Ucraina: la guerra e la diplomazia

Il commento del Direttore Claudio Bertolotti a RaiNews 24 (30 marzo 2022)

Le porte aperte dal dialogo di Istanbul (e subito chiuse)

Due aspetti di rilevo: il primo è che sia stata la Turchia ad assumere il ruolo di ospite. Turchia che gioca magistralmente su tre fronti: quello ucraino, fornendo i micidiali droni militari a Kiev usati contro le colonne russe; il fronte russo, con cui ha importanti relazioni commerciali ma anche dossier aperti, dalla Siria alla Libia e, infine, quello della NATO, dove è sì membro dell’Alleanza atlantica ma non ha aderito alle pesanti sanzioni che l’Occidente ha voluto imporre a Mosca. Il secondo aspetto di rilievo è che più che di negoziato dobbiamo parlare di dialogo con aperture e promesse poi negate: le parti si sono incontrate, un’importate ipotesi di riduzione della pressione militare è stata messa sul tavolo della discussione da parte di Mosca, ma nessun accordo di cessate il fuoco è stato ad ora siglato e le truppe stanno tutt’ora combattendo. Al contrario, con la successiva dichiarazione, la Russia sembra aver ribadito che è Mosca a gestire la guerra e ad imporre i tempi e gli spazi di un eventuale negoziato. Questo significa una cosa sola: il dialogo e la guerra procedono su due binari paralleli, ma con tempi e dinamiche diverse ed entrambi gli attori, Russia da una parte e Ucraina, dall’altra con il sostegno di alcuni paesi occidentali, continueranno a riorganizzare le loro truppe al fine di non trovarsi svantaggiate. E la Russia non cesserà di premere, da sud a nord, al fine di rafforzare la propria posizione a quel tavolo: è una necessità russa e l’Ucraina subisce sia sul piano militare che su quello politico-diplomatico le decisioni di Mosca.

Quali gli sviluppi sul piano militare?

Sul piano militare la Russia continua a mantenere un vantaggio tattico – il che non vuol dire vincere la guerra ma comunque imporne tempi e sviluppi; un vantaggio che è di rilievo nel sud e sud est, dal Donbass alla Crimea, mentre a nord e in particolare attorno alla capitale, è in una posizione da assedio e difensiva non del tutto consolidata grazie alle puntate controffensive delle forze armate ucraine e a causa di un dispositivo militare non ancora riorganizzato con le truppe di rinforzo appena giunte e in fase di rischieramento.

Le forze russe continuarono a combattere per mantenere le posizioni avanzate nelle aree periferiche a est e a ovest della capitale suggerendo, da un lato, che Mosca non avrebbe intenzione, né capacità, di attaccare Kiev per occuparla con le sue truppe, ma, dall’altro lato, potrebbe colpirla con le sue artiglierie oltre che con gli attacchi missilistici: una guerra di attrito a tutti gli effetti che però sembra non voler spingere in una battaglia offensiva le unità già schierate, e fortemente provate, oltre a quelle appena giunte e che giungeranno nei prossimi giorni. E un’ormai evidente la limitazione in termini offensivi, quella russa, che potrebbe essere presentata al tavolo negoziale come una disponibilità a contenere la pressione militare sulla capitale, presentando così la Russia come soggetto forte ma disposto a concedere qualcosa. Insomma un piano d’inganno che, spesso utilizzato sul campo di battaglia dai russi, potrebbe rivelarsi fruttuoso anche su quello diplomatico e negoziale.

Ucraina in Europa?

Prematuro parlarne, e non opportuno per la stessa Europa, trattandosi di un’ipotesi non priva di sfide che potrebbero essere molto impegnative per l’Unione europea. Non dimentichiamo la clausola di difesa reciproca prevista dal trattato dell’Unione europea che stabilisce che i paesi dell’unione sono obbligati ad assistere uno Stato membro “vittima di un’aggressione armata sul suo territorio”. Un ipotetico intervento della Russia porterebbe l’Europa a schierarsi sul fronte ucraino. Uno scenario che nessuno si auspica e che per questo certamente rallenterà un eventuale processo di integrazione europea nei confronti di Kiev.

Attrito Russia Cina: cosa c’è di vero?

Pechino ha ribadito poco fa che le relazioni tra i due paesi sono ottime. Questa potrebbe essere una conferma di qualcosa che non va tra i due importanti attori ma sarà comunque un qualcosa che Mosca e Pechino risolveranno tra loro, senza interessare l’occidente, in primis gli Stati Uniti che di elementi di attrito con la Cina ne ha parecchi.

La prima preoccupazione della Cina è quella economica: uno dei fattori di maggiore interesse di Pechino è il rapporto tra target di crescita e indebitamento e nell’ultimo biennio pandemico i consumi non hanno mantenuto il ritmo sperato. Una crisi legata alla guerra in Ucraina e l’ipotesi di rimetterci nel sostenere la Russia potrebbero indurre Pechino a un sostegno più moderato nei confronti di Mosca, ma questa ovviamente è una valutazione occidentale poiché,  se da un lato Pechino è preoccupata dalle sanzioni che potrebbero toccare la Cina in caso di prolungamento del conflitto, è però vero che le relazioni politiche e commerciali tra la Russia e la Cina continuano ad essere forti, addirittura più forti tenendo contro delle dinamiche dei mercati asiatici, aperti all’economia russa, e ancora di più tenendo conto degli ottimi rapporti tra i membri della SCO, la Shangai Cooperation Organization, fondata su aspetti quali la sicurezza, l’economia, il settore energetico: e Cina e Russia sono i due attori principali dell’organizzazione, difficile immaginare di trovarli su posizioni contrapposte. In tutto questo credo che la Cina non si farà comunque scrupoli a spingere la Russia a prendere decisioni a tutela dell’agenda economica e strategica di Pechino, è questione di sopravvivenza ma ancor più di supremazia nell’arena delle relazioni internazionali.


Conferenza – Da Washington alla guerra in Ucraina. Le dimensioni della disinformazione

Una conferenza aperta al pubblico organizzata in collaborazione tra
Università della Svizzera Italiana – ASIS Svizzera – START InSight

Giovedì 31 marzo
dalle 18.00 alle 20.00
Aula A21
Palazzo rosso del Campus Ovest
Università della Svizzera Italiana (Lugano)

Programma

Introduzione 
18.00-18.15
Jean-Patrick Villeneuve
Professore e Direttore dell’Istituto di comunicazione e politiche pubbliche, USI 
Luca Tenzi
Security Strategist e Responsabile di ASIS Svizzera Italiana 

Interventi

18.15-18.30
Andrea Molle (in collegamento)
Docente di Scienze Politiche, Chapman University e ricercatore, START InSight
L’uso strategico della disinformazione: dalle elezioni americane alla guerra in Ucraina
L’intervento illustra i fondamenti dell’attività strategica di disinformazione, con particolare attenzione alle fake news e al memetic warfare, al fine di creare polarizzazioni e conflitti sociali ovvero supporto per attori statali e non statali impegnati in un conflitto. Gli esempi portati nella presentazione vanno dalle elezioni presidenziali americane del 2016 all’attuale conflitto in Ucraina e includono gli eventi che hanno condotto alla sommossa del 6 Gennaio 2021 a Capitol Hill (Washington DC).

18.30-18.45
Philipp Di Salvo (in collegamento)
Ricercatore presso l’Istituto di Media e Giornalismo, USI e Visiting Fellow al Department of Media and Communications della London School of Economics and Political Science (LSE)
Hacks e leaks: strategie cyber per il conflitto informativo
L’intervento tratterà il ruolo generale degli hackers e delle fughe strategiche di notizie, degli attacchi informatici e dell’hacktivismo. Quella ucraina non è (ancora) una guerra cibernetica, ma il conflitto sta offrendo spunti interessanti sull’uso delle strategie informatiche da parte di diversi attori, specialmente quando si tratta di hack & leak e del ruolo dei giornalisti / media.

18.45-19.00
Claudio Bertolotti 
Analista strategico e Direttore di START InSight 
I foreign fighters nel conflitto ucraino 
La guerra in Ucraina sta mobilitando combattenti stranieri su entrambi i fronti, suscitando interrogativi che vanno dalla legalità della loro partecipazione a operazioni militari all’estero, alla natura della guerra, al rischio rappresentato dai foreign fighters legati a gruppi estremisti violenti. L’intervento spiegherà la situazione attuale e le prospettive future. 

19.00-19.15
Chiara Sulmoni (in presenza)
giornalista, analista START InSight
I nuovi orizzonti della radicalizzazione e dell’estremismo  
Negli ultimi anni instabilità politica, crisi e pandemia hanno portato a una crescita della polarizzazione sociale e degli estremismi violenti di ogni orientamento. L’intervento dà conto di questo contesto generale -presentato anche nel Rapporto #ReaCT sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa 2022- dentro il quale si inserisce oggi il richiamo esercitato della guerra in Ucraina -con le sue narrative- sui militanti. 

19.15-19.30 
Conclusioni generali  

19.30
Dibattito con il pubblico presente in sala

Potete partecipare alla conferenza anche da remoto collegandovi con questo link

https://us06web.zoom.us/j/81481793134?pwd=R0c3VGpCdEdnTzhIUStYT2JRT0JJUT09

Meeting ID : 814 8179 3134
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Terrorismo in Europa: minaccia lineare in evoluzione e partecipazione individuale

di Claudio Bertolotti

Dall’Africa all’Afghanistan: l’Europa guarda preoccupata all’esaltazione jihadista

Lo Stato islamico non ha più la forza di inviare terroristi sul suolo europeo perché si è vista azzerare la propria effettiva capacità operativa in conseguenza della perdita di territorio, di una rilevante consistenza finanziaria e di reclute. Tuttavia, la minaccia rimane significativa anche attraverso la presenza e l’azione di attori isolati, spesso improvvisati e spinti dall’emulazione e senza un legame diretto con l’organizzazione.

Mentre il gruppo dello Stato Islamico continua a imporsi su un piano ideologico come la principale minaccia jihadista, è però improbabile che sia in grado di riproporre il travolgente richiamo che ebbe il “califfato” nel periodo 2014-2017, poiché ha perso il vantaggio della novità, e di conseguenza l’appeal, che ne rappresentava il punto di forza, in particolare nei confronti dei più giovani. Inoltre, sia dal punto di vista legislativo che da quello operativo, l’Europa ha saputo ridurre in maniera rilevante le proprie vulnerabilità, sebbene vi siano maggiori risultati più in termini di contrasto al terrorismo che di prevenzione. Permangono, nel complesso segnali di incertezza legate agli effetti emulativi e alla “chiamata alla guerra” connessa a eventi sul piano internazionale in grado di indurre singoli soggetti ad agire in nome del jihad: l’evento più importante nel 2021, che ha dato e continuerà a dare un impulso agli effetti del jihad transnazionale è la vittoria dei talebani in Afghanistan che, da un lato tende ad alimentare la variegata propaganda jihadista attraverso il messaggio della “vittoria come risultato della lotta continua” e, dall’altro lato, da vita a una forma di competizione dei “jihad” tra gruppi impegnati in forme di lotta e resistenza esclusivamente locali e chi, come lo Stato islamico, recepisce e propone il jihad esclusivamente come strumento di lotta a oltranza a livello globale.

In tale quadro complessivo e in continua evoluzione, dobbiamo prestare attenzione alla crescente forza estremista in alcune parti dell’Africa, in particolare le aree dell’Africa sub-sahariana, il Sahel, il Corno d’Africa e, ancora, il Ruanda e il Mozambico, al fine di contrastare l’emergere in questo continente di nuovi “califfati” o “willayat” che potrebbero minacciare direttamente l’Europa.

Nella prolifica propaganda jihadista, lo Stato Islamico si vanta della propria diffusione nel continente africano e pone in evidenza come l’obiettivo di contrastare la presenza e la diffusione del cristianesimo porterà il gruppo a espandersi in altre aree del continente. Se altrove, come nel Maghreb, nel Mashreq e in Afghanistan l’attività dello Stato islamico è incentrata sulla lotta settaria intra-musulmana, in Africa la sua presenza si impone come parte di un conflitto tra musulmani e cristiani, rafforzata da una propaganda che insiste sulla necessità di fermare la conversione dei musulmani al cristianesimo attuata attraverso i “missionari” e “il pretesto” degli aiuti umanitari. In tale quadro si inseriscono le violenze, i rapimenti e le uccisioni di religiosi missionari, attacchi contro le Ong e le missioni internazionali, dal Burkina Faso al Congo e, ancora, gli attacchi agli abitanti dei villaggi cristiani in particolare in occasione delle festività di Natale e Capodanno.

Scendono i numeri, ma permane la minaccia del terrorismo

Guardando all’ultimo triennio, da un punto di vista quantitativo l’incidenza degli attacchi terroristici si presenta lineare. Dal 2017 al 2020 sono stati registrati nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Svizzera 457 attacchi, compresi quelli falliti e sventati: erano 895 nel 2014-2017.

Nel 2020 sono stati 119 di cui 62 nel Regno Unito e 2 in Svizzera. Secondo Europol (TeSat 2020), il 43% sono attribuiti a movimenti della sinistra radicale (passati da 26 a 25), il 24% a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 7% a gruppi di estrema destra (aumento percentuale ma diminuzione in termini assoluti rispetto al 2019), il 26% sono azioni di matrice jihadista. Sebbene la violenza jihadista sia una parte marginale del totale delle azioni associate a ideologie violente, essa si conferma per essere la più rilevante in termini di risultati e vittime provocate il cui totale, passando dalle 16 del 2020 alle 13 del 2021, conferma la maggior pericolosità del terrorismo jihadista in termini di effetti diretti.

Sulla scia dei grandi eventi terroristici in Europa nel nome del gruppo Stato islamico, sono stati registrate 165 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2021, delle quali 34 esplicitamente rivendicate dallo Stato islamico: 219 i terroristi che vi hanno preso parte (63 morti in azione), 434 le vittime decedute e 2.473 i feriti (database START InSight).

Nel 2021 gli eventi sono stati 18, in lieve flessione rispetto ai 25 attacchi dell’anno precedente ma con un aumento di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti: dal 48% del totale di azioni emulative nel 2020 al 56% nel 2021 (erano il 21% nel 2019). Il 2021 ha inoltre confermato la predominanza delle azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate e fallimentari che hanno progressivamente sostituito le azioni strutturate e coordinate caratterizzanti il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni 2015-2017.

L’anagrafica dei terroristi “europei”

L’adesione all’azione terroristica continua a confermarsi come scelta esclusivamente maschile: su 207 attentatori il 97% sono maschi (7 le donne); contrariamente al 2020, quando 3 donne presero parte ad attacchi terroristici, il 2021 non ha registrato la partecipazione diretta di attentatrici.

I 207 terroristi (uomini e donne) hanno un’età mediana di 26 anni: un dato che varia nel corso del tempo (dai 24 nel 2016, ai 30 nel 2019). I dati anagrafici di 169 soggetti di cui si hanno informazioni complete hanno consentito di definire un quadro molto interessante da cui si evince che il 10% è di età inferiore ai 19 anni, il 36% ha un’età compresa tra i 19 e i 26, il 39% tra i 27 e i 35 e, infine, il 15% è di età superiore ai 35 anni.

L’88% degli attacchi, di cui abbiamo informazioni complete, sono stati portati a termine da “immigrati” di seconda e terza generazione e immigrati di prima generazione, sia regolari che irregolari.

Dei 154 su 207 terroristi analizzati attraverso il database START InSight, il 45% sono immigrati regolari; 24% sono discendenti di immigrati (seconda o terza generazione); gli immigrati irregolari sono il 19%: un dato, quest’ultimo, in crescita che passa al 25% nel 2020 e raddoppia, 50%, nel 2021. Significativa anche la presenza di un 8% di cittadini di origine europea convertiti all’Islam. Complessivamente il 77% dei terroristi sono regolarmente residenti in Europa, mentre il ruolo degli immigrati irregolari si impone con un rapporto di circa 1 ogni 6 terroristi. Nel 4% degli episodi è stata riscontrata la presenza di bambini/minori (7) tra gli attaccanti.

La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa

Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa affligge maggiormente alcuni gruppi nazionali/etnici. Vi è un rapporto di proporzionalità tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, come dimostrerebbe la nazionalità dei terroristi, o delle famiglie di origine, che è in linea con la dimensione delle comunità straniere in Europa. Prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente afflitti dall’adesione jihadista sono quelli marocchino (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerino (in Francia).

Stabili i recidivi e i soggetti già noti all’intelligence

Di rilievo il ruolo giocato dai recidivi – soggetti già condannati per terrorismo che compiono azioni violente a fine pena detentiva e, in alcuni casi, in carcere: dal 3% del totale dei terroristi nel 2018 (1 caso), al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020, al singolo caso del 2021. Ciò confermerebbe la pericolosità sociale di soggetti che, a fronte di una condanna detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche; un’evidenza che suggerisce l’aumento della probabilità di atti terroristici nei prossimi anni, in concomitanza con la fine della pena della maggior parte dei terroristi attualmente detenuti.

Parallelamente ai soggetti recidivi, START InSight ha rilevato una tendenza significativa sulle azioni compiute da terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei: 44% e 54% del totale rispettivamente nel 2021 e 2020, contro il 10% nel 2019 e il 17% nel 2018.

I soggetti con precedenti detentivi (anche per reati non associati al terrorismo) nel 2021 hanno confermato una certa stabilità nella partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un pregresso carcerario con un dato del 23% nel 2021, in lieve calo rispetto all’anno precedente (33% nel 2020) ma in linea con quello del 2019 (23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); un’evidenza che continua a confermare  l’ipotesi che vede nelle carceri luoghi di potenziale radicalizzazione e adesione al terrorismo.

Si riduce la capacità offensiva del terrorismo?

Una fotografia realistica del terrorismo necessita di un’analisi dei tre livelli su cui il terrorismo stesso si sviluppa e opera: strategico, operativo e tattico. La strategia, intesa come l’impiego dei combattimenti allo scopo della guerra; la tattica è l’impiego delle truppe ai fini della battaglia; il livello operativo si colloca tra le due. Una sintesi che, nella sua semplicità, coglie il punto: l’impiego degli uomini.

Il successo a livello strategico è marginale

Il 16% delle azioni ha ottenuto un successo a livello strategico, ossia ha avuto conseguenze strutturali: blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di ampia portata. Un dato molto elevato considerando il limitato sforzo organizzativo e finanziario da parte dei gruppi, o dei singoli attaccanti. L’andamento nel corso degli anni è stato discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione di capacità ed efficacia: 75% di successo strategico nel 2014, 42% nel 2015, 17% nel 2016, 28% nel 2017, 4% nel 2018, 5% nel 2019, 12% nel 2020 e 6% nel 2021. Nel computo dei risultati strategici, gli attacchi hanno ottenuto l’attenzione dei media internazionali nell’79% dei casi, il 95% a livello nazionale, mentre le azioni organizzate e strutturate dei commando e dei team-raid hanno ottenuto la totale attenzione mediatica. Un evidente, quanto ricercato, successo mediatico che può aver influito sensibilmente sulla campagna di reclutamento di aspiranti martiri o combattenti del jihad, la cui entità numerica rimane elevata in corrispondenza della maggiore intensità di azioni terroristiche (2016-2017). Ma se è vero che l’amplificazione massmediatica ha effetti positivi sull’azione di reclutamento, è anche vero che tale attenzione tende a ridursi col tempo a causa di due ragioni principali: la prima è la prevalenza di azioni a bassa intensità in rapporto a quelle ad alta – in diminuzione – e quelle a bassa e media intensità – in sensibile aumento dal 2017 al 2021. La seconda è l’assuefazione di un’opinione pubblica emotivamente sempre meno toccata dalla violenza del terrorismo, in particolare dagli eventi a “bassa” e “media intensità”.

Il livello tattico preoccupa, ma non è la priorità del terrorismo

Partendo dal presupposto che il fine delle azioni sia di provocare la morte del nemico (nel 35% dei casi gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo viene raggiunto nel periodo 2004-2021 in media nel 50% dei casi. È però opportuno tenere in considerazione che l’ampio periodo di tempo tende a influire in maniera significativa sul margine di errore; l’evoluzione dell’ultimo periodo preso in esame, 2014-2021, mostrerebbe infatti una tendenza al peggioramento negli effetti ricercati dai terroristi con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento di azioni dall’esito fallimentare, almeno fino al 2019. I risultati degli ultimi sei anni, in particolare, mostrerebbero come il successo a livello tattico sia stato ottenuto, nel 2016, nel 31% dei casi a fronte di un 6% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2017 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 40% e di fallimento del 20%. Un andamento complessivo che, passando dal 33% di successo a livello tattico e un raddoppio degli attacchi fallimentari (42%) nel 2018 e consegnandoci un dato ulteriormente al ribasso del 25% di successo nel 2019, può essere letto come il duplice effetto della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’accresciuta reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi suggerisce una capacità tecnica che si è effettivamente ridotta, è altresì vero che l’improvvisazione e l’imprevedibilità del nuovo terrorismo individuale ed emulativo ha fatto registrare un nuovo aumento delle azioni di successo, passate dal 32% nel 2020 e al 44% nel 2021.

Il vero successo è a livello operativo: il “blocco funzionale

Anche quando fallimentare, un attacco terroristico ottiene un risultato altamente favorevole che consiste nell’impegnare in maniera straordinaria le forze armate e di polizia, distraendole dalle normali attività di routine o impedendo di intervenire a favore della collettività, nell’interrompere o sovraccaricare il servizio sanitario, nel limitare, rallentare, deviare o fermare la mobilità collettiva urbana, aerea e navale, nel limitare il regolare svolgimento delle attività quotidiane, commerciali, professionali, a danno delle comunità colpite e, inoltre, riducendo in maniera efficace il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo o, ancora, la capacità di resilienza; infine, più in generale, nell’infliggere danni, diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime. Coerentemente, la limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le proprie azioni.

In altri termini, il successo del terrorismo, anche quando non provoca vittime, consiste nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionarne i comportamenti nel tempo in relazione a misure di sicurezza o limitazioni imposte dall’autorità politica e di pubblica sicurezza ai fini della salvaguardia della collettività. Questo è il “blocco funzionale”.

Nonostante una sempre più ridotta capacità operativa del terrorismo, il “blocco funzionale” continua ad essere il più importante dei risultati ottenuti dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo).

A fronte di un successo tattico registrato nel 34% degli attacchi avvenuti dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace ottenendo il “blocco funzionale” in media nell’82% dei casi, per attestarsi all’92% percento nel 2020 e all’89% nel 2021: un risultato, impressionante considerando le limitate risorse messe in campo dai terroristi, che conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo.


Difesa europea: le vulnerabilità dello Strategic Compass

di Luigi Chiapperini*

L’Europa sta sfornando un topolino (ancorchè più aggressivo) o un vero leone?

La novità di questi giorni è lo Strategic Compass, la Bussola strategica, documento che sta per essere approvato dai Capi di stato e di governo dell’Unione Europea

Il documento, nato prima delle operazioni della Russia contro l’Ucraina, ora naturalmente assume ancora più importanza a seguito di quella che l’Unione Europea considera una inappropriata aggressione nel cuore dell’Europa.

Una pentola a pressione alle porte del vecchio continente

Non è facile parlare di Europa, ancor più difficile risulta affrontare temi legati alla sua politica di difesa e sicurezza. Ci abbiamo messo un po’ per capire che con la caduta del muro di Berlino non erano caduti i freni inibitori di politiche aggressive sia economiche che militari di alcuni paesi. L’Europa è letteralmente circondata da aree di crisi: gli ex confini con la fu U.R.S.S., l’area caucasica, il Medio Oriente, l’Africa settentrionale e sub sahariana, gli stessi Balcani. Una pentola a pressione alle porte del vecchio continente che, se non gestita adeguatamente, potrebbe esplodere. Nei fatti, non può essere negato che sussistono conflitti in atto e potenziali, asimmetrici e simmetrici, che presuppongono la necessità di disporre di forze pronte in grado di fronteggiare minacce sia ibride che classiche, quelle con i carri armati per intenderci, queste ultime considerate erroneamente dai più ormai defunte. Invece è proprio ciò che sta avvenendo in Ucraina in queste settimane.

Un pregresso marginale: fare di più?

In passato l’Unione Europea si è affacciata in maniera discreta in alcuni teatri di crisi, mettendo in campo alcune missioni essenzialmente di monitoraggio e di addestramento delle forze di sicurezza locali. Infatti sono circa 5.000 gli uomini e donne che sotto cappello U.E. sono impegnati in missioni civili e militari per la CSDP (Common Security and Defence Policy).

Ma se l’Europa volesse fare di più, ha gli strumenti per continuare, se necessario, l’azione politica con altri mezzi? La risposta è sì, ma solo fino ad un certo punto e al netto della volontà di farlo che è parsa sinora latitante. Ed è questa la novità delle ultime settimane: qualcosa sembrerebbe muoversi con la “Bussola strategica”. Le dichiarazioni del Commissario Borrell sembrerebbero confermare molte delle capacità già esistenti in ambito europeo che sinora, come detto, non si sono volute sfruttare appieno.

Di cosa parla lo Strategic Compass: le 4 direzioni

Vengono indicate le quattro direzioni (o pilastri, da qui il nome bussola) da seguire nei prossimi 5-10 anni (act, invest, partner and secure) e cioè capacità di agire, investire di più e meglio in collaborazione con gli alleati, volontà di difendersi in modo autonomo.

“Act”: agire

Per essere in grado di agire rapidamente e con fermezza ogni volta che scoppia una crisi, se possibile con i partner o anche da sola quando necessario, l’Unione Europea dovrà:

– istituire la capacità di dispiegamento rapido fino a 5000 soldati in grado di affrontare diversi tipi di crisi;

– essere pronta a schierare 200 esperti di missione PSDC (politica di difesa e di sicurezza comune) schierabili entro 30 giorni, anche in ambienti complessi;

– condurre regolarmente esercitazioni in ambiente terrestre e in mare;

– migliorare la capacità di trasporto strategico e tattico militare;

– rafforzare le missioni e le operazioni civili e militari della PSDC promuovendo un processo decisionale rapido e più flessibile, agendo in modo più fermo e garantendo una maggiore solidarietà finanziaria;

– sfruttare appieno il cosiddetto “Strumento europeo per la pace” per sostenere i partner.

“Invest”: investire

Gli Stati membri si sono impegnati a migliorare sostanzialmente le loro spese per la difesa per soddisfare la nostra ambizione collettiva di ridurre le carenze critiche di capacità militari e civili e rafforzare la nostra base industriale e tecnologica di difesa europea. L’UE dovrà:

– condividere gli obiettivi nazionali sull’aumento e il miglioramento della spesa per la difesa per soddisfare le nostre esigenze di sicurezza;

– fornire ulteriori incentivi agli Stati membri affinché si impegnino nello sviluppo collaborativo delle capacità e investano congiuntamente in abilitatori strategici e capacità di prossima generazione per operare a terra, in mare, in aria, nel dominio cibernetico e nello spazio;

– promuovere l’innovazione tecnologica della difesa per colmare le lacune strategiche e ridurre le dipendenze tecnologiche e industriali.

“Partner”: collaborare

Al fine di affrontare le minacce e le sfide comuni, l’UE dovrà:

– rafforzare la cooperazione con i partner strategici quali la NATO, l’ONU e i partner regionali, tra cui l’OSCE, l’UA (Unione Africana) e l’ASEAN;

– sviluppare partenariati bilaterali con paesi che la pensano allo stesso modo e partner strategici, come Stati Uniti, Canada, Norvegia, Regno Unito, Giappone e altri;

– sviluppare partenariati su misura nei Balcani occidentali, nell’Oriente vicino e meridionale, in Africa, in Asia e in America latina, anche attraverso il rafforzamento del dialogo e della cooperazione, la promozione della partecipazione alle missioni e alle operazioni PSDC e il sostegno allo sviluppo di capacità.

“Secure”: sicurezza

Al fine di rafforzare la sua capacità di anticipare, scoraggiare e rispondere alle minacce e alle sfide attuali e in rapida ascesa e salvaguardare gli interessi dell’UE in materia di sicurezza, l’UE dovrà:

– potenziare le proprie capacità di analisi dell’intelligence;

– sviluppare Hybrid Toolbox e Response Team riunendo diversi strumenti per rilevare e rispondere a un’ampia gamma di minacce ibride;

– sviluppare ulteriormente il pacchetto di strumenti diplomatici informatici e istituire una politica di ciberdifesa dell’UE per essere meglio preparati e rispondere agli attacchi informatici;

– sviluppare un Toolbox per la manipolazione e l’interferenza delle informazioni straniere;

– sviluppare una strategia spaziale dell’UE per la sicurezza e la difesa;

– rafforzare il ruolo dell’UE quale attore della sicurezza marittima.

Molta ambizione e tante criticità

Senza dubbio si tratta di un pacchetto di propositi molto ambiziosi e di cui l’Europa aveva bisogno ma che sono stati più o meno i cavalli di battaglia degli ultimi anni. Ora però vengono raggruppati in questo documento e riconosciuti, alla luce degli ultimi tragici eventi, come obiettivi irrinunciabili.

Quali sono i dubbi che nascono scorrendo l’elenco degli obiettivi?

Sembra che non vengano risolti i problemi incontrati in passato concernenti la reale volontà politica di impiegare queste capacità.

In realtà le strutture, i comandi, le forze e le risorse essenzialmente ci sono già.

L’UE ha Comandi e forze militari, con una preponderanza dei primi rispetto alle seconde le quali, pur idonee quantitativamente e qualitativamente, risultano per vari motivi difficilmente impiegabili.

Partendo dalle strutture deputate al comando e controllo, per le missioni militari quelle a livello strategico, tutte facenti capo al Political and Security Committee, sono i quattro Operational Headquarters (OHQ) resi disponibili da Francia, Germania, Grecia e Italia, il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE) per via degli accordi «Berlin plus» e l’EU Operation Centre, in grado di essere attivato all’occorrenza per operazioni di limitata entità e di ridotti livelli di rischio, costituito presso lo Stato Maggiore dell’UE. Invece per quanto concerne le missioni civili, la struttura deputata al comando di livello strategico è il Civilian Planning and Conduct Capability (CPCC). Detta distinzione fa nascere già delle perplessità: ha senso tenere distinte le missioni “civili” da quelle “militari”? Se un’area è considerata di crisi, l’aspetto civile non può prescindere da quello militare.

Inoltre è d’uopo fare una considerazione riguardo alla possibile cooperazione tra UE e NATO a seguito degli accordi Berlin Plus. La NATO raccoglie 30 paesi, la UE 27, mentre sono 21 gli stati facenti parte di entrambe le organizzazioni. In questa situazione risulta quanto meno problematico raggiungere in entrambi i consessi l’unanimità per l’avvio di operazioni comuni. Inoltre, nella dichiarazione congiunta sulla cooperazione UE-NATO del 10 luglio 2018 sono elencati i settori oggetto dell’accordo, che riguardano essenzialmente mobilità militare, cybersecurity, minacce ibride, lotta al terrorismo, donne e sicurezza. Non proprio ciò che ci si aspetterebbe da una vera e propria cooperazione militare strutturata.

Ad onor del vero, tentativi di rafforzare la politica di difesa e sicurezza comuni ci sono stati: lo sforzo di dotarsi di forze militari dedicate e disponibili per gli scopi dell’UE, la cooperazione strutturata permanente della PESCO e i fondi europei per la difesa sono gli esempi più recenti.

L’Europa è una potenza militare: sulla carta

La domanda da porsi allora è come l’UE si pone nei confronti dei maggiori player mondiali. Se sommiamo gli equipaggiamenti militari delle singole nazioni europee e li confrontiamo con quelli di USA, Russia e Cina, possiamo senz’altro affermare che sulla carta l’Europa è una potenza militare. Ma «non sempre la somma fa il totale»: lo strumento militare delle singole nazioni europee letteralmente ristagna sul suolo europeo ma attualmente non appartiene all’Unione Europea come entità. Lo Strategic Compass dice genericamente di “promuovere un processo decisionale rapido e più flessibile, agendo in modo più fermo e garantendo una maggiore solidarietà finanziaria”.

Negli ultimi dieci anni anche il budget dedicato alla difesa è andato sempre più calando, e ciò è accaduto solo in seno all’UE, mentre sono aumentati quelli di tutti gli altri principali attori mondiali e regionali, compresi Cina, India, Giappone e Arabia Saudita. Giova inoltre ricordare che in Europa solo Regno Unito, Francia, Polonia, Romania e gli stati baltici si avvicinano al 2% del PIL dedicato alla difesa sulla base delle linee guida della NATO. Anche qui qualcosa sembra stia cambiando radicalmente, anche in Italia.

Inoltre, i sistemi in produzione per singola tipologia di equipaggiamento rendono l’Europa più debole di quanto a prima vista possa sembrare. Basti notare che, rispetto agli USA che ne hanno uno solo, in Europa ci sono quattro diversi tipi di carro armato, gli USA hanno tre tipi di missile antinave mentre l’Europa nove, il vecchio continente ha in linea 11 diverse tipologie di fregate mentre gli USA una sola. Ciò comporta per l’Europa comprensibili problemi di impiego operativo e di supporto logistico in caso di missioni unitarie. E il trend della proliferazione di sistemi d’arma nazionali continua: un esempio è lo sviluppo del sistema «Soldato futuro», volto ad equipaggiare il combattente dei prossimi decenni, che vede in Europa ben cinque progetti differenti.

BREXIT: un’assenza micidiale

Da ultimo, ma probabilmente è l’aspetto più importante, iniziamo a tener conto dell’effetto che sta avendo la BREXIT sul potenziale della difesa europea. Quelli che sono ormai diventati i cugini di secondo grado d’oltremanica fanno mancare, oltre al nucleare che in Europa diventa appannaggio della sola Francia, il 9% di veicoli per il combattimento della fanteria, il 50% di portaerei, il 28% di veicoli aerei pilotati a distanza ed il 30% di aerei da rifornimento.

Una delle novità dello Strategic Compass è l’istituzione della capacità di dispiegamento rapido di una unità con fino a 5000 soldati in grado di affrontare diversi tipi di crisi. Eppure dal 2005 sono già disponibili gli European Union Battle Group (EU BG), unità di livello reggimento (1.500-2.000 unità) più assetti aerei e navali, con compiti del tipo Petersberg introdotti dal Trattato di Amsterdam nel 1997 (operazioni di supporto alla pace: humanitarian, peacekeeping and peacemaking nature). Ogni anno per ogni semestre nazioni volenterose dovrebbero rendere disponibili due EU BG (quindi circa 3.000-4.000 militari in totale). L’Italia lo ha fatto per ben tre volte negli ultimi quattro anni, ma più volte in passato è accaduto che la tabella di turnazione sia rimasta desolatamente parzialmente vuota. Senza contare il fatto che due reggimenti costituiti da un insieme eterogeneo di bassissimo livello ordinativo, più qualche aereo e qualche nave, schierabili per non più di trenta fino ad un massimo di 120 giorni, sono poco credibili anche se impiegati in qualità di Initial Entry Force per l’avvio di una operazione militare. Ed infatti non sono mai stati impiegati… La speranza è che queste nuove Task Force, presumibilmente di livello Brigata, previste nella Bussola strategica, a parte quello che sembra essere un incremento della forza dagli attuali 3.000-4.000 a 5.000 soldati in totale, siano anche idonee ad intervenire in situazioni più critiche rispetto al passato quando, come detto, ci si limitava alle missioni tipo Petersberg. Sembra che sia proprio così. Rimane comunque la perplessità riguardo al numero: 5.000 militari sembrano ben poca cosa in caso di schieramento volto ad assolvere compiti di una certa complessità.

Quindi l’Europa della Difesa, potenziale gigante mondiale, potrebbe ancora vivere vulnerabilità che vanno ad aggiungersi all’incapacità sin qui dimostrata di agire politicamente all’unisono.

Lo Strategic Compass potrebbe essere la svolta di una situazione che vedeva l’Europa un gigante non tanto dai piedi di argilla quanto dalla testa di legno non in grado di addivenire a decisioni. Si pensava che fossero proprio questi gli scogli che si intendevano superare con la Bussola strategica: rendere effettiva la capacità dell’Europa di impiegare le forze in situazioni di crisi.

Quello che non è chiaro nel documento che sarà approvato dai capi di stato e di governo nei prossimi giorni è come saranno prese le decisioni nella politica estera e della difesa. La grande speranza è che si addivenga a decisioni a maggioranza qualificata il che potrebbe portare finalmente l’Europa ad assumere importanti decisioni in relazione ai più importanti dossier internazionali senza quegli impedimenti che si sono visti sinora. Detta nuova capacità decisionale non può prescindere poi dalla disponibilità reale di forze pronte e ben equipaggiate in aggiunta a quei 5.000 militari previsti nel documento.

Solo così con lo Strategic Compass l’Europa in qualità di vero attore mondiale potrà sfornare anziché un topolino (ancorché aggressivo) un vero leone capace di contribuire a tener testa a orsi e dragoni.

*Generale di Corpo d’Armata Luigi Chiapperini, già pianificatore nel comando ARRC – Kosovo Force della NATO, comandante dei contingenti nazionali NATO in Kosovo nel 2001 e ONU in Libano nel 2006 e del contingente multinazionale NATO in Afghanistan tra il 2012 e il 2013, Vice Capo del Reparto Pianificazione Generale e Direzione Strategica / Politica delle Alleanze presso lo Stato Maggiore Difesa, Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, attualmente membro del Centro Studi dell’Esercito, presidente dei lagunari dell’A.L.T.A. e collaboratore del Campus universitario CIELS di Padova.


#ReaCT2022 Incontri con gli autori – puntata 2 (Alessandra Lanzetti / Claudio Bertolotti)

LIVE streaming di giovedì 24 marzo in cui si è discusso dell’evoluzione del terrorismo jihadista in Europa e della gestione dei minori radicalizzati in Italia (caso studio). Contributi contenuti nel Rapporto #ReaCT2022. Con Claudio Bertolotti, direttore dell’Osservatorio ReaCT e il Vice-Questore aggiunto Alessandra Lanzetti (Polizia di Stato).


Allentato l’assedio a Kiev? Mosca guarda a sud. Il commento di C. Bertolotti. RaiNews 24, 24 2022

Le forze armate ucraine sfondano la sottile linea d’assedio dei russi a nord-ovest di Kiev imponendo un arretramento alla 35a armata combinata russa, schierata in posizione difensiva (e non offensiva). Grande impatto emotivo e mediatico, ma i russi mantengono l’iniziativa sul fronte più importante, quello meridionale dove, con la caduta di Mariupol, Mosca ottiene la continuità territoriale dalla Crimea al Donbass.

In attesa dei rinforzi provenienti dai distretti orientali e con la riorganizzazione delle forze in campo rimane incerto l’esito di un conflitto che le sole forze ucraine non potranno risolvere attraverso una controffensiva: mancano le forze, i mezzi e le risorse. Al contrario, gli ucraini hanno la sola capacità di rallentare le operazioni russe.

Il commento di Claudio Bertolotti ospite di RaiNews 24; puntata del 24 marzo 2022.


ISPI Podcast Globally: Quali sono le strategie militari messe in campo in Ucraina?

Dopo quasi un mese di guerra, Kyiv teme l’assedio mentre Mariupol è sul punto di cadere. Per l’esercito ucraino, però, le forze di Mosca non stanno ottenendo nessuno dei principali obiettivi di guerra. Cosa ci aspettiamo dall’esercito russo nel prossimo futuro?
Francesco Rocchetti, Segretario Generale dell’ISPI, e Silvia Boccardi, giornalisti di Will, ne parlano con Claudio Bertolotti, ricercatore associato dell’ISPI e Direttore di START InSight.

  1. Sarebbe dovuta essere una guerra lampo, è diventata una guerra di logoramento. Come è cambiata la strategia russa sul campo, dopo aver incontrato una resistenza inaspettata?
  2. Quali siano stati gli errori strategici di Putin e dei vertici militari russi in Ucraina?
  3. I negoziati vanno avanti ma in molti dicono che per Putin sia solo un modo di prendere tempo, cosa ne pensi?
  4. Come procede lo scontro nei 3 terreni classici della contesa militare per i russi: aria (aerei, elicotteri, missili), terra (assedi, spostamento di truppe), acqua (operazioni anfibie, supporto missilistico navale)? E come rispondono gli ucraini?

A queste domande risponde Claudio Bertolotti

“Le forze armate ucraine non hanno la capacità di contrattaccare le forze russe attraverso operazioni risolutive ma, come dimostrato sul campo, sono capaci di rallentarne lo slancio offensivo colpendo ai fianchi e le retrovie. Per questa ragione lo schema di difesa adottato dalle forze ucraine è “areale” (o a “istrice”, come ben descritto da Fabio Riggi per START InSight): gli ucraini di fatto non hanno creato linee difensive definite sul terreno in modo tale da fermare il nemico, bensì hanno allestito i loro capisaldi attorno alle città, o all’interno delle città, con la consapevolezza che ciò avrebbe significato sacrificarle e/o sottoporle all’attacco russo. Avrebbero potuto schierarsi fuori dai centri abitati ma questo avrebbe significato una resistenza dalla vita brevissima e una veloce vittoria russa. Per cui, razionalmente, gli ucraini hanno scelto le città come elementi difensivi. Si sa, le città sono aree in cui nessun esercito vuole combattere, lo si fa solo se strategicamente necessario: e non a caso i russi si sono lasciati alle spalle molti piccoli e medi centri abitati, con all’interno molte guarnigioni ucraine che vanno a costituire delle vere e proprie spine nel fianco per le unità russe, in particolar modo per quelle logistiche deputate ai rifornimenti. Tutto ciò definisce un quadro del sistema difensivo ucraino che non avendo la capacità di contrattaccare ricacciando i russi sulle loro posizioni, ha scelto una difesa a oltranza portando così la guerra che abbiamo definito ‘guerra lampo’ a trasformarsi in una guerra di logoramento e attrito: questo è l’effetto della capacità e della volontà di difesa ucraina.
Accettando di pagare a caro prezzo, come l’esperienza di Mariupol ci conferma: con gli attacchi con l’artiglieria e con i missili russi a danno di obiettivi civili e militari i risultati sono devastanti e lo saranno sempre di più con il trascorrere del tempo e in conseguenza di una scelta molto razionale. Ma è il prezzo da pagare per garantire la sopravvivenza dello Stato ucraino. Il governo di Kyiv ha accettato di fare immensi sacrifici in cambio di un obiettivo di più lungo termine.” (ESTRATTO)

Globally è il nuovo podcast di ISPI e Will sulla politica internazionale. Ogni settimana, cercheremo di dare gli strumenti per analizzare e orientarci tra scenari sociali, economici e politici in continuo mutamento, in soli 15 minuti.

Dalla diplomazia dei vaccini alla COP26, dall’America secondo Biden alla crisi in Etiopia, dalla geopolitica dei semiconduttori alla ritirata USA dall’Afghanistan: i temi più caldi dell’attualità internazionale nelle prime puntate di Globally.


Ucraina: strategico assalto su Mariupol (D+27)

di Fabio Riggi

A quasi un mese dall’inizio del conflitto, è più che consolidata la fase di logoramento e attrito che sta caratterizzando l’andamento generale delle operazioni, seppur in presenza di azioni offensive e controffensive condotte da entrambi i contendenti. In questo quadro, le forze russe mantengono l’iniziativa, fattore certamente importante ma, contrariamente a quanto avvenuto nelle prime fasi, quando mantenevano un elevato ritmo operativo su tutti e cinque i loro assi di penetrazione, ora da alcuni giorni stanno concentrando i propri sforzi in primo luogo su un unico settore, quello sud-est del Donbass, che si è sostanzialmente integrato con gli attacchi portati da quello est dalle forze operanti nella regione di Kharkiv, le quali hanno da più di una settimana effettuato la conversione verso sud in direzione di Izium e Severdonetsk. In tal modo, essi continuano a perseguire l’intento di avvolgere da nord le posizioni delle brigate ucraine schierate lungo la linea di contatto del Donbass, situazione che rappresenta l’elemento più critico e passibile di negativi sviluppi per le forze di Kiev. Inoltre, i russi hanno lanciato quello che pare essere il definitivo assalto a Mariupol, la cui caduta sembra essere imminente. Dal canto loro, le forze ucraine continuano a mostrare significative capacità operative e restano altamente reattive, come dimostrato in modo particolare dal contrattacco lanciato nel settore di Mikolayv, che dopo quello che appariva come un iniziale successo sta producendo ora risultati altalenanti ancora difficili da valutare.

Stallo a nord, successo a sud per i russi

Sempre con riferimento ai 5 sforzi offensivi russi, a Nord, lungo la sponda destra (ovest) del Dnepr, a nord-ovest e ovest di Kiev, si sono registrati scontri locali ma senza alcuno sviluppo tattico particolarmente significativo. A nord-est, in direzione del lato orientale di Kiev, le unità russe sono rimaste statiche sulle posizioni precedentemente raggiunte nell’area di Brovary, continuando a mantenere isolata la sacca di Chernihiv-Nizhyn e quella di Sumy. Nel settore est, le forze russe si sono impegnate particolarmente nell’attacco alla posizione chiave di Izium, per conseguire l’avvolgimento del fianco sinistro delle forze ucraine schierate nel Donbass e proiettarsi poi in direzione della riva sinistra (est) del Dnepr. A sud-est, nel settore del Donbass, le unità russe e quelle delle repubbliche separatiste si sono impegnate in una serie di attacchi sistematici che sono scaturiti in furiosi combattimenti, riuscendo a ottenere la conquista di una serie di posizioni, realizzando una lenta e contrastata avanzata di alcuni chilometri; sempre in questo settore, con l’assalto a Mariupol e la conquista di parte dell’area urbana, prodromo alla definitiva caduta della città, si prefigura il consolidamento del “land Bridge”, il collegamento geografico tra quest’ultima regione e la Crimea, obiettivo di rilevanza strategica della campagna. Nel settore sud, lo sviluppo tattico più importante è stato il contrattacco ucraino nel settore di Mikolayv, che ha conseguito un iniziale successo con una limitata avanzata con la quale è stata molto probabilmente alleggerita la pressione sulla città; nonostante ciò, le forze russe in questo settore continuano a esercitare una pressione verso nord in direzione di Kryvyi Rih.

Kiev: russi sulla difensiva

Nel settore nord di Kiev, le unità della 35a armata combinata russa sono rimaste sostanzialmente statiche sulle loro posizioni nell’area di Irpin-Bucha, così come quelle della 36a armata combinata, disposte più a ovest, nell’area di Makariv. Entrambe sono operanti sul lato ovest di Kiev e del Dnepr, e oltre a non aver condotto nessun attacco significativo sembrano essere entrate in una fase di transizione passando a una postura difensiva, il cui indicatore sarebbe l’osservazione dell’allestimento di posizioni organizzate in tal senso. Analogamente, sul lato orientale della capitale ucraina le unità della 2a armata combinata della guardia rimangono sulla difensiva nell’area di Brovary, dove sembrano comunque aver ottenuto il risultato di tagliare le importanti strade M-03, che collega Kiev con Poltava, Kharkiv e il Donbass, e la E-95, che corre a nord verso il confine bielorusso. Sempre nel settore nord-est di Kiev, le forze ucraine nella sacca di Chernihiv-Nizhyn restano ancora pienamente operative e pare abbiano allargato il loro perimetro verso sud, in direzione di Pryluki, anche se rimangono sempre isolate e fronteggiate dalle unità russe della 41a armata combinata, che ne sigillano ancora il perimetro e le sottopongono a ripetute azioni di fuoco di artiglieria.

Nord-est: russi in difficoltà e “istrici” ucraini

Nel settore nord-est, le unità russe della 1a armata carri della guardia e della 2a armata combinata della guardia sono sempre impegnate a contenere e ridurre la sacca di Sumy, ma anche quelle più ridotte di Konotop e Lebedyn. Lungo questo lungo asse sembrerebbe che tatticamente gli ucraini stiano vincendo la corsa sul tempo innescata tra la prolungata resistenza di queste loro “istrici”, leggasi posizioni arretrate che si difendono su tutti i lati, e gli sforzi russi di neutralizzarle e annientarle al fine di recuperare capacità offensiva. Questa precisa situazione tattica, che assorbe un’aliquota molto significativa di unità attaccanti (sembra non meno di quasi 20 gruppi tattici a livello battaglione) è quella che di fatto ha smorzato in modo rilevante l’offensiva russa sul lato orientale di Kiev.

Est: a Kharkiv bloccata la progressione russa. In attesa dei rinforzi

Nel settore est, nell’area di Kharkiv, le unità della 1a armata carri della guardia che vi operano non hanno condotto attacchi di una qualche importanza in direzione della città, mostrando anche di aver subito un sostanziale logoramento causato dal precedente contrattacco ucraino a nord di quest’area, fattore che le starebbe costringendo a una prolungata fase di riordino e ripianamento delle perdite. Tuttavia, come indicato nei precedenti apprezzamenti, questa controffensiva ucraina non ha portato a una vera riconquista delle posizioni lungo il confine, ma si è configurata come una puntata che ha raggiunto lo scopo di bloccare la progressione avversaria infliggendogli perdite non trascurabili. In ogni caso, in questo settore le unità della 6a e 20a armata combinata (144a divisione motorizzata e 3a divisione motorizzata, entrambe appartenenti alla 20a armata combinata, unità che nei precedenti apprezzamenti erano state indicate erroneamente come corazzate) hanno notevolmente intensificato i loro sforzi offensivi verso sud, per conquistare Izium e Severdonetsk e compromettere così il fianco sinistro delle brigate ucraine schierate sul fronte del Donbass. Su queste due località si sono accesi violenti scontri, con le unità ucraine che hanno cercato in ogni modo di bloccare questo tentativo ed evitare così la perdita di queste due località, che costituiscono due fondamentali perni di manovra per la tenuta di tutta la difesa del Donbass. Su questo cruciale settore, la difesa delle forze di Kiev è appoggiata sul corso del fiume Donets, lungo l’allineamento Izium- Severdonetsk, linea su cui le forze russe stanno esercitando una forte pressione. Parte della città di Izium sembra ormai sotto controllo russo, ma a partire dalla giornata del 17 marzo un contrattacco congiunto lanciato da parte ucraina con la 81a e 95a brigata d’assalto aereo avrebbe imposto una battuta d’arresto alla 3a divisione motorizzata che stava cercando di sfruttare il successo avanzando verso sud. Sempre lungo la linea del Donets, al centro, la 57a brigata motorizzata ucraina (pare coadiuvata da un battaglione carri della 17a brigata corazzata) tiene e rafforza la posizione di Sloviansk, mentre a est, su Severdonetsk, le forze ucraine sono quelle della 79a brigata d’assalto aereo, dalla 111a brigata della difesa territoriale e del battaglione “Donbas”, che fronteggiano l’attacco su tre lati di altre unità russe della 3a e della 150a divisione motorizzata. In ultima analisi, la cruenta battaglia in corso lungo questo tratto del Donets rappresenta la situazione che nei prossimi giorni potrà portare ai più importanti sviluppi tattici, passibili di tramutarsi in effetti a livello operativo. In questo settore il secondo importante evento è costituito dall’assalto finale a Mariupol, che si è sviluppato particolarmente il 19 marzo, e che ha portato le unità russe della 150a divisione motorizzata (sul lato est), insieme alla 810a brigata di fanteria di marina (da nord), a reparti ceceni di fanteria leggera, e altre unità della 19a divisione motorizzata (che attaccano sul lato ovest), a penetrare e prendere possesso di ampie porzioni dell’area urbana. Le unità ucraine che ancora resistono in alcuni settori della città sono quelle della 56a brigata motorizzata, del reggimento Azov, e della 36a brigata di fanteria di Marina, ma nonostante la loro estrema difesa la caduta di Mariupol pare ormai sempre più prossima. In generale, la “manovra sul Donbass”, che inizialmente si stava configurando come un doppio avvolgimento su entrambi i fianchi, si sta ora sviluppando come un singolo tentativo di avvolgimento del fianco nord ucraino, probabilmente perché la “branca” meridionale russa si è dovuta pesantemente impegnare nell’attacco a Mariupol. Proprio riguardo a quest’ultima operazione, è presumibile che quando questa città cadrà i russi potranno riorganizzarsi e reimpiegare le forze che vi hanno partecipato per rinnovare i loro sforzi offensivi verso altre direzioni, a condizione però che non siano state troppo logorate da questa dura e impegnativa battaglia urbana. 

Mikolayv: il contrattacco ucraino

Nel settore sud, nell’area di Mikolayv, nella giornata del 17 marzo le forze ucraine hanno sferrato un importante contrattacco che ha conseguito un iniziale successo con la riconquista della cittadina di Posad-Pokrovske. Le unità russe che le fronteggiano sarebbero quelle operanti sotto il controllo operativo della 58a armata combinata, e segnatamente la 7a divisione d’assalto aereo e altri gruppi tattici motorizzati a livello battaglione (BTG), un’aliquota di forze che sarebbe stata rinforzata anche dalla 336a brigata di fanteria di marina. Il contrattacco ucraino ha senz’altro conseguito il risultato di alleggerire la pressione su Mikolayv, ma i suoi ulteriori sviluppi sono ancora incerti. Unità russe risultano però ancora impegnate nel premere lungo la direttrice nord, in direzione di Kryvyi Rih, ma senza aver progredito particolarmente. L’entità e l’importanza attribuita dai comandi russi a questo particolare asse offensivo, che è bene ricordare corrisponde alla direttrice che porta a Odessa, costituiscono il tema più enigmatico e dibattuto, in quanto come già ricordato in precedenza esso è quello “divergente” rispetto a quello indirizzato a nord-est e su Mariupol, e non vi hanno mai operato forze sufficienti a realizzare una superiorità decisiva. Secondo alcune ipotesi potrebbe trattarsi di uno sforzo secondario volto a raccogliere informazioni, fissare forze avversarie nell’area e cogliere eventuali opportunità, costituendo così una sorta di “corpo di osservazione” (definizione propria di una terminologia militare di stampo ottocentesco, ma adeguato alla circostanza) rivolto a quella direzione.

Meno aerei e più missili: i russi sono coerenti

Sul versante delle operazioni aeree e missilistiche, le forze russe hanno continuato e intensificato i loro attacchi sfruttando soprattutto la seconda opzione, come indicato in precedenza in ossequio a un loro definito e consolidato concetto d’impiego dei vettori balistici tattici, ma facendo ampio ricorso anche ai loro sistemi da crociera. In questo momento risulterebbero effettuati circa 800 lanci di sistemi ISKANDER-M, cui si starebbero aggiungendo alcuni dei più vecchi OTR 21 “Tochka” (utilizzati anche dagli ucraini nel Donbass), un sintomo forse di una certa scarsità che inizia a manifestarsi nelle scorte dei primi. Più limitati sono stati invece gli attacchi condotti dai bombardieri strategici Tupolev Tu-160 e Tu-95MS, con il lancio da parte di questi velivoli di missili Kh-555 Kh-55SM e Kh-101, che continuano comunque ad avere un loro ruolo nella campagna aero-missilistica russa. In tale quadro è stato molto importante e pubblicizzato l’attacco condotto con l’impiego del missile ipersonico Kh-47M2 “Kinzhal” contro un deposito munizioni a Delyatyn, nella regione di Ivano-Frankovsk, non lontano dal confine con la Romania. Il missile, accreditato come capace di raggiungere la velocità di Mach 10-12, è stato probabilmente lanciato da un caccia intercettore Mikoyan Mig-31K (variante appositamente modificata per l’impiego di questa arma). Al di là della reale necessità tattica di utilizzare un sistema ad alte prestazioni, è piuttosto evidente come l’intento di questo attacco fosse principalmente rivolto a dimostrare la potenza e l’efficacia di una delle armi più recenti e temibili dell’arsenale di Mosca. In questo campo, quello dei vettori ipersonici, è ben nota la superiorità che i russi hanno accumulato in anni recenti rispetto agli USA e all’occidente in generale, creando un divario tecnologico che soprattutto gli statunitensi si stanno impegnando particolarmente a colmare. L’impiego di velivoli da parte dell’aviazione russa pare non sia stato particolarmente intenso negli ultimi giorni (a parte le continue azioni di supporto aereo ravvicinato eseguite dagli onnipresenti Sukhoi Su-25 in appoggio ai reparti terrestri) con una conseguente limitazione delle perdite, mentre invece il rateo delle missioni degli elicotteri da combattimento, rappresentati dai modelli Kamov Ka-52, Mil Mi-28N e Mil Mi-24/35, rimane molto elevato sin dalle primissime fasi dell’invasione. Dal canto suo l’aviazione ucraina, seppur grandemente limitata, ha mostrato di essere ancora attiva. Oltre al costante impiego dei sistemi UAS Bayraktar TB-2, che continuano a operare con efficacia anche come piattaforme da combattimento, destando una certa sorpresa le forze aeree di Kiev sono state infatti in grado di condurre anche alcune missioni d’attacco con cacciabombardieri Sukhoi Su-24 e Su-25, che opererebbero dispersi su basi secondarie (ancora non colpite quindi dagli attacchi di contro aviazione offensiva russi) nelle regioni centro-occidentali del paese. Il mancato annientamento dell’aviazione ucraina, peraltro, è il principale motivo alla base di un’altra delle più importanti critiche rivolte alle forze russe impegnate nel conflitto. Secondo queste analisi, il mancato conseguimento di tale risultato (un commento che forse tradisce comunque un concetto e un’esperienza molto “occidentali” nell’immaginare la quasi immediata “Air Dominance” nelle prime fasi di qualsiasi conflitto) dimostrerebbe una carenza nelle capacità dell’aviazione russa di condurre una complessa campagna aerea in un moderno scenario bellico. 


Dugin e la “Quarta Teoria Politica”: l’ideologia illiberale russa che spopola in Occidente e giustifica l’invasione dell’Ucraina

di Andrea Molle

Chi critica l’accostamento tra la crisi nei rapporti tra Russia e Occidente, culminata nel conflitto in Ucraina, con la Guerra Fredda sostiene che la situazione attuale non abbia la forma di un conflitto tra due blocchi ideologici distinti e contrapposti. Si tratta di una conclusione affrettata e a mio avviso molto superficiale, che ignora la realtà e gli effetti di decenni di penetrazione nella società e nel sistema politico-militare russo di un apparato ideologico e pseudo-religioso chiamato Neo-Euroasianesmo. Il rischio principale nel non comprendere la dimensione ideologica della crisi è quello di guardare all’invasione dell’Ucraina come una mera guerra territoriale ed essere impreparati per gli scenari futuri che non potranno che vedere un aumento della tensione dei rapporti tra Occidente e Russia.

Nella sua versione originale, l’Euroasianesimo fu un movimento culturale e politico fondato sull’idea che la civiltà russa non fosse né europea né asiatica, ma piuttosto una civiltà euroasiatica a sé stante. Sviluppatosi negli anni ’20 del 1900, l’Euroasianesimo sostenne la rivoluzione bolscevica, ma non il suo obiettivo di realizzare nel paese il comunismo, vedendo l’Unione Sovietica unicamente come una tappa nel processo di ricostruzione dell’identità nazionale e imperiale russa che riflettesse il carattere unico della sua situazione geopolitica.

In seguito allo scioglimento dell’URSS, l’Euroasianesimo entrò in una fase pragmatica, abbracciando l’idea di costituire delle organizzazioni internazionali sul modello di quelle già esistenti in Europa e Nord-America e la cui funzione era di aumentare i rapporti tra Russia e Oriente, con particolare attenzione alla Cina. Tra queste vale la pena di menzionare l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e l’Unione Euroasiatica.

Unitamente a questa sua versione pragmatica, l’Euroasianesimo manteneva però una visione mistica. Il suo maggior esponente è il fondatore del Neo-Euroasianesimo, Aleksandr Gelyevich Dugin. Il filosofo politico, nato intellettualmente nel solco della corrente mistica e noepagana dell’Ortodossia cristiana moscovita, è ben conosciuto anche in Italia grazie ai suoi collegamenti con la cosiddetta “Lobby Nera” costituita da gruppi identitari e tradizionalisti di estema destra. La versione dughiniana dell’Euroasianesimo, detta anche Quarta Teoria Politica, è una forma di ideologia neo-fascista il cui progetto politico consiste nel ricostruire un Impero Eurasiatico totalitario, dominato dalla Russia, che si contrapponga agli Stati Uniti e dai suoi alleati atlantisti. Secondo Dugin, nella visione escatologica del movimento che abbonda di riferimenti biblici l’inevitabile conflitto tra i due blocchi finirebbe per dare vita a una nuova “età dell’oro dell’illiberalismo politico e culturale globale”, promuovendo un’era di pace universale e di riaffermazione dei principi religiosi, tradizionali, di convivenza tra gli uomini.

Non può dunque passare inosservato il fatto che Dugin consideri l’attuale conflitto ucraino come l’inizio della fase bellica del “confronto contro il globalismo come fenomeno planetario integrale”. Un conflitto che il filosofo ritiene essere sia geopolitico che ideologico e che vede essere una vittoria in tutti i paesi del mondo, inclusi Europa e Stati Uniti, di tutte le forze da lui definite come alternative, sia di destra che di sinistra, creando le condizioni per una nuova multipolarità. Infatti, nella visione Neo-Euroasiatica, come fu nella visione ideologica comunista, la Russia viene concepita come una civiltà destinata a salvare il mondo dal neoliberismo, riportando l’Occidente a riabbracciare le proprie radici tradizionali greco-romane, cristiane, bizantine, oggi incarnate dalla Russia in quanto erede sia dell’Impero Romano che del Sacro Romano Impero. Mosca incarnerebbe così l’eredità imperiare di Roma e conseguentemente il suo destino di grande unificatrice e civilizzatrice.

Ma quanto è diffusa e influente questa visione nel contesto del governo russo? Nel 1997 Dugin pubblicò un volume dal titolo “I fondamenti della geopolitica: il futuro geopolitico della Russia” che esercitò fin da subito un’influenza significativa sulle élite militari e di politica estera del paese diventanto ben presto uno dei libri di testo nelle accademie militari e di polizia del paese, anche grazie al supporto del Generale Nikolai Klokotov. Grazie all’assenza di riferimenti esoterici e mistici, presenti in molte delle sue opere precedenti, Dugin riuscì anche a far breccia nella società civile, e il libro fu anche adottato in diversi curriculum scolastici arrivando a contribuire a costruire l’attuale ceto dirigente russo e la percezione popolare del paese. Quanto a Putin, sappiamo che Dugin ha esercitato sia un’influenza diretta sul presidente russo, tramite il partito Eurasia fondato nel 2002, che una indiretta, tramite molti dei suoi consiglieri personali che seguono i precetti della Quarta Teoria Politica e la Chiesa Ortodossa Moscovita che ne ha abbracciato la visione teocratica.

La recente invasione dell’Ucraina potrebbe dunque essere coerente con una strategia basata sull’ideologia Neo-Euroasiatica patrocinata da Dugin per indebolire l’ordine liberale internazionale. Se così fosse, questa sarebbe dunque solo una fase in una guerra più ampia e destinata a protrarsi nel tempo irrigidendosi su linee ideologiche e pseudo-religiose.


Le sanzioni occidentali falcidiano le fortune dei miliardari russi

di Marco Cochi

Dallo scorso 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato la sua aggressione militare all’Ucraina, i miliardari russi hanno visto diminuire le loro immense fortune in modo cospicuo. Il 2 marzo, dopo una sola settimana dall’inizio dell’invasione, il patrimonio netto degli ultra-ricchi russi riportato dal  Bloomberg Billionaires Index, il paniere creato nel 2012 che monitora quotidianamente lo stato dei patrimoni più facoltosi del mondo, era di  88 miliardi di dollari in meno rispetto al 23 febbraio.

Così il 3 marzo, cinque miliardari russi sono stati estromessi dalla speciale graduatoria di Bloomberg, dopo che le loro perdite sono più che raddoppiate da quando la Russia ha invaso l’Ucraina

Tra questi il più penalizzato è Vagit Alekperov, il presidente della Lukoil, la più grande compagnia petrolifera indipendente della Russia. Alekperov, che nel 1990 fu il più giovane vice ministro dell’Energia nella storia dell’Unione Sovietica, ha perso oltre il 60% della sua fortuna personale prima di uscire dalla lista di Bloomberg. Il giorno dopo la sua epurazione dalla superclassifica dei re Mida, il proprietario della Lukoil aveva chiesto di porre fine rapidamente al conflitto tra Russia e Ucraina, diventando così la prima grande compagnia nazionale ad opporsi alla guerra di Putin. 

Il passivo astronomico subito dai miliardari è in gran parte dovuto al crollo del mercato azionario russo e alla svendita delle loro attività nei mercati internazionali. Già nel periodo precedente la guerra Russia-Ucraina, le conseguenze dell’ondata prodotta dalla variante Omicron del SARS-Cov-2 e la debolezza del rublo avevano depresso i mercati finanziari locali, ma i “paperoni” russi hanno subito la maggior parte delle loro perdite dopo il 24 febbraio.

Tra il 23 febbraio e il 3 marzo, l’uomo più ricco della Russia, Vladimir Potanin, ha visto calare vertiginosamente le azioni della sua società Norilsk Nickel, gigante minerario primo produttore mondiale di palladio e tra i maggiori fornitori dei metalli più ricercati per la transizione energetica, come nickel, rame e cobalto. La società, quotata alla Borsa di Londra, nella settimana successiva all’invasione è affondata di oltre il 50%, provocando alla fortuna del magnate moscovita una perdita di 4,5 miliardi di dollari. E dallo scorso 3 marzo, il titolo è stato sospeso dalle contrattazioni del London Stock Exchange.

Perdite ancora più elevate sono state sostenute da Alexey Mordashov, principale azionista e presidente di Severstal, un conglomerato russo con interessi nel metallo, energia e miniere, che detiene una partecipazione nella compagnia di viaggi tedesca Tui.

Anche il fondatore del Volga Group, Gennady Timchenko, che controlla cospicui interessi nel gas naturale, trasporti, infrastrutture e nei prodotti chimici, oltre ad avere stretti legami con Putin, ha visto scendere di 11,3 miliardi di dollari il suo patrimonio netto, che ora equivale a 11,1 miliardi di dollari.

Un altro dei miliardari epurati dal Bloomberg Billionaires Index è Leonid Mikhelson, Ceo e principale azionista di Novatek, il secondo produttore di gas naturale della Russia, dopo il colosso Gazprom. Nella settimana successiva all’aggressione militare all’Ucraina, Mikhelson ha totalizzato 11 miliardi di dollari di passivo.

Alle pesantissime perdite registrate nei mercati azionari, che finché non vengono liquidate le posizioni detenute dai magnati russi sono temporanee, vanno ad aggiungersi le draconiane sanzioni inflitte ai ricchi russi da Regno Unito, Unione europea e Stati Uniti.

Il numero uno del Cremlino da molti anni aveva avvertito i suoi fedelissimi che avrebbero dovuto proteggersi da eventuali misure restrittive, in particolare dopo l’annessione della Crimea, quando le relazioni con gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione europea si sono inasprite.

Mentre alcuni uomini d’affari della ristretta cerchia del presidente Putin hanno seguito il suo consiglio e hanno mantenuto i loro investimenti in Russia, altri hanno collocato i loro soldi in sontuose proprietà all’estero e in squadre di calcio, mentre le loro società sono rimaste quotate nelle borse estere.

Ora si trovano in enorme difficoltà per mantenere i loro beni, confiscati con le sanzioni economiche più dure imposte nell’era moderna. Tra questi, uno dei più famosi in Europa è il miliardario russo Roman Abramovich, dal 2003 proprietario della squadra di calcio londinese del Chelsea.

Dal 23 febbraio, Abramovich ha perso circa il 12% della sua fortuna, sebbene sia stato sanzionato più tardi di altri, forse perché sarebbe meno influente di altri alleati di Putin. Anche se il suo ascendente sul Cremlino è molto dibattuto tra chi suggerisce che sia semplicemente tollerato da Putin e chi, come il Regno Unito, che crede che i due siano vicini.

Da parte sua Abramovich nega fermamente di avere stretti legami con Putin, ciononostante la parte britannica della sua fortuna stimata di 12,4 miliardi di dollari è ora congelata. Poco prima dell’annuncio delle sanzioni britanniche, ha messo in vendita il Chelsea per 3 miliardi di sterline e anche la sua lussuosa residenza a Kensington Palace Gardens, valutata 150 milioni di sterline.

Abramovich ha creato la sua fortuna negli anni novanta ed è stato uno dei primi oligarchi durante la presidenza di Boris Eltsin. Il suo indiscutibile fiuto per gli affari gli ha fatto acquistare la compagnia petrolifera Sibneft a un prezzo stracciato per poi rivenderla nel 2005 al gigante russo Gazprom, di proprietà statale, per 13 miliardi di dollari. 

Tra le sue proprietà c’è l’Eclipse, il terzo yacht più lungo del mondo, e una altro megayacht, Solaris, in rada nel Mediterraneo. Negli ultimi anni aveva iniziato a ritirarsi dal Regno Unito, tanto che nel 2018 ha deciso di non richiedere il rinnovo del visto britannico e ha invece utilizzato il passaporto israeliano appena acquisito per visitare Londra. 

Mentre un tempo era solito presenziare a tutte le partite casalinghe del Chelsea, negli ultimi anni è stato visto raramente allo Stamford Bridge. E dopo che gli è stato vietato di entrare nel Regno Unito, non potrà più assistere a nessun incontro di calcio di squadre inglesi.