ha denunciato la crescente repressione delle libertà civili a Hong
Kong, dopo l’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale da parte della
Cina. L’amministrazione ha imposto sanzioni a funzionari cinesi e hongkonghesi
coinvolti nella repressione.
Aspetti negativi:
critiche e sfide
A partire dal 2022, l’amministrazione
Biden ha dovuto affrontare le conseguenze negative delle scelte
politico-economiche adottate all’inizio del suo mandato, con un impatto diretto
sul contesto interno del paese.
1. Inflazione e difficoltà economiche:
Nonostante le scelte economiche iniziali abbiano risposto a necessità urgenti,
a partire dalla seconda metà del suo mandato, il paese ha affrontato una
crescente inflazione. Le misure di stimolo fiscale e monetario, sebbene
necessarie per sostenere l’economia durante la pandemia, hanno aumentato la
domanda aggregata. Secondo la Banca
Centrale Europea, l’inflazione negli Stati Uniti è stata più persistente a
causa di una componente interna più forte, legata a una ripresa dei consumi più
rapida rispetto all’Eurozona. Inoltre,
l’aumento dei prezzi dell’energia, aggravato dalla guerra in Ucraina, ha avuto
un impatto significativo sull’inflazione. Le interruzioni nelle catene di
approvvigionamento hanno portato a un aumento dei costi delle materie prime e
dei semilavorati, influenzando i prezzi al consumo. Di conseguenza, la
presidenza di Biden ha affrontato critiche per non essere riuscita a contenere
l’inflazione, che ha avuto un impatto diretto sul potere d’acquisto delle
famiglie americane.
2. Problemi di confine e immigrazione:
La politica sull’immigrazione è stata un altro punto di contesa e nonostante la
sistuazione ereditata fosse complessa e volatile soprattutto al confine
meridionale, la gestione della crisi al confine ha suscitato forti critiche, e
molte divisioni. Accusati di mal governo l’amministrazione solo in ultimis ha
messo in atto una politica di controllo restrittiva, ma soprattutto per le
continue pressioni nazionali. L’impatto economico e la sicurezza pubblica ne
hanno risentito in modo significativo, diventando una chiara testimonianza di
questa cattiva gestione. Includo due esempi esplicativi.
New York City: Crisi Finanziaria e
Sociale
New York City, una delle principali
città santuario, (non tutte le città o gli Stati hanno deciso di alloggiare gl’immigrati,
come ad esempio la Florida), ha affrontato una crisi migratoria senza
precedenti. Dal 2022, la città ha accolto oltre 100.000 migranti, con un costo
stimato di 12 miliardi di dollari entro il 2025. Il sindaco Eric Adams ha dichiarato che la
crisi migratoria “sta distruggendo” la città, sottolineando la
necessità di un supporto federale e statale per affrontare l’emergenza che sta causando
la bancarotta.
Aurora, Colorado: Invasione e
Occupazione di Edifici e Problemi di Sicurezza
Aurora, una città suburbana di Denver,
ha vissuto un aumento significativo della criminalità legata all’afflusso di
migranti, in particolare quelli provenienti da Venezuela. Un esempio drammatico
di questo fenomeno è stato l’invasione e l’occupazione di due palazzi da parte
di gruppi di migranti delinquenti. Questi edifici, sono stati occupati
illegalmente. I residenti hanno
denunciato atti di violenza, traffico di droga e altri crimini, attribuiti a
una banda organizzata come il “Tren de Aragua”, un gruppo criminale
che si sta espandendo anche in altre aree degli Stati Uniti. L’incapacità delle
autorità locali di intervenire ha esacerbato la situazione. Questo caso ha
sollevato una serie di interrogativi sul controllo della migrazione e sul tipo
di supporto dato dalle città rifugio non a migranti “meritevoli”, ma a veri e
propri delinquenti, dove, chi ne paga le conseguenze sono residenti espropriati
dei loro averi e della casa.
Le forze dell’ordine locali hanno
intensificato gli sforzi per affrontare queste sfide, ma le risorse sono
limitate. Inoltre, la collaborazione tra le autorità locali e le agenzie
federali, come l’ICE, (U.S. Immigration and Customs Enforcement), è stata più
che carente per motivi cos’ detti etici. Questa politica di accoglienza ha
avuto risvolti inaspettati apportando sfide significative in termini di risorse
economiche e sicurezza pubblica.
3. Valutazioni di approvazione e
polarizzazione politica:
Le valutazioni di approvazione di Biden sono fluttuate durante la sua
presidenza, principalmente a causa di fattori come l’inflazione, l’aumento dei
prezzi dell’energia e la continua polarizzazione politica. Una volta iniziato
il periodo elettorale, agli inizi del 2024, i valori di approvazione sono
diminuiti drasticamente, soprattutto sapendo che il contendente era Donald
Trump e la sua nota imprevedibilità. Da quel momento l’America si è divisa.
4. Il ritiro dall’Afghanistan:
Il ritiro dall’Afghanistan, già considerato un fallimento, merita una
riflessione approfondita. Le modalità con cui è stato gestito hanno suscitato
ampie critiche da parte di entrambe le fazioni politiche. La decisione di Biden
di ritirare le forze americane entro settembre 2021 è stata vista come una
grave mancanza di responsabilità, poiché non è riuscito a garantire una
transizione pacifica e ordinata oltre al non dare il tempo necessario per
traslocare la grande quantità di armamenti in loco. Questo errore ha avuto
ripercussioni devastanti non solo nel contesto internazionale, ma ha minato la
propria immagine all’interno sia del mondo militare che quello civile
dimostrando l’incapacità di gestire crisi complesse e di mantenere la stabilità
in questa regione strategica del mondo.
Un episodio che ha ulteriormente
acuito le critiche sul ritiro è avvenuto durante il discorso sullo Stato
dell’Unione del 2024, quando, verso la fine, Steven Nikoui, padre di Kareem
Nikoui, un marine statunitense ucciso durante l’attacco all’Abbey Gate
di Kabul nel 2021, è stato arrestato per aver urlato “Signor Presidente si
ricordi di Abbey Gate” e “dei Marines americani”, in riferimento all’attacco terroristico che ha
causato la morte di suo figlio e di altri 12 soldati americani, oltre a diversi
civili afghani. L’arresto, seppur temporaneo, ha evidenziato il fallimento nel
proteggere i diritti e le vite dei propri soldati e dei cittadini afghani. La
scena ha scatenato indignazione, ha accentuato le divisioni all’interno della
società americana, minando ulteriormente la leadership di Biden.
5. Politica Transgender
La politica sulla questione dei diritti
delle persone transgender, in particolare nello sport, ha subìto un
significativo contraccolpo durante la presidenza di Joe Biden. Da subito sono
state sostenute le richieste degli atleti mashi transgender di partecipare alle
competizioni femminili. La questione è divenuta sempre più divisiva, con ampi
settori della società e della politica che hanno sollevato preoccupazioni
riguardo alla parità di opportunità per le donne cisgender. Ad opporsi da ambo
i versanti politici sono stati in tanti che si è culminato con la decisione
della Camera dei Rappresentanti, che il 14 gennaio 2025 ha approvato il “Protection
of Women and Girls in Sports Act”. La legge vieta alle atlete
transgender di partecipare a competizioni sportive femminili nelle scuole e
università che ricevono fondi federali, ribaltando così le politiche sostenute
dall’amministrazione Biden. Questa decisione rappresenta un evidente fallimento
delle politiche pro-transgender del presidente, mettendo in luce l’ampia
opposizione che continua a esistere sia a livello legislativo che sociale
riguardo ai diritti delle persone transgender.
Conclusioni: un’eredità mista
La presidenza di Joe Biden è stata
segnata da alcuni temporanei successi e da sfide significative. Le soluzioni
adottate per affrontare i disastri economici causati dalla pandemia, gli sforzi
di recupero economico, gli investimenti in infrastrutture e le vittorie
legislative in ambiti come il cambiamento climatico e una riforma sanitaria
piuttosto limitata (senza dimenticare che la principale causa di bancarotta
personale è l’incapacità di pagare i farmaci prescritti) saranno presto
dimenticate. Sulla bilancia pesano l’inflazione, la criminalità di immigrati
illegali, gli assalti sessuali di ragazzini dichiaratisi falsamente trans nei
bagni pubblici femminili, i morti di Abbey Gate in Afghanistan, l’incapacità di
dialogare e con Putin e con Netanyahu, senza poi dimenticare d’aver dato la grazia
totale e incondizionata al figlio cocainomane condannato a 17 anni di carcere.
Come per tutti i presidenti, l’eredità
di Biden sarà valutata nel tempo. Sebbene alcune delle sue politiche abbiano
gettato le basi per miglioramenti a lungo termine nel posizionamento globale,
le turbolenze della seconda metà del suo mandato soprattutto riguardo alle
politiche interne, probabilmente plasmeranno la narrativa storica. Alla fine,
la presidenza di Biden rappresenta un periodo di confusione identitaria, di violenze
verbali mai vissute prima, una volontà di obnubilare le radici storiche di
questa nazione, ma senza una linea politica chiara. Ai posteri la sentenza
finale.
Trump 2025: tra sostenibilità finanziaria interna e una politica estera assertiva.
di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
Il 7 gennaio 2025, Donald Trump ha tenuto la sua prima conferenza stampa ufficiale, segando così l’inizio del suo secondo mandato presidenziale. L’incontro con i giornalisti si è svolto presso la sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida, e ha offerto uno spunto sulle principali priorità politiche che intende perseguire, sia sul fronte interno che internazionale. Ha volutamente aspettato il 7, perché il 6 gennaio, è il giorno in cui tradizionalmente avviene la certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali, rito fondamentale della democrazia americana: il Congresso degli Stati Uniti, riunito in sessione congiunta, conferma ufficialmente i risultati del Collegio Elettorale. Questa prassi, sancita dalla Costituzione degli Stati Uniti e regolata dal “Electoral Count Act” del 1887, vede il vicepresidente presiedere l’incontro, dichiarando ufficialmente il vincitore delle elezioni presidenziali. Sebbene il processo sia di solito una formalità, ci sono stati episodi storici che hanno segnato questa data, come le contestazioni del 2001 e gli eventi tragici del 2021.
Nel 2001, il 6
gennaio fu teatro di una delle sessioni più controverse della storia recente
degli Stati Uniti. Le elezioni presidenziali del 2000, che videro sfidarsi George W. Bush e Al Gore, erano state segnate da un acceso contenzioso sul voto in
Florida. Dopo una serie di riconteggi e decisioni legali, la Corte Suprema
aveva sancito la vittoria di Bush, ma il risultato fu messo in discussione da
alcuni membri del Congresso, che tentarono di bloccare la certificazione dei
voti. Nonostante le obiezioni, la certificazione avvenne, portando Bush alla
presidenza. Non ci soffermeremo a ricordare gli episodi di quattro anni fa, ma
sicuramente questi eventi hanno segnato un momento di forte crisi democratica,
dove gli Stati Uniti hanno sofferto pesantemente per la violenza causata dalle
divisioni politiche.
Durante l’incontro
con i giornalisti, a Mar-a-Lago, il presidente eletto ha annunciato una serie
di nuove politiche interne che segneranno il suo secondo mandato. Ecco le
principali novità emerse:
Investimenti in
infrastrutture tecnologiche: Trump ha
dichiarato che il suo governo investirà 20 miliardi di dollari nella
costruzione di nuovi data center in tutto il paese, con l’obiettivo di
rafforzare l’infrastruttura tecnologica nazionale. Questo progetto, secondo
Trump, è fondamentale per la competitività degli Stati Uniti nel contesto
globale. Il finanziamento proviene da una partnership con il miliardario degli
Emirati Arabi Uniti, Hussain Sajwani, leader di DAMAC Properties.
PoliticheFiscali: Le nuove politiche fiscali, prevedono un
piano di incentivi per stimolare gli investimenti nel settore privato e per
sostenere la crescita economica. Le principali misure fiscali annunciate
comprendono:
Riduzione delle
tasse sulle imprese: Trump ha confermato
la sua intenzione di abbassare ulteriormente le imposte sulle società, mirando
a stimolare l’attività economica e ad aumentare gli investimenti aziendali. Le
riduzioni fiscali proposte mirano a incentivare le imprese a reinvestire i
propri profitti, a espandere le loro operazioni e ad assumere nuovi lavoratori.
Queste politiche sono dirette a sostenere la competitività delle imprese
americane sul piano internazionale, riducendo la pressione fiscale e offrendo
maggiore liquidità alle aziende per incentivare l’innovazione e la crescita.
Credito
d’imposta per investimenti in tecnologie avanzate: Il piano fiscale proposto include un credito d’imposta
per le imprese che investono in nuove tecnologie, come l’intelligenza
artificiale, la blockchain e la tecnologia dei dati. L’obiettivo è sostenere
l’adozione e lo sviluppo di tecnologie emergenti che potrebbero migliorare
l’efficienza produttiva e stimolare la crescita nei settori tecnologici e
industriali.
Incentivi per le
start-up e le piccole imprese:
Trump ha annunciato una serie di misure pensate per favorire la crescita delle
start-up e delle piccole imprese, che costituiscono una parte fondamentale
dell’economia americana. Tra queste, la proposta include sgravi fiscali per le
piccole imprese che investono in ricerca e sviluppo (R&S) o che operano in
settori strategici come l’energia pulita e le infrastrutture. Inoltre, ha
suggerito di semplificare la burocrazia fiscale per le piccole imprese, riducendo
i costi e accelerando i processi per la creazione e la gestione di nuove
attività.
Detrazioni
fiscali per l’innovazione e l’espansione delle capacità produttive: Trump ha presentato incentivi fiscali per le aziende
che investono nell’espansione delle loro capacità produttive in patria,
riducendo la delocalizzazione delle attività economiche all’estero. In
particolare, le aziende che ristrutturano o ampliano impianti di produzione
negli Stati Uniti potrebbero beneficiare di detrazioni fiscali significative, promuovendo
così la creazione di posti di lavoro locali e l’aumento della capacità
produttiva interna.
Incentivi per la
ricerca e sviluppo (R&S): Un
altro aspetto fondamentale del piano fiscale riguarda l’introduzione di
incentivi per le imprese che investono in R&S, con lo scopo di stimolare
l’innovazione tecnologica e scientifica. Trump ha enfatizzato la necessità di
potenziare la leadership tecnologica degli Stati Uniti a livello globale,
sostenendo che l’innovazione è un motore essenziale per la crescita economica e
la creazione di posti di lavoro.
Riforma del
sistema delle imposte sul reddito personale: Oltre agli incentivi per le imprese, Trump ha discusso anche di una
riforma fiscale che prevede una riduzione delle imposte sul reddito delle
famiglie e degli individui. L’obiettivo è mettere più denaro nelle tasche dei
cittadini, aumentando il potere d’acquisto e incentivando i consumi. Ciò,
secondo Trump, contribuirà ad alimentare la crescita economica e a stimolare
l’economia in generale.
In sintesi, le politiche
fiscali annunciate mirano a stimolare gli investimenti, promuovere la crescita
economica e migliorare la competitività delle imprese americane, attraverso una
riduzione delle imposte, incentivi per l’innovazione e il rafforzamento del
settore produttivo domestico. Il piano appare fortemente orientato a favorire
il settore privato e le piccole e medie imprese, con un focus particolare sul
rafforzamento dell’industria tecnologica e produttiva americana.
Trump ha ribadito
l’intenzione di ridurre ulteriormente le tasse per le imprese sottolineando che
l’obiettivo della sua amministrazione è creare un ambiente favorevole alla
crescita economica e all’occupazione, sostenendo la prosperità americana.
Politiche di
sicurezza interna: Il presidente ha
annunciato nuove misure per rafforzare la sicurezza nazionale, tra cui
l’introduzione di nuove leggi per combattere il crimine e il terrorismo. Ha
promesso di potenziare la protezione dei confini e migliorare le politiche di
contrasto alla criminalità, puntando a una gestione più efficace delle risorse
destinate alla sicurezza interna.
Sostegno ai
lavoratori americani: Trump ha dichiarato
che il suo governo promuoverà politiche di sostegno ai lavoratori americani, in
particolare quelli che operano nei settori più colpiti dalla globalizzazione,
come la manifattura. Ha promesso di aumentare gli investimenti in programmi di
formazione professionale e reinserimento lavorativo, per dare nuove opportunità
ai cittadini statunitensi.
Legge sulla
sicurezza energetica: Una delle
principali iniziative di Trump è stata la presentazione di una nuova legge per
la sicurezza energetica, che mira ad aumentare la produzione di energia negli
Stati Uniti, ridurre la dipendenza dalle importazioni e promuovere l’uso di
risorse rinnovabili senza compromettere la competitività delle industrie
americane.
Riforma del
sistema sanitario: Trump ha indicato
la riforma del sistema sanitario come una priorità per il suo secondo mandato.
Ha promesso di lavorare per abbassare i costi delle cure sanitarie e migliorare
l’accesso ai servizi per i cittadini, senza aumentare le tasse o espandere il
sistema pubblico. Vogliamo far presente che negli Stati Uniti, le spese mediche
rappresentano una delle principali cause di fallimento finanziario per le famiglie.
Secondo uno studio condotto dall’Università di Harvard, il 62% di tutti i
fallimenti personali è attribuibile a spese mediche. Inoltre, un’indagine della società di analisi
Gallup, in collaborazione con West Health, ha rivelato che il 13% degli americani
ha riferito di aver avuto un amico o un familiare deceduto negli ultimi cinque
anni a causa dell’impossibilità di pagare le cure mediche. Questi dati
evidenziano le gravi difficoltà finanziarie che molte famiglie americane
affrontano a causa dei costi elevati delle cure sanitarie, nonostante
l’esistenza di forme di assicurazione sanitaria.
Politiche di immigrazione: Il
presidente ha annunciato nuove misure per fermare l’immigrazione illegale,
concentrandosi sul rafforzamento dei controlli ai confini e sulla costruzione
di nuove barriere di sicurezza. Ha ribadito la sua posizione a favore di una
politica di immigrazione più severa e ha sottolineato la necessità di un
sistema di asilo che protegga gli interessi americani.
Riforma delle
leggi sul crimine: Trump ha promesso
di affrontare con fermezza la criminalità nelle città americane, proponendo
nuove leggi che rafforzano le pene per i crimini violenti e incoraggiano le
forze dell’ordine ad adottare politiche più dure. Ha sottolineato l’importanza
di mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza nelle aree urbane.
Queste dichiarazioni
segnalano un programma interno che punta a rafforzare l’economia, la sicurezza
e la stabilità sociale, continuando sulla scia delle politiche promosse durante
il suo primo mandato.
Se per la politica interna le idee che ha dichiarato trovano il plauso generale visto le condizioni disastrose economico-sociali in cui versano la maggior parte delle grandi metropoli del paese, i punti che qui elenchiamo di politica estera ci lasciano sicuramente sorpresi.
“Trumpland”. Copyright Daily Wire Ben Shapiro show.
Ecco quanto esposto:
Ripresa del
controllo del Canale di Panama e della Groenlandia: Trump ha espresso l’intenzione di riprendere il
controllo strategico di entrambe le aree, considerandole cruciali per la
sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Ha anche suggerito che l’uso della forza
militare potrebbe essere una possibilità per raggiungere questi obiettivi, se
necessario.
Panama – L’allora presidente
Jimmy Carter, nel 1977 firmò il trattato che avrebbe portato alla
restituzione del Canale di Panama allo Stato panamense. Il trattato, noto come
i Trattati di Panama, fu un accordo storico che stabilì un piano per trasferire
il controllo del canale dal governo degli Stati Uniti al Panama entro il 31
dicembre 1999. Questo accordo segnò una svolta significativa nella politica
estera americana, poiché per decenni gli Stati Uniti avevano controllato il
Canale. La restituzione fu vista come un
atto di buona volontà, ma anche come una necessità di adattarsi a un mondo
post-bellico dove gli Stati Uniti non avrebbero più esercitato un controllo
egemone su tutte le risorse strategiche nella regione. L’accordo con
Carter fu visto come un passo importante
verso la riconciliazione con i paesi latinoamericani e un tentativo di
migliorare l’immagine degli Stati Uniti nella regione, ma sollevò dibattiti
interni sulla sicurezza nazionale e sulle implicazioni geostrategiche di tale
scelta. Carter difese la sua decisione come un passo verso la normalizzazione
delle relazioni con l’America Latina, promuovendo una politica di cooperazione
e rispetto reciproco. Il processo di
trasferimento fu completato con successo nel 1999, durante l’amministrazione di
Bill Clinton, segnando la fine di
più di 80 anni di dominio statunitense. Il Canale di Panama è attualmente
gestito da due società di Hong Kong, che ne amministrano l’ingresso e l’uscita,
esercitando un controllo significativo su una delle vie navigabili più
importanti al mondo. Si stima che oltre il 10% delle navi transatlantiche siano
di proprietà o gestite dagli Stati Uniti, un dato che riflette l’importanza
strategica di questa rotta per l’economia statunitense. Per questo motivo,
Donald Trump ha manifestato il desiderio che il Canale di Panama ritorni sotto
il controllo diretto degli Stati Uniti, considerandolo cruciale per la
sicurezza e la supremazia commerciale del paese. La gestione da parte di entità
estere, in particolare da aziende cinesi, ha sollevato preoccupazioni in merito
alla sicurezza e all’influenza geopolitica nella regione.
Il Golfo del
Messico potrebbe essere rinominato
“Golfo dell’America”. Trump ha criticato il Messico per la sua scarsa
collaborazione durante la presidenza Biden, accusandolo di permettere che il
suo territorio fosse attraversato da un’enorme immigrazione verso gli Stati
Uniti. Inoltre, ha promesso di imporre pesanti dazi su Messico e Canada come
risposta a questa situazione. Tuttavia, non ha specificato come intende
realizzare il cambiamento del nome. Il corpo d’acqua è stato conosciuto con
molti nomi, ma gli esploratori e i cartografi europei hanno utilizzato il nome
“Golfo del Messico” per almeno 400 anni. Esistono meccanismi
ufficiali per rinominare luoghi riconosciuti dal governo federale. Tuttavia, se
il cambiamento di nome a livello federale diventa ufficiale, non significa che
anche altri paesi lo riconosceranno. Il U.S. Board on Geographic Names è
un organismo federale interagenzia responsabile di mantenere l’uso uniforme dei
nomi geografici all’interno del governo federale, operando sotto la direzione del
segretario dell’Interno. Il Foreign Names Committee è incaricato di
standardizzare i nomi dei luoghi esteri e include rappresentanti da agenzie
federali, tra cui esperti in geografia e cartografia. I membri vengono nominati
ogni due anni. Nel 2020, il comitato ha discusso se rinominare il Golfo Persico
in “Golfo Arabo”, una questione controversa tra i paesi arabi. L’Iran
ha sempre insistito affinché fosse chiamato “Golfo Persico”, mentre
le nazioni arabe preferivano il termine “Golfo Arabo”. Il comitato ha
stabilito che “Golfo Persico” rimane appropriato in base alle sue
politiche di usare nomi convenzionali e diffusi, ma ha aggiunto che l’uso di
“Golfo Arabo” è accettabile nelle comunicazioni informali con partner
militari e governativi arabi nella regione.
Groenlandia –
Già nel primo mandato, Trump aveva espresso l’intenzione di riprendere il
controllo della Groenlandia, un’area che riveste una grande importanza
geopolitica. La Groenlandia è situata nel cuore dell’Artico, una regione sempre
più rilevante per le sue risorse naturali, come il petrolio, il gas e le terre
rare, oltre ad avere una posizione strategica per il controllo delle rotte
marittime e per la difesa militare. È del 2019, l’offerta di Trump al governo
danese per l’acquisto della Groenlandia, suo territorio. Oltre alle notevoli
risorse naturali questo paese ricopre un valore importantissimo come punto
d’appoggio strategico nell’Artico, un’area di crescente rivalità tra potenze
mondiali, in particolare gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Sebbene
l’offerta fosse stata rifiutata dalla Danimarca, la Groenlandia continua ad
essere vista dagli Stati Uniti come una “porta” per l’Artico, un’area
di grande interesse militare ed economico, specialmente con l’aumento della
navigazione commerciale nell’Artico a causa del cambiamento climatico e dello
scioglimento dei ghiacci. Trump ha quindi ribadito l’importanza della
Groenlandia nel contesto della sua politica estera, indicando che il suo
controllo potrebbe garantire maggiore sicurezza.
Posizione sulla
Russia e l’Ucraina: Siamo più che
consapevoli della frase trumpiana “se fossi stato io presidente questa guerra
non avrebbe avuto modo di essere”, perciò ci aspettavamo esattamente quanto
ancora reiterato che la sua amministrazione difenderà sempre i suoi alleati
europei, ma nonostante le dure critiche alla Russia, Trump ha anche suggerito
la possibilità di dialogare con Mosca per trovare una soluzione diplomatica
alla crisi ucraina. Ha dichiarato che sarebbe disposto a negoziare direttamente
con il presidente russo Vladimir Putin per raggiungere un accordo che protegga
gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ma senza compromettere la
sicurezza dell’Ucraina..
Minacce contro
Hamas e il Medio Oriente: Sul fronte
mediorientale, Trump ha messo in guardia Hamas, contro le possibili conseguenze
se gli ostaggi non fossero rilasciati entro il suo insediamento. Ha minacciato
azioni drammatiche e severe, avvertendo che “in Medio Oriente scoppierà
l’inferno” se gli ostaggi non venissero liberati.
Iniziative in
Asia e difesa degli alleati: Trump ha
ribadito la necessità di proteggere gli alleati americani in Asia, come Taiwan
e Giappone, di fronte a potenziali minacce cinesi. Ha proposto un rafforzamento
della presenza militare negli alleati strategici asiatici per prevenire
l’espansione cinese nella regione.
Politica nei
confronti dell’Iran: Trump ha confermato
la sua posizione dura contro l’Iran, sostenendo che non consentirà a Teheran di
acquisire armi nucleari. Ha promesso di ripristinare le sanzioni economiche e
di mantenere una politica di “massima pressione” sul regime iraniano.
Per quanto riguarda il triangolo esplosivo Iran, USA-Italia, siamo tutti in attesa di capire
quanto cederanno gli Stati Uniti e quanto funzioneranno le minacce atlantiche.
Relazioni con
l’Unione Europea e altre potenze mondiali: Trump ha enfatizzato la sua intenzione di mantenere forti legami con le
principali potenze mondiali, ma ha anche messo in chiaro che gli Stati Uniti
non avrebbero più tollerato comportamenti “ingannevoli” o politiche
economiche svantaggiose per il paese.
Queste dichiarazioni
dipingono un quadro che si concentra principalmene sulle necessità interne del
paese che sono molte. In questi ultimi due mesi infatti JoeBiden ha firmato
protezione degli interessi nazionali, l’assertività nei confronti di potenze
straniere e la difesa dei legami strategici degli Stati Uniti a livello
globale.
Ma “sleepy Joe”,
negli ultimi tre mesi, ha firmato diversi ordini esecutivi che hanno comportato
significativi impegni finanziari da parte del governo federale, in contrasto
con quanto Elon Musk e Vivek Ramaswamy dovrebbero “fare”,
ossia alleggerire il carrozzone burocratico.
Perciò questi
provvedimenti, pur essendo mirati a specifici settori o situazioni,
contribuiscono ad aumentare le spese federali, riducendo così la disponibilità
di fondi per altre priorità governative. Tale allocazione delle risorse
potrebbe limitare la capacità dell’amministrazione successiva di finanziare
nuove iniziative o affrontare altre esigenze urgenti, obbligando il ricorso a
misure fiscali aggiuntive o a un aumento del debito pubblico. Chissà se Trump
riuscirà a risollevare quest’America soffocata da una forte inflazione, ma
soprattutto le ridia la voglia di fare che tutti abbiamo conosciuto nel tempo.
Per ora sembra dai toni e dalle scelte un John
Wayne contemporaneo alla conquista del West. Forse ha ragione?
Terrorismo a 10 anni da Charlie Hebdo, con Claudio Bertolotti, Sky tg24
Charlie Hebdo: una riflessione a 10 anni dall’attacco jihadista
A dieci anni da Charlie Hebdo: lo spartiacque del terrorismo in Europa. Inauguriamo oggi la rubrica “Officina Geopolitica” di START InSight con il video commento di Claudio Bertolotti.
Il 7
gennaio 2015, dieci anni fa, un attacco terroristico colpì la redazione
parigina di Charlie Hebdo, lasciando dietro di sé una scia di sangue e dodici
vittime. I due assalitori, vestiti di nero, irruppero negli uffici del giornale
satirico, aprendo il fuoco come ritorsione per le vignette su Maometto.
Nonostante il tragico evento, lo spirito e la missione della rivista non si
sono mai spenti. Charlie Hebdo rimane un simbolo di libertà di espressione,
continuando a pubblicare con la stessa irriverenza che l’ha resa famosa.
L’attacco a Charlie Hebdo, rivendicato dalla branca yemenita di al-Qāʿida (o Ansar al-Sharia), si inserisce in una lunga sequenza di attentati terroristici che hanno colpito l’Europa dopo il 2001. Eventi come quelli di Madrid nel 2004, Londra nel 2005 e Bruxelles nel 2014 fanno parte di questa tragica scia. E tanti altri che sarebbero seguiti nei dieci anni intercorsi da allora: da Nizza e Berlino nel 2016 a Brokstedt e Magdeburgo in Germania nel 2023 e 2024. L’attentato a Parigi causò la morte di 17 persone, tra cui figure di spicco del giornale satirico.
Dopo
l’attacco a Charlie Hebdo e l’omicidio del poliziotto Ahmed Merabet, i due
terroristi jihadisti, i fratelli Saïd e Chérif Kouachi, si diedero alla fuga a
bordo di un’auto. Nonostante l’allarme diffuso nella regione parigina, riuscirono
a nascondersi nei boschi a nord del Paese. Il 9 gennaio, vennero individuati e,
dopo un assedio da parte delle forze di polizia e militari, ed eliminati.
Il 9 gennaio
2015, Amedy Coulibaly, complice dei fratelli Kouachi e affiliato allo Stato
Islamico, si barricò in un supermercato kosher a Parigi dopo aver ucciso una
poliziotta il giorno precedente. Durante il sequestro, quattro ostaggi vennero
uccisi. Coulibaly venne ucciso a seguito dell’irruzione da parte della polizia.
Successivamente emerse che l’attacco era parte di un piano più ampio, con altri
complici fuggiti verso la Siria.
L’11 gennaio
2015, milioni di persone si riversarono per le strade di Parigi per manifestare
solidarietà dopo gli attacchi terroristici contro Charlie Hebdo e l’Hyper Cacher.
La marcia, simbolo di difesa della libertà di espressione, vide la
partecipazione di leader mondiali e rappresentanti di varie nazioni. Pochi
giorni dopo, il nuovo numero di Charlie Hebdo, realizzato dai sopravvissuti,
venne pubblicato in diverse lingue e distribuito a milioni di copie in tutto il
mondo, sottolineando la resistenza contro il terrorismo e l’importanza della
libertà di stampa.
L’attacco
del 7 gennaio 2015 fu un atto di natura politica e segnò l’inizio di una serie
di attentati che avrebbero sconvolto la Francia nei mesi successivi. Le stragi
del 13 novembre 2015 a Parigi e del 14 luglio 2016 a Nizza confermarono la
vulnerabilità del Paese. Nel 2020, il processo per l’attacco a Charlie Hebdo si
concluse con 14 condanne, segnando un passo importante nella lotta contro il
terrorismo. A dieci anni di distanza, Charlie Hebdo resta un simbolo della
libertà di espressione, resistente alle minacce e alla violenza.
Il terrorismo oggi:
opportuna riflessione.
Il
terrorismo attuale, ponendo le proprie radici nella profondità di un’evoluzione
storica molto complessa, rappresenta una minaccia ideologica diffusa. E la
minaccia del terrorismo jihadista è oggi particolarmente rilevante, collegata
alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della
competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla
lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa
sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione
culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda
e terza generazione in Europa. E parliamo di una galassia jihadista frammentata
e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una
riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come
fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto.
Una
necessaria riflessione che ci invita a riflettere sull’opportunità di un cambio
di paradigma nella stessa definizione di terrorismo, non più da intendere come
azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque
nelle intenzioni. Bensì come effetto della violenza applicata: è terrorismo la
manifestazione di violenza, privo di un’organizzazione alle spalle. È
terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.
All’interno
della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di
lotta, di resistenza e di prevaricazione, e lo fa con diversi gradi e modelli
di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e
ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan e
in Iraq, in Siria e, in parte, stiamo osservando nelle sue manifestazioni nella
Striscia di Gaza dove l’esercito israeliano si confronta con il gruppo Hamas
(Bertolotti, 2024).
E
proprio l’esperienza afghana, che l’Autore del presente articolo ha avuto modo
di studiare da vicino per molti anni, a cui si è sommata l’ondata di violenza
conseguente all’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati, e la
successiva vittoria islamista in Siria, hanno svolto un ruolo determinante
nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo a livello globale, che si
basa sull’esperienza vittoriosa dei talebani contro l’Occidente, da un lato, e,
dall’altro, sulla rabbia veicolata attraverso la strategia comunicativa di
Hamas che trova in alcune minoranze ideologizzate occidentali una cassa di
risonanza che sovrappone, confondendola, l’agenda violenta e terrorista di
Hamas alla legittima istanza palestinese: due elementi a cui si somma l’entusiasmo
della galassia jihadista conseguente alla vittoria del gruppo islamista Hay’at Tahrir al-Sham in Siria, che ben
è riuscito a mascherarsi agli occhi occidentali attraverso un pragmatico opportunismo.
Eventi sul piano delle Relazioni internazionali che, attraverso la retorica
jihadista, sono sfruttati per dimostrare la bontà e la fondatezza del jihad, e dunque del terrorismo come
strumento di lotta, di vittoria, di giustizia.
E
oggi, dopo e insieme all’Afghanistan, all’Iraq, alla Striscia di Gaza e alla
Siria, a svolgere questo ruolo di spinta ideologica e coinvolgimento di massa,
sono le dinamiche conflittuali in Medioriente e il terrorismo mediaticamente
amplificato di Hamas; da questo discendono le manifestazioni emulative di
violenza che il terrorismo ai danni di Israele ha in parte provocato e potrebbe
sempre più provocare in Europa come nei paesi del Nord Africa, dell’Africa
subsahariana e del Sahel.[1]
Terrorismo di successo
o fallimentare? Elementi di analisi dell’operazione terroristica contro Charlie
Hebdo: azione tattica, obiettivo strategico.
Dall’articolo originale di C. Bertolotti pubblicato il 12 gennaio 2015 su ITSTIME
Parigi, 7-9 gennaio 2014: 15 morti (12 vittime e tre terroristi jihadisti). Dopo Canada, Stati Uniti e Australia, i due episodi in Francia, collegati o meno tra di loro, forniscono alcuni utili elementi di valutazione sul “terrorismo jihadista” contemporaneo.
Si vogliono
qui elencare sinteticamente gli elementi di forza caratterizzanti tale fenomeno
(in fase di espansione e radicalizzazione), le vulnerabilità, gli elementi di
minaccia, le opportunità e, infine, i “trade-off” – le variabili in grado
di influire sugli sviluppi socio-politici e sulle procedure di sicurezza in
atto e in fase di implementazione.
In primo
luogo, i punti di forza del terrorismo jihadista emerso in
concomitanza con l’espansione territoriale e comunicativa del fenomeno Stato islamico (2013-2017) si sono
temporaneamente concretizzati nelle adeguate capacità informativa,
organizzativa e di movimento a cui si sono uniti la forte motivazione e
l’elevato livello operativo acquisito da quei foreign fighter “europei”
che hanno fatto rientro dai teatri di guerra iracheno, siriano e libico. Tali
soggetti sono stati in grado di sfruttare a proprio vantaggio la pressoché
infinita disponibilità di obiettivi di tipo “soft target” da colpire e
caratterizzati da un elevato livello di vulnerabilità; un vantaggio che si è accompagnato
alla possibilità di reperimento di armi da guerra provenienti dal mercato nero
(nulla a che vedere con le armi comuni regolarmente denunciate e detenute) e di
equipaggiamenti reperibili dal libero commercio. Azioni di questa tipologia
sono state in grado di indurre all’emulazione altri soggetti, indipendenti e
non organizzati: gli emulatori, spesso indicati impropriamente come i lone
wolf (lupi solitari o terroristi autoctoni).
Agli
elementi forti fanno eco alcuni fattori di debolezza del terrorismo
jihadista. In primis, sul piano operativo, la marginale
capacità di colpire con efficacia la maggior parte degli hard-target (obiettivi
militari, infrastrutture strategiche, critiche e sensibili); sul piano
informativo vi è invece una concreta vulnerabilità all’identificazione attraverso
i social-network. Infine, su un piano più generale, permangono gli
attriti latenti all’interno delle eterogenee dimensioni jihadiste, mentre si sono
sviluppate le conflittualità tra i differenti brand del jihad,
in particolare al-Qa’idavs lo
Stato islamico: una competizione che apre
all’intensificazione delle azioni violente.
Ai fattori
di debolezza del terrorismo jihadista, si contrappongono le vulnerabilità
degli stati occidentali. Gli eventi registrati nel corso degli ultimi dieci
anni, tendono a dimostrare come le forze di sicurezza e di intelligence non
siano in grado di contrastare le manifestazioni di un fenomeno sempre più
audace (e il verificarsi di un singolo episodio si impone su quelli prevenuti
con efficacia); nel complesso vi è una sostanziale incapacità previsionale da
cui derivano limiti oggettivi di azione preventiva – accentuati dai tagli alle
spese della componente difesa-sicurezza – nei confronti dei potenziali
obiettivi la cui salvaguardia richiede(rebbe) elevati costi in termini di
risorse umane, economiche e materiali per garantirne la sicurezza fisica.
Inoltre, pesa l’assenza di un adeguato quadro giuridico finalizzato a un
efficace contrasto al “terrorismo fondamentalista di matrice jihadista” (che
differisce dallo storico “terrorismo politico” di stampo europeo in ragioni,
dinamiche, sviluppi e organizzazione).
Pesa, nel
complesso, l’assenza di una classe dirigente competente in grado di definire
una linea strategica per la sicurezza e che sia, al contempo, in grado di far
fronte al crescente disagio sociale – in parte conseguenza di un alto tasso di
disoccupazione – e alla pressione dell’opera di reclutamento e propaganda
jihadista – sia globale via web, sia a livello locale. A ciò si aggiungono la
diffusione del “terrore”, il condizionamento dell’opinione pubblica,
l’esaltazione di sentimenti nazionalistici e la deriva estremista (su entrambi
i fronti) e populista i cui effetti inducono a scelte politiche restrittive,
tra le quale anche la limitazione di diritti individuali (privacy e
sicurezza) e la sospensione di accordi internazionali (nel merito si cita la
decisione del governo francese nel 2015, e dieci anni dopo quello tedesco, di
limitare il libero movimento dei cittadini europei attraverso le proprie
frontiere, in deroga al trattato di Shengen).
Significative le opportunità potenziali, su entrambi i
fronti.
Le opportunità
del terrorismo jihadista sono
conseguenza del contesto in cui si è orientato a operare e della
riorganizzazione strutturale.
Il contesto
operativo è il “domesticurban warfare” (ambito
urbano ad alta densità di popolazione) in grado, da un lato, di garantire la
presenza di safe-areas di supporto e, dall’altro, di opporre
una limitata capacità di reazione da parte di forze di polizia urbana dal basso
profilo operativo.
Si è così imposta una nuova forma ibrida della guerra che ha indotto a una razionale riorganizzazione strutturale del terrorismo jihadista, su base individuale, rafforzata dall’attivazione di singoli soggetti pronti a colpire, in caso di appello o in risposta a eventi emotivamente o mediaticamente esaltanti, e già presenti in Europa o in aree di prossimità (come la Turchia che è al tempo stesso area di transito della “migrazione jihadista” e sostenitrice del fronte islamista siriano di Hay’at Tahrir al-Sham che con la forza insurrezionale ha posto termine al regime di Bashar al-Assad).
Le opportunità
che possono essere colte dagli stati occidentali sono rappresentate,
in primo luogo, da una collaborazione attiva delle agenzie intelligence funzionale
alla possibile riorganizzazione di un modello di difesa-sicurezza di tipo
“diffuso e condiviso”; a ciò si unisce l’opportunità di un maggiore
coinvolgimento delle comunità musulmane. In secondo luogo, v’è da porre in
evidenza l’opportunità rappresentata da un razionale, quanto efficace, impegno
dell’Occidente nella lotta ad ampio spettro al gruppo Stato islamico e in un coerente ed equilibrato controllo delle
frontiere lungo l’arco mediterraneo.
A fronte
delle opportunità, vi sono le minacce. La prima è rappresentata
dall’emergere di una condizione di tensione sociale derivante da azioni
terroristiche reali o, più semplicemente, potenziali, a cui si contrappongono i
limiti di capacità di reazione e contrasto dei governi europei. Limiti che saranno
messi a dura prova dal probabile fenomeno di emulazione ampiamente registrato e
dalla replicabilità di azioni dimostrative anche violente (ad esempio,
l’incendio alla rivista tedesca “Hamburger Morgenpost” l’11 gennaio 2015, che
nei giorni successivi all’attacco a Parigi pubblicò alcune vignette di Charlie
Hebdo, e, lo stesso giorno, l’allarme bomba a Bruxelles alla sede del più
importante quotidiano belga, “Le Soir”). Un livello di minaccia accentuato
dalla natura inequivocabile del ruolo di “one-shot fighter” del
“terrorista”, determinato dalla consapevolezza di andare incontro a morte
altamente probabile o certa.
Infine,
le scelte alternative (trade-off). Sul
piano della sicurezza, non sono da escludere i potenziali effetti dinamizzanti
derivanti dal processo di amplificazione mass-mediatica, a cui concorrono sia
le striscianti quanto fantasiose teorie “complottistiche”, sia la diffusione
virale di quei video-web postumi dei terroristi che possono alimentare le
dinamiche di competizione dei gruppi di jihadisti ed esaltare
improvvisati lone wolf. Significativa è la strategia finalizzata
all’attenzione massmediatica che ha per scopi l’amplificazione del messaggio e
la capacità attrattiva dei potenziali militanti (in particolare al-Qa’ida e Stato islamico, che in tale ottica hanno impresso un’accelerata
recrudescenza di azioni mediaticamente sempre più appaganti; con ciò indicando
un’escalation nell’intensità delle azioni su suolo europeo).
Fatte queste
necessarie valutazioni iniziali, concludiamo con l’elenco (certamente parziale)
degli effetti derivanti dalla singola azione portata a compimento a Parigi nel
gennaio 2015 da due soli soggetti (a cui si aggiunge una seconda azione
condotta da un singolo terrorista).
Sul piano tattico e operativo:
eliminazione degli obiettivi
(dal forte valore simbolico);
capacità di tenere impegnate
88.000 unità della sicurezza nazionale (Forze Armate e di polizia),
distraendole dai normali compiti di routine;
blocco della capitale di una
delle più importanti nazioni a livello mondiale;
dimostrazione dei limiti dello
strumento intelligence e di sicurezza.
Sul piano strategico e politico:
diffusione e amplificazione
massmediatica del messaggio jihadista;
dimostrazione
dell’imprevedibilità della minaccia;
generale consapevolezza di
vulnerabilità (forte impatto psicologico);
terrore diffuso immediato e
paura collettiva persistente;
scelta da parte degli
attentatori del “martirio autonomamente scelto (istisshadi) e
imposizione del ruolo di “martire” (shahid) di fronte alla propria
comunità;
induzione alla polarizzazione
“identitaria”;
fomento degli impulsi populisti
e radicali;
mobilitazione della Comunità
internazionale;
avvio del processo di revisione
dei protocolli di sicurezza;
sospensione degli accordi di
Shengen e possibile restrizione delle libertà individuali (privacy,
mobilità).
In estrema
sintesi, si tratta innegabilmente di un successo sui piani mediatico, politico,
psicologico e su quello della sicurezza; un successo facilmente replicabile indipendentemente
dagli effetti diretti su quel “campo di battaglia” del quale siamo parte, in
veste di attori protagonisti o di semplici comparse.
In conclusione: il
vero successo è a livello operativo: il “blocco funzionale”
Come abbiamo avuto modo di evidenziare in #ReaCT2024 – 5° Rapporto sul radicalismo e
il terrorismo in Europa, anche quando un attacco terroristico non riesce,
produce comunque un risultato significativo: impegna pesantemente le forze
armate e di polizia, distraendole dalle loro normali attività o impedendo loro
di intervenire a favore della collettività. Inoltre, può interrompere o
sovraccaricare i servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la
mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il regolare svolgimento delle
attività quotidiane, commerciali e professionali, danneggiando le comunità
colpite. Questo riduce efficacemente il vantaggio tecnologico e il potenziale
operativo, nonché la capacità di resilienza. In generale, infligge danni
diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime. La
limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile ottenuto
attraverso queste azioni.
In sostanza, il successo del terrorismo, anche senza
causare vittime, risiede nell’imporre costi economici e sociali alla
collettività e nel condizionare i comportamenti nel tempo in relazione alle
misure di sicurezza o limitazioni imposte dalle autorità politiche e di
pubblica sicurezza. Questo fenomeno è noto come “blocco funzionale”. Nonostante
la capacità operativa del terrorismo sia sempre più ridotta, il “blocco
funzionale” rimane uno dei risultati più importanti ottenuti dai
terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un
obiettivo). Dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace nel
conseguire il “blocco funzionale” nell’80% dei casi, con un picco del
92% nel 2020 e dell’89% nel 2021. Questo risultato impressionante, ottenuto con
risorse limitate, conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del
terrorismo, pur a fronte di una rilevata perdita progressiva di capacità che ha
visto diminuire l’ottenimento del “blocco funzionale”, sceso al 78% nel 2022 e
al 67% nel 2023.
[1] C.
Bertolotti (2024), Il terrorismo
jihadista in Europa e le dinamiche mediterranee: evoluzione storica, sociale e
operativa in un’era di cambiamenti globali – i risultati dell’Osservatorio sul
radicalismo e il contrasto al terrorismo (ReaCT), in “#ReaCT2024, 5° Rapporto
sul Radicalismo e il Terrorismo in Europa”, ed. START InSight.
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