RaiNews24 Afghanistan, firmato l’accordo tra Stati Uniti e Talebani

Il 29 febbraio 2020 a Doha è stato firmato il cosiddetto ‘accordo per portare la pace in Afghanistan’ tra Stati Uniti e Talebani. Il commento di Claudio Bertolotti, direttore di START InSight in Focus24, l’approfondimento di RaiNews24.

 


Fighting ISIS in Marawi (Philippines, 2017)

Picture courtesy and copyright: Ugo Lucio Borga / Associazione Six Degrees

L’immagine apre il Rapporto #ReaCT2020 dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo


TV2000 Terrorismo – Claudio Bertolotti presenta il Rapporto dell’Osservatorio ReaCT

Claudio Bertolotti, Direttore dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo ReaCT, ospite di Fabio Bolzetta a TGtg del 25 febbraio 2020

 

 


#ReaCT2020: è online il rapporto sul Radicalismo e il Terrorismo in Europa

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Claudio Bertolotti, Direttore START Insight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

La fine territoriale dello Stato islamico ha portato il movimento a reinterpretare la propria natura originale, basata su un approccio insurrezionale clandestino (principalmente nelle aree sunnite in Iraq) a cui si sono affiancate due linee d’azione: da un lato la delocalizzazione e i franchise in Afghanistan, Libia e in Africa i cui attori principali sono i gruppi locali a cui si sono uniti i reduci fuggiti dal fronte siriano; dall’altro lato l’espansione all’interno dell’arena globale, inclusa l’Europa, in cui le azioni sono lasciate all’iniziativa individuale e delle cellule.

 

Il rapporto #ReaCT2020 pone la sua attenzione sull’evoluzione del fenomeno terroristico, analizzandone le manifestazioni violente degli attacchi e gli eventi associabili al jihadismo individuale

LA SITUAZIONE IN EUROPA

Sebbene gli attacchi diretti ed effettivamente collegati allo Stato islamico abbiano meno probabilità di verificarsi nei Paesi europei dove la sicurezza è stata significativamente rafforzata, gli attacchi emulativi ispirati allo Stato islamico rappresentano una minaccia potenzialmente in crescita. Usando la sofisticata ed efficace propaganda, gli jihadisti si rivolgono direttamente ai potenziali “combattenti” del jihad incitandoli ad agire nel paese di residenza. È un quadro in cui il terrorismo nostrano definisce una tendenza alla violenza particolarmente preoccupante e in cui la minaccia futura dipende da come l’uditorio seguirà gli appelli del “Califfato” ad aderire alla “guerra di logoramento” contro le nazioni “crociate”. A tale fattore si inserisce la volontà di al-Qa’ida di riconquistare quel terreno perso negli anni dello Stato islamico territoriale; una volontà che potrà manifestarsi attraverso la condotta di azioni spettacolari ed eclatanti, dal forte impatto mediatico e comunicativo.

Nel complesso i Paesi europei affrontano una minaccia terroristica concreta a causa dell’alto numero di foreign terrorist fighters, della presenza di reti jihadiste sviluppate e della vicinanza geografica alle zone di guerra.

#ReaCT2020: IL RAPPORTO

Il terrorismo jihadista che accompagna la nostra epoca è la manifestazione violenta di una crescente radicalizzazione religiosa che coinvolge una parte, marginale, della società musulmana. Ma si tratta di un fenomeno sociale consolidato, in Europa, come nelle altre aree geografiche del Medioriente, del Nord Africa, del Sud-est asiatico e dell’Asia.

L’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo – ReaCT, monitora ed analizza costantemente il panorama del terrorismo jihadista europeo e, attraverso il primo rapporto sul fenomeno del terrorismo in Europa, intende offrire al pubblico uno studio sintetico sull’evoluzione e sugli effetti del fenomeno terroristico di matrice jihadista e della violenza in nome dell’Islam, attraverso un approccio quantitativo e qualitativo; in particolare quello quantitativo approfondisce aspetti quali la tipologia di attacco, le tecniche utilizzate, le armi, gli effetti diretti e indiretti, così come i risultati effettivi ottenuti.

Il rapporto #ReaCT2020 pone la sua attenzione sull’evoluzione del fenomeno terroristico, analizzandone le manifestazioni violente degli attacchi e gli eventi associabili al jihadismo individuale ma non direttamente rientranti nella categoria di terrorismo tout court; e ancora, osserva i dati dei potenziali indicatori di rischio associabili al fenomeno della radicalizzazione jihadista. Il risultato è una “lettura” più completa e ragionata del modus operandi dei terroristi e i risultati da questi ottenuti in Europa attraverso gli attacchi e le azioni violente.

L’obiettivo che ci siamo posti è definire il trend del fenomeno e delle sue manifestazioni; al tempo stesso, l’Osservatorio intende promuovere una ricerca più approfondita su possibili denominatori comuni presenti negli episodi europei di violenza jihadista, così da realizzare uno strumento utile da condividere con gli operatori per la sicurezza, sociali e istituzionali.

Il Rapporto si compone di 11 contributi di analisi e valutazione e un case study relativo a un soggetto condannato per terrorismo in Italia. Partendo dai numeri ed i risultati del “Nuovo Terrorismo Insurrezionale”, anche alla luce dell’uccisione di Al Baghdadi, si analizza la metodologia di comunicazione dello Stato islamico con uno specifico focus su quelli che sono gli strumenti virtuali del cosiddetto cyber-terrorism e della “guerra dell’informazione”.

Tenendo conto dell’evoluzione tecnologica offerta dal mercato e disponibile al terrorismo contemporaneo, si è voluto inoltre approfondire il pericolo potenziale, quale sfida del futuro, dell’intelligenza artificiale e robot (droni e non solo).

Si è poi voluto porre attenzione al fenomeno del terrorismo di “estrema destra” fra rischio attuale e minaccia futura, evidenziandone alcuni aspetti in comune con il terrorismo jihadista.

Sul piano sociale, e in una duplice ottica preventiva e predittiva, #ReaCT2020 offre una lettura dei processi di radicalizzazione violenta e avvia un’analisi critica sui tentativi di de-radicalizzazione e di induzione alla rinuncia della violenza da parte delle istituzioni.

Inoltre #ReaCT2020 fa il punto sulla prevenzione del
finanziamento al terrorismo tra interventi comunitari e panorama normativo nazionale.

In tale quadro evolutivo, alla luce degli eventi e degli sviluppi quasi quotidiani che il terrorismo contemporaneo riesce ad imporre nel panorama della violenza globale, #ReaCT2020 propone una riflessione sulla definizione della minaccia, invitando accademici, operatori della sicurezza e decisori politici a ripensare il concetto stesso di terrorismo per combattere un nemico che perdura.

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Scarica i singoli articoli del 1° rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa

Claudio Bertolotti, Una fotografia del terrorismo in Europa

Claudio Bertolotti, Numeri e risultati del “Nuovo Terrorismo Insurrezionale” in Europa: dal califfato al post-Stato islamico

Matteo Bressan, L’evoluzione della minaccia terroristica alla luce dell’uccisione di Al Baghdadi

Chiara Sulmoni, Radicalizzazione e de-radicalizzazione. Piste d’indagine

Francesco Pettinari, Radicalizzazione jihadista: il “tempo di attivazione” dei radicalizzati

Giusy Criscuolo, La comunicazione dello Stato islamico

Deborah Basileo, Tra cyber-terrorism e guerra dell’informazione: scarsa consapevolezza e limiti normativi

Valentina Ciappina, Videogiochi e cyber-jihad: dimensioni ed effetti

Ginevra Fontana, Il terrorismo 2.0: tra droni e nuove tecnologie

Barbara Lucini, Estrema destra fra rischio attuale e minaccia futura

Annalisa Triggiano, La prevenzione del finanziamento al terrorismo tra interventi comunitari e panorama normativo nazionale

Marco Lombardi, Ripensare il terrorismo per combattere un nemico che perdura

Claudio Bertolotti, L’aspirante ideologo dello Stato islamico (Case study)

 


#ReaCT2020: Una fotografia del terrorismo in Europa

di Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

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Alla fine di giugno del 2019, in ottemperanza alla misura cautelare in carcere emessa dal Gip di Brescia per il reato di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo, la Polizia di Brescia, coordinata dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione e con il supporto dell’Fbi statunitense, ha arrestato il foreign terrorist fighters Samir Bougana: un 25enne italo marocchino che nel 2013, partendo dalla Germania per la Siria, è accusato di essersi unito prima alle milizie associate ad al-Qa’ida e poi allo Stato Islamico. Bougana era stato catturato dalle milizie curde in Siria il 27 agosto 2018.

Un caso, tra i tanti, che mantiene i riflettori accesi sulla minaccia del terrorismo jihadista associato allo Stato islamico, a conferma della strategia post-territoriale di ciò che fu l’Isis. Ora le cellule nascoste, i singoli “combattenti”, l’effetto emulativo, l’aumento della propaganda e il reclutamento in tutto il mondo, sono le principali armi su cui il gruppo terrorista sta concentrando gli sforzi, nonostante la morte del suo leader carismatico conosciuto come il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi (al tempo Ibrāhīm ʿAwed Ibrāhīm ʿAlī al-Badrī al-Sāmarrāʾī) ucciso dalle forze speciali statunitensi in Siria, nel governatorato di Idlib,  il 26 ottobre 2019.

Il terrorismo di matrice jihadista, da solo responsabile del 96% delle morti per terrorismo in Europa, come dimostrato dagli attacchi di Utrecht, Londra e Lione, che hanno portato alla morte di dieci persone

Degli oltre 5mila foreign terrorist fighters “europei” partiti per combattere in Medio Oriente (di cui il 14 percento donne), mille sarebbero caduti in Siria e Iraq. Almeno un terzo è sopravvissuto; un altro terzo sarebbe tornato nel proprio Paese, altri 2500 avrebbero trovato rifugio in Paesi terzi unendosi ai gruppi jihadisti locali (dall’Afghanistan alla Libia, dall’Africa all’Asia centrale). Circa 800 al momento sono detenuti nelle carceri curde in Iraq: molte le donne e i bambini. Una condizione di “prigionia” che ha sollevato ampi e legittimi dibattiti in Europa e negli Stati Uniti sull’opportunità di limitare loro la possibilità di rientro nei Paesi di origine, a cui ha fatto seguito la decisione di molti Paesi europei di togliere loro la nazionalità così da non permetterne il ritorno.

Un problema di sicurezza collettiva che, seppur limitato nei numeri e interessante principalmente quattro paesi (Francia, Regno Unito, Germania e Belgio da cui sono partiti circa 3mila e 700 dei 5000 combattenti), si muove su due binari paralleli che hanno portato al bipolarismo dello jihadismo globale, diviso tra due principali attori in competizione: da un lato al-Qa’ida, dall’altro l’evoluzione dello Stato islamico.

Le reti jihadiste ispirate ad al-Qa’ida hanno costituito la base dell’emigrazione jihadista dall’Europa alla Siria e all’Iraq sino a tutto il 2015: le reti europee collegate al movimento Sharia4 hanno rappresentato il punto di riferimento per i gruppi radicali europei impegnati nell’inviare combattenti e supporto finanziario in Siria e Iraq. L’ascesa al potere dello Stato islamico a partire dalla fine del 2014, è poi riuscita a far (temporaneamente) eclissare al-Qa’ida dal panorama jihadista, almeno quello comunicativo.

Ma se lo Stato islamico ha perso, insieme alla sua natura territoriale, anche parte della spinta mediatica e comunicativa, la maggior parte dei social network e dei leader di al-Qa’ida in Europa è riuscita a sopravvivere allo Stato islamico, dando inizio alla nuova battaglia per “i cuori e le menti”, che è appena all’inizio.

I principali modelli organizzativi dell’attività del terrorismo islamista – in termini di struttura, reclutamento e formazione – non sono dunque cambiati in modo significativo, ma si sono evoluti in maniera efficace.

L’evoluzione del terrorismo di matrice jihadista in Europa si inserisce all’interno di un più ampio fenomeno sociale di natura ideologica, politica e religiosa, che continua a colpire i cittadini europei, provocando vittime e danni rilevanti, sia sul piano sociale che economico. Un calcolo, quello degli effetti del terrorismo, che deve tenere in considerazione l’entità dei fenomeni terroristici, certamente limitati in rapporto alla popolazione europea, ma che sono in grado di provocare rilevanti ripercussioni in termini di sicurezza, reale e percepita, tali da influire sulle politiche e sulle strategie di sicurezza nazionale e internazionale, così come sui processi elettorali.

L’analisi dei numeri relativi agli eventi terroristici avvenuti un Europa è uno strumento essenziale per riuscire a definire un fenomeno le cui manifestazioni di violenza hanno il potere di influire in maniera significativa, e spesso distorta, sulla percezione dell’opinione pubblica a cui contribuisce in parte il ruolo dei media tradizionali e, in particolare, dei social-network.

L’evoluzione del terrorismo jihadista si inserisce all’interno di un più ampio fenomeno sociale di natura ideologica, politica e religiosa, che provoca vittime e danni rilevanti, sia sul piano sociale che economico.

Nello specifico, è bene evidenziare come, pur a fronte di una particolare attenzione mediatica nei confronti del “terrorismo jihadista” e di quello cosiddetto di “estrema destra”, queste due manifestazioni rappresentano solamente una minima parte degli eventi violenti registrati all’interno dei Paesi europei: i dati del 2018 ci mostrano che la minaccia più significativa in termini di azioni violente è rappresentata dal terrorismo etno-nazionalista, con 84 casi registrati in Europa; seguono gli attacchi terroristi di matrice jihadista – 24 azioni, che hanno provocato 13 morti; al terzo posto gli attacchi terroristici perpetrati da gruppi di estrema sinistra e anarco-insurrezionalisti – per un totale di 19 eventi, di cui 13 in Italia; all’ultimo posto gli attacchi terroristici attribuiti all’estrema destra, con un singolo evento.

Numeri che, nel complesso, indicano una flessione nell’intensità della violenza terrorista in termini assoluti rispetto agli anni precedenti, sebbene in maniera differente in base all’ideologia di riferimento e a giustificazione degli atti di violenza. Nel panorama europeo si impone la sostanziale scarsa rilevanza degli attacchi di fatto portati a compimento da gruppi di estrema destra, storicamente marginali nelle statistiche del terrorismo in Europa: un solo evento nel 2018, a fronte dei cinque registrati nel 2017. Diminuiscono anche gli attacchi terroristici dell’estrema sinistra e dei gruppi anarco-insurrezionalisti: 19 eventi nel 2018 rispetto ai 24 del 2017.

Le azioni maggiormente rilevanti rimangono quelle riconducibili ai gruppi etno-nazionalisti: 84 contro le 137 del 2017; sebbene quelle più pericolose in termini di danni e vittime rimangano le azioni terroristiche associate allo jihadismo: 24 eventi nel 2018 contro i 33 del 2017.

Il Regno Unito è il paese più interessato dalle azioni violente del terrorismo indipendentista, in particolare da parte dei Dissident Republican (seguito da Francia e Spagna – Euskadi ta Askatasuna e Resistencia Galega); la Francia è invece il Paese nel mirino del terrorismo jihadista, seguita dal Regno Unito.

L’Italia, nella graduatoria europea, è il Paese più colpito da attacchi di estrema sinistra: il 70 percento  di tutti gli attacchi in Europa. Nel nostro Paese, questi gruppi terroristici hanno confermato la propria volontà violenta, l’intensità e il modus operandi rilevati negli ultimi cinque anni. La Federazione Anarchica Informale / Fronte Rivoluzionario Internazionale (FAI/FRI) è considerato il gruppo più pericoloso. È tristemente noto per le sue campagne contro bersagli italiani e stranieri, attraverso l’impiego di IED (ordigni esplosivi improvvisati) o pacchi bomba. Altri gruppi terroristici anarchici hanno preso di mira obiettivi fisici, quali sedi di partiti, e gruppi di estrema destra.

Una fotografia della violenza che descrive come il terrorismo continui a costituire una grave minaccia per la sicurezza degli Stati europei. In tale quadro si impone, anche nel 2019, il terrorismo di matrice jihadista – da solo responsabile del 96 percento delle morti per terrorismo in Europa – come dimostrato dagli attacchi di Utrecht, Londra e Lione: un‘evoluzione della forma di violenza terroristica che tende a imporsi sempre più come un mezzo di confronto e competizione politica. I terroristi si impongono come soggetti che non solo mirano a uccidere e ferire, ma anche a dividere le nostre società e diffondere odio e intolleranza.

Terrorismo jihadista e violenza di matrice islamista

Nel 2019 sono stati portati a termine 17 attacchi terroristici ed episodi di violenza di matrice jihadista: 9 in Francia, 2 in Italia, 2 nei Paesi Bassi, 2 in Norvegia, 1 in Svezia e 1 nel Regno Unito. Un totale di 10 persone sono state uccise e 46 feriti in attacchi jihadisti nel 2019: le vittime includono 8 agenti di polizia, tre dei quali sono rimasti uccisi. Francia, Paesi Bassi e Regno Unito sono stati colpiti da azioni a più elevata intensità di violenza.

La maggior parte delle azioni è stata portata a compimento attraverso l’utilizzo di coltelli (76 percento) e armi da fuoco (18 percento); solamente in un caso (Lione, 24 maggio 2019) è stato fatto uso di esplosivi.

Gli attaccanti che hanno colpito nel 2019 sono tutti di sesso maschile, con un’età mediana di 32 anni; superiore a quella del periodo 2014-2019 che è di 27 anni.

Il 70 percento dei terroristi europei sono nati negli anni Ottanta e Novanta, dunque relativamente giovani, sebbene un 20 percento sia costituito da soggetti nati prima del 1980.

Jihadisti europei

Il 70 percento dei terroristi europei sono nati negli anni Ottanta e Novanta, dunque relativamente giovani, sebbene un 20 percento sia costituito da soggetti nati prima del 1980: un elemento interessante poiché pone in evidenza la presenza di una quota importante di uomini di “mezza età” al fianco della massa più giovane.

Le donne hanno svolto e svolgono un ruolo molto più attivo di quanto non sia stato posto in evidenza, e rappresentano una minaccia crescente; delle circa 650 partite dall’Europa per il fronte siriano e iracheno, 21 hanno fatto rientro in Belgio e 28 in Francia.

I bambini al di sotto dei dieci anni rappresentano un problema estremamente serio e una potenziale minaccia alla sicurezza europea per il futuro. Delle centinaia di bambini che avrebbero lasciato l’Europa, 16 sono rientrati in Belgio e 68 in Francia; gli altri sono detenuti in Iraq e Siria, altri trasferiti in paesi terzi con almeno uno dei genitori, ma della maggior parte non si sa nulla.

Se da un lato i convertiti radicalizzati pongono seri problemi in termini securitari, ma anche culturali e sociali, va posta una particolare attenzione alle carceri che continuano a svolgere un ruolo importante sia nell’attivazione che nel rafforzamento del processo di radicalizzazione.

L’origine etnica e geografica dei terroristi jihadisti si impone come importante elemento e strumento di analisi e nel monitoraggio delle reti e delle cellule jihadiste. I gruppi principalmente afflitti dall’adesione al modello jihadista sono quelli marocchini (in Belgio, Spagna e Italia), algerini (in Francia), turchi (in Germania e Paesi Bassi).

Infine, una considerazione sulla questione che si concentra sul possibile collegamento tra immigrati e terrorismo: dal gennaio 2014, 44 rifugiati o richiedenti asilo sono stati coinvolti in 32 complotti jihadisti in Europa. Sebbene la maggior parte di questi soggetti si sia radicalizzata prima dell’ingresso in uno dei Paesi europei, tuttavia i processi di radicalizzazione avviati dopo l’arrivo in Europa sono divenuti più comuni a partire dall’autunno del 2016. Nel complesso, il periodo di latenza tra l’arrivo in Europa e la partecipazione a un’azione terrorista in genere associata allo Stato islamico (di successo o sventata) è di 26 mesi.

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#ReaCT2020 – ll terrorismo 2.0: tra droni e nuove tecnologie (G. Fontana)

di Ginevra Fontana

Evoluzione tecnologica e terrorismo: la sfida del futuro

La prevenzione della minaccia terroristica prevede una componente quasi assimilabile alla preveggenza, mirata ad anticipare le mosse attuabili in futuro dall’attore terroristico, prendendo in considerazione l’andamento di diversi trend e operando al fine di chiudere una strada prima ancora che essa diventi realmente percorribile. Questo prevede una certa estensione di competenze e un’intersezione di ambiti che coinvolgano attori diversi e diversificati (quali, tra gli altri, decisori politici, intelligence, ricercatori accademici, forze armate e dell’ordine) in un’ottica di sinergia mirata.
Un sotto-ambito di studio si concentra sull’impiego delle nuove tecnologie civili a fini terroristici. L’accesso a componenti tecnologiche sofisticate a prezzi abbordabili gioca a favore degli attori malintenzionati, i quali possono sfruttare le potenzialità ‘benevole’ in maniera ‘malevola’.
Esistono molteplici aspetti dello stesso problema, già materializzatisi in decine di casi in tutto il mondo. I droni, per esempio, segnalano un aumento nell’utilizzo malevolo dal 2018: utilizzati per recapitare sigarette, cellulari e droga all’interno delle carceri in diverse occasioni, oppure ai fini di voyeurismo, o per attentati terroristici — motivazioni che, sommate al rischio per la sicurezza degli aerei in atterraggio e decollo, causa la sospensione del traffico aereo qualora un drone venga avvistato nei pressi delle piste degli aeroporti. La possibilità che altre tipologie di questi sistemi vengano anch’esse sfruttate a fini terroristici sono facilmente deducibili. Si potrebbero utilizzare piccoli motoscafi giocattolo telecomandati per consegne a breve raggio di materiale illegale? Potrebbe essere un sistema già utilizzato ma non ancora rilevato? La crittografia end-to-end, per quanto garanzia di privacy, non è anche fautrice di segretezza per i terroristi, che possono dunque usufruire di piattaforme attraverso le quali organizzarsi? È risaputo che su Telegram esistano gruppi e canali, tra gli altri, direttamente operati da affiliati di ISIS. Sistemi di sicurezza degli apparati elettronici personali tendono a garantire una salvaguardia delle informazioni sensibili, ma possono anche intralciare le indagini delle autorità – come è stato il caso dell’iPhone dell’attentatore di San Bernardino, che ha dato vita alla disputa tra l’FBI e l’azienda americana Apple per la decodificazione del sistema criptato.
Prevenzione significa anche questo: qualsiasi passo in avanti nella tecnologia è anche un passo avanti nelle possibilità di uso da parte di attori malevoli. Tornare al Medioevo non è una soluzione possibile; ma monitorare gli andamenti, aumentando la cooperazione e lo scambio di informazioni tra i vari attori addetti ai lavori, sarebbe certamente un metodo auspicabile per evitare sprechi e ridondanze di ricerca, al contempo creando regolamentazioni e legislazioni ad hoc man mano che le possibili future evoluzioni vengono identificate.

Intelligenza artificiale e robot: attuale fantascienza

Nel parlato corrente, si parla tendenzialmente di drone con riferimento ad un oggetto volante di piccole dimensioni, spesso dotato di un sistema di cattura immagine, pilotabile tramite telecomando o dispositivo mobile. La relativa regolamentazione di volo, purché esistente, trova difficoltà nell’implementazione. L’eccessiva proliferazione, data dalla ‘moda’ e dai prezzi convenienti poiché prevalentemente di matrice cinese, sommata alle loro caratteristiche, spiega perché sfuggano facilmente al controllo degli organi preposti.
Per la precisione, in Inglese e nel linguaggio militare, drone è un termine applicabile a veicoli non solo volanti, ma anche marittimi, terrestri e sotterranei, comandati da remoto o per mezzo di computer di bordo. Finora, la maggioranza dei sistemi in uso è in sintesi definibile come un “robot comandato a distanza” – anche se diversi possono eseguire comandi predefiniti in maniera autonoma, ed esistono innumerevoli studi per giungere ad applicare loro in maniera sistematica l’intelligenza artificiale (AI).
Un futuro in cui questi sistemi siano parte integrante del quotidiano è già dietro l’angolo: la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha sperimentato un sistema per il trasporto di sangue ed organi con un drone volante; alcune aziende di food delivery puntano a utilizzare droni terrestri per sostituire i fattorini; una nota azienda di vendite online aveva dichiarato di stare considerando l’uso di droni volanti per le consegne; la Repubblica di Vanuatu nel 2018 ha utilizzato droni volanti per consegnare vaccini sulle isole più remote. Anche i prototipi di macchine a guida autonoma si potrebbero considerare dei droni, poiché gli esseri umani a bordo non operano un controllo del veicolo; e, seguendo questo ragionamento, anche la macchinina radiocomandata di un bambino ricade nella categoria.
Le potenzialità di queste tecnologie sono dunque incredibili, soprattutto in ottica di miglioramento della qualità della vita umana, ma anche i potenziali malevoli sono estremamente interessanti per i malintenzionati. Si pensi all’introduzione di automobili senza conducente sulle strade. Potenzialmente, esse potrebbero essere usate come auto-bomba – e, diversamente da situazioni in cui un conducente è presente a bordo, come si potrebbe notare un comportamento sospetto in un robot perfettamente programmato che avanza nel traffico cittadino, rispetta il codice della strada, non mostra alcun segno di stress, nervosismo o eventuale altro comportamento sospetto o causante preallarme? Come si potrebbe non solo fermare, ma ancora prima identificare una tale minaccia? Sarebbe necessario pattugliare i cieli con droni dotati di sensori in grado di rilevare la presenza di esplosivo? Installare scanner fissi sulle strade? Dove lasceremmo la privacy?

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#ReaCT2020 – Videogiochi e cyber-jihad: dimensioni ed effetti (V. Ciappina)

di Valentina Ciappina

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Il vantaggio essenziale dei videogiochi rispetto alla televisione, alle registrazioni audio, ai libri è la loro interattività. Una persona dietro un monitor può influenzare attivamente il corso degli eventi in un mondo virtuale e può diventare quello che nella realtà non ha il coraggio di essere.

Questo crea possibilità uniche anche per le organizzazioni terroristiche.

Lo spazio di gioco online da la possibilità alle persone di entrare in contatto tra loro in remoto e in modo anonimo, di colmare quel senso di impotenza che magari vivono nella vita reale. Riconoscersi con propri simili e condividere un senso di ingiustizia e inadeguatezza, rende questi soggetti più vulnerabili e quindi potenziali reclute.

Le persone isolate e vulnerabili alla radicalizzazione tendono a convalidare il messaggio estremista che ricevono. Nel tempo, il loro isolamento porta alla normalizzazione di opinioni estremiste e a discorsi di odio.

Viene chiamato “Gaming Jihad”, il modo in cui le organizzazioni terroristiche hanno sfruttato giochi e immagini violente per attirare giovani reclute.

I primi tentativi di usare i videogiochi come strumenti di propaganda risalgono ai post attacchi dell’11 settembre, così come a partire da quei fatti e i successivi conflitti militari in Afghanistan e in Iraq, sono nati nuovi programmi che descrivono la lotta contro i terroristi islamisti anche le organizzazioni terroristiche islamiste hanno risposto con i loro primi programmi di gioco.

Uno dei primi ad essere rilasciato fu la Special Force, un FPS militare in 3 D, sviluppato dall’Ufficio Internet centrale di Hezbollah. Questo progetto mirava a raggiungere un pubblico il più vasto possibile, tanto da essere pubblicato contemporaneamente nel 2003 in Libano, Siria, Iran, Bahrein e Emirati Arabi Uniti e disponibile in quattro lingue: arabo, inglese, francese e persiano.

La trama del software era intrisa di propaganda anti-israeliana e filo-islamica, in quanto presentava la lotta armata dei “combattenti della resistenza” di Hezbollah contro l’IDF. Il messaggio sulla scatola del gioco affermava: “i progettisti di Special Force sono molto orgogliosi di fornirti questo prodotto speciale, che incarna oggettivamente la sconfitta del nemico israeliano e le azioni eroiche intraprese dagli eroi della Resistenza Islamica in Libano. (…) Sii un partner nella vittoria. Combatti, resisti e distruggi il tuo nemico nel gioco della forza e della vittoria.

Nel 2007 Hezbollah pubblicò un sequel intitolato Special Force 2: Tale of the Truthful Pledge. Special Force 2 fu adattato ai gusti dei giovani in Medio Oriente per scopi di reclutamento. Questo obiettivo fu confermato dal rappresentante dei media di Hezbollah Ali Daher, che affermò che “il gioco presenta la cultura della resistenza ai bambini: che l’occupazione deve essere resistita e che la terra e la nazione devono essere protette”.

Nel frattempo, anche Al Qaeda iniziò a esprimere il suo interesse per i videogiochi come un nuovo mezzo di cyber jihad.

Quest for Bush (QfB) (noto anche come Night of Bush Capturing) fu pubblicato online nel 2006 gratuitamente dal Global Islamic Fronte multimediale. In effetti, si trattava di una semplice modifica del gioco Quest for Saddam, che era stato rilasciato tre anni prima negli Stati Uniti, ma conteneva diverse caratteristiche, che potevano essere strumenti utili per influenzare le opinioni dei giocatori. In primo luogo, fece riferimento e sfruttò l’invasione americana dell’Iraq ampiamente criticata. QfB era un FPS 3 D che permetteva al giocatore di uccidere i soldati americani.

Un altro capitolo nella storia della jihad del gioco iniziò all’inizio del 2014, all’avvento della campagna online dello Stato islamico. La sua macchina di propaganda altamente efficiente, supportata da gruppi non affiliati e sostenitori freelance, adottò un approccio innovativo al software di gioco, che consisteva in tre “vettori” interconnessi.

Il primo vettore è fondato sulle attività dei sostenitori non affiliati dello Stato Islamico, che utilizzano versioni modificate di programmi già esistenti di livello AAA.

Il secondo vettore è costituito da frequenti riferimenti da parte dei membri dell’IS e dei sostenitori all’esperienza e alla cultura dei videogiochi. L’esempio più evidente riguarda la popolare serie FPS 3 D di livello AAA Call of Duty (CoD). Uno dei meme pro-IS più popolari, combina un riferimento al CoD e alla glorificazione del martirio, in quanto afferma: “Questo è il nostro richiamo al dovere e abbiamo ripreso vita a Jannah”.

L’ultimo vettore della campagna di gioco dello Stato Islamico è costituito dall’ esclusivo programma sviluppato, pubblicizzato e rilasciato online dal suo centro di propaganda ufficiale (Maktaba al-Himma) – Huroof. Questo gioco è stato progettato sia per computer desktop che per il sistema operativo mobile Android. È l’unico gioco multipiattaforma conosciuto creato da un’organizzazione terroristica. In secondo luogo, è stato progettato per insegnare l’alfabeto arabo in modo interattivo ai più piccoli. Pertanto, il suo stile grafico e sonoro è da cartone animato, e si distingue da tutti gli altri giochi jihadisti. Combina grafiche “classiche” utilizzate nei libri per bambini, con un “vocabolario militaristico”, e illustrazioni di pistole, proiettili, razzi, cannoni o carri armati. Questa grafica è accompagnata dai simboli dello Stato Islamico.

I terroristi islamisti se da una parte hanno dimostrato di avere una scarsità di risorse interne capaci di produrre programmi propri e di alto livello, dall’altra hanno avuto la capacità di adattarsi alle contromisure messe in atto dall’ Occidente.

Una delle risposte italiane date dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) della Presidenza del Consiglio, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, è la nascita di Cybercity Chronicles, la prima app di edutainment ambientata nel cyberspazio.

“L’obiettivo di Cybercity Chronicles è, infatti, quello di creare una relazione tra didattica e nuove tecnologie: far appassionare il giocatore al videogioco, coinvolgendolo nell’avventura e trasmettendogli nozioni ed informazioni utili alla sua crescita culturale e digitale. A tal fine, all’interno del gioco si trova un Cyberbook (PDF 1,1 MB), un glossario per familiarizzare con i principali termini utilizzati nel mondo della cybersecurity.”

Come già suggerito nel Report 9/11 pubblicato dalla National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, lo sforzo richiesto a tutti gli operatori del settore coinvolti nella lotta contro il terrorismo è quello di continuare ad immaginare l’immaginabile, al fine di elaborare un’efficace strategia di prevenzione.


#ReaCT2020 – Numeri e risultati del “Nuovo Terrorismo Insurrezionale” in Europa: dal califfato al post-Stato islamico (C. Bertolotti)

di C. Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

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Il terrorismo di matrice jihadista che accompagna la nostra generazione è la manifestazione violenta di una crescente radicalizzazione religiosa che coinvolge una parte, marginale, della società musulmana: un fenomeno sociale consolidato. Ma il terrorismo non è il problema, bensì è la manifestazione violenta di un problema oggettivo che è la diffusione dell’ideologia jihadista; un’ideologia che si muove su un piano comunicativo efficace e che coinvolge un numero importante di soggetti che possono rappresentare una minaccia seria e concreta alla sicurezza: l’ideologia jihadista alimenta il fenomeno della radicalizzazione.

La dimensione europea del nuovo terrorismo (2014-2019)

Degli 895 attacchi terroristici, di successo, falliti e sventati, registrati nell’Unione Europea dal 2014 al 2017, il 67 percento sono riconducibili a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 12 percento a movimenti della sinistra radicale, il 3 percento a gruppi appartenenti alla destra militante: solamente il 16 percento sono azioni di matrice jihadista. Una percentuale, riferita alla violenza jihadista, che aumenta nel 2018 attestandosi al 19 percento su 129 attacchi. Ma sebbene gli atti riconducibili allo jihadismo siano una parte marginale del totale, sono però causa del 96 percento delle morti complessive.

E se nel solo 2017 Europol ha registrato 205 tra attacchi di successo, sventati o fallimentari, 45 sono quelli di natura jihadista (22 di successo, 3 fallimentari e 20 sventati). Nel 2018 gli attacchi complessivi scendono a 129; di questi, sempre secondo Europol, 24 sono di natura jihadista di cui 7 di successo. Un dato al ribasso rispetto a quanto registrato dal database START InSight, che conferma la condotta di 27 azioni terroristiche portate a termine. I numeri complessivi degli attacchi di successo, sventati o falliti erano di 142 nel 2016, 193 nel 2015 e 226 nel 2014.

Nel 2018, tutte le vittime di terrorismo sono il risultato di attacchi jihadisti: 14 morti e 67 feriti in attacchi jihadisti secondo START InSight.

Secondo Europol si tratterebbe di una riduzione considerevole rispetto al 2017, quando dieci attacchi provocarono la morte di 62 persone, sebbene la lettura più approfondita degli episodi di violenza jihadista attraverso il database di START InSight riporti un dato pari a 25 azioni, per un totale di 63 morti e 843 feriti. Nel 2018, gli Stati membri dell’UE hanno segnalato 16 tentativi di azioni terroristiche contrastate, un fatto che indica sia una dimostrazione dell’efficacia degli sforzi antiterrorismo, sia una continua attività terroristica confermata dai 17 episodi del 2019 (START InSight).

Nel 2019 sono stati portati a termine 17 attacchi terroristici ed episodi di violenza di matrice islamista in Europa: 9 in Francia, 2 in Italia (Torino – 21.04.2019, e Milano – 17.09.2019), 2 nei Paesi Bassi, 2 in Norvegia, 1 in Svezia e 1 nel Regno Unito. 10 persone sono state uccise e 46 ferite in attacchi jihadisti: le vittime includono 8 agenti di polizia, tre dei quali sono rimasti uccisi.

I numeri europei del terrorismo jihadista

Dei 149 attacchi terroristici di matrice jihadista in Europa dal 2004 al 2019, sette su dieci si concentrano nel periodo di massima espansione dello Stato islamico (2015-2017). Parallelamente a un aumento delle azioni terroristiche, diminuiscono la qualità tecnica degli attacchi condotti, la preparazione e la sofisticazione degli equipaggiamenti utilizzati. Le vittime sono in prevalenza civili: gli obiettivi intenzionalmente attaccati dai terroristi sono stati nel 45 percento obiettivi civili e nel 41 percento dei casi forze armate o di polizia.

È l’evoluzione di un fenomeno che trova conferma nel trend degli arresti, avvenuti in diciotto paesi dell’Unione europea, di soggetti radicalizzati e coinvolti nella pianificazione o nella condotta di azioni terroristiche: 216 arresti nel 2013, 395 nel 2014, 687 nel 2015, 718 nel 2016, 705 nel 2017 (di cui 373 nella sola Francia) e 511 nel 2018 (273 in Francia). Nel 2017 la maggior parte degli arresti (354) ha coinvolto soggetti sospettati di essere parte di un’organizzazione terroristica di matrice jihadista; altri soggetti invece perché sospettati di pianificare (120) o preparare (112) un attacco. Situazione analoga a quella del 2018 dove gli arrestati con la stessa motivazione sono più della metà del totale; arresti avvenuti principalmente in Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania e Italia.

Le 121 azioni portate a termine in Europa, dal 2014 a al 2019, hanno visto la partecipazione di 161 terroristi (dei quali 57 sono deceduti), che hanno provocato la morte di 390 persone e il ferimento di altre 2359.

Tecniche e tattiche di attacco: evoluzione e adattamento. Dagli attacchi strutturati a quelli improvvisati

L’85 percento degli attacchi registrati nel periodo 2014-2019 è stato portato a termine da singoli attentatori, il 15 percento da commando suicidi o “team raid”; i commando suicidi rappresentano il 2 percento degli attacchi totali. Nel 63 percento dei casi è stato fatto uso di armi bianche, nel 28 percento armi da fuoco da guerra ed esplosivi; nel 16 percento sono stati impiegati, quale arma principale, i “veicoli-ariete” contro i pedoni – obiettivi estremamente vulnerabili (soft target) – all’interno di aree ad alta concentrazione di popolazione.

8 giorni per colpire: l’effetto emulativo e improvvisato dei self-starter

In Europa è emerso sempre più il ruolo dinamizzante di azioni “autonome” e “ispirate”, dove la capacità attrattiva ed emulativa degli attacchi organizzati e strutturati, ad alta intensità e ad alto impatto mediatico, ha spinto individui non direttamente riconducibili all’organizzazione Stato islamico a commettere azioni violente ma con un livello di preparazione minimale, dai risultati tattici non rilevanti, ma in grado di ottenere un’elevata attenzione mass-mediatica.

Gli attacchi a bassa intensità, a connotazione “autonoma” e improvvisata, si sono concentrati negli 8 giorni successivi ai grandi eventi, a media e alta intensità, che hanno ottenuto un’ampia, spesso eccessiva, eco mediatica. È l’effetto emulativo, conseguenza di una reazione emotiva che si auto-alimenta.

Tali attacchi emulativi, che compaiono a partire dal 2015, sono il 24 percento del totale (nel periodo 2015/2019). Un dato interessante che evidenzia la capacità attrattiva e la funzione di “innesco”, in particolare nel Regno Unito, dove gli attacchi emulativi sono il 41,5 percento (quasi il 10 per cento del totale europeo), in Germania (26,6 percento) e in Francia (23 percento).

Risultati: successo o fallimento?

L’analisi del fenomeno si sviluppa attraverso la lettura dei tre livelli strategico, operativo e tattico.

Il 19 percento delle azioni che hanno colpito i paesi europei, ha ottenuto un successo a livello strategico: blocco temporaneo del traffico aereo, mobilitazione di grandi unità militari, revisione delle procedure di sicurezza, mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, ecc. L’andamento nel corso degli anni è stato discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione di capacità ed efficacia: 75 percento nel 2014, 42 percento nel 2015, 17 percento nel 2016, 28 percento nel 2017, 4 percento nel 2018 e 6 percento nel 2019.

Il 34 percento delle azioni ha ottenuto un successo a livello tattico: un andamento complessivo che, passando dal 33 percento di successo e un raddoppio degli attacchi fallimentari (42 percento) nel 2018 ci consegna un dato ulteriormente al ribasso del 25 percento di successo nel 2019; un quadro che viene letto come il duplice effetto della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’accresciuta reattività delle forze di sicurezza dei paesi europei.

Il 78 percento degli attacchi ottiene un successo a livello operativo: è questo il dato più interessante perché a fronte di azioni apparentemente di scarso rilievo mediatico o in termini di vittime prodotte, mostra una capacità confermata nel tempo di limitare o condizionare le normali attività quotidiane degli apparati pubblici, o di mobilità urbana, o movimento a danno delle comunità colpite. Qui si introduce il concetto di “blocco funzionale”.

Il “blocco funzionale” a livello operativo

Il “blocco funzionale” è il più importante dei risultati ottenuti dai terroristi sul moderno campo di battaglia europeo. All’interno di questa categoria sono inseriti tutti quegli eventi che hanno influito in maniera significativa sul livello operativo delle forze di sicurezza, sulla limitazione delle normali attività quotidiane degli apparati pubblici, o di mobilità urbana. I risultati sono tangibili e, a livello operativo, gli attacchi hanno ottenuto dal 2004 a oggi, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 74 percento dei casi (84 percento nel 2017, 81 percento nel 2016, 83 percento nel 2015, 75 percento nel 2014) per attestarsi al 70 percento nel 2018 e al 75 percento nel 2019. Un risultato impressionante considerando le limitate risorse messe in campo dai gruppi, o dai singoli terroristi.

 


#ReaCT2020 – Radicalizzazione e deradicalizzazione. Piste d’indagine (C. Sulmoni)

di Chiara Sulmoni, START InSight – Lugano

A quasi venti anni dai primi segnali dell’evoluzione di una scena jihadista tipicamente europea, i dati quantitativi a disposizione permettono di disegnare le tendenze del cosiddetto terrorismo islamista ‘homegrown’. La radicalizzazione è invece più complessa da misurare; se i numeri degli estremisti segnalati o monitorati, da un lato, permettono di avere un’idea dell’ampiezza del fenomeno, dall’altro non sono indicativi del grado di pericolosità degli individui né suggeriscono possibili strade da percorrere in materia di contrasto. Per questo, è fondamentale prestare attenzione ai ‘meccanismi’ e ai contesti che favoriscono l’adesione e il reclutamento, incluse le difficoltà incontrate da chi si muove sul territorio nella prevenzione e nella deradicalizzazione. Si tratta di un passaggio essenziale e di un richiamo alla responsabilità anche per la politica, che è tenuta a preparare il terreno legislativo e istituzionale per la messa in atto di strategie efficaci.

I LIMITI DEI NUMERI

Lo Stato Islamico ha saputo mobilitare un numero inedito di individui in ogni parte del mondo; decine di migliaia nella sola Europa, tra foreign fighters, aspiranti terroristi, reclutatori per la causa jihadista, sostenitori e simpatizzanti del Califfato -i cosiddetti radicalizzati. Nel maggio del 2017, a seguito dell’attentato alla Manchester Arena, i media inglesi rivelarono la portata della minaccia riassunta nella cifra di 23’000 estremisti jihadisti noti all’intelligence, fra cui un pool di 3’000 soggetti considerati pericolosi e monitorati nell’ambito di quelle che all’epoca erano 500 operazioni contemporanee (salite nel frattempo ad 800). Sono numeri importanti ed utili per capire l’ampiezza del fenomeno; tuttavia, non sono indicativi del rischio reale poiché i nomi entrano ed escono dalle categorie prioritarie a seconda di criteri e valutazioni variabili. In Francia nel 2018 un Gruppo di lavoro parlamentare incaricato di migliorare l’efficacia delle cosiddette Fiches S, preoccupato per la confusione e gli effetti controproducenti della focalizzazione politico-mediatica attorno a quello che è solo uno strumento di raccolta delle informazioni, ha ritenuto di dover specificare che non si tratta di un indicatore della pericolosità delle persone né, tantomeno, è destinato al monitoraggio della radicalizzazione (che nella sezione specifica, conta circa 20’000 schedature, fra le quali più di 9’000 cosiddette “attive”). A fronte quindi di cifre imprecise, un segnale più significativo del pericolo con cui ci confrontiamo può venire dalla quantità di attentati sventati: Europol ne conta 16 nel solo 2018; la Gran Bretagna 25 dal marzo 2017 (inclusi 8 attentati pianificati dall’estrema destra); mentre in Francia, dal 2013, ci sarebbero stati 60 tentativi. La volontà di colpire l’Europa persiste. Ma qual è la realtà della sfida?

DE-CIFRARE LA RADICALIZZAZIONE: UNA SFIDA COMPLESSA

La realtà della sfida non ha sempre a che vedere con le preoccupazioni dell’opinione pubblica, gli argomenti dei media o i temi della politica che, un po’ per dovere e un po’ per fini elettorali, tende a concentrarsi sugli aspetti securitari e a breve termine. A raccontare la posta in gioco è, spesso, chi si confronta a livello personale con il radicalismo oppure opera sul territorio nella prevenzione e nel contrasto. Con l’obiettivo di raccogliere indicazioni utili proprio in questo senso, a partire dal 2017 ho avviato un’inchiesta giornalistica in cinque paesi europei -Gran Bretagna, Svizzera, Francia, Olanda e Italia- confluita in parte in una serie di reportages d’approfondimento per la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana (RSI)[1]; in ogni nazione il dibattito segue traiettorie distinte e le opinioni attorno a cause e soluzioni possono variare anche di molto; tuttavia l’accostamento di voci permette di allargare l’analisi ai contesti, che gran parte delle analisi, incentrate sugli individui o le dinamiche interne di gruppo, tende a trascurare. Ma è utile ricordare come la radicalizzazione non costituisca un mondo parallelo; essa prende avvio dentro la società e in relazione con essa. Naturalmente un percorso a ritroso sulle tracce delle ‘tensioni’ che possono favorire l’estremismo implica un’ampia discussione attorno a tematiche quali il ruolo e il senso di integrazione, emarginazione sociale, identità, laicità dello Stato, politica estera- che possono sembrare aleatorie, a fronte di un pericolo reale e letale come quello del terrorismo. È fondamentale però saper fare le giuste distinzioni e non sovrapporre le questioni di intelligence o difesa, alla comprensione dei processi di radicalizzazione (partendo dal presupposto che comprendere è già prevenire).

LE PROSSIME SFIDE

Prevenzione e deradicalizzazione occupano uno spazio rilevante -come concetti e almeno nelle intenzioni- nel quadro delle varie strategie di controterrorismo e contrasto all’estremismo violento emanate gradualmente negli ultimi quindici anni da Unione Europea, Nazioni Unite e singoli paesi, tanto da aver contribuito alla nascita di un intero settore che non è stato esente da esperienze fallimentari e da polemiche. Un’analisi apparsa nella rivista specializzata Perspectives on Terrorism (2019)[2] segnala una discontinuità -nelle due direzioni- tra la ricerca accademica sulla deradicalizzazione, la formazione e la realtà degli operatori che si occupano degli interventi; è un’osservazione preoccupante di cui tenere conto, considerando le sfide che si presentano alle porte. Nell’autunno del 2019, la fragilità degli equilibri sul fronte geopolitico in Siria e in Iraq ha richiamato l’attenzione su un problema che l’Europa aveva provato a lasciare in eredità al Medio Oriente: la questione spinosa di come gestire gli jihadisti con le loro consorti più agguerrite, che dai campi di detenzione hanno lanciato strali contro l’Occidente. Al di là di tutte le difficoltà che il rimpatrio e i processi possono presentare a livello legislativo e giuridico -a cominciare dalla raccolta delle prove a carico- a destare comprensibilmente preoccupazione è soprattutto il pensiero della permanenza in un ambiente, quello carcerario, già sotto pressione per la presenza di radicalizzati interni. Senza contare l’incognita sulla modalità e il successo di un loro reinserimento in società. L’attentato del 29 novembre che ha avuto il suo tragico epilogo sul London Bridge, dove un aspirante terrorista rilasciato a metà della pena ha ucciso due volontari di un programma di reintegrazione per detenuti promosso dall’Università di Cambridge, ha prepotentemente spinto la questione in cima alla lista delle priorità. Nel corso dei prossimi anni, un numero sempre maggiore di estremisti (jihadisti) sarà libero e il timore che simpatizzanti di gruppi terroristici, ex-combattenti, reclutatori e propagandisti possano tornare attivi e agire con maggiore determinazione, è tutt’altro che infondato. Del tema si discute da tempo ma il caso di Usman Khan, che ha apparentemente ‘raggirato’ il sistema, ha portato diversi nodi al pettine e permette di mettere a fuoco alcuni argomenti importanti sui quali ragionare, non solo in Inghilterra. Al di là di aspetti prettamente giudiziari come la durata delle pene e le condizioni della libertà vigilata, a contare, nell’ottica di limitare il pericolo di recidiva o di una più profonda radicalizzazione, è la gestione di questo tipo di reato dentro l’ecosistema carcerario (che, fra gli esperti, non fa l’unanimità); la validità dei metodi di valutazione del rischio (che richiedono aggiornamenti continui); la preparazione del personale (inclusa quella dei quadri); la coerenza e continuità fra programmi di ‘recupero’ e reintegrazione prima e dopo il rilascio. Sono aree collegate, che necessitano di azioni e visioni coordinate.

LA DERADICALIZZAZIONE FRA ASPETTATIVE E REALTÀ

I fatti di Londra in particolare hanno aperto una discussione attorno all’efficacia (o meno) della cosiddetta deradicalizzazione. L’interrogativo è lecito ma le aspettative di politici, media, ricercatori e cittadini sono diverse e possono confondere la linea di dibattito. Il termine elusivo di deradicalizzazione viene da tempo sostituito dal concetto di ‘abbandono della violenza’, che non implica una rinuncia all’obiettivo ideale -cioè, che l’individuo possa sganciarsi da un’ideologia radicale; implica invece -o dovrebbe farlo- la consapevolezza di come il percorso sia graduale, di lunga durata, incerto e costellato di priorità (la sicurezza della collettività innanzitutto). Come in tutti i processi che affrontano questioni di identità sociale, le incognite e le variabili sono molte e dipendono dall’individuo stesso -dalla volontà di rivedere le proprie scelte- e dalle circostanze esterne. Nella migliore delle ipotesi, l’approccio di questi ‘programmi’ consiste nel ‘mentoring’, vale a dire la presa in consegna del soggetto, che viene seguito passo per passo da un punto di vista psicologico, teologico, ideologico, incluso un accompagnamento verso il reinserimento nella società. La complessità di un intervento di questo genere è anche organizzativa, poiché impone una collaborazione di carattere multidisciplinare e con partner di vario genere: autorità incaricate della libertà vigilata, polizia, intelligence, professionisti inquadrati in ONG e istituzioni attive nel campo. In Europa si sta ancora sperimentando e una ‘ricetta’ che si possa trasferire da una realtà all’altra non esiste, mentre la scarsità dei dati a disposizione, insieme alla mancanza di un metodo coerente e affidabile di valutazione non permettono di misurare concretamente la riuscita di iniziative che sono peraltro avvolte dalla confidenzialità; di conseguenza, poiché a venire a galla con certezza sono gli insuccessi, soprattutto in occasione di eventi terroristici, il rischio in cui si incorre è di ‘liquidare’ anni di esperienza pregressa e di studi. Per questa ragione, è importante affrontare l’argomento in modo costruttivo, prendendo in considerazione non solo le buone pratiche ma anche gli ostacoli che possono compromettere l’incisività dei vari interventi; un esercizio utile soprattutto per quei paesi che, ancora poco toccati dal fenomeno, hanno la possibilità di evitare passi falsi. Una delle principali difficoltà consiste nella scelta di mentori/practitioners preparati e credibili sia agli occhi del ‘sistema’ che dei loro ‘assistiti’; le due cose non coincidono necessariamente, in parte anche a causa dei limiti imposti dalla collaborazione con il governo e le sue istituzioni. Il problema si può riscontrare anche nel settore della prevenzione. In ragione di questa dimensione politica, è fondamentale riflettere con attenzione sui criteri di selezione, che oltre agli obiettivi strategici dovrebbero tenere conto anche alla realtà che si deve affrontare sul territorio. Sottovalutare questo aspetto -che ha la profondità di un dilemma- può avere delle ripercussioni negative sui progetti e sui fondi, che sono essenziali per la riuscita e la sostenibilità di un settore in evoluzione, che richiede un impegno a lungo termine.

Deradicalizzazione e prevenzione sono campi dove sarà necessario investire in modo oculato, facendo in modo che le misure di sicurezza a corto termine siano allineate con gli obiettivi a lungo termine, cioè il contenimento del fenomeno -parlare di sconfiggere il terrorismo non è realistico ma impegnarsi per combatterne le cause e la diffusione sì-. Non esistono soluzioni su misura né garanzie di successo ma sarebbe utile, oggi, guardare in modo costruttivo a pratiche e tentativi -anche fallimentari- dei paesi con maggiore esperienza nel settore, sia in materia di regime di detenzione che di deradicalizzazione. Con tutti questi aspetti dovranno confrontarsi non i singoli partiti ma l’intera classe politica. Recentemente il Vice-commissario dell’anti-terrorismo inglese Neil Basu, chiedendo la collaborazione di “bravi” ricercatori, criminologi e sociologhi, ha dichiarato che nella battaglia contro l’estremismo violento l’approccio securitario (polizia e servizi di sicurezza) non è più sufficiente. È essenziale che questo dialogo avvenga anche a livello istituzionale, in modo che la politica possa preparare un terreno legislativo proficuo per la messa in atto delle iniziative necessarie ad affrontare i problemi sul terreno e spiegare l’importanza e i risvolti di questo impegno all’opinione pubblica in modo chiaro, competente e convincente.

[1] https://www.osservatorioreact.it/indagine-radicalismo-europa/

[2] Koehler, D. e Fiebig, V. Knowing What to Do: Academic and Practitioner Understanding of How to Counter Violent Radicalization, Perspectives on Terrorism, Volume 13, Issue 3, June 2019


#ReaCT2020 – Case study: L’aspirante ideologo italiano dello Stato islamico (C. Bertolotti)

di Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

Scarica #ReaCT2020, il 1° rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa

Associazione a delinquere al fine del raggiungimento degli obiettivi dello Stato islamico (…), ai fini dell’eversione dell’ordinamento costituzionale democratico.

Con queste parole il Pubblico Ministero Emilio Gatti aveva chiesto la condanna per Elmahdi Halili, il giovane jihadista marocchino naturalizzato italiano, condannato a 6 anni e 6 mesi di reclusione per terrorismo – apologia e istigazione a commettere un attentato -, difeso dall’avvocato Enrico Bucci (in sostituzione di Wilmer Perga): il giovane marocchino naturalizzato italiano è colpevole, lo ha stabilito il tribunale di Torino il 28 giugno, dopo un processo andato avanti mesi, tra rinvii e cambi di avvocato difensore.

Chi è Halili, il terrorista torinese? 23 anni al momento dell’arresto avvenuto nel marzo del 2018, è un personaggio noto agli investigatori dell’Antiterrorismo della Digos; il suo nome compare nella maggior parte dei processi per jihadismo celebrati in Italia: quello a Fatima Sergio, la prima foreign fighter italiana, di origini campane, condannata a nove anni e probabilmente morta in Siria tra le fila del Califfato; e ancora, è protagonista di un’altra vicenda legata al terrorismo internazionale che lega l’Italia alla Svizzera: il caso di Abderrahim Moutaharrik, l’ex campione di kickboxing (di origini marocchine) residente in Lombardia ma che si allenava nel Luganese, poi condannato a sei anni per terrorismo.

Un elemento chiave per comprendere lo jihadismo italiano legato al fenomeno dello Stato islamico

Halili – già in precedenza indagato e poi condannato, previo patteggiamento, a due anni di reclusione con sospensione condizionale della stessa per istigazione a delinquere con finalità di terrorismo per aver redatto e pubblicato via web alcuni importanti documenti a favore dello Stato Islamico – rappresenta un elemento chiave per comprendere lo jihadismo italiano legato al fenomeno dello Stato islamico.

Halili non è stato un combattente, non ha avuto ambizioni operative, né ha manifestato l’interesse ad immolarsi come soldato nel nome del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Halili è stato molto di più: nelle sue intenzioni lui si è imposto, in parte riuscendoci, come ideologo dello Stato islamico in Italia: esaltando le virtù del movimento terrorista, impegnandosi per l’imposizione della shari’a (la legge coranica) in Italia, incitando soggetti conosciuti prima sul web – e poi incontrati di persona – ad agire, a colpire nel nome dell’Islam, giustificando qualunque tipo di violenza nei confronti degli infedeli, degli apostati, ma anche dei musulmani che si sono lasciati corrompere dalla “religione della democrazia”.

Il suo è stato un lavoro intellettuale molto articolato, sapientemente ricostruito dagli operatori della Digos di Torino il cui lavoro è stato fondamentale per il Pubblico Ministero Emilio Gatti, che in sede di dibattimento ha chiesto la condanna a cinque anni per Halili raccomandando la necessità di farlo partecipare a un corso di de-radicalizzazione. Difficile dire quali potranno essere gli sviluppi di tale processo di de-radicalizzazione: va ricordato come in Italia non esista un percorso articolato e strutturato, anche a causa del fatto che il progetto di legge che lo avrebbe istituito (promosso da Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli) dopo essere stato approvato alla Camera, si è fermato al Senato nella precedente legislatura.

Qualsiasi cittadino non musulmano che fa parte della coalizione che bombarda lo Stato islamico è un obiettivo militare per noi

Il lavoro di Halili in questi anni, come hanno ben ricostruito gli inquirenti, si è concentrato sull’ideologia jihadista, sulla sua giustificazione religiosa e, cosa più importante, sullo sviluppo di un manuale teologico per gli aspiranti jihadisti italiani. È il ”quaderno rosso” di Halili: un elaborato di 64 pagine, meticolosamente compilato ed estremamente ordinato che, in maniera efficace, sintetica e analitica, ripropone i concetti tratti dalle lezioni dei “predicatori dell’odio” reperite sul web, e da cui sono stati sviluppati i suoi successivi scritti poi condivisi dalla rete jihadista che ne ha fatto un documento di riferimento. Nel suo “quaderno rosso” Halili ha riportato la sua interpretazione del “dovere di uccidere” anche attraverso gli attacchi terroristici, che lui riconosce come “legittimi atti di guerra”: “qualsiasi cittadino non musulmano che fa parte della coalizione che bombarda lo Stato islamico è un obiettivo militare per noi” – dice Halili nel suo scritto. E ancora, sempre nel quaderno, Halili parla di Islam come elemento politico, e dunque guerra, che deve contrapporsi alla democrazia e sottometterla.

L’analisi del caso Halili mette in evidenza la sua estrema intelligenza e capacità di reclutamento e indottrinamento: è bravo a scrivere, bravo a parlare, convincente e determinato. La sua ambizione personale, oltre al suo contributo nella realizzazione del Califfato globale, è stata quella di crearsi una nuova identità, quella di ideologo e veicolo “critico” del messaggio dello Stato islamico. Una sorta di imam, capo spirituale. Ma è il suo approccio che ne ha dimostrato le indiscusse capacità: “lobbistico”, improntato a “fare rete”, allagare l’uditorio e i soggetti con cui interfacciarsi e dialogare. Un atteggiamento che si colloca sul piano dell’apologia di shari’a che tende alla radicalizzazione violenta. È indubbiamente un islamista, ha contatti radicali e accede a contenuti ideologici radicali che rielabora e diffonde: ma è l’ideologia della shari’a. E questo conferma le preoccupazioni nei confronti di quell’islam politico che dell’applicazione della legge coranica fa la sua battaglia.

Un’analisi, quella degli inquirenti, che si accompagna alle evidenze di anni di indagini da cui emergono le idee, le intenzioni e le azioni di un Halili che si radicalizza sempre di più, attraverso il web, a da qui ai contatti, prima virtuali e poi fisici con i suoi interlocutori, a loro volta nel mirino di altre procure che indagano sul terrorismo jihadista in Italia. Il giovane jihadista marocchino aumenta sempre più, con il passare del tempo, le ore dedicate allo “studio” del jihad, all’analisi dei testi dello Stato islamico, arrivando a trascorrere anche due ore al giorno leggendo il giornale Dabiq e Amaq, organi di informazione del gruppo in Siria e Iraq. Trascorre ore e ore lasciandosi ipnotizzare da video e audio jihadisti che lo alienano e lo motivano sempre più.

Si allontana dalla famiglia, arrivando a picchiare il padre, accusandolo di essere un apostata; effettua donazioni di soldi ad organizzazioni jihadiste, attraverso la pagina Facebook “musulmani d’Italia”. Fino ad allargare la sua rete virtuale al di la dei confini nazionali, arrivando direttamente alla linea del fronte siriano dove è stato in contatto, tra gli altri, con uno jihadista combattente, Omar al-Amriki, con cui dialoga a lungo e raccoglie, diffondendole successivamente, le informazioni dal campo di battaglia e sulle truppe che combattono. È con Omar al-Amriki che Halili si accredita, presentandosi come l’autore del documento-guida tradotto in italiano: un’autodenuncia che ha rappresentato per l’accusa un elemento forte per confermare il capo di imputazione e definire nel dettaglio il ruolo di Halili a supporto dello Stato islamico.

Il 28 giugno 2019 viene così condannato a sei anni e sei mesi di detenzione per terrorismo, Elmahdi Halili, lo jihadista di Lanzo torinese, l’aspirante ideologo dello Stato islamico in Italia; una condanna che conferma ancora una volta la concretezza della minaccia jihadista dello Stato islamico, non solamente nella sua essenza territoriale e fisica, ma ancora più pericolosamente su un piano ideologico e religioso che continua ad auto-alimentarsi e ad adattarsi alle misure di contrasto.