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Nell’(eterna) attesa della de-radicalizzazione: il caso Pakistan

di Francesco Valacchi,

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Nell’estate del 2019 il Primo ministro pakistano, durante la sua visita negli Stati Uniti, aveva dichiarato che il suo governo era il primo, dopo molti anni, a cercare concretamente di disarmare i gruppi terroristici sul proprio territorio. Sempre nel 2019 Imram Khan (eletto nel 2018) aveva affermato che intraprendere la lotta al terrorismo al fianco degli stati occidentali (nel 2001) era stato “uno dei più grandi errori che il Pakistan aveva commesso” (Afzal, 2019), perché a suo dire il Pakistan aveva finito per attirarsi le ire dei gruppi estremisti (già presenti sul proprio territorio) e subirne le conseguenze, cercando soluzioni di compromesso e troppo spesso subendo l’iniziativa degli attori esterni. Grazie ad alcune vittorie militari precedenti ed alla sapiente gestione del suo PTI, al governo dal 2018, la situazione era finalmente evoluta verso il meglio e la fine della guerra al terrore era finalmente a portata di mano.

Le omissioni di Imram Khan

La Repubblica islamica del Pakistan è stata certamente decisa nella guerra al terrorismo negli ultimi anni, con l’introduzione di elementi normativi particolari come l’amendment al Pakistan Army Act del 2015 Islamabad aveva delegato alle Forze Armate la completa giurisdizione su reati riguardanti il terrorismo, ma essenzialmente rappresentano una lunga serie di reati che potevano essere riportati, anche in senso molto estensivo, all’estremismo. Tali reati sono stati giudicati e puniti non più secondo la giustizia pakistana ma istruendo i processi secondo regolamenti interni delle Forze Armate e da giudici militari, in pratica in un regime di Legge Marziale. Questa particolarità giuridica, inizialmente della durata prevista di due anni è stata successivamente avallata per altri due nel 2017.

Nello stesso periodo, a partire dal 2014 una serie di operazioni militari sono state lanciate a seguito del fallimento delle trattative del governo di Nawaz Sharif, nelle Aree Tribali e nel Khyber Paktwunkwa. In particolare le Forze Armate si sono mosse per colpire, oltre al TTP (Tehreek-i-Taliban Pakistan), L’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU), the L’East Turkestan Islamic Movement (ETIM), Lashkar-e-Jhangvi (LeJ), Lashkar-e-Taiba (LeT), al-Qaeda (presente anche nella città di Karachi), Jundallah, Haqqani network e le infiltrazioni del “sedicente stato islamico” sul territorio. La prima operazione, in grande stile, è stata denominata “Operazione Zarb-e-Azb” (“Affilata e tagliente”). Oltre a questa sono state condotte numerose piccole operazioni mirate che hanno ottenuto risultati di una certa qual consistenza.

La figura che si è imposta nella lotta all’estremismo è stata essenzialmente quella del Generale Raheel Sharif (“Dawn” redazione, 2017) che ha tenuto la carica di Capo di stato maggiore dell’esercito sino al novembre 2016, per poi essere chiamato a divenire comandante militare della Coalizione antiterrorismo islamica (con sede a Riad), anche grazie alla fama internazionale raggiunta.

Al contempo già a partire dal 2015 si era registrato un netto calo del numero degli attacchi terroristici che dai 2779 del 2014 erano passati ai 1773 del 2015, per continuare nel trend gli anni successivi (South Asia Terrorism Portal, 2020).

La narrativa sostenuta da Imram Khan appare quindi non considerare i pregressi risultati e far risalire tutti i meriti al suo governo.

La situazione di sicurezza dal 2018

Dai dati pubblicati on-line e dichiarati dal governo pakistano è chiaro un miglioramento delle condizioni di sicurezza ed un calo del numero e della gravità degli attacchi (Afzal, 2021) che si coniuga con un’articolata azione giudiziaria specialmente nei confronti dei capi del LeT. Tale azione è però da considerarsi un prodromo di quanto intrapreso dal governo di Nawaz Sharif, mentre il governo attuale sembra essere subentrato a capo della strategia portata avanti dalle Forze armate negli anni precedenti e ha iniziato a vantarla anche in ambito diplomatico con il ruolo avuto nella trattativa di pace per l’Afghanistan. Anche in questo caso però la narrativa del governo di Imram Khan non è completa, dal momento che il capo dell’esecutivo pakistano si è vantato di un rapporto di forza favorevole che ha ottenuto con le vittorie militari e giudiziarie contro il TTP (movimento completamente indipendente dai talebani afghani). L’atteggiamento ufficiale pakistano sta portando il governo a farsi garante di una situazione che non è completamente sotto il suo controllo (Naushad, 2020) e potrebbe ritorcersi contro l’esecutivo di Islamabad. Il rinnovo della nomina del Generale Qamar Javed Bajwa che Imram Khan ha disposto nel 2019 espone ulteriormente il PTI anche a problematiche di equilibri interni raggiunti con l’esercito, da sempre pedina di peso nella politica di Islamabad.

Valutazioni

Nella Repubblica islamica del Pakistan i militari hanno avuto un ruolo determinante nella politica almeno sino al 2013, con l’elezione di Nawaz Sharif (che ha saputo ridimensionare il ruolo delle forze armate). Il grande merito del deposto Primo ministro è stato riuscire far accettare alle gerarchie militari non solo il trasferimento in Arabia del Capo di stato maggiore uscente: Raheel Sharif, suonato a molti come una sorta di promoveatur ut amoveatur, ma anche la nomina a suo successore di Qamar Javed Bajwa (quarto per anzianità dopo Raheel Sharif. Dal momento del subentro al potere Imram Khan sembra essersi preoccupato di sfruttare i vantaggi accumulati dal governo precedente e aver accondisceso alle istanze della dirigenza militare, anche concedendo il prolungamento del mandato di Qamar Javed Bajwa, questa situazione potrebbe portarlo ad una pericolosa impasse che deteriorerebbe il potere politico di fronte a quello militare e concederebbe respiro ai gruppi estremisti.

Foto di Hammad Anis

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Gli ostacoli sulla Nuova Via della Seta

Guerre ibride sulla Nuova Via della Seta

Leggi la recensione completa con l’indice dei contenuti e gli autori del saggio sul sito di Bloglobal.net 

di Chiara Sulmoni

A seguito di un attacco avvenuto nella mattinata di oggi, 23 novembre, al consolato cinese di Karachi, lo snodo commerciale del Pakistan, vi proponiamo la lettura di una serie di saggi raccolti nel libro Eurasia e Jihadismo – Guerre ibride sulla Nuova Via della Seta, a cura di Matteo Bressan, Stefano Felician Beccari, Alessandro Politi e Domitilla Savignoni, edito da Carocci (2016).

La realtà descritta nel libro disegna il contesto dentro il quale poter leggere gli avvenimenti (una possibile lettura, per il momento). Nello specifico, stiamo parlando dell’intenso lavoro di sviluppo infrastrutturale e di cooperazione economica fra Pakistan e Cina, nell’ambito della costruzione (anche diplomatica) della Nuova Via della Seta a trazione cinese. L’incognita del terrorismo e l’insicurezza gravano su ampie tratte del progetto.

Estratto dalla recensione del libro apparsa su Bloglobal.net 

“Nonostante l’attenzione dei media e dei governi occidentali sia ormai concentrata sul fronte siriano e iracheno, l’Afghanistan e le sue frontiere a sud-est con il Pakistan, a est con la Cina, a nord con Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan e a ovest con l’Iran rimane un’area fortemente instabile, percorsa da gruppi jihadisti non solo talebani, e dove si è recentemente insediata anche la sigla dell’IS (Islamic State – Khorasan Province). Una minaccia concreta che irradia da uno snodo importante per la Nuova Via della Seta, un grande piano di sviluppo dei trasporti e di corridoi commerciali promosso dalla Cina, volto a facilitare il transito di merci ed energia dall’Asia all’Europa. Un progetto ambizioso, noto anche con il nome di “One Belt, One Road” (o OBOR), che dovrebbe coinvolgere sul suo tragitto oltre 60 nazioni e che prevede la realizzazione di una serie di collegamenti autostradali, linee ferroviarie ad alta velocità, impianti d’appoggio come reti elettriche, oleodotti, gasdotti, parchi industriali. È prevista anche una via marittima che girerà attorno all’Asia del Sud per approdare in Africa Orientale, e attraverso il canale di Suez, arrivare al Mediterraneo.

Eurasia e jihadismo è una raccolta di analisi dettagliate che rintracciano alcuni seri ostacoli su questo percorso commerciale (…) Attraverso gli scambi e quella che Wade Shepard su Forbes chiama “diplomazia infrastrutturale”, definisce infatti nuovi scenari di influenza per Pechino. E gli ostacoli più temibili, che gettano ombre sempre più lunghe sulle strade di questo mirabolante piano sono rappresentati dalle cosiddette “guerre ibride”, cioè azioni ostili che possono rientrare nelle categorie di conflitti a bassa intensità oppure di natura confessionale, insurrezioni, attentati, pirateria dei mari, crimini informatici, offensive mediatiche, corruzione, criminalità organizzata, traffici illeciti.”