Il commento del Direttore Claudio Bertolotti a RaiNews 24 (30 marzo 2022)
Le porte aperte dal dialogo di Istanbul (e subito chiuse)
Due aspetti di rilevo: il primo è che sia stata la Turchia
ad assumere il ruolo di ospite. Turchia che gioca magistralmente su tre fronti:
quello ucraino, fornendo i micidiali droni militari a Kiev usati contro le
colonne russe; il fronte russo, con cui ha importanti relazioni commerciali ma
anche dossier aperti, dalla Siria alla Libia e, infine, quello della NATO, dove
è sì membro dell’Alleanza atlantica ma non ha aderito alle pesanti sanzioni che
l’Occidente ha voluto imporre a Mosca. Il secondo aspetto di rilievo è che più che di negoziato dobbiamo parlare di dialogo
con aperture e promesse poi negate: le parti si sono incontrate, un’importate
ipotesi di riduzione della pressione militare è stata messa sul tavolo della
discussione da parte di Mosca, ma nessun accordo di cessate il fuoco è stato ad
ora siglato e le truppe stanno tutt’ora combattendo. Al contrario, con la
successiva dichiarazione, la Russia sembra aver ribadito che è Mosca a gestire
la guerra e ad imporre i tempi e gli spazi di un eventuale negoziato. Questo
significa una cosa sola: il dialogo e la guerra procedono su due binari
paralleli, ma con tempi e dinamiche diverse ed entrambi gli attori, Russia da
una parte e Ucraina, dall’altra con il sostegno di alcuni paesi occidentali,
continueranno a riorganizzare le loro truppe al fine di non trovarsi svantaggiate.
E la Russia non cesserà di premere, da sud a nord, al fine di rafforzare la
propria posizione a quel tavolo: è una necessità russa e l’Ucraina subisce sia
sul piano militare che su quello politico-diplomatico le decisioni di Mosca.
Quali gli sviluppi
sul piano militare?
Sul piano militare la Russia continua a mantenere un
vantaggio tattico – il che non vuol dire vincere la guerra ma comunque imporne
tempi e sviluppi; un vantaggio che è di rilievo nel sud e sud est, dal Donbass
alla Crimea, mentre a nord e in particolare attorno alla capitale, è in una posizione
da assedio e difensiva non del tutto consolidata grazie alle puntate
controffensive delle forze armate ucraine e a causa di un dispositivo militare
non ancora riorganizzato con le truppe di rinforzo appena giunte e in fase di
rischieramento.
Le forze russe continuarono a combattere per mantenere le posizioni avanzate nelle aree periferiche a est e a ovest della capitale suggerendo, da un lato, che Mosca non avrebbe intenzione, né capacità, di attaccare Kiev per occuparla con le sue truppe, ma, dall’altro lato, potrebbe colpirla con le sue artiglierie oltre che con gli attacchi missilistici: una guerra di attrito a tutti gli effetti che però sembra non voler spingere in una battaglia offensiva le unità già schierate, e fortemente provate, oltre a quelle appena giunte e che giungeranno nei prossimi giorni. E un’ormai evidente la limitazione in termini offensivi, quella russa, che potrebbe essere presentata al tavolo negoziale come una disponibilità a contenere la pressione militare sulla capitale, presentando così la Russia come soggetto forte ma disposto a concedere qualcosa. Insomma un piano d’inganno che, spesso utilizzato sul campo di battaglia dai russi, potrebbe rivelarsi fruttuoso anche su quello diplomatico e negoziale.
Ucraina in Europa?
Prematuro parlarne, e non opportuno per la stessa Europa, trattandosi
di un’ipotesi non priva di sfide che potrebbero essere molto impegnative per l’Unione
europea. Non dimentichiamo la clausola di difesa reciproca prevista dal trattato
dell’Unione europea che stabilisce che i paesi dell’unione sono
obbligati ad assistere uno Stato membro “vittima di un’aggressione armata
sul suo territorio”. Un ipotetico intervento della Russia
porterebbe l’Europa a schierarsi sul fronte ucraino. Uno scenario che nessuno
si auspica e che per questo certamente rallenterà un eventuale processo di
integrazione europea nei confronti di Kiev.
Attrito Russia Cina:
cosa c’è di vero?
Pechino ha ribadito poco fa che le relazioni tra i due paesi
sono ottime. Questa potrebbe essere una conferma di qualcosa che non va tra i
due importanti attori ma sarà comunque un qualcosa che Mosca e Pechino
risolveranno tra loro, senza interessare l’occidente, in primis gli Stati Uniti
che di elementi di attrito con la Cina ne ha parecchi.
La prima preoccupazione della Cina è quella economica: uno dei
fattori di maggiore interesse di Pechino è il rapporto tra target di crescita e
indebitamento e nell’ultimo biennio
pandemico i consumi non hanno mantenuto il ritmo sperato. Una crisi legata alla
guerra in Ucraina e l’ipotesi di rimetterci nel sostenere la Russia potrebbero
indurre Pechino a un sostegno più moderato nei confronti di Mosca, ma questa
ovviamente è una valutazione occidentale poiché, se da un lato Pechino è preoccupata
dalle sanzioni che potrebbero toccare la Cina in caso di prolungamento del
conflitto, è però vero che le relazioni politiche e commerciali tra la Russia e
la Cina continuano ad essere forti, addirittura più forti tenendo contro delle
dinamiche dei mercati asiatici, aperti all’economia russa, e ancora di più
tenendo conto degli ottimi rapporti tra i membri della SCO, la Shangai
Cooperation Organization, fondata su aspetti quali la sicurezza, l’economia, il
settore energetico: e Cina e Russia sono i due attori principali dell’organizzazione,
difficile immaginare di trovarli su posizioni contrapposte. In tutto questo
credo che la Cina non si farà comunque scrupoli a spingere la Russia a prendere
decisioni a tutela dell’agenda economica e strategica di Pechino, è questione
di sopravvivenza ma ancor più di supremazia nell’arena delle relazioni
internazionali.
Conferenza – Da Washington alla guerra in Ucraina. Le dimensioni della disinformazione
Una conferenza aperta al pubblico organizzata in collaborazione tra Università della Svizzera Italiana – ASIS Svizzera – START InSight
Giovedì 31 marzo dalle 18.00 alle 20.00 Aula A21 Palazzo rosso del Campus Ovest Università della Svizzera Italiana (Lugano)
Programma
Introduzione 18.00-18.15 Jean-Patrick Villeneuve Professore e Direttore dell’Istituto di comunicazione e politiche pubbliche, USI Luca Tenzi Security Strategist e Responsabile di ASIS Svizzera Italiana
Interventi
18.15-18.30 Andrea Molle (in collegamento) Docente di Scienze Politiche, Chapman University e ricercatore, START InSight L’uso strategico della disinformazione: dalle elezioni americane alla guerra in Ucraina L’intervento illustra i fondamenti dell’attività strategica di disinformazione, con particolare attenzione alle fake news e al memetic warfare, al fine di creare polarizzazioni e conflitti sociali ovvero supporto per attori statali e non statali impegnati in un conflitto. Gli esempi portati nella presentazione vanno dalle elezioni presidenziali americane del 2016 all’attuale conflitto in Ucraina e includono gli eventi che hanno condotto alla sommossa del 6 Gennaio 2021 a Capitol Hill (Washington DC).
18.30-18.45 Philipp Di Salvo (in collegamento) Ricercatore presso l’Istituto di Media e Giornalismo, USI e Visiting Fellow al Department of Media and Communications della London School of Economics and Political Science (LSE) Hacks e leaks: strategie cyber per il conflitto informativo L’intervento tratterà il ruolo generale degli hackers e delle fughe strategiche di notizie, degli attacchi informatici e dell’hacktivismo. Quella ucraina non è (ancora) una guerra cibernetica, ma il conflitto sta offrendo spunti interessanti sull’uso delle strategie informatiche da parte di diversi attori, specialmente quando si tratta di hack & leak e del ruolo dei giornalisti / media.
18.45-19.00 Claudio Bertolotti Analista strategico e Direttore di START InSight I foreign fighters nel conflitto ucraino La guerra in Ucraina sta mobilitando combattenti stranieri su entrambi i fronti, suscitando interrogativi che vanno dalla legalità della loro partecipazione a operazioni militari all’estero, alla natura della guerra, al rischio rappresentato dai foreign fighters legati a gruppi estremisti violenti. L’intervento spiegherà la situazione attuale e le prospettive future.
19.00-19.15 Chiara Sulmoni (in presenza) giornalista, analista START InSight I nuovi orizzonti della radicalizzazione e dell’estremismo Negli ultimi anni instabilità politica, crisi e pandemia hanno portato a una crescita della polarizzazione sociale e degli estremismi violenti di ogni orientamento. L’intervento dà conto di questo contesto generale -presentato anche nel Rapporto #ReaCT sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa 2022- dentro il quale si inserisce oggi il richiamo esercitato della guerra in Ucraina -con le sue narrative- sui militanti.
19.15-19.30 Conclusioni generali
19.30 Dibattito con il pubblico presente in sala
Potete partecipare alla conferenza anche da remoto collegandovi con questo link
Lo Stato islamico non ha
più la forza di inviare terroristi sul suolo europeo perché si è vista azzerare
la propria effettiva capacità operativa in conseguenza della perdita di
territorio, di una rilevante consistenza finanziaria e di reclute. Tuttavia, la
minaccia rimane significativa anche attraverso la presenza e l’azione di attori
isolati, spesso improvvisati e spinti dall’emulazione e senza un legame diretto
con l’organizzazione.
Mentre il gruppo dello Stato
Islamico continua a imporsi su un piano ideologico come la principale
minaccia jihadista, è però improbabile che sia in grado di riproporre il
travolgente richiamo che ebbe il “califfato” nel periodo 2014-2017, poiché
ha perso il vantaggio della novità, e di conseguenza l’appeal, che ne
rappresentava il punto di forza, in particolare nei confronti dei più giovani.
Inoltre, sia dal punto di vista legislativo che da quello operativo, l’Europa
ha saputo ridurre in maniera rilevante le proprie vulnerabilità, sebbene vi
siano maggiori risultati più in termini di contrasto al terrorismo che di
prevenzione. Permangono, nel complesso segnali di incertezza legate agli
effetti emulativi e alla “chiamata alla guerra” connessa a eventi sul
piano internazionale in grado di indurre singoli soggetti ad agire in nome del jihad:
l’evento più importante nel 2021, che ha dato e continuerà a dare un impulso agli
effetti del jihad transnazionale è la vittoria dei talebani in Afghanistan che,
da un lato tende ad alimentare la variegata propaganda jihadista attraverso il
messaggio della “vittoria come risultato della lotta continua” e, dall’altro
lato, da vita a una forma di competizione dei “jihad” tra gruppi impegnati in
forme di lotta e resistenza esclusivamente locali e chi, come lo Stato
islamico, recepisce e propone il jihad esclusivamente come strumento
di lotta a oltranza a livello globale.
In tale quadro complessivo e in
continua evoluzione, dobbiamo prestare attenzione alla crescente forza
estremista in alcune parti dell’Africa, in particolare le aree dell’Africa
sub-sahariana, il Sahel, il Corno d’Africa e, ancora, il Ruanda e il Mozambico,
al fine di contrastare l’emergere in questo continente di nuovi
“califfati” o “willayat” che potrebbero minacciare
direttamente l’Europa.
Nella prolifica propaganda jihadista,
lo Stato Islamico si vanta della propria diffusione nel continente
africano e pone in evidenza come l’obiettivo di contrastare la presenza e la diffusione
del cristianesimo porterà il gruppo a espandersi in altre aree del continente. Se
altrove, come nel Maghreb, nel Mashreq e in Afghanistan l’attività dello Stato
islamico è incentrata sulla lotta settaria intra-musulmana, in Africa la
sua presenza si impone come parte di un conflitto tra musulmani e cristiani,
rafforzata da una propaganda che insiste sulla necessità di fermare la
conversione dei musulmani al cristianesimo attuata attraverso i “missionari” e
“il pretesto” degli aiuti umanitari. In tale quadro si inseriscono le
violenze, i rapimenti e le uccisioni di religiosi missionari, attacchi contro
le Ong e le missioni internazionali, dal Burkina Faso al Congo e, ancora, gli
attacchi agli abitanti dei villaggi cristiani in particolare in occasione delle
festività di Natale e Capodanno.
Scendono i numeri, ma permane
la minaccia del terrorismo
Nel 2020 sono stati 119 di cui 62 nel Regno Unito e 2 in Svizzera. Secondo
Europol (TeSat 2020), il 43% sono attribuiti a movimenti della sinistra
radicale (passati da 26 a 25), il 24% a gruppi separatisti ed
etno-nazionalisti, il 7% a gruppi di estrema destra (aumento percentuale ma
diminuzione in termini assoluti rispetto al 2019), il 26% sono azioni di
matrice jihadista. Sebbene la violenza jihadista sia una parte marginale del
totale delle azioni associate a ideologie violente, essa si conferma per essere
la più rilevante in termini di risultati e vittime provocate il cui totale,
passando dalle 16 del 2020 alle 13 del 2021, conferma la maggior pericolosità
del terrorismo jihadista in termini di effetti diretti.
Sulla scia dei grandi eventi terroristici in Europa nel nome del gruppo Stato
islamico, sono stati registrate 165 azioni in nome del jihad
dal 2014 al 2021, delle quali 34 esplicitamente rivendicate dallo Stato
islamico: 219 i terroristi che vi hanno preso parte (63 morti in azione), 434 le vittime decedute e 2.473 i feriti (database START InSight).
Nel 2021 gli eventi sono stati 18, in lieve flessione rispetto ai 25 attacchi
dell’anno precedente ma con un aumento di azioni di tipo “emulativo”, ossia
ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti: dal 48% del totale di azioni emulative
nel 2020 al 56% nel 2021 (erano il 21% nel 2019). Il 2021 ha inoltre confermato
la predominanza delle azioni individuali, non organizzate, in genere
improvvisate e fallimentari che hanno progressivamente sostituito le azioni
strutturate e coordinate caratterizzanti il “campo di battaglia” urbano europeo
negli anni 2015-2017.
L’anagrafica
dei terroristi “europei”
L’adesione all’azione terroristica continua a confermarsi
come scelta esclusivamente maschile: su 207 attentatori il 97% sono maschi (7 le donne); contrariamente al 2020,
quando 3 donne presero parte ad attacchi terroristici, il 2021 non ha
registrato la partecipazione diretta di attentatrici.
I 207 terroristi (uomini e donne) hanno un’età mediana di
26 anni: un dato che varia nel corso del tempo (dai 24 nel 2016, ai 30 nel
2019). I dati anagrafici di 169 soggetti di cui si hanno
informazioni complete hanno consentito di definire un quadro molto interessante
da cui si evince che il 10% è di età inferiore ai 19 anni, il 36% ha un’età
compresa tra i 19 e i 26, il 39% tra i 27 e i 35 e, infine, il 15% è di età
superiore ai 35 anni.
Il fenomeno della
radicalizzazione jihadista in Europa affligge maggiormente alcuni gruppi
nazionali/etnici. Vi è un rapporto di proporzionalità tra i principali gruppi
di immigrati e i terroristi, come dimostrerebbe la nazionalità dei terroristi,
o delle famiglie di origine, che è in linea con la dimensione delle comunità
straniere in Europa. Prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali
principalmente afflitti dall’adesione jihadista sono quelli marocchino (in
Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerino (in Francia).
Stabili i recidivi e i soggetti già noti
all’intelligence
Di rilievo il ruolo giocato dai recidivi – soggetti già
condannati per terrorismo che compiono azioni violente a fine pena detentiva e,
in alcuni casi, in carcere: dal 3% del totale dei terroristi nel 2018 (1 caso),
al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020, al singolo caso del 2021. Ciò confermerebbe
la pericolosità sociale di soggetti che, a fronte di una condanna detentiva, tendono
a posticipare la condotta di azioni terroristiche; un’evidenza che suggerisce
l’aumento della probabilità di atti terroristici nei prossimi anni, in
concomitanza con la fine della pena della maggior parte dei terroristi attualmente
detenuti.
Parallelamente ai soggetti recidivi, START InSight ha rilevato
una tendenza significativa sulle azioni compiute da terroristi già noti alle
forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei: 44% e 54% del
totale rispettivamente nel 2021 e 2020, contro il 10% nel 2019 e il 17% nel
2018.
I soggetti con precedenti detentivi (anche per reati non
associati al terrorismo) nel 2021 hanno confermato una certa stabilità nella
partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un pregresso
carcerario con un dato del 23% nel 2021, in lieve calo rispetto all’anno
precedente (33% nel 2020) ma in linea con quello del 2019 (23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); un’evidenza
che continua a confermare l’ipotesi che
vede nelle carceri luoghi di potenziale radicalizzazione e adesione al terrorismo.
Si riduce la capacità offensiva
del terrorismo?
Una fotografia realistica
del terrorismo necessita di un’analisi dei tre livelli su cui il terrorismo
stesso si sviluppa e opera: strategico, operativo e tattico. La strategia,
intesa come l’impiego dei combattimenti allo scopo della guerra; la tattica è
l’impiego delle truppe ai fini della battaglia; il livello operativo si colloca
tra le due. Una sintesi che, nella sua semplicità, coglie il punto: l’impiego
degli uomini.
Il successo a livello
strategico è marginale
Il
16% delle azioni ha ottenuto un successo a livello strategico, ossia ha avuto
conseguenze strutturali: blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o
internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di
ampia portata. Un dato molto elevato
considerando il limitato sforzo organizzativo e finanziario da parte dei
gruppi, o dei singoli attaccanti. L’andamento nel corso degli anni è stato
discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione di capacità ed
efficacia: 75% di successo strategico nel 2014, 42% nel 2015, 17% nel 2016, 28%
nel 2017, 4% nel 2018, 5% nel 2019, 12% nel 2020 e 6% nel 2021. Nel computo dei
risultati strategici, gli attacchi hanno ottenuto l’attenzione dei media
internazionali nell’79% dei casi, il 95% a livello nazionale, mentre le azioni
organizzate e strutturate dei commando
e dei team-raid hanno ottenuto la
totale attenzione mediatica. Un evidente, quanto ricercato, successo mediatico
che può aver influito sensibilmente sulla campagna di reclutamento di aspiranti
martiri o combattenti del jihad, la cui entità numerica rimane elevata
in corrispondenza della maggiore intensità di azioni terroristiche (2016-2017).
Ma se è vero che l’amplificazione massmediatica ha effetti positivi sull’azione
di reclutamento, è anche vero che tale attenzione tende a ridursi col tempo a
causa di due ragioni principali: la prima è la prevalenza di azioni a bassa
intensità in rapporto a quelle ad alta – in diminuzione – e quelle a bassa e media
intensità – in sensibile aumento dal 2017 al 2021. La seconda è l’assuefazione
di un’opinione pubblica emotivamente sempre meno toccata dalla violenza del
terrorismo, in particolare dagli eventi a “bassa” e “media intensità”.
Il livello tattico preoccupa, ma non è la priorità del
terrorismo
Partendo dal presupposto
che il fine delle azioni sia di provocare la morte del nemico (nel 35% dei casi
gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo viene raggiunto nel
periodo 2004-2021 in media nel 50% dei casi. È però opportuno tenere in
considerazione che l’ampio periodo di tempo tende a influire in maniera
significativa sul margine di errore; l’evoluzione dell’ultimo periodo preso in
esame, 2014-2021, mostrerebbe infatti una tendenza al peggioramento negli
effetti ricercati dai terroristi con una prevalenza di attacchi a bassa
intensità e un aumento di azioni dall’esito fallimentare, almeno fino al 2019.
I risultati degli ultimi sei anni, in particolare, mostrerebbero come il
successo a livello tattico sia stato ottenuto, nel 2016, nel 31% dei casi a
fronte di un 6% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2017 si è
stabilizzato su una percentuale di successo del 40% e di fallimento del 20%. Un
andamento complessivo che, passando dal 33% di successo a livello tattico e un
raddoppio degli attacchi fallimentari (42%) nel 2018 e consegnandoci un dato
ulteriormente al ribasso del 25% di successo nel 2019, può essere letto come il
duplice effetto della progressiva diminuzione della capacità operativa dei
terroristi e dell’accresciuta reattività delle forze di sicurezza europee. Ma
se l’analisi suggerisce una capacità tecnica che si è effettivamente ridotta, è
altresì vero che l’improvvisazione e l’imprevedibilità del nuovo terrorismo
individuale ed emulativo ha fatto registrare un nuovo aumento delle azioni di
successo, passate dal 32% nel 2020 e al 44% nel 2021.
Il vero successo è a livello operativo: il “blocco
funzionale”
Anche
quando fallimentare, un attacco terroristico ottiene un risultato altamente
favorevole che consiste nell’impegnare in maniera
straordinaria le forze armate e di polizia, distraendole dalle normali attività
di routine o impedendo di intervenire a favore della collettività,
nell’interrompere o sovraccaricare il servizio sanitario, nel limitare,
rallentare, deviare o fermare la mobilità collettiva urbana, aerea e navale, nel
limitare il regolare svolgimento delle attività quotidiane, commerciali,
professionali, a danno delle comunità colpite e, inoltre, riducendo in maniera
efficace il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo o, ancora, la
capacità di resilienza; infine, più in generale, nell’infliggere danni, diretti
e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime.
Coerentemente, la limitazione della libertà dei cittadini è un risultato
misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le proprie azioni.
In altri termini, il
successo del terrorismo, anche quando non provoca vittime, consiste
nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionarne i
comportamenti nel tempo in relazione a misure di sicurezza o limitazioni
imposte dall’autorità politica e di pubblica sicurezza ai fini della
salvaguardia della collettività. Questo è il “blocco funzionale”.
Nonostante
una sempre più ridotta capacità operativa del terrorismo, il “blocco funzionale” continua ad essere il più importante dei risultati
ottenuti dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di
almeno un obiettivo).
A fronte di un successo
tattico registrato nel 34% degli attacchi avvenuti dal 2004 a oggi, il
terrorismo ha dimostrato di essere efficace ottenendo il “blocco funzionale” in
media nell’82% dei casi, per attestarsi all’92% percento nel 2020 e all’89% nel
2021: un risultato, impressionante considerando le limitate risorse messe in
campo dai terroristi, che conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a
favore del terrorismo.
Difesa europea: le vulnerabilità dello Strategic Compass
L’Europa sta sfornando un topolino (ancorchè più aggressivo) o un vero leone?
La
novità di questi giorni è lo Strategic Compass, la Bussola strategica, documento che sta per essere approvato dai
Capi di stato e di governo dell’Unione Europea.
Il
documento, nato prima delle operazioni della Russia contro l’Ucraina, ora
naturalmente assume ancora più importanza a seguito di quella che l’Unione
Europea considera una inappropriata aggressione nel cuore dell’Europa.
Una pentola a pressione alle porte del vecchio continente
Non
è facile parlare di Europa, ancor più difficile risulta affrontare temi legati
alla sua politica di difesa e sicurezza. Ci abbiamo messo un po’ per capire che
con la caduta del muro di Berlino non erano caduti i freni inibitori di
politiche aggressive sia economiche che militari di alcuni paesi. L’Europa è
letteralmente circondata da aree di crisi: gli ex confini con la fu U.R.S.S.,
l’area caucasica, il Medio Oriente, l’Africa settentrionale e sub sahariana,
gli stessi Balcani. Una pentola a pressione alle porte del vecchio continente
che, se non gestita adeguatamente, potrebbe esplodere. Nei fatti, non può
essere negato che sussistono conflitti in atto e potenziali, asimmetrici e
simmetrici, che presuppongono la necessità di disporre di forze pronte in grado
di fronteggiare minacce sia ibride che classiche, quelle con i carri armati per
intenderci, queste ultime considerate erroneamente dai più ormai defunte.
Invece è proprio ciò che sta avvenendo in Ucraina in queste settimane.
Un pregresso marginale: fare di più?
In
passato l’Unione Europea si è affacciata in maniera discreta in alcuni teatri
di crisi, mettendo in campo alcune missioni essenzialmente di monitoraggio e di
addestramento delle forze di sicurezza locali. Infatti sono circa 5.000 gli
uomini e donne che sotto cappello U.E. sono impegnati in missioni civili e
militari per la CSDP (Common Security and Defence Policy).
Ma
se l’Europa volesse fare di più, ha gli strumenti per continuare, se
necessario, l’azione politica con altri mezzi? La risposta è sì, ma solo fino
ad un certo punto e al netto della volontà di farlo che è parsa sinora
latitante. Ed è questa la novità delle ultime settimane: qualcosa sembrerebbe
muoversi con la “Bussola strategica”. Le dichiarazioni del Commissario Borrell
sembrerebbero confermare molte delle capacità già esistenti in ambito europeo
che sinora, come detto, non si sono volute sfruttare appieno.
Di cosa parla lo Strategic Compass: le 4 direzioni
Vengono
indicate le quattro direzioni (o pilastri, da qui il nome bussola) da seguire
nei prossimi 5-10 anni (act, invest, partner and secure) e
cioè capacità di agire, investire di più e meglio in collaborazione con gli
alleati, volontà di difendersi in modo autonomo.
“Act”: agire
Per
essere in grado di agire rapidamente e con fermezza ogni volta che scoppia una
crisi, se possibile con i partner o anche da sola quando necessario, l’Unione
Europea dovrà:
–
istituire la capacità di dispiegamento rapido fino a 5000 soldati in grado di
affrontare diversi tipi di crisi;
–
essere pronta a schierare 200 esperti di missione PSDC (politica di difesa e di
sicurezza comune) schierabili entro 30 giorni, anche in ambienti complessi;
–
condurre regolarmente esercitazioni in ambiente terrestre e in mare;
–
migliorare la capacità di trasporto strategico e tattico militare;
–
rafforzare le missioni e le operazioni civili e militari della PSDC promuovendo
un processo decisionale rapido e più flessibile, agendo in modo più fermo e
garantendo una maggiore solidarietà finanziaria;
–
sfruttare appieno il cosiddetto “Strumento europeo per la pace” per sostenere i
partner.
“Invest”: investire
Gli
Stati membri si sono impegnati a migliorare sostanzialmente le loro spese per
la difesa per soddisfare la nostra ambizione collettiva di ridurre le carenze
critiche di capacità militari e civili e rafforzare la nostra base industriale
e tecnologica di difesa europea. L’UE dovrà:
–
condividere gli obiettivi nazionali sull’aumento e il miglioramento della spesa
per la difesa per soddisfare le nostre esigenze di sicurezza;
–
fornire ulteriori incentivi agli Stati membri affinché si impegnino nello
sviluppo collaborativo delle capacità e investano congiuntamente in abilitatori
strategici e capacità di prossima generazione per operare a terra, in mare, in
aria, nel dominio cibernetico e nello spazio;
–
promuovere l’innovazione tecnologica della difesa per colmare le lacune
strategiche e ridurre le dipendenze tecnologiche e industriali.
“Partner”: collaborare
Al
fine di affrontare le minacce e le sfide comuni, l’UE dovrà:
–
rafforzare la cooperazione con i partner strategici quali la NATO, l’ONU e i
partner regionali, tra cui l’OSCE, l’UA (Unione Africana) e l’ASEAN;
–
sviluppare partenariati bilaterali con paesi che la pensano allo stesso modo e
partner strategici, come Stati Uniti, Canada, Norvegia, Regno Unito, Giappone e
altri;
–
sviluppare partenariati su misura nei Balcani occidentali, nell’Oriente vicino
e meridionale, in Africa, in Asia e in America latina, anche attraverso il
rafforzamento del dialogo e della cooperazione, la promozione della
partecipazione alle missioni e alle operazioni PSDC e il sostegno allo sviluppo
di capacità.
“Secure”: sicurezza
Al
fine di rafforzare la sua capacità di anticipare, scoraggiare e rispondere alle
minacce e alle sfide attuali e in rapida ascesa e salvaguardare gli interessi
dell’UE in materia di sicurezza, l’UE dovrà:
–
potenziare le proprie capacità di analisi dell’intelligence;
–
sviluppare Hybrid Toolbox e Response Team riunendo diversi strumenti per
rilevare e rispondere a un’ampia gamma di minacce ibride;
–
sviluppare ulteriormente il pacchetto di strumenti diplomatici informatici e
istituire una politica di ciberdifesa dell’UE per essere meglio preparati e
rispondere agli attacchi informatici;
–
sviluppare un Toolbox per la manipolazione e l’interferenza delle informazioni
straniere;
–
sviluppare una strategia spaziale dell’UE per la sicurezza e la difesa;
–
rafforzare il ruolo dell’UE quale attore della sicurezza marittima.
Molta ambizione e tante criticità
Senza
dubbio si tratta di un pacchetto di propositi molto ambiziosi e di cui l’Europa
aveva bisogno ma che sono stati più o meno i cavalli di battaglia degli ultimi
anni. Ora però vengono raggruppati in questo documento e riconosciuti, alla
luce degli ultimi tragici eventi, come obiettivi irrinunciabili.
Quali
sono i dubbi che nascono scorrendo l’elenco degli obiettivi?
Sembra
che non vengano risolti i problemi incontrati in passato concernenti la reale
volontà politica di impiegare queste capacità.
In
realtà le strutture, i comandi, le forze e le risorse essenzialmente ci sono
già.
L’UE
ha Comandi e forze militari, con una preponderanza dei primi rispetto alle
seconde le quali, pur idonee quantitativamente e qualitativamente, risultano
per vari motivi difficilmente impiegabili.
Partendo
dalle strutture deputate al comando e controllo, per le missioni militari
quelle a livello strategico, tutte facenti capo al Political and Security
Committee, sono i quattro Operational Headquarters (OHQ) resi disponibili da
Francia, Germania, Grecia e Italia, il Supreme Headquarters Allied Powers
Europe (SHAPE) per via degli accordi «Berlin plus» e l’EU Operation Centre, in
grado di essere attivato all’occorrenza per operazioni di limitata entità e di
ridotti livelli di rischio, costituito presso lo Stato Maggiore dell’UE. Invece
per quanto concerne le missioni civili, la struttura deputata al comando di
livello strategico è il Civilian Planning and Conduct Capability (CPCC). Detta
distinzione fa nascere già delle perplessità: ha senso tenere distinte le
missioni “civili” da quelle “militari”? Se un’area è considerata di crisi,
l’aspetto civile non può prescindere da quello militare.
Inoltre
è d’uopo fare una considerazione riguardo alla possibile cooperazione tra UE e
NATO a seguito degli accordi Berlin Plus. La
NATO raccoglie 30 paesi, la UE 27, mentre sono 21 gli stati facenti parte di
entrambe le organizzazioni. In questa situazione risulta quanto meno
problematico raggiungere in entrambi i consessi l’unanimità per l’avvio di
operazioni comuni. Inoltre, nella dichiarazione congiunta sulla cooperazione
UE-NATO del 10 luglio 2018 sono elencati i settori oggetto dell’accordo, che
riguardano essenzialmente mobilità militare, cybersecurity, minacce ibride,
lotta al terrorismo, donne e sicurezza. Non proprio ciò che ci si aspetterebbe
da una vera e propria cooperazione militare strutturata.
Ad
onor del vero, tentativi di rafforzare la politica di difesa e sicurezza comuni
ci sono stati: lo sforzo di dotarsi di forze militari dedicate e disponibili
per gli scopi dell’UE, la cooperazione strutturata permanente della PESCO e i
fondi europei per la difesa sono gli esempi più recenti.
L’Europa è una potenza militare: sulla carta
La
domanda da porsi allora è come l’UE si pone nei confronti dei maggiori player
mondiali. Se sommiamo gli equipaggiamenti militari delle singole nazioni
europee e li confrontiamo con quelli di USA, Russia e Cina, possiamo senz’altro
affermare che sulla carta l’Europa è una potenza militare. Ma «non sempre la
somma fa il totale»: lo strumento militare delle singole nazioni europee
letteralmente ristagna sul suolo europeo ma attualmente non appartiene
all’Unione Europea come entità. Lo Strategic Compass dice genericamente di
“promuovere un processo decisionale rapido e più flessibile, agendo in modo più
fermo e garantendo una maggiore solidarietà finanziaria”.
Negli
ultimi dieci anni anche il budget dedicato alla difesa è andato sempre più
calando, e ciò è accaduto solo in seno all’UE, mentre sono aumentati quelli di
tutti gli altri principali attori mondiali e regionali, compresi Cina, India,
Giappone e Arabia Saudita. Giova inoltre ricordare che in Europa solo Regno
Unito, Francia, Polonia, Romania e gli stati baltici si avvicinano al 2% del PIL
dedicato alla difesa sulla base delle linee guida della NATO. Anche qui
qualcosa sembra stia cambiando radicalmente, anche in Italia.
Inoltre,
i sistemi in produzione per singola tipologia di equipaggiamento rendono
l’Europa più debole di quanto a prima vista possa sembrare. Basti notare che,
rispetto agli USA che ne hanno uno solo, in Europa ci sono quattro diversi tipi
di carro armato, gli USA hanno tre tipi di missile antinave mentre l’Europa
nove, il vecchio continente ha in linea 11 diverse tipologie di fregate mentre
gli USA una sola. Ciò comporta per l’Europa comprensibili problemi di impiego
operativo e di supporto logistico in caso di missioni unitarie. E il trend
della proliferazione di sistemi d’arma nazionali continua: un esempio è lo
sviluppo del sistema «Soldato futuro», volto ad equipaggiare il combattente dei
prossimi decenni, che vede in Europa ben cinque progetti differenti.
BREXIT: un’assenza micidiale
Da
ultimo, ma probabilmente è l’aspetto più importante, iniziamo a tener conto
dell’effetto che sta avendo la BREXIT sul potenziale della difesa europea.
Quelli che sono ormai diventati i cugini di secondo grado d’oltremanica fanno
mancare, oltre al nucleare che in Europa diventa appannaggio della sola
Francia, il 9% di veicoli per il combattimento della fanteria, il 50% di
portaerei, il 28% di veicoli aerei pilotati a distanza ed il 30% di aerei da
rifornimento.
Una
delle novità dello Strategic Compass è l’istituzione della capacità di
dispiegamento rapido di una unità con fino a 5000 soldati in grado di
affrontare diversi tipi di crisi. Eppure dal 2005 sono già disponibili gli
European Union Battle Group (EU BG), unità di livello reggimento (1.500-2.000
unità) più assetti aerei e navali, con compiti del tipo Petersberg introdotti
dal Trattato di Amsterdam nel 1997 (operazioni di supporto alla pace: humanitarian, peacekeeping and peacemaking
nature). Ogni anno per ogni semestre nazioni volenterose dovrebbero rendere
disponibili due EU BG (quindi circa 3.000-4.000 militari in totale). L’Italia
lo ha fatto per ben tre volte negli ultimi quattro anni, ma più volte in
passato è accaduto che la tabella di turnazione sia rimasta desolatamente
parzialmente vuota. Senza contare il fatto che due reggimenti costituiti da un
insieme eterogeneo di bassissimo livello ordinativo, più qualche aereo e
qualche nave, schierabili per non più di trenta fino ad un massimo di 120
giorni, sono poco credibili anche se impiegati in qualità di Initial Entry
Force per l’avvio di una operazione militare. Ed infatti non sono mai stati
impiegati… La speranza è che queste nuove Task Force, presumibilmente di
livello Brigata, previste nella Bussola strategica, a parte quello che sembra
essere un incremento della forza dagli attuali 3.000-4.000 a 5.000 soldati in
totale, siano anche idonee ad intervenire in situazioni più critiche rispetto
al passato quando, come detto, ci si limitava alle missioni tipo Petersberg.
Sembra che sia proprio così. Rimane comunque la perplessità riguardo al numero:
5.000 militari sembrano ben poca cosa in caso di schieramento volto ad
assolvere compiti di una certa complessità.
Quindi
l’Europa della Difesa, potenziale gigante mondiale, potrebbe ancora vivere
vulnerabilità che vanno ad aggiungersi all’incapacità sin qui dimostrata di
agire politicamente all’unisono.
Lo
Strategic Compass potrebbe essere la svolta di una situazione che vedeva
l’Europa un gigante non tanto dai piedi di argilla quanto dalla testa di legno
non in grado di addivenire a decisioni. Si pensava che fossero proprio questi
gli scogli che si intendevano superare con la Bussola strategica: rendere
effettiva la capacità dell’Europa di impiegare le forze in situazioni di crisi.
Quello
che non è chiaro nel documento che sarà approvato dai capi di stato e di
governo nei prossimi giorni è come saranno prese le decisioni nella politica
estera e della difesa. La grande speranza è che si addivenga a decisioni a
maggioranza qualificata il che potrebbe portare finalmente l’Europa ad assumere
importanti decisioni in relazione ai più importanti dossier internazionali senza
quegli impedimenti che si sono visti sinora. Detta nuova capacità decisionale
non può prescindere poi dalla disponibilità reale di forze pronte e ben
equipaggiate in aggiunta a quei 5.000 militari previsti nel documento.
Solo
così con lo Strategic Compass l’Europa in qualità di vero attore mondiale potrà
sfornare anziché un topolino (ancorché aggressivo) un vero leone capace di
contribuire a tener testa a orsi e dragoni.
*Generale di Corpo d’Armata Luigi Chiapperini, già pianificatore nel comando ARRC – Kosovo Force della NATO, comandante dei contingenti nazionali NATO in Kosovo nel 2001 e ONU in Libano nel 2006 e del contingente multinazionale NATO in Afghanistan tra il 2012 e il 2013, Vice Capo del Reparto Pianificazione Generale e Direzione Strategica / Politica delle Alleanze presso lo Stato Maggiore Difesa, Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, attualmente membro del Centro Studi dell’Esercito, presidente dei lagunari dell’A.L.T.A. e collaboratore del Campus universitario CIELS di Padova.
#ReaCT2022 Incontri con gli autori – puntata 2 (Alessandra Lanzetti / Claudio Bertolotti)
LIVE streaming di giovedì 24 marzo in cui si è discusso dell’evoluzione del terrorismo jihadista in Europa e della gestione dei minori radicalizzati in Italia (caso studio). Contributi contenuti nel Rapporto #ReaCT2022. Con Claudio Bertolotti, direttore dell’Osservatorio ReaCT e il Vice-Questore aggiunto Alessandra Lanzetti (Polizia di Stato).
Allentato l’assedio a Kiev? Mosca guarda a sud. Il commento di C. Bertolotti. RaiNews 24, 24 2022
Le forze armate ucraine sfondano la sottile linea d’assedio dei russi a nord-ovest di Kiev imponendo un arretramento alla 35a armata combinata russa, schierata in posizione difensiva (e non offensiva). Grande impatto emotivo e mediatico, ma i russi mantengono l’iniziativa sul fronte più importante, quello meridionale dove, con la caduta di Mariupol, Mosca ottiene la continuità territoriale dalla Crimea al Donbass.
In attesa dei rinforzi provenienti dai distretti orientali e con la riorganizzazione delle forze in campo rimane incerto l’esito di un conflitto che le sole forze ucraine non potranno risolvere attraverso una controffensiva: mancano le forze, i mezzi e le risorse. Al contrario, gli ucraini hanno la sola capacità di rallentare le operazioni russe.
Il commento di Claudio Bertolotti ospite di RaiNews 24; puntata del 24 marzo 2022.
ISPI Podcast Globally: Quali sono le strategie militari messe in campo in Ucraina?
Dopo quasi un mese di guerra, Kyiv teme l’assedio mentre Mariupol è sul punto di cadere. Per l’esercito ucraino, però, le forze di Mosca non stanno ottenendo nessuno dei principali obiettivi di guerra. Cosa ci aspettiamo dall’esercito russo nel prossimo futuro? Francesco Rocchetti, Segretario Generale dell’ISPI, e Silvia Boccardi, giornalisti di Will, ne parlano con Claudio Bertolotti, ricercatore associato dell’ISPI e Direttore di START InSight.
Sarebbe dovuta essere una guerra lampo, è diventata una guerra di logoramento. Come è cambiata la strategia russa sul campo, dopo aver incontrato una resistenza inaspettata?
Quali siano stati gli errori strategici di Putin e dei vertici militari russi in Ucraina?
I negoziati vanno avanti ma in molti dicono che per Putin sia solo un modo di prendere tempo, cosa ne pensi?
Come procede lo scontro nei 3 terreni classici della contesa militare per i russi: aria (aerei, elicotteri, missili), terra (assedi, spostamento di truppe), acqua (operazioni anfibie, supporto missilistico navale)? E come rispondono gli ucraini?
A queste domande risponde Claudio Bertolotti
“Le forze armate ucraine non hanno la capacità di contrattaccare le forze russe attraverso operazioni risolutive ma, come dimostrato sul campo, sono capaci di rallentarne lo slancio offensivo colpendo ai fianchi e le retrovie. Per questa ragione lo schema di difesa adottato dalle forze ucraine è “areale” (o a “istrice”, come ben descritto da Fabio Riggi per START InSight): gli ucraini di fatto non hanno creato linee difensive definite sul terreno in modo tale da fermare il nemico, bensì hanno allestito i loro capisaldi attorno alle città, o all’interno delle città, con la consapevolezza che ciò avrebbe significato sacrificarle e/o sottoporle all’attacco russo. Avrebbero potuto schierarsi fuori dai centri abitati ma questo avrebbe significato una resistenza dalla vita brevissima e una veloce vittoria russa. Per cui, razionalmente, gli ucraini hanno scelto le città come elementi difensivi. Si sa, le città sono aree in cui nessun esercito vuole combattere, lo si fa solo se strategicamente necessario: e non a caso i russi si sono lasciati alle spalle molti piccoli e medi centri abitati, con all’interno molte guarnigioni ucraine che vanno a costituire delle vere e proprie spine nel fianco per le unità russe, in particolar modo per quelle logistiche deputate ai rifornimenti. Tutto ciò definisce un quadro del sistema difensivo ucraino che non avendo la capacità di contrattaccare ricacciando i russi sulle loro posizioni, ha scelto una difesa a oltranza portando così la guerra che abbiamo definito ‘guerra lampo’ a trasformarsi in una guerra di logoramento e attrito: questo è l’effetto della capacità e della volontà di difesa ucraina. Accettando di pagare a caro prezzo, come l’esperienza di Mariupol ci conferma: con gli attacchi con l’artiglieria e con i missili russi a danno di obiettivi civili e militari i risultati sono devastanti e lo saranno sempre di più con il trascorrere del tempo e in conseguenza di una scelta molto razionale. Ma è il prezzo da pagare per garantire la sopravvivenza dello Stato ucraino. Il governo di Kyiv ha accettato di fare immensi sacrifici in cambio di un obiettivo di più lungo termine.” (ESTRATTO)
Globally è il nuovo podcast di ISPI e Will sulla politica internazionale. Ogni settimana, cercheremo di dare gli strumenti per analizzare e orientarci tra scenari sociali, economici e politici in continuo mutamento, in soli 15 minuti.
Dalla diplomazia dei vaccini alla COP26, dall’America secondo Biden alla crisi in Etiopia, dalla geopolitica dei semiconduttori alla ritirata USA dall’Afghanistan: i temi più caldi dell’attualità internazionale nelle prime puntate di Globally.
A quasi un mese
dall’inizio del conflitto, è più che consolidata la fase di logoramento e
attrito che sta caratterizzando l’andamento generale delle operazioni, seppur in
presenza di azioni offensive e controffensive condotte da entrambi i
contendenti. In questo quadro, le forze
russe mantengono l’iniziativa, fattore certamente importante ma,
contrariamente a quanto avvenuto nelle prime fasi, quando mantenevano un
elevato ritmo operativo su tutti e cinque i loro assi di penetrazione, ora da alcuni giorni stanno concentrando i
propri sforzi in primo luogo su un unico settore, quello sud-est del Donbass,
che si è sostanzialmente integrato con gli attacchi portati da quello est dalle
forze operanti nella regione di Kharkiv, le quali hanno da più di una settimana
effettuato la conversione verso sud in direzione di Izium e Severdonetsk. In
tal modo, essi continuano a perseguire l’intento di avvolgere da nord le
posizioni delle brigate ucraine schierate lungo la linea di contatto del
Donbass, situazione che rappresenta l’elemento più critico e passibile di
negativi sviluppi per le forze di Kiev. Inoltre, i russi hanno lanciato quello
che pare essere il definitivo assalto a Mariupol, la cui caduta sembra essere
imminente. Dal canto loro, le forze
ucraine continuano a mostrare significative capacità operative e restano
altamente reattive, come dimostrato in modo particolare dal contrattacco
lanciato nel settore di Mikolayv, che dopo quello che appariva come un iniziale
successo sta producendo ora risultati altalenanti ancora difficili da valutare.
Stallo
a nord, successo a sud per i russi
Sempre con
riferimento ai 5 sforzi offensivi russi, a Nord, lungo la sponda destra (ovest)
del Dnepr, a nord-ovest e ovest di Kiev, si sono registrati scontri locali ma
senza alcuno sviluppo tattico particolarmente significativo. A nord-est, in
direzione del lato orientale di Kiev, le unità russe sono rimaste statiche
sulle posizioni precedentemente raggiunte nell’area di Brovary, continuando a
mantenere isolata la sacca di Chernihiv-Nizhyn e quella di Sumy. Nel settore
est, le forze russe si sono impegnate particolarmente nell’attacco alla
posizione chiave di Izium, per conseguire l’avvolgimento del fianco sinistro
delle forze ucraine schierate nel Donbass e proiettarsi poi in direzione della
riva sinistra (est) del Dnepr. A sud-est, nel settore del Donbass, le unità
russe e quelle delle repubbliche separatiste si sono impegnate in una serie di
attacchi sistematici che sono scaturiti in furiosi combattimenti, riuscendo a
ottenere la conquista di una serie di posizioni, realizzando una lenta e
contrastata avanzata di alcuni chilometri; sempre in questo settore, con
l’assalto a Mariupol e la conquista di parte dell’area urbana, prodromo alla
definitiva caduta della città, si prefigura il consolidamento del “land Bridge”,
il collegamento geografico tra quest’ultima regione e la Crimea, obiettivo di
rilevanza strategica della campagna. Nel settore sud, lo sviluppo tattico più
importante è stato il contrattacco ucraino nel settore di Mikolayv, che ha conseguito
un iniziale successo con una limitata avanzata con la quale è stata molto
probabilmente alleggerita la pressione sulla città; nonostante ciò, le forze
russe in questo settore continuano a esercitare una pressione verso nord in
direzione di Kryvyi Rih.
Kiev:
russi sulla difensiva
Nel settore nord di
Kiev, le unità della 35a armata combinata russa sono rimaste
sostanzialmente statiche sulle loro posizioni nell’area di Irpin-Bucha, così
come quelle della 36a armata combinata, disposte più a ovest,
nell’area di Makariv. Entrambe sono operanti sul lato ovest di Kiev e del
Dnepr, e oltre a non aver condotto nessun attacco significativo sembrano essere
entrate in una fase di transizione passando a una postura difensiva, il cui
indicatore sarebbe l’osservazione dell’allestimento di posizioni organizzate in
tal senso. Analogamente, sul lato orientale della capitale ucraina le unità
della 2a armata combinata della guardia rimangono sulla difensiva
nell’area di Brovary, dove sembrano comunque aver ottenuto il risultato di
tagliare le importanti strade M-03, che collega Kiev con Poltava, Kharkiv e il
Donbass, e la E-95, che corre a nord verso il confine bielorusso. Sempre nel
settore nord-est di Kiev, le forze ucraine nella sacca di Chernihiv-Nizhyn
restano ancora pienamente operative e pare abbiano allargato il loro perimetro
verso sud, in direzione di Pryluki, anche se rimangono sempre isolate e
fronteggiate dalle unità russe della 41a armata combinata, che ne
sigillano ancora il perimetro e le sottopongono a ripetute azioni di fuoco di
artiglieria.
Nord-est:
russi in difficoltà e “istrici” ucraini
Nel settore
nord-est, le unità russe della 1a armata carri della guardia e della
2a armata combinata della guardia sono sempre impegnate a contenere
e ridurre la sacca di Sumy, ma anche quelle più ridotte di Konotop e Lebedyn.
Lungo questo lungo asse sembrerebbe che tatticamente gli ucraini stiano
vincendo la corsa sul tempo innescata tra la prolungata resistenza di queste
loro “istrici”, leggasi posizioni arretrate che si difendono su tutti i lati, e
gli sforzi russi di neutralizzarle e annientarle al fine di recuperare capacità
offensiva. Questa precisa situazione tattica, che assorbe un’aliquota molto
significativa di unità attaccanti (sembra non meno di quasi 20 gruppi tattici a
livello battaglione) è quella che di fatto ha smorzato in modo rilevante
l’offensiva russa sul lato orientale di Kiev.
Est:
a Kharkiv bloccata la progressione russa. In attesa dei rinforzi
Nel settore est,
nell’area di Kharkiv, le unità della 1a armata carri della guardia
che vi operano non hanno condotto attacchi di una qualche importanza in
direzione della città, mostrando anche di aver subito un sostanziale logoramento
causato dal precedente contrattacco ucraino a nord di quest’area, fattore che
le starebbe costringendo a una prolungata fase di riordino e ripianamento delle
perdite. Tuttavia, come indicato nei precedenti apprezzamenti, questa controffensiva
ucraina non ha portato a una vera riconquista delle posizioni lungo il confine,
ma si è configurata come una puntata che ha raggiunto lo scopo di bloccare la
progressione avversaria infliggendogli perdite non trascurabili. In ogni caso,
in questo settore le unità della 6a e 20a armata combinata
(144a divisione motorizzata e 3a divisione motorizzata, entrambe
appartenenti alla 20a armata combinata, unità che nei precedenti
apprezzamenti erano state indicate erroneamente come corazzate) hanno
notevolmente intensificato i loro sforzi offensivi verso sud, per conquistare
Izium e Severdonetsk e compromettere così il fianco sinistro delle brigate
ucraine schierate sul fronte del Donbass. Su queste due località si sono accesi
violenti scontri, con le unità ucraine che hanno cercato in ogni modo di
bloccare questo tentativo ed evitare così la perdita di queste due località,
che costituiscono due fondamentali perni di manovra per la tenuta di tutta la
difesa del Donbass. Su questo cruciale settore, la difesa delle forze di Kiev è
appoggiata sul corso del fiume Donets, lungo l’allineamento Izium- Severdonetsk,
linea su cui le forze russe stanno esercitando una forte pressione. Parte della
città di Izium sembra ormai sotto controllo russo, ma a partire dalla giornata
del 17 marzo un contrattacco congiunto lanciato da parte ucraina con la 81a
e 95a brigata d’assalto aereo avrebbe imposto una battuta d’arresto
alla 3a divisione motorizzata che stava cercando di sfruttare il
successo avanzando verso sud. Sempre lungo la linea del Donets, al centro, la
57a brigata motorizzata ucraina (pare coadiuvata da un battaglione
carri della 17a brigata corazzata) tiene e rafforza la posizione di
Sloviansk, mentre a est, su Severdonetsk, le forze ucraine sono quelle della 79a
brigata d’assalto aereo, dalla 111a brigata della difesa
territoriale e del battaglione “Donbas”, che fronteggiano l’attacco su tre lati
di altre unità russe della 3a e della 150a divisione
motorizzata. In ultima analisi, la cruenta battaglia in corso lungo questo tratto
del Donets rappresenta la situazione che nei prossimi giorni potrà portare ai
più importanti sviluppi tattici, passibili di tramutarsi in effetti a livello
operativo. In questo settore il secondo importante evento è costituito
dall’assalto finale a Mariupol, che si è sviluppato particolarmente il 19
marzo, e che ha portato le unità russe della 150a divisione
motorizzata (sul lato est), insieme alla 810a brigata di fanteria di
marina (da nord), a reparti ceceni di fanteria leggera, e altre unità della 19a
divisione motorizzata (che attaccano sul lato ovest), a penetrare e prendere
possesso di ampie porzioni dell’area urbana. Le unità ucraine che ancora
resistono in alcuni settori della città sono quelle della 56a
brigata motorizzata, del reggimento Azov, e della 36a brigata di
fanteria di Marina, ma nonostante la loro estrema difesa la caduta di Mariupol
pare ormai sempre più prossima. In generale, la “manovra sul Donbass”, che
inizialmente si stava configurando come un doppio avvolgimento su entrambi i
fianchi, si sta ora sviluppando come un singolo tentativo di avvolgimento del fianco
nord ucraino, probabilmente perché la “branca” meridionale russa si è dovuta
pesantemente impegnare nell’attacco a Mariupol. Proprio riguardo a quest’ultima
operazione, è presumibile che quando questa città cadrà i russi potranno
riorganizzarsi e reimpiegare le forze che vi hanno partecipato per rinnovare i
loro sforzi offensivi verso altre direzioni, a condizione però che non siano
state troppo logorate da questa dura e impegnativa battaglia urbana.
Mikolayv:
il contrattacco ucraino
Nel settore sud,
nell’area di Mikolayv, nella giornata del 17 marzo le forze ucraine hanno
sferrato un importante contrattacco che ha conseguito un iniziale successo con
la riconquista della cittadina di Posad-Pokrovske. Le unità russe che le
fronteggiano sarebbero quelle operanti sotto il controllo operativo della 58a
armata combinata, e segnatamente la 7a divisione d’assalto aereo e altri
gruppi tattici motorizzati a livello battaglione (BTG), un’aliquota di forze
che sarebbe stata rinforzata anche dalla 336a brigata di fanteria di
marina. Il contrattacco ucraino ha senz’altro conseguito il risultato di
alleggerire la pressione su Mikolayv, ma i suoi ulteriori sviluppi sono ancora
incerti. Unità russe risultano però ancora impegnate nel premere lungo la direttrice
nord, in direzione di Kryvyi Rih, ma senza aver progredito particolarmente. L’entità
e l’importanza attribuita dai comandi russi a questo particolare asse
offensivo, che è bene ricordare corrisponde alla direttrice che porta a Odessa,
costituiscono il tema più enigmatico e dibattuto, in quanto come già ricordato
in precedenza esso è quello “divergente” rispetto a quello indirizzato a nord-est
e su Mariupol, e non vi hanno mai operato forze sufficienti a realizzare una
superiorità decisiva. Secondo alcune ipotesi potrebbe trattarsi di uno sforzo
secondario volto a raccogliere informazioni, fissare forze avversarie nell’area
e cogliere eventuali opportunità, costituendo così una sorta di “corpo di
osservazione” (definizione propria di una terminologia militare di stampo
ottocentesco, ma adeguato alla circostanza) rivolto a quella direzione.
Meno
aerei e più missili: i russi sono coerenti
Sul versante delle
operazioni aeree e missilistiche, le forze russe hanno continuato e
intensificato i loro attacchi sfruttando soprattutto la seconda opzione, come
indicato in precedenza in ossequio a un loro definito e consolidato concetto
d’impiego dei vettori balistici tattici, ma facendo ampio ricorso anche ai loro
sistemi da crociera. In questo momento risulterebbero effettuati circa 800 lanci
di sistemi ISKANDER-M, cui si starebbero aggiungendo alcuni dei più vecchi OTR
21 “Tochka” (utilizzati anche dagli ucraini nel Donbass), un sintomo forse di
una certa scarsità che inizia a manifestarsi nelle scorte dei primi. Più
limitati sono stati invece gli attacchi condotti dai bombardieri strategici
Tupolev Tu-160 e Tu-95MS, con il lancio da parte di questi velivoli di missili
Kh-555 Kh-55SM e Kh-101, che continuano comunque ad avere un loro ruolo nella
campagna aero-missilistica russa. In tale quadro è stato molto importante e
pubblicizzato l’attacco condotto con l’impiego del missile ipersonico Kh-47M2 “Kinzhal”
contro un deposito munizioni a Delyatyn, nella regione di Ivano-Frankovsk, non
lontano dal confine con la Romania. Il missile, accreditato come capace di
raggiungere la velocità di Mach 10-12, è stato probabilmente lanciato da un
caccia intercettore Mikoyan Mig-31K (variante appositamente modificata per
l’impiego di questa arma). Al di là della reale necessità tattica di utilizzare
un sistema ad alte prestazioni, è piuttosto evidente come l’intento di questo
attacco fosse principalmente rivolto a dimostrare la potenza e l’efficacia di
una delle armi più recenti e temibili dell’arsenale di Mosca. In questo campo,
quello dei vettori ipersonici, è ben nota la superiorità che i russi hanno
accumulato in anni recenti rispetto agli USA e all’occidente in generale,
creando un divario tecnologico che soprattutto gli statunitensi si stanno
impegnando particolarmente a colmare. L’impiego di velivoli da parte
dell’aviazione russa pare non sia stato particolarmente intenso negli ultimi
giorni (a parte le continue azioni di supporto aereo ravvicinato eseguite dagli
onnipresenti Sukhoi Su-25 in appoggio ai reparti terrestri) con una conseguente
limitazione delle perdite, mentre invece il rateo delle missioni degli
elicotteri da combattimento, rappresentati dai modelli Kamov Ka-52, Mil Mi-28N
e Mil Mi-24/35, rimane molto elevato sin dalle primissime fasi dell’invasione.
Dal canto suo l’aviazione ucraina, seppur grandemente limitata, ha mostrato di
essere ancora attiva. Oltre al costante impiego dei sistemi UAS Bayraktar TB-2,
che continuano a operare con efficacia anche come piattaforme da combattimento,
destando una certa sorpresa le forze aeree di Kiev sono state infatti in grado
di condurre anche alcune missioni d’attacco con cacciabombardieri Sukhoi Su-24
e Su-25, che opererebbero dispersi su basi secondarie (ancora non colpite
quindi dagli attacchi di contro aviazione offensiva russi) nelle regioni
centro-occidentali del paese. Il mancato
annientamento dell’aviazione ucraina, peraltro, è il principale motivo alla
base di un’altra delle più importanti critiche rivolte alle forze russe
impegnate nel conflitto. Secondo queste analisi, il mancato conseguimento
di tale risultato (un commento che forse tradisce comunque un concetto e
un’esperienza molto “occidentali” nell’immaginare la quasi immediata “Air
Dominance” nelle prime fasi di qualsiasi conflitto) dimostrerebbe una carenza
nelle capacità dell’aviazione russa di condurre una complessa campagna aerea in
un moderno scenario bellico.
Chi critica l’accostamento tra la crisi nei rapporti tra
Russia e Occidente, culminata nel conflitto in Ucraina, con la Guerra Fredda sostiene
che la situazione attuale non abbia la forma di un conflitto tra due blocchi
ideologici distinti e contrapposti. Si tratta di una conclusione affrettata e a
mio avviso molto superficiale, che ignora la realtà e gli effetti di decenni di
penetrazione nella società e nel sistema politico-militare russo di un apparato
ideologico e pseudo-religioso chiamato Neo-Euroasianesmo. Il rischio principale
nel non comprendere la dimensione ideologica della crisi è quello di guardare
all’invasione dell’Ucraina come una mera guerra territoriale ed essere
impreparati per gli scenari futuri che non potranno che vedere un aumento della
tensione dei rapporti tra Occidente e Russia.
Nella sua versione originale, l’Euroasianesimo fu un
movimento culturale e politico fondato sull’idea che la civiltà russa non fosse
né europea né asiatica, ma piuttosto una civiltà euroasiatica a sé stante. Sviluppatosi
negli anni ’20 del 1900, l’Euroasianesimo sostenne la rivoluzione bolscevica,
ma non il suo obiettivo di realizzare nel paese il comunismo, vedendo l’Unione
Sovietica unicamente come una tappa nel processo di ricostruzione dell’identità
nazionale e imperiale russa che riflettesse il carattere unico della sua
situazione geopolitica.
In seguito allo scioglimento dell’URSS, l’Euroasianesimo
entrò in una fase pragmatica, abbracciando l’idea di costituire delle
organizzazioni internazionali sul modello di quelle già esistenti in Europa e
Nord-America e la cui funzione era di aumentare i rapporti tra Russia e Oriente,
con particolare attenzione alla Cina. Tra queste vale la pena di menzionare l’Organizzazione
per la Cooperazione di Shanghai e l’Unione Euroasiatica.
Unitamente a questa sua versione pragmatica,
l’Euroasianesimo manteneva però una visione mistica. Il suo maggior esponente è
il fondatore del Neo-Euroasianesimo, Aleksandr Gelyevich Dugin. Il filosofo
politico, nato intellettualmente nel solco della corrente mistica e noepagana dell’Ortodossia
cristiana moscovita, è ben conosciuto anche in Italia grazie ai suoi
collegamenti con la cosiddetta “Lobby Nera” costituita da gruppi identitari e
tradizionalisti di estema destra. La versione dughiniana dell’Euroasianesimo,
detta anche Quarta Teoria Politica, è
una forma di ideologia neo-fascista il cui progetto politico consiste nel ricostruire
un Impero Eurasiatico totalitario, dominato dalla Russia, che si contrapponga
agli Stati Uniti e dai suoi alleati atlantisti. Secondo Dugin, nella visione
escatologica del movimento che abbonda di riferimenti biblici l’inevitabile
conflitto tra i due blocchi finirebbe per dare vita a una nuova “età dell’oro
dell’illiberalismo politico e culturale globale”, promuovendo un’era di pace
universale e di riaffermazione dei principi religiosi, tradizionali, di
convivenza tra gli uomini.
Non può dunque passare inosservato il fatto che Dugin
consideri l’attuale conflitto ucraino come l’inizio della fase bellica del “confronto
contro il globalismo come fenomeno planetario integrale”. Un conflitto che il
filosofo ritiene essere sia geopolitico che ideologico e che vede essere una
vittoria in tutti i paesi del mondo, inclusi Europa e Stati Uniti, di tutte le
forze da lui definite come alternative, sia di destra che di sinistra, creando
le condizioni per una nuova multipolarità. Infatti, nella visione
Neo-Euroasiatica, come fu nella visione ideologica comunista, la Russia viene
concepita come una civiltà destinata a salvare il mondo dal neoliberismo,
riportando l’Occidente a riabbracciare le proprie radici tradizionali greco-romane,
cristiane, bizantine, oggi incarnate dalla Russia in quanto erede sia
dell’Impero Romano che del Sacro Romano Impero. Mosca incarnerebbe così
l’eredità imperiare di Roma e conseguentemente il suo destino di grande
unificatrice e civilizzatrice.
Ma quanto è diffusa e influente questa visione nel
contesto del governo russo? Nel 1997 Dugin pubblicò un volume dal titolo “I
fondamenti della geopolitica: il futuro geopolitico della Russia” che esercitò
fin da subito un’influenza significativa sulle élite militari e di politica
estera del paese diventanto ben presto uno dei libri di testo nelle accademie
militari e di polizia del paese, anche grazie al supporto del Generale Nikolai
Klokotov. Grazie all’assenza di riferimenti esoterici e mistici, presenti in
molte delle sue opere precedenti, Dugin riuscì anche a far breccia nella società
civile, e il libro fu anche adottato in diversi curriculum scolastici arrivando
a contribuire a costruire l’attuale ceto dirigente russo e la percezione
popolare del paese. Quanto a Putin, sappiamo che Dugin ha esercitato sia
un’influenza diretta sul presidente russo, tramite il partito Eurasia fondato
nel 2002, che una indiretta, tramite molti dei suoi consiglieri personali che
seguono i precetti della Quarta Teoria Politica e la Chiesa Ortodossa Moscovita
che ne ha abbracciato la visione teocratica.
La recente invasione dell’Ucraina potrebbe dunque essere coerente
con una strategia basata sull’ideologia Neo-Euroasiatica patrocinata da Dugin
per indebolire l’ordine liberale internazionale. Se così fosse, questa sarebbe
dunque solo una fase in una guerra più ampia e destinata a protrarsi nel tempo
irrigidendosi su linee ideologiche e pseudo-religiose.
Dallo scorso 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato la
sua aggressione militare all’Ucraina, i miliardari russi hanno visto
diminuire le loro immense fortune in modo cospicuo. Il 2 marzo, dopo una sola
settimana dall’inizio dell’invasione, il patrimonio netto degli ultra-ricchi
russi riportato dal
Bloomberg Billionaires Index, il paniere creato nel 2012 che monitora quotidianamente
lo stato dei patrimoni più facoltosi del mondo, era di 88 miliardi di dollari in meno rispetto al 23
febbraio.
Così il 3 marzo, cinque miliardari russi sono stati
estromessi dalla speciale graduatoria di Bloomberg, dopo che le
loro perdite sono più che raddoppiate da quando la Russia ha invaso l’Ucraina.
Tra questi il più penalizzato è Vagit Alekperov, il presidente
della Lukoil, la più grande compagnia petrolifera indipendente della Russia. Alekperov,
che nel 1990 fu il più giovane vice ministro dell’Energia nella storia
dell’Unione Sovietica, ha perso oltre il 60% della sua fortuna personale
prima di uscire dalla lista di Bloomberg. Il giorno dopo la sua epurazione
dalla superclassifica dei re Mida, il proprietario della Lukoil aveva chiesto
di porre fine rapidamente al conflitto tra Russia e Ucraina, diventando così la
prima grande compagnia nazionale ad opporsi alla guerra di Putin.
Il passivo astronomico subito dai miliardari è in gran parte
dovuto al crollo del mercato azionario russo e alla svendita delle loro
attività nei mercati internazionali. Già nel periodo precedente la guerra
Russia-Ucraina, le conseguenze dell’ondata prodotta dalla variante Omicron del SARS-Cov-2 e la
debolezza del rublo avevano depresso i mercati finanziari locali, ma i “paperoni”
russi hanno subito la maggior parte delle loro perdite dopo il 24 febbraio.
Tra il 23 febbraio e il 3 marzo, l’uomo più ricco della
Russia, Vladimir Potanin, ha visto calare vertiginosamente le azioni della sua
società Norilsk Nickel, gigante minerario primo produttore mondiale di palladio
e tra i maggiori fornitori dei metalli più ricercati per la transizione
energetica, come nickel, rame e cobalto. La società, quotata alla Borsa di
Londra, nella settimana successiva all’invasione è affondata di oltre il 50%, provocando
alla fortuna del magnate moscovita una perdita di 4,5 miliardi di dollari. E
dallo scorso 3 marzo, il titolo è stato sospeso dalle contrattazioni del
London Stock Exchange.
Perdite ancora più elevate sono state sostenute da Alexey
Mordashov, principale azionista e presidente di Severstal, un conglomerato
russo con interessi nel metallo, energia e miniere, che detiene una
partecipazione nella compagnia di viaggi tedesca Tui.
Anche il fondatore del Volga Group, Gennady Timchenko, che
controlla cospicui interessi nel gas naturale, trasporti, infrastrutture e nei
prodotti chimici, oltre ad avere stretti
legami con Putin, ha visto scendere di 11,3 miliardi di dollari il suo
patrimonio netto, che ora equivale a 11,1 miliardi di dollari.
Un altro dei miliardari epurati dal Bloomberg Billionaires
Index è Leonid Mikhelson, Ceo e principale azionista di Novatek, il secondo
produttore di gas naturale della Russia, dopo il colosso Gazprom. Nella
settimana successiva all’aggressione militare all’Ucraina, Mikhelson ha
totalizzato 11 miliardi di dollari di passivo.
Alle pesantissime perdite registrate nei mercati azionari,
che finché non vengono liquidate le posizioni detenute dai magnati russi sono
temporanee, vanno ad aggiungersi le draconiane sanzioni inflitte ai ricchi russi
da Regno Unito, Unione europea e Stati Uniti.
Il numero uno del Cremlino da molti anni aveva avvertito i
suoi fedelissimi che avrebbero dovuto proteggersi da eventuali misure restrittive,
in particolare dopo l’annessione della Crimea, quando le relazioni con gli
Stati Uniti e i paesi dell’Unione europea si sono inasprite.
Mentre alcuni uomini d’affari della ristretta cerchia del
presidente Putin hanno seguito il suo consiglio e hanno mantenuto i loro investimenti
in Russia, altri hanno collocato i loro soldi in sontuose proprietà all’estero
e in squadre di calcio, mentre le loro società sono rimaste quotate nelle borse
estere.
Ora si trovano in enorme difficoltà per mantenere i loro
beni, confiscati con le sanzioni economiche più dure imposte nell’era
moderna. Tra questi, uno dei più famosi in Europa è il miliardario russo
Roman Abramovich, dal 2003 proprietario della squadra di calcio londinese
del Chelsea.
Dal 23 febbraio, Abramovich ha perso circa il 12% della sua
fortuna, sebbene sia stato sanzionato più tardi di altri, forse perché sarebbe
meno influente di altri alleati di Putin. Anche se il suo ascendente sul
Cremlino è molto dibattuto tra chi suggerisce che sia semplicemente tollerato
da Putin e chi, come il Regno Unito, che crede che i due siano
vicini.
Da parte sua Abramovich nega fermamente di avere stretti
legami con Putin, ciononostante la parte britannica della sua fortuna stimata
di 12,4 miliardi di dollari è ora congelata. Poco prima dell’annuncio delle
sanzioni britanniche, ha messo in vendita il Chelsea per 3 miliardi di sterline
e anche la sua lussuosa residenza a Kensington Palace Gardens, valutata 150
milioni di sterline.
Abramovich ha creato la sua fortuna negli anni novanta ed è
stato uno dei primi oligarchi durante la presidenza di Boris Eltsin. Il
suo indiscutibile fiuto per gli affari gli ha fatto acquistare la compagnia
petrolifera Sibneft a un prezzo stracciato per poi rivenderla nel 2005 al
gigante russo Gazprom, di proprietà statale, per 13 miliardi di dollari.
Tra le sue proprietà c’è l’Eclipse, il terzo yacht più lungo
del mondo, e una altro megayacht, Solaris, in rada nel Mediterraneo. Negli
ultimi anni aveva iniziato a ritirarsi dal Regno Unito, tanto che nel 2018 ha
deciso di non richiedere il rinnovo del visto britannico e ha invece utilizzato
il passaporto israeliano appena acquisito per visitare Londra.
Mentre un tempo era solito presenziare a tutte le partite
casalinghe del Chelsea, negli ultimi anni è stato visto raramente allo Stamford
Bridge. E dopo che gli è stato vietato di entrare nel Regno Unito, non potrà
più assistere a nessun incontro di calcio di squadre inglesi.
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