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#ReaCT2020: è online il rapporto sul Radicalismo e il Terrorismo in Europa

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Claudio Bertolotti, Direttore START Insight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

La fine territoriale dello Stato islamico ha portato il movimento a reinterpretare la propria natura originale, basata su un approccio insurrezionale clandestino (principalmente nelle aree sunnite in Iraq) a cui si sono affiancate due linee d’azione: da un lato la delocalizzazione e i franchise in Afghanistan, Libia e in Africa i cui attori principali sono i gruppi locali a cui si sono uniti i reduci fuggiti dal fronte siriano; dall’altro lato l’espansione all’interno dell’arena globale, inclusa l’Europa, in cui le azioni sono lasciate all’iniziativa individuale e delle cellule.

 

Il rapporto #ReaCT2020 pone la sua attenzione sull’evoluzione del fenomeno terroristico, analizzandone le manifestazioni violente degli attacchi e gli eventi associabili al jihadismo individuale

LA SITUAZIONE IN EUROPA

Sebbene gli attacchi diretti ed effettivamente collegati allo Stato islamico abbiano meno probabilità di verificarsi nei Paesi europei dove la sicurezza è stata significativamente rafforzata, gli attacchi emulativi ispirati allo Stato islamico rappresentano una minaccia potenzialmente in crescita. Usando la sofisticata ed efficace propaganda, gli jihadisti si rivolgono direttamente ai potenziali “combattenti” del jihad incitandoli ad agire nel paese di residenza. È un quadro in cui il terrorismo nostrano definisce una tendenza alla violenza particolarmente preoccupante e in cui la minaccia futura dipende da come l’uditorio seguirà gli appelli del “Califfato” ad aderire alla “guerra di logoramento” contro le nazioni “crociate”. A tale fattore si inserisce la volontà di al-Qa’ida di riconquistare quel terreno perso negli anni dello Stato islamico territoriale; una volontà che potrà manifestarsi attraverso la condotta di azioni spettacolari ed eclatanti, dal forte impatto mediatico e comunicativo.

Nel complesso i Paesi europei affrontano una minaccia terroristica concreta a causa dell’alto numero di foreign terrorist fighters, della presenza di reti jihadiste sviluppate e della vicinanza geografica alle zone di guerra.

#ReaCT2020: IL RAPPORTO

Il terrorismo jihadista che accompagna la nostra epoca è la manifestazione violenta di una crescente radicalizzazione religiosa che coinvolge una parte, marginale, della società musulmana. Ma si tratta di un fenomeno sociale consolidato, in Europa, come nelle altre aree geografiche del Medioriente, del Nord Africa, del Sud-est asiatico e dell’Asia.

L’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo – ReaCT, monitora ed analizza costantemente il panorama del terrorismo jihadista europeo e, attraverso il primo rapporto sul fenomeno del terrorismo in Europa, intende offrire al pubblico uno studio sintetico sull’evoluzione e sugli effetti del fenomeno terroristico di matrice jihadista e della violenza in nome dell’Islam, attraverso un approccio quantitativo e qualitativo; in particolare quello quantitativo approfondisce aspetti quali la tipologia di attacco, le tecniche utilizzate, le armi, gli effetti diretti e indiretti, così come i risultati effettivi ottenuti.

Il rapporto #ReaCT2020 pone la sua attenzione sull’evoluzione del fenomeno terroristico, analizzandone le manifestazioni violente degli attacchi e gli eventi associabili al jihadismo individuale ma non direttamente rientranti nella categoria di terrorismo tout court; e ancora, osserva i dati dei potenziali indicatori di rischio associabili al fenomeno della radicalizzazione jihadista. Il risultato è una “lettura” più completa e ragionata del modus operandi dei terroristi e i risultati da questi ottenuti in Europa attraverso gli attacchi e le azioni violente.

L’obiettivo che ci siamo posti è definire il trend del fenomeno e delle sue manifestazioni; al tempo stesso, l’Osservatorio intende promuovere una ricerca più approfondita su possibili denominatori comuni presenti negli episodi europei di violenza jihadista, così da realizzare uno strumento utile da condividere con gli operatori per la sicurezza, sociali e istituzionali.

Il Rapporto si compone di 11 contributi di analisi e valutazione e un case study relativo a un soggetto condannato per terrorismo in Italia. Partendo dai numeri ed i risultati del “Nuovo Terrorismo Insurrezionale”, anche alla luce dell’uccisione di Al Baghdadi, si analizza la metodologia di comunicazione dello Stato islamico con uno specifico focus su quelli che sono gli strumenti virtuali del cosiddetto cyber-terrorism e della “guerra dell’informazione”.

Tenendo conto dell’evoluzione tecnologica offerta dal mercato e disponibile al terrorismo contemporaneo, si è voluto inoltre approfondire il pericolo potenziale, quale sfida del futuro, dell’intelligenza artificiale e robot (droni e non solo).

Si è poi voluto porre attenzione al fenomeno del terrorismo di “estrema destra” fra rischio attuale e minaccia futura, evidenziandone alcuni aspetti in comune con il terrorismo jihadista.

Sul piano sociale, e in una duplice ottica preventiva e predittiva, #ReaCT2020 offre una lettura dei processi di radicalizzazione violenta e avvia un’analisi critica sui tentativi di de-radicalizzazione e di induzione alla rinuncia della violenza da parte delle istituzioni.

Inoltre #ReaCT2020 fa il punto sulla prevenzione del
finanziamento al terrorismo tra interventi comunitari e panorama normativo nazionale.

In tale quadro evolutivo, alla luce degli eventi e degli sviluppi quasi quotidiani che il terrorismo contemporaneo riesce ad imporre nel panorama della violenza globale, #ReaCT2020 propone una riflessione sulla definizione della minaccia, invitando accademici, operatori della sicurezza e decisori politici a ripensare il concetto stesso di terrorismo per combattere un nemico che perdura.

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Scarica i singoli articoli del 1° rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa

Claudio Bertolotti, Una fotografia del terrorismo in Europa

Claudio Bertolotti, Numeri e risultati del “Nuovo Terrorismo Insurrezionale” in Europa: dal califfato al post-Stato islamico

Matteo Bressan, L’evoluzione della minaccia terroristica alla luce dell’uccisione di Al Baghdadi

Chiara Sulmoni, Radicalizzazione e de-radicalizzazione. Piste d’indagine

Francesco Pettinari, Radicalizzazione jihadista: il “tempo di attivazione” dei radicalizzati

Giusy Criscuolo, La comunicazione dello Stato islamico

Deborah Basileo, Tra cyber-terrorism e guerra dell’informazione: scarsa consapevolezza e limiti normativi

Valentina Ciappina, Videogiochi e cyber-jihad: dimensioni ed effetti

Ginevra Fontana, Il terrorismo 2.0: tra droni e nuove tecnologie

Barbara Lucini, Estrema destra fra rischio attuale e minaccia futura

Annalisa Triggiano, La prevenzione del finanziamento al terrorismo tra interventi comunitari e panorama normativo nazionale

Marco Lombardi, Ripensare il terrorismo per combattere un nemico che perdura

Claudio Bertolotti, L’aspirante ideologo dello Stato islamico (Case study)

 


#ReaCT2020: Una fotografia del terrorismo in Europa

di Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

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Alla fine di giugno del 2019, in ottemperanza alla misura cautelare in carcere emessa dal Gip di Brescia per il reato di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo, la Polizia di Brescia, coordinata dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione e con il supporto dell’Fbi statunitense, ha arrestato il foreign terrorist fighters Samir Bougana: un 25enne italo marocchino che nel 2013, partendo dalla Germania per la Siria, è accusato di essersi unito prima alle milizie associate ad al-Qa’ida e poi allo Stato Islamico. Bougana era stato catturato dalle milizie curde in Siria il 27 agosto 2018.

Un caso, tra i tanti, che mantiene i riflettori accesi sulla minaccia del terrorismo jihadista associato allo Stato islamico, a conferma della strategia post-territoriale di ciò che fu l’Isis. Ora le cellule nascoste, i singoli “combattenti”, l’effetto emulativo, l’aumento della propaganda e il reclutamento in tutto il mondo, sono le principali armi su cui il gruppo terrorista sta concentrando gli sforzi, nonostante la morte del suo leader carismatico conosciuto come il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi (al tempo Ibrāhīm ʿAwed Ibrāhīm ʿAlī al-Badrī al-Sāmarrāʾī) ucciso dalle forze speciali statunitensi in Siria, nel governatorato di Idlib,  il 26 ottobre 2019.

Il terrorismo di matrice jihadista, da solo responsabile del 96% delle morti per terrorismo in Europa, come dimostrato dagli attacchi di Utrecht, Londra e Lione, che hanno portato alla morte di dieci persone

Degli oltre 5mila foreign terrorist fighters “europei” partiti per combattere in Medio Oriente (di cui il 14 percento donne), mille sarebbero caduti in Siria e Iraq. Almeno un terzo è sopravvissuto; un altro terzo sarebbe tornato nel proprio Paese, altri 2500 avrebbero trovato rifugio in Paesi terzi unendosi ai gruppi jihadisti locali (dall’Afghanistan alla Libia, dall’Africa all’Asia centrale). Circa 800 al momento sono detenuti nelle carceri curde in Iraq: molte le donne e i bambini. Una condizione di “prigionia” che ha sollevato ampi e legittimi dibattiti in Europa e negli Stati Uniti sull’opportunità di limitare loro la possibilità di rientro nei Paesi di origine, a cui ha fatto seguito la decisione di molti Paesi europei di togliere loro la nazionalità così da non permetterne il ritorno.

Un problema di sicurezza collettiva che, seppur limitato nei numeri e interessante principalmente quattro paesi (Francia, Regno Unito, Germania e Belgio da cui sono partiti circa 3mila e 700 dei 5000 combattenti), si muove su due binari paralleli che hanno portato al bipolarismo dello jihadismo globale, diviso tra due principali attori in competizione: da un lato al-Qa’ida, dall’altro l’evoluzione dello Stato islamico.

Le reti jihadiste ispirate ad al-Qa’ida hanno costituito la base dell’emigrazione jihadista dall’Europa alla Siria e all’Iraq sino a tutto il 2015: le reti europee collegate al movimento Sharia4 hanno rappresentato il punto di riferimento per i gruppi radicali europei impegnati nell’inviare combattenti e supporto finanziario in Siria e Iraq. L’ascesa al potere dello Stato islamico a partire dalla fine del 2014, è poi riuscita a far (temporaneamente) eclissare al-Qa’ida dal panorama jihadista, almeno quello comunicativo.

Ma se lo Stato islamico ha perso, insieme alla sua natura territoriale, anche parte della spinta mediatica e comunicativa, la maggior parte dei social network e dei leader di al-Qa’ida in Europa è riuscita a sopravvivere allo Stato islamico, dando inizio alla nuova battaglia per “i cuori e le menti”, che è appena all’inizio.

I principali modelli organizzativi dell’attività del terrorismo islamista – in termini di struttura, reclutamento e formazione – non sono dunque cambiati in modo significativo, ma si sono evoluti in maniera efficace.

L’evoluzione del terrorismo di matrice jihadista in Europa si inserisce all’interno di un più ampio fenomeno sociale di natura ideologica, politica e religiosa, che continua a colpire i cittadini europei, provocando vittime e danni rilevanti, sia sul piano sociale che economico. Un calcolo, quello degli effetti del terrorismo, che deve tenere in considerazione l’entità dei fenomeni terroristici, certamente limitati in rapporto alla popolazione europea, ma che sono in grado di provocare rilevanti ripercussioni in termini di sicurezza, reale e percepita, tali da influire sulle politiche e sulle strategie di sicurezza nazionale e internazionale, così come sui processi elettorali.

L’analisi dei numeri relativi agli eventi terroristici avvenuti un Europa è uno strumento essenziale per riuscire a definire un fenomeno le cui manifestazioni di violenza hanno il potere di influire in maniera significativa, e spesso distorta, sulla percezione dell’opinione pubblica a cui contribuisce in parte il ruolo dei media tradizionali e, in particolare, dei social-network.

L’evoluzione del terrorismo jihadista si inserisce all’interno di un più ampio fenomeno sociale di natura ideologica, politica e religiosa, che provoca vittime e danni rilevanti, sia sul piano sociale che economico.

Nello specifico, è bene evidenziare come, pur a fronte di una particolare attenzione mediatica nei confronti del “terrorismo jihadista” e di quello cosiddetto di “estrema destra”, queste due manifestazioni rappresentano solamente una minima parte degli eventi violenti registrati all’interno dei Paesi europei: i dati del 2018 ci mostrano che la minaccia più significativa in termini di azioni violente è rappresentata dal terrorismo etno-nazionalista, con 84 casi registrati in Europa; seguono gli attacchi terroristi di matrice jihadista – 24 azioni, che hanno provocato 13 morti; al terzo posto gli attacchi terroristici perpetrati da gruppi di estrema sinistra e anarco-insurrezionalisti – per un totale di 19 eventi, di cui 13 in Italia; all’ultimo posto gli attacchi terroristici attribuiti all’estrema destra, con un singolo evento.

Numeri che, nel complesso, indicano una flessione nell’intensità della violenza terrorista in termini assoluti rispetto agli anni precedenti, sebbene in maniera differente in base all’ideologia di riferimento e a giustificazione degli atti di violenza. Nel panorama europeo si impone la sostanziale scarsa rilevanza degli attacchi di fatto portati a compimento da gruppi di estrema destra, storicamente marginali nelle statistiche del terrorismo in Europa: un solo evento nel 2018, a fronte dei cinque registrati nel 2017. Diminuiscono anche gli attacchi terroristici dell’estrema sinistra e dei gruppi anarco-insurrezionalisti: 19 eventi nel 2018 rispetto ai 24 del 2017.

Le azioni maggiormente rilevanti rimangono quelle riconducibili ai gruppi etno-nazionalisti: 84 contro le 137 del 2017; sebbene quelle più pericolose in termini di danni e vittime rimangano le azioni terroristiche associate allo jihadismo: 24 eventi nel 2018 contro i 33 del 2017.

Il Regno Unito è il paese più interessato dalle azioni violente del terrorismo indipendentista, in particolare da parte dei Dissident Republican (seguito da Francia e Spagna – Euskadi ta Askatasuna e Resistencia Galega); la Francia è invece il Paese nel mirino del terrorismo jihadista, seguita dal Regno Unito.

L’Italia, nella graduatoria europea, è il Paese più colpito da attacchi di estrema sinistra: il 70 percento  di tutti gli attacchi in Europa. Nel nostro Paese, questi gruppi terroristici hanno confermato la propria volontà violenta, l’intensità e il modus operandi rilevati negli ultimi cinque anni. La Federazione Anarchica Informale / Fronte Rivoluzionario Internazionale (FAI/FRI) è considerato il gruppo più pericoloso. È tristemente noto per le sue campagne contro bersagli italiani e stranieri, attraverso l’impiego di IED (ordigni esplosivi improvvisati) o pacchi bomba. Altri gruppi terroristici anarchici hanno preso di mira obiettivi fisici, quali sedi di partiti, e gruppi di estrema destra.

Una fotografia della violenza che descrive come il terrorismo continui a costituire una grave minaccia per la sicurezza degli Stati europei. In tale quadro si impone, anche nel 2019, il terrorismo di matrice jihadista – da solo responsabile del 96 percento delle morti per terrorismo in Europa – come dimostrato dagli attacchi di Utrecht, Londra e Lione: un‘evoluzione della forma di violenza terroristica che tende a imporsi sempre più come un mezzo di confronto e competizione politica. I terroristi si impongono come soggetti che non solo mirano a uccidere e ferire, ma anche a dividere le nostre società e diffondere odio e intolleranza.

Terrorismo jihadista e violenza di matrice islamista

Nel 2019 sono stati portati a termine 17 attacchi terroristici ed episodi di violenza di matrice jihadista: 9 in Francia, 2 in Italia, 2 nei Paesi Bassi, 2 in Norvegia, 1 in Svezia e 1 nel Regno Unito. Un totale di 10 persone sono state uccise e 46 feriti in attacchi jihadisti nel 2019: le vittime includono 8 agenti di polizia, tre dei quali sono rimasti uccisi. Francia, Paesi Bassi e Regno Unito sono stati colpiti da azioni a più elevata intensità di violenza.

La maggior parte delle azioni è stata portata a compimento attraverso l’utilizzo di coltelli (76 percento) e armi da fuoco (18 percento); solamente in un caso (Lione, 24 maggio 2019) è stato fatto uso di esplosivi.

Gli attaccanti che hanno colpito nel 2019 sono tutti di sesso maschile, con un’età mediana di 32 anni; superiore a quella del periodo 2014-2019 che è di 27 anni.

Il 70 percento dei terroristi europei sono nati negli anni Ottanta e Novanta, dunque relativamente giovani, sebbene un 20 percento sia costituito da soggetti nati prima del 1980.

Jihadisti europei

Il 70 percento dei terroristi europei sono nati negli anni Ottanta e Novanta, dunque relativamente giovani, sebbene un 20 percento sia costituito da soggetti nati prima del 1980: un elemento interessante poiché pone in evidenza la presenza di una quota importante di uomini di “mezza età” al fianco della massa più giovane.

Le donne hanno svolto e svolgono un ruolo molto più attivo di quanto non sia stato posto in evidenza, e rappresentano una minaccia crescente; delle circa 650 partite dall’Europa per il fronte siriano e iracheno, 21 hanno fatto rientro in Belgio e 28 in Francia.

I bambini al di sotto dei dieci anni rappresentano un problema estremamente serio e una potenziale minaccia alla sicurezza europea per il futuro. Delle centinaia di bambini che avrebbero lasciato l’Europa, 16 sono rientrati in Belgio e 68 in Francia; gli altri sono detenuti in Iraq e Siria, altri trasferiti in paesi terzi con almeno uno dei genitori, ma della maggior parte non si sa nulla.

Se da un lato i convertiti radicalizzati pongono seri problemi in termini securitari, ma anche culturali e sociali, va posta una particolare attenzione alle carceri che continuano a svolgere un ruolo importante sia nell’attivazione che nel rafforzamento del processo di radicalizzazione.

L’origine etnica e geografica dei terroristi jihadisti si impone come importante elemento e strumento di analisi e nel monitoraggio delle reti e delle cellule jihadiste. I gruppi principalmente afflitti dall’adesione al modello jihadista sono quelli marocchini (in Belgio, Spagna e Italia), algerini (in Francia), turchi (in Germania e Paesi Bassi).

Infine, una considerazione sulla questione che si concentra sul possibile collegamento tra immigrati e terrorismo: dal gennaio 2014, 44 rifugiati o richiedenti asilo sono stati coinvolti in 32 complotti jihadisti in Europa. Sebbene la maggior parte di questi soggetti si sia radicalizzata prima dell’ingresso in uno dei Paesi europei, tuttavia i processi di radicalizzazione avviati dopo l’arrivo in Europa sono divenuti più comuni a partire dall’autunno del 2016. Nel complesso, il periodo di latenza tra l’arrivo in Europa e la partecipazione a un’azione terrorista in genere associata allo Stato islamico (di successo o sventata) è di 26 mesi.

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#ReaCT2020 – Numeri e risultati del “Nuovo Terrorismo Insurrezionale” in Europa: dal califfato al post-Stato islamico (C. Bertolotti)

di C. Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

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Il terrorismo di matrice jihadista che accompagna la nostra generazione è la manifestazione violenta di una crescente radicalizzazione religiosa che coinvolge una parte, marginale, della società musulmana: un fenomeno sociale consolidato. Ma il terrorismo non è il problema, bensì è la manifestazione violenta di un problema oggettivo che è la diffusione dell’ideologia jihadista; un’ideologia che si muove su un piano comunicativo efficace e che coinvolge un numero importante di soggetti che possono rappresentare una minaccia seria e concreta alla sicurezza: l’ideologia jihadista alimenta il fenomeno della radicalizzazione.

La dimensione europea del nuovo terrorismo (2014-2019)

Degli 895 attacchi terroristici, di successo, falliti e sventati, registrati nell’Unione Europea dal 2014 al 2017, il 67 percento sono riconducibili a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 12 percento a movimenti della sinistra radicale, il 3 percento a gruppi appartenenti alla destra militante: solamente il 16 percento sono azioni di matrice jihadista. Una percentuale, riferita alla violenza jihadista, che aumenta nel 2018 attestandosi al 19 percento su 129 attacchi. Ma sebbene gli atti riconducibili allo jihadismo siano una parte marginale del totale, sono però causa del 96 percento delle morti complessive.

E se nel solo 2017 Europol ha registrato 205 tra attacchi di successo, sventati o fallimentari, 45 sono quelli di natura jihadista (22 di successo, 3 fallimentari e 20 sventati). Nel 2018 gli attacchi complessivi scendono a 129; di questi, sempre secondo Europol, 24 sono di natura jihadista di cui 7 di successo. Un dato al ribasso rispetto a quanto registrato dal database START InSight, che conferma la condotta di 27 azioni terroristiche portate a termine. I numeri complessivi degli attacchi di successo, sventati o falliti erano di 142 nel 2016, 193 nel 2015 e 226 nel 2014.

Nel 2018, tutte le vittime di terrorismo sono il risultato di attacchi jihadisti: 14 morti e 67 feriti in attacchi jihadisti secondo START InSight.

Secondo Europol si tratterebbe di una riduzione considerevole rispetto al 2017, quando dieci attacchi provocarono la morte di 62 persone, sebbene la lettura più approfondita degli episodi di violenza jihadista attraverso il database di START InSight riporti un dato pari a 25 azioni, per un totale di 63 morti e 843 feriti. Nel 2018, gli Stati membri dell’UE hanno segnalato 16 tentativi di azioni terroristiche contrastate, un fatto che indica sia una dimostrazione dell’efficacia degli sforzi antiterrorismo, sia una continua attività terroristica confermata dai 17 episodi del 2019 (START InSight).

Nel 2019 sono stati portati a termine 17 attacchi terroristici ed episodi di violenza di matrice islamista in Europa: 9 in Francia, 2 in Italia (Torino – 21.04.2019, e Milano – 17.09.2019), 2 nei Paesi Bassi, 2 in Norvegia, 1 in Svezia e 1 nel Regno Unito. 10 persone sono state uccise e 46 ferite in attacchi jihadisti: le vittime includono 8 agenti di polizia, tre dei quali sono rimasti uccisi.

I numeri europei del terrorismo jihadista

Dei 149 attacchi terroristici di matrice jihadista in Europa dal 2004 al 2019, sette su dieci si concentrano nel periodo di massima espansione dello Stato islamico (2015-2017). Parallelamente a un aumento delle azioni terroristiche, diminuiscono la qualità tecnica degli attacchi condotti, la preparazione e la sofisticazione degli equipaggiamenti utilizzati. Le vittime sono in prevalenza civili: gli obiettivi intenzionalmente attaccati dai terroristi sono stati nel 45 percento obiettivi civili e nel 41 percento dei casi forze armate o di polizia.

È l’evoluzione di un fenomeno che trova conferma nel trend degli arresti, avvenuti in diciotto paesi dell’Unione europea, di soggetti radicalizzati e coinvolti nella pianificazione o nella condotta di azioni terroristiche: 216 arresti nel 2013, 395 nel 2014, 687 nel 2015, 718 nel 2016, 705 nel 2017 (di cui 373 nella sola Francia) e 511 nel 2018 (273 in Francia). Nel 2017 la maggior parte degli arresti (354) ha coinvolto soggetti sospettati di essere parte di un’organizzazione terroristica di matrice jihadista; altri soggetti invece perché sospettati di pianificare (120) o preparare (112) un attacco. Situazione analoga a quella del 2018 dove gli arrestati con la stessa motivazione sono più della metà del totale; arresti avvenuti principalmente in Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania e Italia.

Le 121 azioni portate a termine in Europa, dal 2014 a al 2019, hanno visto la partecipazione di 161 terroristi (dei quali 57 sono deceduti), che hanno provocato la morte di 390 persone e il ferimento di altre 2359.

Tecniche e tattiche di attacco: evoluzione e adattamento. Dagli attacchi strutturati a quelli improvvisati

L’85 percento degli attacchi registrati nel periodo 2014-2019 è stato portato a termine da singoli attentatori, il 15 percento da commando suicidi o “team raid”; i commando suicidi rappresentano il 2 percento degli attacchi totali. Nel 63 percento dei casi è stato fatto uso di armi bianche, nel 28 percento armi da fuoco da guerra ed esplosivi; nel 16 percento sono stati impiegati, quale arma principale, i “veicoli-ariete” contro i pedoni – obiettivi estremamente vulnerabili (soft target) – all’interno di aree ad alta concentrazione di popolazione.

8 giorni per colpire: l’effetto emulativo e improvvisato dei self-starter

In Europa è emerso sempre più il ruolo dinamizzante di azioni “autonome” e “ispirate”, dove la capacità attrattiva ed emulativa degli attacchi organizzati e strutturati, ad alta intensità e ad alto impatto mediatico, ha spinto individui non direttamente riconducibili all’organizzazione Stato islamico a commettere azioni violente ma con un livello di preparazione minimale, dai risultati tattici non rilevanti, ma in grado di ottenere un’elevata attenzione mass-mediatica.

Gli attacchi a bassa intensità, a connotazione “autonoma” e improvvisata, si sono concentrati negli 8 giorni successivi ai grandi eventi, a media e alta intensità, che hanno ottenuto un’ampia, spesso eccessiva, eco mediatica. È l’effetto emulativo, conseguenza di una reazione emotiva che si auto-alimenta.

Tali attacchi emulativi, che compaiono a partire dal 2015, sono il 24 percento del totale (nel periodo 2015/2019). Un dato interessante che evidenzia la capacità attrattiva e la funzione di “innesco”, in particolare nel Regno Unito, dove gli attacchi emulativi sono il 41,5 percento (quasi il 10 per cento del totale europeo), in Germania (26,6 percento) e in Francia (23 percento).

Risultati: successo o fallimento?

L’analisi del fenomeno si sviluppa attraverso la lettura dei tre livelli strategico, operativo e tattico.

Il 19 percento delle azioni che hanno colpito i paesi europei, ha ottenuto un successo a livello strategico: blocco temporaneo del traffico aereo, mobilitazione di grandi unità militari, revisione delle procedure di sicurezza, mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, ecc. L’andamento nel corso degli anni è stato discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione di capacità ed efficacia: 75 percento nel 2014, 42 percento nel 2015, 17 percento nel 2016, 28 percento nel 2017, 4 percento nel 2018 e 6 percento nel 2019.

Il 34 percento delle azioni ha ottenuto un successo a livello tattico: un andamento complessivo che, passando dal 33 percento di successo e un raddoppio degli attacchi fallimentari (42 percento) nel 2018 ci consegna un dato ulteriormente al ribasso del 25 percento di successo nel 2019; un quadro che viene letto come il duplice effetto della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’accresciuta reattività delle forze di sicurezza dei paesi europei.

Il 78 percento degli attacchi ottiene un successo a livello operativo: è questo il dato più interessante perché a fronte di azioni apparentemente di scarso rilievo mediatico o in termini di vittime prodotte, mostra una capacità confermata nel tempo di limitare o condizionare le normali attività quotidiane degli apparati pubblici, o di mobilità urbana, o movimento a danno delle comunità colpite. Qui si introduce il concetto di “blocco funzionale”.

Il “blocco funzionale” a livello operativo

Il “blocco funzionale” è il più importante dei risultati ottenuti dai terroristi sul moderno campo di battaglia europeo. All’interno di questa categoria sono inseriti tutti quegli eventi che hanno influito in maniera significativa sul livello operativo delle forze di sicurezza, sulla limitazione delle normali attività quotidiane degli apparati pubblici, o di mobilità urbana. I risultati sono tangibili e, a livello operativo, gli attacchi hanno ottenuto dal 2004 a oggi, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 74 percento dei casi (84 percento nel 2017, 81 percento nel 2016, 83 percento nel 2015, 75 percento nel 2014) per attestarsi al 70 percento nel 2018 e al 75 percento nel 2019. Un risultato impressionante considerando le limitate risorse messe in campo dai gruppi, o dai singoli terroristi.

 


#ReaCT2020 – Radicalizzazione e deradicalizzazione. Piste d’indagine (C. Sulmoni)

di Chiara Sulmoni, START InSight – Lugano

A quasi venti anni dai primi segnali dell’evoluzione di una scena jihadista tipicamente europea, i dati quantitativi a disposizione permettono di disegnare le tendenze del cosiddetto terrorismo islamista ‘homegrown’. La radicalizzazione è invece più complessa da misurare; se i numeri degli estremisti segnalati o monitorati, da un lato, permettono di avere un’idea dell’ampiezza del fenomeno, dall’altro non sono indicativi del grado di pericolosità degli individui né suggeriscono possibili strade da percorrere in materia di contrasto. Per questo, è fondamentale prestare attenzione ai ‘meccanismi’ e ai contesti che favoriscono l’adesione e il reclutamento, incluse le difficoltà incontrate da chi si muove sul territorio nella prevenzione e nella deradicalizzazione. Si tratta di un passaggio essenziale e di un richiamo alla responsabilità anche per la politica, che è tenuta a preparare il terreno legislativo e istituzionale per la messa in atto di strategie efficaci.

I LIMITI DEI NUMERI

Lo Stato Islamico ha saputo mobilitare un numero inedito di individui in ogni parte del mondo; decine di migliaia nella sola Europa, tra foreign fighters, aspiranti terroristi, reclutatori per la causa jihadista, sostenitori e simpatizzanti del Califfato -i cosiddetti radicalizzati. Nel maggio del 2017, a seguito dell’attentato alla Manchester Arena, i media inglesi rivelarono la portata della minaccia riassunta nella cifra di 23’000 estremisti jihadisti noti all’intelligence, fra cui un pool di 3’000 soggetti considerati pericolosi e monitorati nell’ambito di quelle che all’epoca erano 500 operazioni contemporanee (salite nel frattempo ad 800). Sono numeri importanti ed utili per capire l’ampiezza del fenomeno; tuttavia, non sono indicativi del rischio reale poiché i nomi entrano ed escono dalle categorie prioritarie a seconda di criteri e valutazioni variabili. In Francia nel 2018 un Gruppo di lavoro parlamentare incaricato di migliorare l’efficacia delle cosiddette Fiches S, preoccupato per la confusione e gli effetti controproducenti della focalizzazione politico-mediatica attorno a quello che è solo uno strumento di raccolta delle informazioni, ha ritenuto di dover specificare che non si tratta di un indicatore della pericolosità delle persone né, tantomeno, è destinato al monitoraggio della radicalizzazione (che nella sezione specifica, conta circa 20’000 schedature, fra le quali più di 9’000 cosiddette “attive”). A fronte quindi di cifre imprecise, un segnale più significativo del pericolo con cui ci confrontiamo può venire dalla quantità di attentati sventati: Europol ne conta 16 nel solo 2018; la Gran Bretagna 25 dal marzo 2017 (inclusi 8 attentati pianificati dall’estrema destra); mentre in Francia, dal 2013, ci sarebbero stati 60 tentativi. La volontà di colpire l’Europa persiste. Ma qual è la realtà della sfida?

DE-CIFRARE LA RADICALIZZAZIONE: UNA SFIDA COMPLESSA

La realtà della sfida non ha sempre a che vedere con le preoccupazioni dell’opinione pubblica, gli argomenti dei media o i temi della politica che, un po’ per dovere e un po’ per fini elettorali, tende a concentrarsi sugli aspetti securitari e a breve termine. A raccontare la posta in gioco è, spesso, chi si confronta a livello personale con il radicalismo oppure opera sul territorio nella prevenzione e nel contrasto. Con l’obiettivo di raccogliere indicazioni utili proprio in questo senso, a partire dal 2017 ho avviato un’inchiesta giornalistica in cinque paesi europei -Gran Bretagna, Svizzera, Francia, Olanda e Italia- confluita in parte in una serie di reportages d’approfondimento per la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana (RSI)[1]; in ogni nazione il dibattito segue traiettorie distinte e le opinioni attorno a cause e soluzioni possono variare anche di molto; tuttavia l’accostamento di voci permette di allargare l’analisi ai contesti, che gran parte delle analisi, incentrate sugli individui o le dinamiche interne di gruppo, tende a trascurare. Ma è utile ricordare come la radicalizzazione non costituisca un mondo parallelo; essa prende avvio dentro la società e in relazione con essa. Naturalmente un percorso a ritroso sulle tracce delle ‘tensioni’ che possono favorire l’estremismo implica un’ampia discussione attorno a tematiche quali il ruolo e il senso di integrazione, emarginazione sociale, identità, laicità dello Stato, politica estera- che possono sembrare aleatorie, a fronte di un pericolo reale e letale come quello del terrorismo. È fondamentale però saper fare le giuste distinzioni e non sovrapporre le questioni di intelligence o difesa, alla comprensione dei processi di radicalizzazione (partendo dal presupposto che comprendere è già prevenire).

LE PROSSIME SFIDE

Prevenzione e deradicalizzazione occupano uno spazio rilevante -come concetti e almeno nelle intenzioni- nel quadro delle varie strategie di controterrorismo e contrasto all’estremismo violento emanate gradualmente negli ultimi quindici anni da Unione Europea, Nazioni Unite e singoli paesi, tanto da aver contribuito alla nascita di un intero settore che non è stato esente da esperienze fallimentari e da polemiche. Un’analisi apparsa nella rivista specializzata Perspectives on Terrorism (2019)[2] segnala una discontinuità -nelle due direzioni- tra la ricerca accademica sulla deradicalizzazione, la formazione e la realtà degli operatori che si occupano degli interventi; è un’osservazione preoccupante di cui tenere conto, considerando le sfide che si presentano alle porte. Nell’autunno del 2019, la fragilità degli equilibri sul fronte geopolitico in Siria e in Iraq ha richiamato l’attenzione su un problema che l’Europa aveva provato a lasciare in eredità al Medio Oriente: la questione spinosa di come gestire gli jihadisti con le loro consorti più agguerrite, che dai campi di detenzione hanno lanciato strali contro l’Occidente. Al di là di tutte le difficoltà che il rimpatrio e i processi possono presentare a livello legislativo e giuridico -a cominciare dalla raccolta delle prove a carico- a destare comprensibilmente preoccupazione è soprattutto il pensiero della permanenza in un ambiente, quello carcerario, già sotto pressione per la presenza di radicalizzati interni. Senza contare l’incognita sulla modalità e il successo di un loro reinserimento in società. L’attentato del 29 novembre che ha avuto il suo tragico epilogo sul London Bridge, dove un aspirante terrorista rilasciato a metà della pena ha ucciso due volontari di un programma di reintegrazione per detenuti promosso dall’Università di Cambridge, ha prepotentemente spinto la questione in cima alla lista delle priorità. Nel corso dei prossimi anni, un numero sempre maggiore di estremisti (jihadisti) sarà libero e il timore che simpatizzanti di gruppi terroristici, ex-combattenti, reclutatori e propagandisti possano tornare attivi e agire con maggiore determinazione, è tutt’altro che infondato. Del tema si discute da tempo ma il caso di Usman Khan, che ha apparentemente ‘raggirato’ il sistema, ha portato diversi nodi al pettine e permette di mettere a fuoco alcuni argomenti importanti sui quali ragionare, non solo in Inghilterra. Al di là di aspetti prettamente giudiziari come la durata delle pene e le condizioni della libertà vigilata, a contare, nell’ottica di limitare il pericolo di recidiva o di una più profonda radicalizzazione, è la gestione di questo tipo di reato dentro l’ecosistema carcerario (che, fra gli esperti, non fa l’unanimità); la validità dei metodi di valutazione del rischio (che richiedono aggiornamenti continui); la preparazione del personale (inclusa quella dei quadri); la coerenza e continuità fra programmi di ‘recupero’ e reintegrazione prima e dopo il rilascio. Sono aree collegate, che necessitano di azioni e visioni coordinate.

LA DERADICALIZZAZIONE FRA ASPETTATIVE E REALTÀ

I fatti di Londra in particolare hanno aperto una discussione attorno all’efficacia (o meno) della cosiddetta deradicalizzazione. L’interrogativo è lecito ma le aspettative di politici, media, ricercatori e cittadini sono diverse e possono confondere la linea di dibattito. Il termine elusivo di deradicalizzazione viene da tempo sostituito dal concetto di ‘abbandono della violenza’, che non implica una rinuncia all’obiettivo ideale -cioè, che l’individuo possa sganciarsi da un’ideologia radicale; implica invece -o dovrebbe farlo- la consapevolezza di come il percorso sia graduale, di lunga durata, incerto e costellato di priorità (la sicurezza della collettività innanzitutto). Come in tutti i processi che affrontano questioni di identità sociale, le incognite e le variabili sono molte e dipendono dall’individuo stesso -dalla volontà di rivedere le proprie scelte- e dalle circostanze esterne. Nella migliore delle ipotesi, l’approccio di questi ‘programmi’ consiste nel ‘mentoring’, vale a dire la presa in consegna del soggetto, che viene seguito passo per passo da un punto di vista psicologico, teologico, ideologico, incluso un accompagnamento verso il reinserimento nella società. La complessità di un intervento di questo genere è anche organizzativa, poiché impone una collaborazione di carattere multidisciplinare e con partner di vario genere: autorità incaricate della libertà vigilata, polizia, intelligence, professionisti inquadrati in ONG e istituzioni attive nel campo. In Europa si sta ancora sperimentando e una ‘ricetta’ che si possa trasferire da una realtà all’altra non esiste, mentre la scarsità dei dati a disposizione, insieme alla mancanza di un metodo coerente e affidabile di valutazione non permettono di misurare concretamente la riuscita di iniziative che sono peraltro avvolte dalla confidenzialità; di conseguenza, poiché a venire a galla con certezza sono gli insuccessi, soprattutto in occasione di eventi terroristici, il rischio in cui si incorre è di ‘liquidare’ anni di esperienza pregressa e di studi. Per questa ragione, è importante affrontare l’argomento in modo costruttivo, prendendo in considerazione non solo le buone pratiche ma anche gli ostacoli che possono compromettere l’incisività dei vari interventi; un esercizio utile soprattutto per quei paesi che, ancora poco toccati dal fenomeno, hanno la possibilità di evitare passi falsi. Una delle principali difficoltà consiste nella scelta di mentori/practitioners preparati e credibili sia agli occhi del ‘sistema’ che dei loro ‘assistiti’; le due cose non coincidono necessariamente, in parte anche a causa dei limiti imposti dalla collaborazione con il governo e le sue istituzioni. Il problema si può riscontrare anche nel settore della prevenzione. In ragione di questa dimensione politica, è fondamentale riflettere con attenzione sui criteri di selezione, che oltre agli obiettivi strategici dovrebbero tenere conto anche alla realtà che si deve affrontare sul territorio. Sottovalutare questo aspetto -che ha la profondità di un dilemma- può avere delle ripercussioni negative sui progetti e sui fondi, che sono essenziali per la riuscita e la sostenibilità di un settore in evoluzione, che richiede un impegno a lungo termine.

Deradicalizzazione e prevenzione sono campi dove sarà necessario investire in modo oculato, facendo in modo che le misure di sicurezza a corto termine siano allineate con gli obiettivi a lungo termine, cioè il contenimento del fenomeno -parlare di sconfiggere il terrorismo non è realistico ma impegnarsi per combatterne le cause e la diffusione sì-. Non esistono soluzioni su misura né garanzie di successo ma sarebbe utile, oggi, guardare in modo costruttivo a pratiche e tentativi -anche fallimentari- dei paesi con maggiore esperienza nel settore, sia in materia di regime di detenzione che di deradicalizzazione. Con tutti questi aspetti dovranno confrontarsi non i singoli partiti ma l’intera classe politica. Recentemente il Vice-commissario dell’anti-terrorismo inglese Neil Basu, chiedendo la collaborazione di “bravi” ricercatori, criminologi e sociologhi, ha dichiarato che nella battaglia contro l’estremismo violento l’approccio securitario (polizia e servizi di sicurezza) non è più sufficiente. È essenziale che questo dialogo avvenga anche a livello istituzionale, in modo che la politica possa preparare un terreno legislativo proficuo per la messa in atto delle iniziative necessarie ad affrontare i problemi sul terreno e spiegare l’importanza e i risvolti di questo impegno all’opinione pubblica in modo chiaro, competente e convincente.

[1] https://www.osservatorioreact.it/indagine-radicalismo-europa/

[2] Koehler, D. e Fiebig, V. Knowing What to Do: Academic and Practitioner Understanding of How to Counter Violent Radicalization, Perspectives on Terrorism, Volume 13, Issue 3, June 2019


#ReaCT2020 – Case study: L’aspirante ideologo italiano dello Stato islamico (C. Bertolotti)

di Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

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Associazione a delinquere al fine del raggiungimento degli obiettivi dello Stato islamico (…), ai fini dell’eversione dell’ordinamento costituzionale democratico.

Con queste parole il Pubblico Ministero Emilio Gatti aveva chiesto la condanna per Elmahdi Halili, il giovane jihadista marocchino naturalizzato italiano, condannato a 6 anni e 6 mesi di reclusione per terrorismo – apologia e istigazione a commettere un attentato -, difeso dall’avvocato Enrico Bucci (in sostituzione di Wilmer Perga): il giovane marocchino naturalizzato italiano è colpevole, lo ha stabilito il tribunale di Torino il 28 giugno, dopo un processo andato avanti mesi, tra rinvii e cambi di avvocato difensore.

Chi è Halili, il terrorista torinese? 23 anni al momento dell’arresto avvenuto nel marzo del 2018, è un personaggio noto agli investigatori dell’Antiterrorismo della Digos; il suo nome compare nella maggior parte dei processi per jihadismo celebrati in Italia: quello a Fatima Sergio, la prima foreign fighter italiana, di origini campane, condannata a nove anni e probabilmente morta in Siria tra le fila del Califfato; e ancora, è protagonista di un’altra vicenda legata al terrorismo internazionale che lega l’Italia alla Svizzera: il caso di Abderrahim Moutaharrik, l’ex campione di kickboxing (di origini marocchine) residente in Lombardia ma che si allenava nel Luganese, poi condannato a sei anni per terrorismo.

Un elemento chiave per comprendere lo jihadismo italiano legato al fenomeno dello Stato islamico

Halili – già in precedenza indagato e poi condannato, previo patteggiamento, a due anni di reclusione con sospensione condizionale della stessa per istigazione a delinquere con finalità di terrorismo per aver redatto e pubblicato via web alcuni importanti documenti a favore dello Stato Islamico – rappresenta un elemento chiave per comprendere lo jihadismo italiano legato al fenomeno dello Stato islamico.

Halili non è stato un combattente, non ha avuto ambizioni operative, né ha manifestato l’interesse ad immolarsi come soldato nel nome del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Halili è stato molto di più: nelle sue intenzioni lui si è imposto, in parte riuscendoci, come ideologo dello Stato islamico in Italia: esaltando le virtù del movimento terrorista, impegnandosi per l’imposizione della shari’a (la legge coranica) in Italia, incitando soggetti conosciuti prima sul web – e poi incontrati di persona – ad agire, a colpire nel nome dell’Islam, giustificando qualunque tipo di violenza nei confronti degli infedeli, degli apostati, ma anche dei musulmani che si sono lasciati corrompere dalla “religione della democrazia”.

Il suo è stato un lavoro intellettuale molto articolato, sapientemente ricostruito dagli operatori della Digos di Torino il cui lavoro è stato fondamentale per il Pubblico Ministero Emilio Gatti, che in sede di dibattimento ha chiesto la condanna a cinque anni per Halili raccomandando la necessità di farlo partecipare a un corso di de-radicalizzazione. Difficile dire quali potranno essere gli sviluppi di tale processo di de-radicalizzazione: va ricordato come in Italia non esista un percorso articolato e strutturato, anche a causa del fatto che il progetto di legge che lo avrebbe istituito (promosso da Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli) dopo essere stato approvato alla Camera, si è fermato al Senato nella precedente legislatura.

Qualsiasi cittadino non musulmano che fa parte della coalizione che bombarda lo Stato islamico è un obiettivo militare per noi

Il lavoro di Halili in questi anni, come hanno ben ricostruito gli inquirenti, si è concentrato sull’ideologia jihadista, sulla sua giustificazione religiosa e, cosa più importante, sullo sviluppo di un manuale teologico per gli aspiranti jihadisti italiani. È il ”quaderno rosso” di Halili: un elaborato di 64 pagine, meticolosamente compilato ed estremamente ordinato che, in maniera efficace, sintetica e analitica, ripropone i concetti tratti dalle lezioni dei “predicatori dell’odio” reperite sul web, e da cui sono stati sviluppati i suoi successivi scritti poi condivisi dalla rete jihadista che ne ha fatto un documento di riferimento. Nel suo “quaderno rosso” Halili ha riportato la sua interpretazione del “dovere di uccidere” anche attraverso gli attacchi terroristici, che lui riconosce come “legittimi atti di guerra”: “qualsiasi cittadino non musulmano che fa parte della coalizione che bombarda lo Stato islamico è un obiettivo militare per noi” – dice Halili nel suo scritto. E ancora, sempre nel quaderno, Halili parla di Islam come elemento politico, e dunque guerra, che deve contrapporsi alla democrazia e sottometterla.

L’analisi del caso Halili mette in evidenza la sua estrema intelligenza e capacità di reclutamento e indottrinamento: è bravo a scrivere, bravo a parlare, convincente e determinato. La sua ambizione personale, oltre al suo contributo nella realizzazione del Califfato globale, è stata quella di crearsi una nuova identità, quella di ideologo e veicolo “critico” del messaggio dello Stato islamico. Una sorta di imam, capo spirituale. Ma è il suo approccio che ne ha dimostrato le indiscusse capacità: “lobbistico”, improntato a “fare rete”, allagare l’uditorio e i soggetti con cui interfacciarsi e dialogare. Un atteggiamento che si colloca sul piano dell’apologia di shari’a che tende alla radicalizzazione violenta. È indubbiamente un islamista, ha contatti radicali e accede a contenuti ideologici radicali che rielabora e diffonde: ma è l’ideologia della shari’a. E questo conferma le preoccupazioni nei confronti di quell’islam politico che dell’applicazione della legge coranica fa la sua battaglia.

Un’analisi, quella degli inquirenti, che si accompagna alle evidenze di anni di indagini da cui emergono le idee, le intenzioni e le azioni di un Halili che si radicalizza sempre di più, attraverso il web, a da qui ai contatti, prima virtuali e poi fisici con i suoi interlocutori, a loro volta nel mirino di altre procure che indagano sul terrorismo jihadista in Italia. Il giovane jihadista marocchino aumenta sempre più, con il passare del tempo, le ore dedicate allo “studio” del jihad, all’analisi dei testi dello Stato islamico, arrivando a trascorrere anche due ore al giorno leggendo il giornale Dabiq e Amaq, organi di informazione del gruppo in Siria e Iraq. Trascorre ore e ore lasciandosi ipnotizzare da video e audio jihadisti che lo alienano e lo motivano sempre più.

Si allontana dalla famiglia, arrivando a picchiare il padre, accusandolo di essere un apostata; effettua donazioni di soldi ad organizzazioni jihadiste, attraverso la pagina Facebook “musulmani d’Italia”. Fino ad allargare la sua rete virtuale al di la dei confini nazionali, arrivando direttamente alla linea del fronte siriano dove è stato in contatto, tra gli altri, con uno jihadista combattente, Omar al-Amriki, con cui dialoga a lungo e raccoglie, diffondendole successivamente, le informazioni dal campo di battaglia e sulle truppe che combattono. È con Omar al-Amriki che Halili si accredita, presentandosi come l’autore del documento-guida tradotto in italiano: un’autodenuncia che ha rappresentato per l’accusa un elemento forte per confermare il capo di imputazione e definire nel dettaglio il ruolo di Halili a supporto dello Stato islamico.

Il 28 giugno 2019 viene così condannato a sei anni e sei mesi di detenzione per terrorismo, Elmahdi Halili, lo jihadista di Lanzo torinese, l’aspirante ideologo dello Stato islamico in Italia; una condanna che conferma ancora una volta la concretezza della minaccia jihadista dello Stato islamico, non solamente nella sua essenza territoriale e fisica, ma ancora più pericolosamente su un piano ideologico e religioso che continua ad auto-alimentarsi e ad adattarsi alle misure di contrasto.

 


#ReaCT2020 – La comunicazione dello Stato islamico (G. Criscuolo)

di Giusy Criscuolo

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Il presente approfondimento vuole dare una panoramica aggiornata sulle piattaforme internet utilizzate dai militanti dello Stato Islamico e a latere di al-Qaeda. Verrà aperta una finestra sulle nuove tecniche e sui possibili obiettivi, analizzando alcuni dei danni collaterali creati dal reclutamento online.

Negli ultimi anni, le attività del Califfato sulle piattaforme internet sono risultate molto attive e particolarmente fruttuose, raccogliendo numerosi consensi soprattutto tra le fasce dei giovanissimi e tra le donne.

 

Tra le organizzazioni terroristiche, quelle che hanno avuto un ruolo chiave nella guerra mediatica per “procura” degli ultimi cinque anni, troviamo l’IS e al-Qaeda, senza contare Jabhat al-Nusra recentemente ribattezzato con il nome Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) braccio armato e mediatico di al-Qaeda e le costole attive del Califfato Islamico.

 

 

 

L’ISIL esiste dal 2006, ma ha vissuto il suo esploit dopo le rivoluzioni arabe del 2010. Inizialmente legato ad al-Qaeda, si è scisso nel momento in cui, Abu Bakr al-Baghdadi (ex leader dello Stato Islamico), ha preso le distanze dal suo sceicco Ayman al-Zawahiry (a sua volta leader di al-Qaeda) dichiarandosi Califfo alla fine del giugno 2014.

Il nuovo e abbreviato acronimo, che definisce lo Stato Islamico serve a sottolineare che non esistono più confini e che il “Califfato” è minacciosamente proiettato su tutto il globo, Europa compresa. A far parte delle milizie jihadiste dell’IS, non più soltanto, semplici militanti estremisti, ma uomini laureati (anche nelle migliori Università del Mondo), geni dell’informatica e hacker di eccellenza (provenienti soprattutto dall’India del sud – Kashmir, Maharashtra e Rajasthan), che mettono a disposizione di queste organizzazioni il loro “talento”.

Da quando l’organizzazione ha intrapreso la sua regressione militare nelle antiche roccaforti di Iraq e Siria, la struttura primigenia basata sulla leadership del Califfo ha subito delle mutazioni obbligate. Questi cambiamenti hanno reso evidente la capacità di rigenerazione di un’organizzazione terroristica come quella dell’IS.

Ad oggi la guerra della Jihad del Terrore si è trasferita dai campi di battaglia al web. Dalle piattaforme più conosciute a quelle meno frequentate, dai social ai blog, in un continuo mutare di algoritmi, dati, siti, social, account e navigazioni su Instagram, Telegram, Ask FM, Templar, JustPaste, Fajr Al Bashar, RocketChat, Pinngle, Dark Net e molti altri.

 

I diversi studi a riguardo, dimostrano che Da’ash (letteralmente tradotto dall’arabo ISIS), ha investito molto nel multimediale, arrivando addirittura a creare una propria forma di “Intelligence” capace di rigenerarsi a distanza di pochi minuti dalla cancellazione di account dedicati all’organizzazione.

Fermo restando, che sui canali più conosciuti come Twitter, Youtube (quasi del tutto sostituito con Vimeo e Sendvid) e Facebook, i gruppi terroristici e le cellule operative, stanno riscontrando grandi difficoltà a mantenere i propri domini. Questo, grazie anche alla grande attenzione dedicata dai giganti della rete mondiale all’argomento (strutture ormai formate e pre – allertate, con lo scopo di eliminare qualsiasi forma di comunicazione video e multimediale lanciata dai media dell’IS).

Questa nuova e più evoluta “generazione di terroristi” rischia di essere più insidiosa e invasiva delle lotte intestine, che hanno luogo nei territori di origine del fenomeno.

L’errore più grande effettuato dai Media mondiali e dalle piattaforme più conosciute è stato ed è, in alcuni casi, quello di dare risalto ad eventi, video ed immagini prodotte dai militanti delle fila di Da’ash. Questo modo errato di gestire l’informazione, ha permesso alle frange terroriste di entrare in contatto con tutte quelle cellule dormienti e non integrate che vivono sparse per il globo.

Media Utilizzati dall’ISIS

Il tragico risultato è stato quello di aumentare il consenso dell’Organizzazione, permettendogli di gestire un grande flusso di reclutamento online. Ciò ha consentito di foraggiare quelle campagne del terrore, che avevano e hanno come unico scopo, la destabilizzazione degli equilibri del Mondo Occidentale. Da qui segue una sorta di guerra mediatica capace di falciare più vittime di un qualsiasi kamikaze munito di esplosivo.

Una guerra cyber, basata non sulle armi, ma sulle parole, sui contenuti e sul proselitismo. I cyber jihadisti sono la nuova frontiera dello Stato Islamico. Numerosi studi, effettuati da centri di ricerca, Siti Governativi e Università del mondo arabo e occidentale, dimostrano come la nuova comunicazione del Califfato si adegua ai velocissimi cambiamenti del web.

Stando a quanto riscontrato nel Report pubblicato sul sito governativo della Lebanese National Defence Force (Lebarmy.gov.lb), gli agenti dell’ISIS hanno iniziato il primo vero passo massmediale nel maggio 2014, durante la fondazione di al-Hayat Media Center, il primo vero braccio mediatico dello stato islamico per la propaganda in Occidente.

L’Islamic State, non si limita ad una semplice organizzazione gestionale, ma proprio come uno Stato, ha in se delle sessioni precise che corrispondo a dei Ministeri “virtuali”. Anche per la parte comunicazione, cyber e web è dotata di una struttura mediatica ufficiale. Un vero e proprio “Ministero dell’Informazione”, che pur essendo un’entità virtuale, riesce a gestire efficaci mezzi di comunicazione, soprattutto nel web.

A tal proposito, dall’analisi fatta e pubblicata nel Report sui “Mezzi di propaganda e tecniche dei Media Isis”, (ad opera del sito Governativo di cui sopra), i leader hanno respinto l’idea di costruire questo “Ministero” in un’area geografica specifica, poiché esisteva il timore che sarebbe stato preso di mira da incursioni statunitensi o dallo stesso esercito iracheno. Si legge: “Abu Bakr al-Baghdadi ha stanziato un budget iniziale di 1 milione di dollari per l’istituzione del ministero virtuale. Questo consente ai mujaheddin di rilasciare dichiarazioni mediatiche, ma solo dopo aver ottenuto l’autorizzazione dal sedicente ministero delle informazioni ISIS. Ciò obbliga chiunque aderisce all’Islamic State e vive nelle aree da questo controllate, a dover passare dalle fonti autorizzate prima di poter rilasciare qualsiasi tipo di dichiarazione ufficiale. – sempre secondo quanto scritto – Il Ministero dell’Informazione gestisce anche Shumoukh Islam Network e il Sit-in Forum, che sono considerate alcune tra le voci ufficiali, per la messa in onda delle dichiarazioni approvate ai Mujahideen”.

Ma oltre ai media e alle piattaforme, Da’ash si è cimentata nella creazione di quotidiani cartacei, successivamente riproposti online anche in pdf. Parliamo di Dabiq Magazine e Rumiyah Magazine. Questi giornali, del tutto professionali hanno permesso di espandere la propaganda dell’IS a livello globale, sia su Internet che sul campo.

Lo scrittore Awan Imran (Cyber-estremismo: ISIS e il potere dei social media. Edito in lingua araba), sostiene che dietro il grande lavoro di cesello del cyber jihad, ci sia più di un centinaio di militanti. Sembrerebbe che questi, lavorino in modo costante sulla comunicazione multimediale, compresi i vecchi ed i nuovi social network. A questa informazione si aggiunge che gli ingegneri del Califfato, costretti dalle attuali restrizioni del web, hanno progettato nuove forme di comunicazione crittografate e nuovi social sulla falsa linea di Telegram.

La particolarità di queste App sta nella messaggistica crittografata, studiata per impedire l’accesso al contenuto del messaggio, oltre alla peculiarità che prevede l’autodistruzione dello stesso. Un’altra applicazione molto utilizzata dai militanti jihadisti in Europa è JustPaste. Questa condivide le stesse funzionalità di Telegram, è confidenziale e sicura, per non parlare della grande capacità di restare in incognito. La scelta dei militanti è ricaduta su questa messaggistica poiché poco conosciuta. La stessa prevede il blocco delle foto e consente agli utenti anonimi di inviare e ricevere contenuti senza registrazione. (JustPaste.it è gestito dalla Polonia, è ospitato in Germania e risulta ampiamente utilizzato da gruppi e seguaci jihadisti – inclusi ISIS e al-Qaeda).

Elenco degli argomenti utilizzati dai media dell’ISIS

Ma il mondo dei nuovi social e dei nuovi media pro-Da’ash è in continuo mutamento. Non è possibile tracciarne un numero preciso, ma è possibile stabilire quali siano le più utilizzate e le più accreditate. Ad oggi una delle più importanti applicazioni, che ha permesso di scoprire e cancellare numerosi account collegati a Twitter è stata Fajr Al Bashaer (un’applicazione araba, progettata dai programmatori dell’IS). Scaricabile fino alla fine del 2017 su Play Store, prima di essere cancellata dal colosso mondiale Google.

A questo, si aggiunge che lo stesso utilizzo del “web di superfice” non basta più. Poiché l’IS e Al-Qaeda, sono soggette ad una serie di attività di controllo e monitoraggio da parte di aziende, media, agenzie governative e hacker, hanno deciso di rifugiarsi in quello che viene definito il web nascosto. Parliamo del Dark Web o Dark Net, che a sua volta nasconde delle camere oscure ancora più inaccessibili e raggiungibili solo attraverso studi e decifrazione di codici che cambiano a distanza di pochi minuti o secondi. Parliamo di quell’area del web non accessibile con i normali protocolli, addirittura molto più vasta del web di superfice. Con i protocolli non standard, si intende l’utilizzo di una crittografia particolare che non permette la tracciabilità dei dati.

NetWork del Califfato

In questo “nuovo mondo” le attività terroriste dei cyber jihadisti non possono essere identificate, così come le identità degli elementi dell’organizzazione. Infatti, il neo-utilizzo, da parte dei militanti, del Dark Net ha reso il lavoro delle agenzie governative e di intelligence più difficile. L’IS ha cercato di fare del Web la propria piattaforma, con lo scopo di aumentare la capacità di diffusione del suo messaggio e della sua ideologia estremista. Nel web sommerso, senza interferenze da parte di attori “esterni”, l’IS è stata in grado di pubblicare liberamente tutti i suoi messaggi, aprendo numerosi siti e piattaforme di comunicazione alternative.

Davanti a questa nuova sfida, un ente governativo come l’FBI ha ammesso una crescente difficoltà nella ricerca dei nuovi contenuti. Questo perché gli hacker e gli ingegneri dell’Islamic State si sono evoluti anche nell’utilizzo della crittografia. Secondo un rapporto dell’FBI nel 2018 è stato quasi impossibile accedere al contenuto multimediale di 7757 dispositivi a causa di queste nuove cripto-chat.

La capacità di questi battaglioni cyber, si è spinta oltre, fornendo materiale disponibile in molte lingue oltre all’arabo, tra cui l’inglese, il francese, il tedesco, il curdo, l’uzbeko, il croato e molte altre. Applicazioni progettate da questi gruppi terroristici per far circolare informazioni crittografate attraverso l’utilizzo di immagini sui vari social network. Sembra di trovarsi in uno dei migliori film di spionaggio, ma la realtà, come spesso accade, supera la finzione.

Le foto, che a prima vista sembrano essere semplici scatti, nascondono un messaggio. Attraverso una chiave crittografata e il cambiamento di alcuni “Pixel” (che incidono sulla qualità dell’immagine) vengono diffuse sui social network delle foto contenenti dei messaggi, che solo “gli addetti ai lavori”, attraverso codici in dotazione riescono a decifrare, decriptare e leggere.

Organizzato come un vero e proprio Esercito della Rete, il Ministero dell’Informazione dell’IS si avvicina molto, come struttura ai servizi di intelligence, suddiviso in “braccia armate cyber”. Ognuno di loro ha un compito preciso: a) monitoraggio e controllo generico del web; b) controllo di singoli soggetti; c) seguire dichiarazioni, prese di posizioni e movimenti filo Da’ash. Il tutto con lo scopo di cooptarli all’interno delle proprie fila per rimpinguare le perdite e sfruttarli sul campo di battaglia al posto dei militanti locali.

Parliamo di Al-Tawheed Battalion, Al-Farouq Battalion, Ashahad Company, Al -Furqan Company e Secret Storms. I primi con i compiti di monitoraggio e controllo generico e specifico sul web, gli ultimi con il compito di reclutare più “vittime” e adepti nelle fila dell’organizzazione. Senza dimenticare Al Bitar Media Foundation, che gestisce il “Codice Completo Islamico”. Un blog affiliato alla piattaforma dell’ISIS, il cui contenuto pubblica tutti i dati, le notizie, le foto e i video del Califfato, dando particolare risalto alla pubblicazione di indirizzi di siti Web, forum, account e social.

I futuri foreign fighters vengono via via indottrinati e guidati nei vari step dell’IS. Ai nuovi affiliati, preparati attraverso incontri specifici, vengono affidati dei tweet comuni già precostituiti, da utilizzare in modo standard per una comunicazione globale allineata. Al termine dei primi step, solo ad alcuni vengono forniti account fittizi e numeri virtuali per poter navigare e fare proselitismo pro-Da’ash. Una volta conquistata la fiducia delle figure di comando, giurano fedeltà al Califfo per poi immolarsi sul campo di battaglia.

Ma la comunicazione non appartiene solo all’IS ed è così, che attraverso ricerche e approfondimenti si può risalire alla piattaforma che si chiama “La rete globale della jihad”.

Un forum in cui sono attivi molti sotto-blog che non appartengono unicamente all’Islamic State, ma che pubblicano continuamente informazioni riguardanti altre fazioni come Al Nusra Front, Ansar al-Sharia e tutte le pubblicazioni che appartengono alle varie organizzazioni mediatiche jihadiste.

Inoltre su questo forum viene insegnato come hackerare gli altri siti, come progettarli, come preparare bombe e cinture esplosive e che atteggiamenti tenere sul campo durante i combattimenti.

Secondo uno studio condotto dal IDMC (Iraq Digital Media Center) i membri dell’ISIS, durante il corso del 2019 hanno iniziato ad utilizzare una nuova app di messaggistica istantanea chiamata RocketChat.

Gli analisti hanno affermato che diversi gruppi collegati all’ISIS hanno annunciato, attraverso i propri canali, di essersi trasferiti su RocketChat. Strumento di messaggistica open source, che viene utilizzato in tutto il mondo per scambi di informazioni e commercio e permette l’apertura di canali e gruppi.

Sempre secondo quanto pubblicato nel rapporto, diverse agenzie di stampa associate all’IS, hanno esortato i sostenitori dell’organizzazione a utilizzare l’applicazione, ragguagliando che l’organizzazione pubblica notizie su questa app prima di pubblicarle su Telegram.

Il team di analisi del IDMC ha spiegato che la continua necessità di cambiare la messaggistica istantanea e in particolare Telegram, è stata dettata dal fatto che i dipartimenti di intelligence hanno lanciato una campagna di pulizia contro queste applicazioni. Basti sapere che nel solo gennaio 2019 sono stati chiusi 9122 canali affiliati allo Stato Islamico.

Il problema creato dalla comunicazione di queste organizzazioni è quello di attirare affiliati e “volontari”. Uomini, ragazzi e donne, appartenenti alle fila dei non integrati, disposti a tutto pur di sentirsi parte di un qualcosa di superiore per cui valga la pena vivere, per affrancarsi da una condizione di disagio sociale ed esistenziale.

L’analisi sull’Egitto è coincisa con l’intervento delle Forze Armate

La mancanza del senso di appartenenza e di uno “Stato” che tutela i diritti civili ed umani di un popolo, porta soggetti potenzialmente deboli a legarsi, in questo caso, a delle “Istituzioni” terroristiche. Organizzazioni che con grande capacità di proselitismo, riescono a dare un legame a questi soggetti deboli ed emarginati. Questo spinge i futuri foreign fighters a condividere le ideologie sbagliate di chi sfrutta il pensiero religioso per coprire crimini contro l’umanità. Le numerose statistiche, hanno fatto emergere un dato allarmante sul grande numero di “volontari” che si sono immolati per la causa dell’IS e che ultimamente stanno abbracciando in modo più deciso anche la causa di Al -Qaeda.

Dall’Europa al resto del mondo, i partenti che abbracciano la causa dello Stato Islamico hanno raggiunto numeri quasi incontrollabili. I cittadini francesi, tedeschi e britannici costituiscono la maggioranza dei combattenti stranieri europei che si sono uniti ai ranghi dello Stato islamico in Siria e Iraq. A seguito dei numerosi rapporti che analizzano l’origine dei combattenti stranieri unitisi all’IS, per quanto riguarda l’Europa, la Francia sembra essere il principale paese di origine dei numerosi foreign fighters partiti per Iraq e Siria. A seguire con il triste primato di cellule partite verso l’Islamic State, troviamo uomini, donne e bambini partiti dalla Germania e dal Regno Unito. Ma anche gli Stati di Belgio, Austria e Svezia, sembrano aver fornito al Califfato, alcuni tra i combattenti più attivi e convinti. Senza dimenticare gli elementi partiti dai Balcani (percentuale maggiore) e dalla penisola Iberica per unirsi alle fila di Da’ash.

Ad essere reclutati, giovanissimi e molti uomini di età variabile tra i 15 e i 52 anni. Le nuove frontiere del Jihad dell’IS mirano anche al reclutamento di numerose donne, che attraverso una trappola chiamata “Jihad del Matrimonio” molto pubblicizzata sul web, partono per unirsi agli uomini del Califfato con l’auspicio di trovare una “terra promessa”. Paradiso, che al loro arrivo si trasforma in un reale inferno. (Report Difesa – Terrorismo, come vengono arruolate le donne nelle file dell’ISIS. Il ruolo dei social media).

Rimane sconcertante il numero dei minori reclutati, figli di jihadisti partiti o nati sul posto dopo il ricongiungimento coniugale. “I mercenari della morte, non solo plagiano le menti di uomini e giovani che alla fine vengono controllati come automi da una sorta di “gerarchia militare interna”, ma costruiscono una nuova generazione di combattenti per plasmarli sulle basi della causa terroristica. Insegnano ai piccoli ciò che vogliono e ritengono propedeutico alla causa, manipolandone i caratteri, indottrinandoli con concetti basati sull’estremismo e sul fondamentalismo, facendoli diventare terroristi già in tenera età. Piccoli che saranno poi chiamati a portare il nome dell’organizzazione, ovunque vadano”. (Report Difesa – Libia: i bambini jihadisti dell’ISIS. I “Califfi del Califfato” ovvero la costruzione di una nuova generazione di combattenti).

A questi dati certi, si possono affiancare quelli tratti dalle singole schegge impazzite, uomini che hanno deciso di operare in Europa per conto dell’IS. I soggetti in questione sono conosciuti come “lupi solitari”, che attraverso il proselitismo online, e non necessariamente collegati in modo diretto allo Stato Islamico, ne abbracciano l’ideologia. Soggetti che agiscono in modo autonomo per unirsi alla Jihad del terrore. Una storia che ha origini più remote rispetto all’attualità del tema e che ha ispirato i fondatori di al-Qaeda e Da’ash, spingendoli ad impossessarsi di questa definizione.

Amin Emile ricercatrice citata dal Lebanese Center for Research and Consulting, durante uno studio sul proselitismo online dell’IS, si è imbattuta in un articolo pubblicato dal ramo “Media Front for the Support of the Islamic State” (molto in uso su JustPast.it) e affiliato alla “Fondazione Media Caliphate”, che parla dello “Stato di Successione”. Cioè delle direttive da seguire al di fuori dei paesi dell’organizzazione. In questo articolo è stato pubblicato l’opuscolo di 62 pagine scritto dall’IS per i suoi seguaci e precedentemente edito da al-Qaeda.

In una delle pagine sfogliate dalla ricercatrice, viene trovato un versetto che cita: “Uccidere per amore di Dio non costa solo a te stesso” (Al-Nisa ’84). Parole che agli occhi dei sostenitori della linea dura, sono le parole di Dio. Questo e molto ancora viene pubblicato anche nel rifacimento mediatico del testo, accessibile solo ai sostenitori che hanno le “parole chiave” per poterne usufruire.

In queste pubblicazioni indirizzate ai “lupi solitari” o agli affiliati al Califfato c’è scritto: “…evitare conversazioni telefoniche prima e dopo il lavoro. Non usare i documenti originali nel luogo di lavoro. Attenzione a lasciare impronte digitali. Copritevi di gentilezza per mascherare il viso…- sempre all’interno – vestiti con abiti occidentali e usa profumi. Crittografa i tuoi telefoni…per infliggere il massimo danno utilizza le cinture esplosive”.

Ma secondo un’analisi effettuata dall’Osservatorio di Takfiri e Fatwa del Cairo (Ente Governativo) e pubblicata nell’aprile 2019, al timore di queste figure di “lupi solitari”, si accosta una nuova ombra, che secondo gli studiosi prenderebbe il nome di “cellule di coccodrillo”. Un nuovo tentativo di organizzare l’IS per colpire l’Europa. I documenti dell’IS, di cui sono entrati in possesso, rivelano un nuovo piano per colpire l’Europa con il ritorno del Califfato.

L’Osservatorio di monitoraggio e analisi di Fatwa e Takfiri ha detto: “L’organizzazione dell’ISIS si è basata su un nuovo approccio per la realizzazione di nuove operazioni terroristiche, che ha chiamato “cellule di coccodrillo. Un approccio molto simile e vicino alle operazioni adottate dai (Lupi solitari). Un progetto rivolto a quelle cellule dormienti che lavorano per il Califfato di nascosto e che possono attaccare in modo discontinuo, obiettivi dettati dai leader dell’Organizzazione”. L’ Osservatorio ha mostrato che questa strategia è stata scoperta in uno dei documenti segreti trovati nel nord-Est della Siria, dopo gli ultimi scontri tra gli elementi dell’organizzazione e le SDF del governo.

Tra le diverse strategie pianificate dall’IS, si trova un aumento degli attacchi terroristici pensati per l’Europa. Il tutto attraverso i lupi solitari, il supporto dei foreign fighters di ritorno dai conflitti, e con l’ausilio di queste nuove “cellule di coccodrillo”. Il modus operandi dovrebbe essere quello di far esplodere veicoli, uccisioni di massa, singoli omicidi, rapimenti (come accade in Siria, Iraq, Libia ecc.) per farsi pagare un riscatto, inviando i proventi all’organizzazione e in fine attraverso la manomissione delle reti internet. La proposta sarà concretizzata attraverso dei mentor, ossia combattenti con molta esperienza. Obiettivo: lanciare attacchi in molte aree dell’Europa.

Nel documento appare il nome di un certo Abu al Taher, che probabilmente potrebbe essere l’ideatore di questa strategia. In poche parole, mentre i “lupi solitari” operano da soli e, a volte, senza connessioni dirette con il Califfato, le “cellule di coccodrillo” saranno direttamente collegate con le figure apicali e avranno delle missioni da assolvere. Nel documento trovato si parla di “Relazioni esterne dello Stato di Successione”, un aggiornamento all’opuscolo di 62 pagine già menzionato.

L’attuale mission sarebbe il finanziamento di queste cellule attraverso l’ufficio virtuale delle “Relazioni esterne per la gestione delle operazioni in Europa”. Tramite questo ente virtuale, saranno sostenute queste nuove cellule che avranno il compito di combattere i nemici dell’IS, con lo scopo di indebolire lo stile di vita occidentale, estorcendo denaro anche attraverso rapimenti, per poi spedirli al Califfato come descritto in precedenza.

Secondo quanto trovato nel documento, il piano dovrebbe partire da gennaio 2020, anche se i recenti attacchi perpetrati contemporaneamente in Europa fanno presagire un anticipo degli intenti dell’IS. L’organizzazione investirà molto in queste nuove cellule e l’obiettivo sarà quello di creare più kamikaze possibili. L’Osservatorio di Takfiri e Fatwa del Cairo sottolinea che nel mirino c’è un nuovo obiettivo, il continente europeo. Il compito è di colpirlo con queste cellule, per poi espandersi in altre aree del globo. In aree in cui, a detta dei documenti trovati, esistono già delle cellule dormienti in Europa e in Russia. I nomi delle organizzazioni operanti dovrebbero essere, a detta dell’Osservatorio, Almbạy per l’Europa e “Lo Stato del Caucaso” per la Russia.

Il continuo mutamento della comunicazione jihadista, alimentato da cellule che restano “in Teatro”, da cellule che muoiono, da foreign fighters che ritornano nelle terre di origine, se associato ai fenomeni di migrazione volontaria e rimpatri forzati, incide in modo diretto o indiretto sullo stile di vita delle persone e sugli equilibri dell’intera comunità internazionale.

Ed è proprio nell’era umana della comunicazione, che la parte del “leone” è costituita dal Cyber Spazio, a cui l’ISIS ha dimostrato di sapersi adattare in modo stupefacente.

L’utilizzo strumentale del web è una realtà che, se impiegata in modo proficuo, sarebbe capace di stravolgere positivamente il mondo, ma che nelle mani di soggetti sbagliati, può avere un effetto destabilizzante su interi continenti, ridisegnandone equilibri internazionali, geopolitica e storia.


#ReaCT2020 – Ripensare il terrorismo per combattere un nemico che perdura (M. Lombardi)

di M. Lombardi, Direttore ITSTIME – Università Cattolica e REACT

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Negli ultimi mesi dell’anno 2019, una serie di eventi che riguardano il terrorismo fanno notizia. Certamente a livello internazionale la morte del leader di Daesh, Al-Baghdadi si impone al centro di ogni riflessione: il Califfo si sarebbe fatto saltare in aria attivando la cintura da suicida che portava, quando scovato dalla operazione delle forze speciali del Delta Team americano, a Barisha, in provincia di Idlib, a 5 chilometri dal confine turco.

Ma anche, per quanto riguarda l’Italia, ha destato interesse il processo a carico dell’autista Ousseynou Sy, che prese in ostaggio 50 ragazzini, due insegnanti e una bidella sul bus che guidava e diede fuoco al mezzo, il 20 marzo 2019 a San Donato Milanese. Un tema discusso nel procedimento riguarda l’appartenenza o meno dell’autista a qualche gruppo terrorista e la premeditazione del gesto: tutto molto incerto rispetto all’acquisto di una taser nei giorni precedenti e il suo coinvolgimento per atti di molestie precedenti, fatti che fanno emergere una figura ancora poco conosciuta e problematica rispetto alla sua “appartenenza”.

Si tratta di eventi molto diversi che tuttavia attengono alla nuova forma di terrorismo che stentiamo a comprendere ma che caratterizza questa forma di conflitto da anni. E che continuerà nel futuro, sviluppando queste caratteristiche.

Infatti, la morte di al Baghdadi non ha nulla a che fare con la morte del terrorismo jihadista, ma si inserisce nella ristrutturazione di Daesh del “reshaping and adapting”: una riorganizzazione cominciata dopo l’attacco di Barcellona, accelerata dopo la caduta di Baghouz, che si è evidenziata nella riorganizzazione della comunicazione istituzionale e spontanea del Califfato e nella ristrutturazione nel nuovo Califfato decentrato, promossa con la frammentazione delle wilaya, dando vita alle nuove province. In tale prospettiva, questa morte di Al-Baghdadi rinforza le ragioni di appartenenza al Daesh da parte dei membri dispersi che trovano nuove motivazioni.

Infatti, il gesto di Ousseynou Sy, il cui attentato segue quelli a Christchurch (15 marzo 2019) e a Utrecht (18 marzo 2019) evidenzia la viralizzazione dei comportamenti violenti senza la condivisione di cause che li motivano o di percorsi di radicalizzazione simili, proponendoci un futuro in cui il terrorismo sarà una modalità diffusa di attacco senza i fondamenti a sostegno di una scelta politica o ideologica, caratterizzato dalla massima imprevedibilità.

In sostanza questi anni hanno segnato un punto di rottura per la comprensione del terrorismo e, di conseguenza, delle strategie per combatterlo che richiama la necessità di sviluppare nuovi paradigmi di comprensione del fenomeno da cui elaborare nuove metodologie di intelligence e di contrasto.

Con questa breve nota desidero solamente sottolineare i punti emergenti con cui inquadrare il terrorismo di questo drammatico avvio di Millennio.

Si tratta di quattro premesse:

  • La Guerra Ibrida, che è una guerra diffusa, pervasiva e delocalizzata, un conflitto che va ben oltre la definizione di asimmetrico, per collocarsi nell’incertezza della guerra senza regole condivise tra i competitors:  giocatori diversi che entrano in campo per “sbranarsi” senza condividere alcunché.
  • La reticolarizzazione e la globalizzazione: sono fenomeni diversi, che si implicano reciprocamente, ma mantengono la loro autonomia, benché la seconda venga in genere considerata il prodotto della prima. In parole povere, una concezione reticolare non globalizzante smonta il facile paradigma dei “lupi solitari” del terrorismo: tutto tranne che solitari (se non perché non necessitano indicazioni operative dalla rete) in quanto nella rete cercano la soddisfazione, la compiacenza e il sostegno morale (per tanti sono i “like”) che fa da booster alla scelta espressiva violenta, in quel regime comunicativo ben gestito dal terrorismo che governa emozioni prima ancora che modelli cognitivi.
  • La comunicazione, come peculiarità del terrorismo, in ciò distinto da ogni forma criminale. Infatti, l’obiettivo del terrorismo è destabilizzare facendo paura (terrore) in tal senso la minaccia è sufficiente a conseguire l’obiettivo senza che quanto minacciato si debba manifestare. Bastano due considerazioni: la necessità di rivendicare ogni attacco, anche opportunisticamente quando non generato all’interno della propria organizzazione ma ad essa funzionale, come Daesh ha sistematicamente fatto in questi anni. Pertanto, la comunicazione è al centro di ogni strategia terroristica da cui gli strumenti della communication research così come le sue prospettive di ricerca (a cominciare dalla necessità di comprensione empatica del nemico da Itstime sintetizzata nel suo motto “think terrorist”) sono strumenti centrali della nuova intelligence declinati alla luce dei nuovi ambienti comunicativi (ecosistemi comunicativi).
  • La viralità di Daesh che da esempio di terrorismo innovativo e opportunista che ha saputo sfruttare tutte le vulnerabilità del suo nemico, è diventata modalità di diffusione delle pratiche da attacco, senza necessità di condividere le premesse motivazionali. Si tratta di azioni che ciascuno ha nell’immaginario, dunque semplici, ripetibili senza necessità di programmazione, di scarsissima efficacia in termini di vittime ma con alto ritorno comunicativo.

Alla luce di queste premesse è pertanto inutile cercare a tutti i costi di ricollocare il terrorismo di oggi nelle definizioni europee, in quelle nazionali e internazionali, nelle più diffuse o proposte nei vari circoli. Per quanto detto, il richiamarsi alla necessaria dimensione organizzativa formale e alla matrice politica o ideologica per definire il terrorismo è una sciocchezza pericolosa.

Le nuove strutture organizzative sono diventati flessibili e adattabili: alla appartenenza di gruppo si è sostituita l’appartenenza di rete, fondata sulle relazioni tra singolarità che si imitano, si confermano e si emulano. Tarrant nelle sue rivendicazioni non si richiama a gruppi ma a singoli individui. L’idea di lupo solitario non riconosce il fatto che la solitudine organizzativa non corrisponde a una solitudine esistenziale: non si appartiene più a gruppo, che legittima idee e magari pianifica attacchi, ma si partecipa una rete che si auto-seleziona per la capacità di soddisfazione che offre a bisogni individuali che possono mutare anche rapidamente: al punto da rendere, in un contesto organizzativo liquido, ogni prevenzione pressoché impossibile.

Allo stesso modo ragionare per matrice politica o per ideologia è roba vecchia. Le ideologie, così come l’orientamento politico, erano uno strumento “socialmente utile” di compensazione della espressione delle proprie credenze: condividere una ideologia determinava anche un’etica e una legittimazione di certi comportamenti, non di altri. Oggi le ideologie, assenti, hanno lasciato la primazia ai problemi che si affacciano con la loro urgenza pratica senza alcuna mediazione ideale, con il risultato che la comunanza delle questioni esplode nella diversità con la quale ciascuno manifesta la propria strada per risolverle. Tarrant e Greta usano il medesimo linguaggio e affrontano le medesime questioni, per fortuna con percorsi diversi. Ma rappresentano, nella drammatica trasversalità delle narrative, la sostituzione di un sistema segmentato di ideologie con un brodo ideologico globalista che non fornisce alcuna mediazione rispetto ai comportamenti.

Per chi si occupa di terrorismo oggi la questione, pertanto, non è quella di cercare di inscatolare i diversi eventi in definizioni esistenti – di cui nessuna generalmente condivisa – ma andare alla ricerca dei modelli interpretativi più adeguati per comprendere un fenomeno diverso dal terrorismo che finora ci ha interessato.

La mia posizione di sintesi per una definizione nuova di terrorismo ha fatto discutere: un fenomeno è terrorismo per le conseguenze che produce e non per le motivazioni che lo generano. Capisco che sia un approccio “operativo” legato al presente, quindi evolutivo, ma dal mio punto di vista è meno vulnerabile che non le vecchie definizioni a cui tanti interpreti rimandano. In questa prospettiva non significa affermare che tutto è allora terrorismo ma sostenere che la dimensione con cui leggo l’attributo di terrorismo non sta nelle sue ragioni, ma nelle sue manifestazioni.

Il più grande rischio che stiamo correndo in questi giorni è di volerci tranquillizzare confermando le nostre credenze cristallizzate in definizioni e sistemi normativi, invece di andare alla ricerca di nuovi modelli interpretativi che sappiano rendere conto di una realtà che cambia indipendentemente dal nostro modo conformista di vedere il mondo. Cambiare il nostro mind set per arrivare a una miglior comprensione del fenomeno e sviluppare nuovi metodi di intelligence e di contrasto.


#ReaCT2020 – La prevenzione del finanziamento al terrorismo tra interventi comunitari e panorama normativo nazionale (A. Triggiano)

di Anna Triggiano, Osservatorio ReaCT

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La cornice comunitaria: l’attenzione prevalente al riciclaggio come possibile fonte di finanziamento di attività terroristiche

Le modalità attraverso le quali vengono finanziate attività di stampo terroristico, anche di ispirazione religiosa e radicale, sono tematica che, da sola, meriterebbe un apposito approfondimento. In questa sede possono essere svolte solo alcune riflessioni basilari.

Le  modalità con le quali i terroristi finanziano la loro azione possono consistere in attività lecite sia illecite.

Tra le attività lecite rilevano, ad esempio, riferendoci  per comodità espositiva al solo terrorismo di matrice islamica, l’esercizio di piccole e medie imprese regolarmente costituite, liberalità e donazioni (zakat) versate da membri della comunità islamica ad enti caritatevoli e assistenziali, che risultano essere schermo fittizio per l’impiego distorto di tali somme, le rimesse degli emigranti (taxes). Le risorse sono alimentate da fonti diversificate (fonte  ICSR-Statista 2019). Gli atti di saccheggio assicurerebbero secondo le ultime stime (2016) il 22% dei potenziali proventi, il 43% proverrebbe da imposte e tasse; i proventi petroliferi inciderebbero per circa il 32% mentre la percentuale residua, proventi da rapimenti e sequestri, garantirebbe soltanto il 3% degli introiti.

Le attività illecite che alimentano le risorse economiche dei terroristi sono insomma  eterogenee e tra le più diffuse e redditizie si possono annoverare anche il traffico di sostanze stupefacenti, il contrabbando, il fa­voreggiamento dell’immigrazione clandestina, la contraffazione dei marchi e lo sfruttamento del lavoro irregolare, come la raccolta illegale di scommesse.

Le risorse frutto di attività illecita sono poi sovente oggetto di riciclaggio e, quindi, trasferite mediante canali finanziari. È per tale motivo che il contrasto preventivo al finanziamento del terrorismo corre spesso di pari passo con la normativa antiriciclaggio.

Vi è  poi un livello di macrofinanziamento, riconducibile alla gestione delle risorse propria dell’organizzazione “madre”, alimentato anche dall’apporto clandestino di governi statali com­piacenti.

La Commissione Europea a guida Jean Claude Juncker è stata molto attiva nel rafforzare il quadro per la lotta contro il riciclaggio quale potenziale fonte di finanziamento di attività e gruppi terroristici.

Nel febbraio del 2016, essa ha presentato un Piano di Azione per rafforzare la lotta contro il finanziamento del terrorismo recante, da un lato,  iniziative volte ad individuare i terroristi attraverso i loro movimenti finanziari e impedire loro di spostare fondi o altri beni, dall’altro misure dirette allo smantellamento delle fonti di entrata usate dalle organizzazioni terroristiche, in primo luogo colpendo le capacità di raccolta fondi.

Non si può non menzionare, in questo contesto, la Quarta Direttiva antiriciclaggio  (EU 2015/849), la quale  ha  costituito un fondamentale strumento per la prevenzione dell’uso del sistema finanziario dell’Unione a fini di riciclaggio di denaro e finanziamento del terrorismo.

Il rafforzamento, in particolare, della lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo nella legislazione bancaria prudenziale ha condotto poi alla adozione della Quinta Direttiva antiriciclaggio. Tra i contenuti più salienti, si segnalano:

  • una maggiore trasparenza sulle informazioni e sui titolari di società e soprattutto trust.
  • l’attenzione ai rischi connessi alle carte prepagate e alle valute virtuali;
  • la cooperazione tra le FIUs;
  • il potenziamento dei controlli sulle operazioni che coinvolgono paesi terzi ad alto rischio.
  1. Il panorama normativo italiano

Il Legislatore è intervenuto sulla prevenzione del riciclaggio come fonte di finanziamento del terrorismo con il D. Lgs. 25 maggio 2017, n. 90, attuativo della Direttiva 2015/849, nonché modificativo del D. Lgs. 21 novembre 2007, n. 231. Uno dei contenuti – ai fini della presente ricerca – più salienti della norma in parola è condensato nell’art. 2, che esplicita la definizione di finanziamento del terrorismo rilevante ai fini dell’applicazione delle norme contenute nel decreto. Per finanziamento del terrorismo s’intende “qualsiasi attività diretta, con ogni mezzo, alla fornitura, alla raccolta, alla provvista, all’intermediazione, al deposito, alla custodia o all’erogazione, in qualunque modo realizzate, di fondi e risorse economiche, direttamente o indirettamente, in tutto o in parte, utilizzabili per il compimento di una o più condotte, con finalità di terrorismo secondo quanto previsto dalle leggi penali, ciò indipendentemente dall’effettivo utilizzo dei fondi e delle risorse economiche per la commissione delle condotte anzidette”.

Altra legge da prendere in considerazione è il D. Lgs. 125 del 4 ottobre 2019.

Le novità proposte dal decreto garantiscono una più sicura tracciabilità dei flussi finanziari, il rafforzamento degli strumenti di prevenzione e lotta al terrorismo e alle attività connesse e il contrasto ai pagamenti in forma anonima e alle nuove forme di pagamento (in particolare, alle monete virtuali), potenziando le norme di collaborazione fra le Autorità fiscali.

Il decreto, entrato in vigore il 10 novembre scorso, prevede anche l’inasprimento delle sanzioni (e il ricorso alla confisca) e una implementazione degli obblighi a carico dei Professionisti.

Lo scambio di informazioni tra Polizie economico-finanziarie, FIUs e Procure giudiziarie dei vari Paesi Europei si rivela di importanza vitale per attuare controlli sempre più serrati su soggetti segnalati e operazioni a rischio anche nel dominio cibernetico. La normativa italiana recentemente emanata, completa e accurata sotto questo ultimo profilo, è attesa, dunque, a un importante banco di prova di effettività.


#ReaCT2020 – Estrema destra fra rischio attuale e minaccia futura (B. Lucini)

di Barbara Lucini, ITSTIME – Università Cattolica

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La mozione votata il 1° Novembre al consiglio comunale di Dresda con 39 voti a favore e 29 contrari finalizzata a dichiarare lo stato di emergenza per la situazione relativa all’estremismo nazista, è un evento che deve portare ad una seria riflessione sullo stato della comprensione dell’estremismo di destra e la sua potenziale portata.

Tale situazione si colloca in un più ampio quadro europeo e internazionale, dipinto da alcuni fra i più legittimi report come il Te-Sat di Europol e il Global Terrorism Index.

In riferimento all’ultimo anno, entrambi i rapporti sottolineano elementi importanti, per collocare il rischio e la minaccia legate all’estremismo di destra in una luce nuova.

In particolare, il Global Terrorism Index riportando i dati da Start Gtd, evidenzia un aumento negli ultimi cinque anni, su scala internazionale del 320% dei fenomeni riconducibili ad un orientamento di estrema destra – far -right.

Così come ogni rischio e pericolo nell’ambito della gestione delle crisi, necessitano una fase esplorativa di conoscenza del fenomeno e delle sue manifestazioni, così si deve intervenire per una migliore comprensione del fenomeno dell’estremismo di destra, senza minimizzazioni che potrebbero inficiare sia la fase di prevenzione sia quella di risposta alla crisi generata.

Un primo elemento essenziale è avere consapevolezza della molteplicità di orientamenti culturali e ideologici, all’interno di quello che comunemente viene definito come “terrorismo politico di destra”.

Questa accezione dovrebbe essere riletta prendendo in considerazione i prodotti culturali e le specifiche forme espressive – comunicative dei singoli gruppi o dei casi già manifestatesi.

Il substrato culturale è un fattore informativo cruciale, per poi riuscire ad analizzare, monitorare e intercettare i segni distintivi di fenomeni così vari e dispersi, maggiormente orientati da prospettive culturali e non unicamente politiche.

La de-localizzazione ovvero la trasposizione e l’internazionalizzazione di estremismi locali sullo scenario globale, appare infatti essere un’altra caratteristica di questo fenomeno sociologico, spesso inteso dall’immaginario collettivo come geograficamente e culturalmente limitato.

Lo studio di casi ha sottolineato invece, come questi fenomeni siano determinati da confini labili, zone grigie di sovrapposizione fra correnti ideologiche diverse, andando quindi a definire ibridi culturali e ideologici, che spesso sfuggono al fine della categorizzazione sistematica di questa forma di estremismo.

L’evoluzione di questa minaccia secondo una prospettiva temporale tipica del crisis management, mostra quello che potrebbe essere metaforicamente definito come un’Idra di Lerna dalle mille teste: un asse socio – culturale- politico portante capace di orientare e incarnare con le sue infinite teste, le tensioni, i conflitti e le contraddizioni, che presiedono ai contesti urbani o internazionali di questo delicato periodo storico.

Partendo dalla fase di prevenzione e dalla possibilità di predittività della minaccia, ciò che le analisi stanno sempre più mettendo in risalto sono i processi di mimetismo – prodotti dal low profile dei sostenitori – e quello di metamorfosi, che denotano una resilienza intrinseca non solo dei gruppi dichiarati, ma anche dei singoli che per un solo evento decidono di aderirvi.

Da una prospettiva tattica una criticità emergente per la comprensione della minaccia in questa fase, è la spontaneità e l’indipendenza dei partecipanti, che agiscono quindi più in accordo a bisogni emotivi – espressivi individuali e meno a strategie condivise e coordinate tipiche dei gruppi estremisti organizzati.

Le forme espressive tipiche, che è possibile ritrovare in svariati prodotti culturali come lo stile musicale, le immagini, le scritte, i simboli che sempre più spesso rimandano a elementi mitologici, non sembrano servire per affermare un’identità collettiva di gruppo, quanto per rispondere alle esigenze di singoli che possono trovarvi le risposte socio -cognitive, che vanno cercando.

In questa specifica fase, come gli stessi report citati sottolineano, è fondamentale comprendere la distinzione giuridica e istituzionale tipica di ogni nazione, fra fenomeni di estrema destra e hate crime / speech.

Spesso infatti, come il caso americano dimostra, vi sono sovrapposizioni di definizione e trattamento della stessa tipologia di fatti, rendendo quindi la chiave interpretativa più ardua e minando la comprensione da parte del pubblico, diventando quindi egli stesso più esposto a interpretazioni ad hoc di ogni singolo evento.

La fase di risposta ovvero di contrasto a tale fenomeno, si relaziona con la conoscenza pregressa da parte di chi deve contrastarlo, nella comprensione che la plasticità dell’estremismo di destra è al momento una sua caratteristica resiliente, proprio per l’abilità che mostra nel sapere intercettare zone d’ombra nelle quali sia possibile attrarre perfino, sostenitori provenienti da altri ambiti ideologici, come quelli jihadisti.

Questa dimensione segna la tipicità di alcuni processi di radicalizzazione, notando comunque affinità metodologiche tipiche della stessa radicalizzazione islamica, arrivando ad affermare che a modalità simili corrispondono agenti propulsori differenti.

Il fenomeno permane sottostimato, per la mancanza di una sua comprensione olistica e perché influenza un’opinione pubblica spesso orientata da bias storico – culturali, che non permettono la presa di coscienza e l’analisi di un fenomeno socio – storico, che sta assumendo sempre più le caratteristiche di un fatto sociale meno orientato politicamente nelle sue forme più violente, quanto invece violento nelle sue rappresentazioni estremiste individuali o di poche unità.

Al momento sembra infatti, che una sorta di visibilità nell’alveo di un quadro politico estremista possa garantire un minore livello di attività pratica violenta, rendendo quindi la minaccia più latente, ma pur sempre presente.

Ciò che per la sicurezza generale e per il futuro si auspica è la maggiore attenzione a un fenomeno altamente complesso, caratterizzato da un divario interpretativo orientato più politicamente e meno alla comprensione scientifica di prodotti socio- culturali, quali sono i fenomeni estremisti di ogni natura


#ReaCT2020 – L’evoluzione della minaccia terroristica alla luce dell’uccisione di al-Baghdadi (M. Bressan)

di Matteo Bressan, Analista del NATO Defense College Foundation e docente di Relazioni internazionali e studi strategici alla LUMSA

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Diversi sono stati, in questi anni, gli annunci relativi alla sconfitta dell’ISIS. Stati Uniti, Russia, Iran, Iraq ed Hezbollah hanno infatti, più volte, dal 2016 in poi, costruito una narrazione intorno alla vittoria, così come già in passato era già stata annunciata l’uccisione di Al Baghdadi. Lo stesso merito dell’aver sconfitto il DAESH è stato oggetto di contrapposizione e letture differenti. Da un lato l’operazione Inherent Resolve a guida USA iniziata nel 2014, dall’altro la Russia (con ben 100.000 obiettivi colpiti) e infine l’Iran con le sue milizie libanesi, irachene e afghane. In una contrapposizione di narrazioni e contro – narrazioni, gli stessi risultati dell’operazione Inherent Resolve (più di 13.000 raid condotti in Iraq e 16.000 in Siria), alla quale anche l’Italia ha contribuito fornendo assistenza ai Peshmerga della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, sono sembrati aver avuto un minor impatto rispetto agli altri attori del campo di battaglia che, verosimilmente, hanno saputo costruire, specialmente nel caso russo, una narrativa vincente.

Inoltre, le differenti agende di politica internazionale sia degli attori regionali, sia delle superpotenze, hanno vanificato quella unità di intenti e quella necessaria cooperazione per fronteggiare non soltanto la sfida sul campo di battaglia, ma anche la gestione della sconfitta e dell’eredità del DAESH.

È evidente che senza un livello di cooperazione tra gli attori regionali e internazionali che hanno contrastato il DAESH e, senza uno scambio di informazioni, soprattutto sui percorsi che hanno reso possibile l’afflusso in Siria ed Iraq di circa 41.490 combattenti (32.809 uomini, 4.761 donne e 4.640 bambini) provenienti da 80 paesi, sarà difficile fronteggiare il fenomeno dei returnees o la loro adesione e partecipazione ad altri conflitti. La storia dei reduci del conflitto afghano degli anni ’80 ha dimostrato come questi ex combattenti si sparpagliarono in Europa, nei Balcani e in Asia, fino agli attacchi terroristici dell’11 settembre del 2001. Rispetto a quell’esperienza, il fenomeno dei foreign terrorist fighters che hanno aderito al DAESH, ha visto una partecipazione senza precedenti e con motivazioni spesso molto differenti tra loro, di cittadini europei.

La gestione dei prigionieri, delle mogli dei combattenti e dei figli

Lo scorso 16 febbraio, il Presidente Donald Trump aveva chiesto agli alleati europei di riprendersi i propri foreign fighters catturati dalle forze curde in Siria e di provvedere a processarli. L’alternativa, secondo quanto dichiarato da Trump, sarebbe stata la liberazione dei prigionieri (oltre 800 quelli stranieri e un numero di circa 2.000 bambini), con tutti i rischi del caso. Dalla caduta di Baghuz (23 marzo 2019), l’ultima roccaforte dell’ISIS in Siria, sempre più figli e mogli dei soldati del sedicente califfato si sono riversati fuori dai territori controllati per raccogliersi in campi di prigionia nel Nord Est della Siria, in Turchia e nella Regione Autonoma del Kurdistan Iracheno. Il tema posto da Trump, prevedibile sin dal 2014, sulla sorte dei combattenti che fino all’ultima battaglia di Baghuz sono rimasti fedeli all’ISIS, pone domande urgenti, alle quali non è detto che ci sia una risposta giusta e, rispetto alle quali, ogni paese occidentale si sta adoperando in maniera differente. L’offensiva dell’esercito di Ankara all’inizio del mese di ottobre, nei territori dove venivano tenuti prigionieri gli ex combattenti ha destato nuovamente l’attenzione della Comunità Internazionale, preoccupata come in parte accaduto, da possibili fughe dai centri di detenzione siti nel nord – est della Siria e dal ritorno di nuove forme di insorgenza nella stessa Siria ed in Iraq.

Altri foreign fighters

Accanto ai foreign fighters che hanno aderito in un primo momento alle milizie anti – Assad e poi ai gruppi quali al – Nusra e lo Stato Islamico, vanno considerate, nella categoria foreign fighters, anche le milizie sciite intervenute al fianco di Assad, sotto il coordinamento iraniano, così come gli stessi Hezbollah. La loro presenza sul campo di battaglia del SIRAQ non ha avuto la stessa attenzione di cui hanno goduto i miliziani dello Stato Islamico, né tantomeno è stato possibile ricostruire con esattezza la stima esatta di questi combattenti, da ritenersi tuttavia superiore ai 30.000 uomini. Un’altra categoria a lungo sottostimata è stata quella dei combattenti confluiti nel battaglione internazionale delle Unità di protezione popolare (YPG) dei curdi. Il caso del battaglione internazionale delle YPG, costituito da uomini e donne provenienti da Stati Uniti ed Europa, merita una particolare riflessione. I primi combattenti stranieri sarebbero giunti nel 2015, anno di massima espansione territoriale dell’ISIS. Dopo una prima fase «difensiva» nella battaglia di Kobane, le milizie curde, sostenute dagli Stati Uniti hanno svolto un ruolo determinate nella sconfitta territoriale dell’ISIS e molti combattenti hanno aderito al progetto politico e ideologico del Rojava. I volontari stranieri delle YPG possono essere divisi in tre gruppi:

  • Militanti di estrema sinistra e anarchici che decidono di unirsi alla guerra per solidarietà internazionale (francesi, tedeschi, britannici e italiani);
  • Indipendentisti e separatisti europei (bretoni, catalani, baschi e nordirlandesi);
  • Combattenti, compresi militanti di estrema destra, motivati dall’idea di difendere l’Occidente contro il jihadismo.

Alla regione siriana del Rojava e all’esperimento di “autorganizzazione politico – sociale”, ispirato dal leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Ocalan, sono riconducibili i circuiti anarchici italiani e ambienti dell’estremismo marxista, che hanno aderito alla causa curda sia con la spedizione di materiale medico che con l’adesione di alcuni connazionali al battaglione internazionale[1]. Proprio lo scorso marzo, nelle ultime battaglie che hanno preceduto la caduta di Baghuz, l’ISIS annunciava la morte dell’italiano Alessandro Orsetti, andato a combattere come volontario al fianco dei curdi delle YPG[2]. Lo scorso gennaio, la Procura di Torino aveva chiesto per 5 connazionali, rientrati dalla Siria dopo aver combattuto con le YPG, la sorveglianza speciale, che prevede il sequestro di patente e passaporto, l’obbligo di firma e di dimora e il divieto di svolgere attività sociali e politiche[3]. Il loro profilo è particolarmente interessante perché collegato agli ambienti anarchici e dell’antagonismo di Torino riconducibili ad alcuni centri sociali, tra cui l’Asilo e l’Askatasuna. Secondo la Procura di Torino, sono socialmente pericolosi ed inoltre avrebbero imparato ad usare armi[4]. Il Tribunale di Torino, nel mese di giugno, ha respinto la sorveglianza speciale per due dei 5 combattenti rientrati in Italia e, per gli altri tre, ha disposto nuovi accertamenti. Il pubblico ministero temeva che, tornati in Italia, potessero sfruttare le loro capacità acquisite sul campo di battaglia per utilizzare armi e condurre azioni di guerriglia. La Procura ha ritenuto che l’addestramento all’uso delle armi in guerra non possa essere ritenuto rischioso se non viene valutato il comportamento tenuto una volta tornati in Italia[5].

L’incognita di Al – Qaeda in Siria

Ad oggi, nella provincia di Idlib, permangono importanti gruppi jihadisti quali:

Hayat Tahrir al-Sham: è l’evoluzione del gruppo qaedista al Nusra. Ha tra i 12.000 e i 15.000 combattenti e ha centrato la sua agenda sulla lotta al governo di al-Assad, senza mostrare interesse a condurre attacchi all’estero, secondo una recente valutazione delle Nazioni Unite.

Hurras al-Din: si ritiene che abbia tra i 1.500 e i 2.000 combattenti, la metà dei quali sono combattenti terroristi stranieri, una percentuale molto più elevata rispetto a Hayat Tahir al-Sham. Secondo le Nazioni Unite, Hurras al-Din ha un maggior interesse alla realizzazione di attacchi all’estero. I funzionari dell’antiterrorismo americano stanno esprimendo un crescente allarme per questo gruppo affiliato ad Al – Qaeda, sorto nel 2018, ritenendo che possa pianificare attacchi contro l’Occidente sfruttando il caos nel nord-ovest del paese e la protezione inavvertitamente offerta dalle difese anti aeree russe, che proteggono le forze del governo siriano alleate con Mosca

National Liberation Front: gruppo ribelle sostenuto dalla Turchia.

Turkistan Islamic Party (TIP): gruppo composto prevalentemente da miliziani uiguri originari della regione dello Xinjiang.

Analizzando il trend complessivo della riorganizzazione di Al – Qaeda, la diffusione delle sigle jihadiste è ben più estesa, a livello geografico, di ciò che rimane in Siria. La perdurante instabilità in Iraq, la guerra nello Yemen, le tensioni in Libano e la pressione dei profughi in Giordania, possono rappresentare un terreno potenziale d’infiltrazione. Non va dimenticato come a fronte delle preoccupazioni rappresentate del 2013 dall’ISIS, gruppi come Al Qaeda si siano sostanzialmente rinforzati in Mali, Algeria, Niger, Kenya, Somalia, Yemen, e Afghanistan e Pakistan.

Accanto all’evoluzione così come al rafforzamento di Al – Qaeda in alcune aree della regione, va ad aggiungersi la perdurante instabilità nell’area dei Balcani occidentali ed in particolar modo nel Kosovo. La titubanza, così come la contrarietà da parte di alcuni paesi europei all’allargamento agli Stati dei Balcani occidentali dell’Unione Europea, può determinare il riemergere di tensioni nazionaliste così come una maggiore difficoltà nella gestione, in termini di cooperazione tra forze di polizia, delle sfide emergenti, quali il ritorno dei foreign fighters. La regione dei Balcani occidentali ha visto infatti il triste primato di più di 1.000 combattenti andati in Siria ed Iraq, con il caso del Kosovo che, con più di 350 combattenti, rappresenta il numero più elevato di foreign fighters, in rapporto alla popolazione.

[1] La valenza “rivoluzionaria del Rojava”, in Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2018, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, 28 febbraio 2019

[2] Siria, l’annuncio dell’Isis: “Abbiamo ucciso un crociato italiano”. È Lorenzo Orsetti, la Repubblica, 18 marzo 2019 https://www.repubblica.it/cronaca/2019/03/18/news/italiano_ucciso_in_siria_da_isis-221894468/

[3] Gli stranieri che combattono contro l’ISIS, il Post 23 marzo 2019 https://www.ilpost.it/2019/03/23/stranieri-guerra-contro-isis/

[4] Torino, andarono a combattere contro l’Isis: la procura chiede la sorveglianza per 5 foreign fighters, la Repubblica, 4 gennaio 2019 https://torino.repubblica.it/cronaca/2019/01/04/news/torino_andarono_a_combattere_contro_l_isis_la_procura_chiede_la_sorveglianza_per_4_foreign_fighters-215810907/

[5] A. Giambartolomei, Torino, respinta la sorveglianza speciale per due giovani che combatterono l’ISIS in Siria: nuovi accertamenti per altri tre, il Fatto Quotidiano, 20 giugno 2019 https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/06/20/torino-respinta-la-sorveglianza-speciale-per-due-giovani-che-combatterono-lisis-in-siria-nuovi-accertamenti-per-altri-tre/5269486/