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Il vertice NATO e la questione afghana: cosa accadrà? L’intervista a C. Bertolotti

L’intervista di Paola Nurnberg a Claudio Bertolotti per la Radio e televisione Svizzera italiana – RSI

Radiogiornale del 24 marzo 2021

Cosa possiamo aspettarci dalla nuova amministrazione usa dopo le parole di Blinken che partecipa al vertice NATO?

Il conflitto afghano va «concluso in modo responsabile», lo ha detto il segretario alla difesa Austin nella sua recente visita a Kabul, e questo implica un posticipo di almeno sei mesi per il ritiro statunitense dall’Afghanistan, invece delle sei settimane come imporrebbe l’accordo con i talebani. Ma questo i talebani non lo accetteranno, se non in cambio di ulteriori concessioni, delle tante che sono state già fatte.

Biden ha dichiarato di voler sostenere la “diplomazia” con i talebani, esortando il gruppo a ridurre la violenza, a partecipare “in buona fede” ai negoziati tagliando i legami con al-Qa’ida – cosa che però non è avvenuto, consentendo a Washington un appiglio formale per posticipare il disimpegno dalla guerra più lunga. Ma sebbene spostato in la nel tempo, il risultato non cambierà: di fatto Biden vorrebbe ottenere in pochi mesi ciò che i suoi predecessori hanno tentato di fare nel corso di anni. Ovviamente non ci riuscirà.

Qual è la reale influenza degli USA in Afghanistan dato che hanno poche truppe anche rispetto ad altri paesi (Germania-Italia)?

La differenza è concreta: se è vero che gli Stati Uniti hanno un minor numero di truppe all’interno della missione Resolute Support della NATO, Washington è però l’unica a schierare nel paese truppe combattenti e forze speciali in numero sufficiente a condurre operazioni mirate, di cui un migliaio oltre ai numeri ufficiali. La NATO si limita invece ad addestrare un numero sempre più esiguo di truppe afghane, senza però operare sul campo di battaglia.

Inoltre gli Stati Uniti sono maggiormente impegnati nel sostegno economico e materiale alle forze di sicurezza afghane, che senza quel sostegno collasserebbero.

Dopo quasi 20 dall’invasione del 2001 la situazione nel paese è drammatica. L’accordo di pace coi talebani non di concretizza, in più nel paese agisce anche lo Stato islamico

Dobbiamo partire dal presupposto che quella afghana è una guerra persa, che può essere prolungata ma non risolta. Una guerra che ha devastato il paese, lasciandolo in macerie e preda di una nuova guerra civile che cova sotto la cenere. I talebani hanno ottenuto da Washington tutto quello che hanno chiesto, ora si preparano a prendere il potere, e a pagare il conto sarà il governo afghano di Asraf Ghani che dovrà gestire anche le resistenze e le ambizioni dei signori della guerra e delle milizie personali che potrebbero opporsi ai talebani e dare il via a una nuova fase di guerra civile. Lo Stato Islamico in Afghanistan è un fattore di ulteriore destabilizzazione, che al momento alterna l’attivismo con l’attesa: quando la NATO e Washington se ne saranno andati, allora si aprirà la partita anche per i jihadisti dello Stato islamico che sono numericamente pochi rispetto ai talebani ma molto ambiziosi.


L’Afghanistan di Biden: alla ricerca di una via d’uscita

di Claudio Bertolotti

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Articolo originale pubblicato per Europa Atlantica

L’eredità di Donald Trump

Il passaggio di potere dall’amministrazione di Donald J. Trump a quella del neo presidente Joseph R. Biden jr. è in primo piano sullo sfondo dei colloqui intra-afgani.

L’accordo negoziale, concluso tra il governo degli Stati Uniti ei talebani a Doha nel febbraio 2020, prevede il ritiro totale delle forze statunitensi entro il 1° maggio 2021 in cambio di un abbassamento del livello di violenza da parte dei talebani fissato all’80% e la fine della collaborazione con al-Qa’ida: ma i talebani, ad oggi, non hanno rispettato nessuno degli impegni alla base di quell’accordo. Tutto come previsto.

L’ex presidente Trump, alla fine dello scorso anno, aveva ordinato il ritiro parziale dei militari statunitensi dall’Afghanistan, coerentemente con il suo obiettivo politico (ed elettorale) di porre fine alle “guerre americane senza fine”. Un ritiro che, nonostante l’incessante offensiva talebana, si è concretizzato il 15 gennaio e che ha ridotto la presenza di truppe statunitensi in Afghanistan da 4.500 a 3.000: una scelta che, di fatto, ha aperto la porta a un ritorno dei talebani al governo del paese – al termine di una guerra, ormai persa, che si è concentrata prima sull’annientamento, poi sul contenimento e infine sul dialogo alla pari con i talebani, cacciati dalla guida del paese proprio dagli Stati Uniti nell’ottobre del 2001.

La doppia strategia dei talebani

La strategia dei talebani per negoziare un accordo con il governo afghano – la cui Costituzione e principi sono rifiutati dal movimento talebano in quanto “non islamici” – si muove sostanzialmente su due piani: da una parte la partecipazione formale a un dialogo negoziale volutamente rallentato e inconcludente, dall’altra parte la rinnovata determinazione a ottenere una vittoria militare per prendere il pieno controllo del paese dopo il ritiro, ormai prossimo, delle truppe statunitensi e della NATO.

I talebani, che ormai da tempo controllano o hanno influenza su metà del paese, hanno dato avvio a un’offensiva violenta sostenuta da una serie di attacchi e di uccisioni mirate di giornalisti, funzionari e membri delle forze di sicurezza afghane ed esponenti della società civile: una conferma della volontà di vanificare il dialogo negoziale, seminando panico e minando la già scarsa fiducia nei confronti del governo afghano.

La Nato e i suoi limiti

Il presidente afghano Mohammad Ashraf Ghani e il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg hanno recentemente discusso “del processo di pace afghano e del continuo sostegno della NATO alla forza di difesa e sicurezza afghana”. L’Alleanza Atlantica ha inoltre ribadito la volontà di sostenere le forze afghane – che sono deboli, prive di capacità operativa autonoma – e di continuare la sua missione di addestramento, consulenza e assistenza.

È però vero che, a fronte del possibile disimpegno statunitense, la NATO potrebbe fare davvero poco per continuare a sostenere il governo afghano, anche perché, a differenza delle truppe combattenti statunitensi dell’operazione Freedom’s Sentinel, l’Alleanza Atlantica non schiera nel paese truppe combattenti, né ha la necessaria logistica per sostenere un’eventuale azione di combattimento.

La visione di Joe Biden

Il ritiro parziale delle truppe statunitensi dall’Afghanistan è una mina che l’amministrazione Trump ha lasciato al suo successore, e la scadenza fissata al 1° maggio per il ritiro delle truppe è la più grande sfida iniziale per il negoziato ed la decisione più urgente per Biden.

Sebbene sia trapelata la decisione di Biden di posticipare il ritiro delle truppe rispetto a quanto inizialmente concordato, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha affermato che la nuova amministrazione sosterrà la “diplomazia” con i talebani, esortando il gruppo a ridurre la violenza, a partecipare “in buona fede” ai negoziati con il governo afghano e a tagliare i legami con al-Qa’ida – cosa che però non avverrà, con buona pace di chi ancora crede alle garanzie dei talebani.

Biden avrebbe però manifestato l’intenzione di voler mantenere una piccola presenza di unità di intelligence a Kabul. Ma i talebani, nel rifiutare categoricamente questa ipotesi, hanno chiesto a Biden di onorare l’accordo degli Stati Uniti per un ritiro di tutte le forze americane dall’Afghanistan entro la data concordata. Talebani che, in caso contrario, si sentirebbero legittimati ad aumentare – ancora di più – l’intensità della loro violenta offensiva con attacchi nei centri abitati e contro le forze internazionali.

Poiché la residua forza militare è insufficiente per contrastare e contenere i talebani e gli altri gruppi insurrezionali e terroristi, il presidente Biden potrebbe essere costretto a prendere una decisione impopolare: l’invio di ulteriori truppe in Afghanistan, allo scopo di impedirne la conquista totale da parte talebana.

Foto: US Dept. of Defense

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NATO e Afghanistan (ISPI)

IL SUMMIT E IL FUTURO DELLA GUERRA

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato per ISPI, Commentary 13 luglio 2018

I capi di stato e di governo si sono incontrati a Bruxelles l’11-12 luglio in occasione del 29.° Summit della NATO, a cui hanno preso parte i 29 paesi membri – per l’Italia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, accompagnato dai ministri Elisabetta Trenta (Difesa) ed Enzo Moavero Milanesi (Affari Esteri) –, 20 paesi partner e i rappresentanti delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, della banca mondiale e la rappresentanza parlamentare dei paesi NATO.

Il focus della NATO rimane il fronte dell’Est, ma con uno sguardo anche a sud

Dalla Readiness Initiative “Four-Thirties” – prevalentemente in funzione di capacità sul fianco orientale – alla mobilità militare, passando per l’Hub di Napoli e l’impegno contro il terrorismo attraverso una nuova missione di addestramento in Iraq e un maggiore sforzo a supporto dei partner dell’area mediorientale e nord africana, in particolare Tunisia e Giordania. In un quadro di discussione generale in cui l’argomento cardine è stato l’impegno degli alleati al mantenimento della NATO attraverso una più equa condivisione degli oneri (burden-sharing), è stata anche discussa quella che dovrà essere la capacità operativa dell’Alleanza Atlantica in un’ottica di maggiore deterrenza e difesa. Questa la sintesi del summit della NATO il cui documento finale, che si basa sul consenso unanime dei 29 Alleati: un impegno di massima che tiene conto delle ambizioni e dei diversi interessi nazionali, in primis quello statunitense.

Tra i temi sul tavolo, non il principale ma certamente quello che tiene vincolata la NATO da ormai 18 anni, la guerra in Afghanistan e l’impegno per il futuro dell’Alleanza con il governo di Kabul.

L’Afghanistan rimane nell’agenda della NATO fino al 2024

L’ultimo Summit era stato quello di Varsavia, a luglio 2016, e in tale occasione la questione afghana era già stata posta in secondo piano, in un’ottica del progressivo disimpegno – la “transizione irreversibile” – annunciato quattro anni prima dall’allora presidente Barack Obama, in occasione del Summit NATP di Chicago del 2012. Un disimpegno formale a cui si è affiancato l’onere concreto di continuare ad assistere l’Afghanistan, in termini di risorse economiche e materiali, sino al 2020 attraverso il proseguimento di “Resolute Support“, la missione di addestramento, assistenza e consulenza a favore del governo afghano e, in particolare, delle sue forze di sicurezza.

Il 29.° Summit di Bruxelles, in linea con gli indirizzi e gli impegni precedenti, si è chiuso il 12 luglio con un nuovo incontro sull’Afghanistan al termine del quale sono stati confermati gli impegni precedenti e ne sono stati formalizzati di nuovi. A fronte della dichiarazione formale di intenti, ciò che più premeva agli Alleati era la conferma dell’impegno della NATO in Afghanistan sino a tutto il 2024, impegno contenuto al punto n.53 (di 79) della dichiarazione congiunta. Così è stato. Un esito certamente scontato, ma la posizione ufficiale dell’Alleanza è un passaggio formale necessario che andava espletato attraverso il manifesto e unanime consenso.

Molto soddisfatto il governo afghano, presente a Bruxelles con i due massimi rappresentanti – il presidente Ashraf Ghani e il primo ministro esecutivo Abdullah Abdullah –, che ottiene molto: il rinnovo fino al 2024 del sostegno economico all’Afghanistan, attualmente stabilito nella cifra di 3 miliardi di dollari l’anno fino al 2020 da parte della comunità internazionale, di cui 1,5 a carico dell’Unione Europea, e altri 5 miliardi a carico degli Stati Uniti, dei quali 4 destinati al mantenimento dell’apparato di sicurezza e difesa e 1 per lo sviluppo di progetti di assistenza civile.

Ossigeno per le casse di uno stato le cui entrate annuali derivano al 70 percento dagli aiuti internazionali e il cui bilancio è impegnato al 42 percento da spese per la difesa.

Dunque dalla “transizione irreversibile” alla conferma di una presenza militare di lungo termine che prevede, oltre al supporto finanziario necessario al mantenimento dell’apparato di difesa e sicurezza, anche la rimodulazione del dispiegamento di truppe sul terreno, tra chi si è impegnato ad aumentarlo e chi, invece, vorrebbe ridurre la presenza di proprie truppe sul terreno.

La dichiarazione congiunta, le conseguenze e le criticità

La NATO riafferma il suo “impegno a garantire la sicurezza e la stabilità a lungo termine in Afghanistan“. Un impegno mai venuto meno, pur a fronte di un significativo ridimensionamento delle truppe sul terreno a partire dal 2012, momento in cui erano schierati nel paese circa 140.000 militari delle due missioni ISAF (International Security Assistance Force), a guida NATO, ed “Enduring Freedom”, l’operazione di combattimento statunitense svincolata dall’Alleanza Atlantica. Un ridimensionamento che ha portato gli attuali numeri dello sforzo militare sotto le 20.000 unità, schierate con la Resolute Support della NATO e la Freedom’ Sentinel statunitense (erede di Enduring Freedom e composta prevalentemente da forze speciali e unità di attacco aereo), e che, nel cedere la responsabilità alle forze di sicurezza afghane, ha portato i talebani e gli altri gruppi di opposizione armata – tra i quali il sempre più minaccioso Stato islamico-Khorasan, emanazione del movimento di Abu Bakr al-Baghdadi in Siria e Iraq – ad occupare circa il 40 percento del paese, a danno del governo nazionale.

Le forze della NATO, così come sono oggi impiegate e strutturate, non possono fare nulla né per contrastare l’avanzata talebana, né per consentire alle forze di sicurezza di Kabul di operare con adeguata capacità, tenuto conto che più della metà dei reparti afghani non è in grado di condurre operazioni in maniera autonoma e che i tassi di diserzione e abbandono sono in costante aumento. Una situazione che contrasta con quanto riportato nella dichiarazione congiunta in cui viene affermato che la missione Resolute Support: “sta ottenendo successo nell’addestramento, nella consulenza e nell’assistenza alle forze nazionali di difesa e sicurezza afghane“.

Ma la parte più interessante, e più attesa dalle parti in causa, è l’impegno dell’Alleanza a proseguire con il “sostegno finanziario alle forze afghane fino al 2024” e la promessa “di colmare le carenze di personale, specialmente nelle aree prioritarie“.

In primo luogo non sfugge il termine fissato per il proseguimento degli aiuti al governo afghano, il 2024, che coincide con la scadenza formale del Security and Defense Cooperation Agreement (che include lo Strategic Partnership Agreement siglato nel 2012) tra Afghanistan e Stati Uniti, firmato dal presidente Ghani e dall’omologo statunitense Obama nel 2014. Un accordo che prevede, in estrema sintesi, l’utilizzo esclusivo delle basi strategiche occupate dalle forze statunitensi su suolo afghano e che potrà essere rinnovato previo consenso diretto tra i due rispettivi ministri della Difesa. La posizione strategica di tali basi è funzionale alla politica di contenimento e controllo statunitense nell’area, tenuto conto che il raggio operativo degli equipaggiamenti lì schierati consente di agire potenzialmente in Iran, nelle ex-repubbliche centro asiatiche, in Russia, Cina, Pakistan e India. Dunque, molte ragioni (statunitensi) per rimanere, nessuna per andarsene.

In secondo luogo, relativamente all’impegno di colmare le carenze di personale, gli Stati Uniti – che sarebbero impegnati in un’ulteriore revisione della strategia per l’Afghanistan – hanno già aumentato il proprio contingente e potrebbero incrementarne gli organici nel breve periodo. Non ha stupito dunque la disponibilità del Primo ministro britannico Teresa May a raddoppiare le truppe del Regno Unito in Afghanistan, portandole da 650 a 1.100. In direzione opposta andrebbe – il condizionale è d’obbligo – l’Italia, il cui ministro della Difesa Elisabetta Trenta, in linea con quanto aveva deciso il precedente esecutivo, punterebbe a un ridimensionamento dello sforzo militare italiano (portando le truppe da 900 a 700) in favore di altri teatri operativi più vicini all’interesse strategico nazionale, come il Libano, la Libia e il Niger; una scelta, quella italiana da avviare in coordinamento e sulla base della disponibilità degli altri partner dell’Alleanza a compensare “l’alleggerimento” italiano. Ma è pure vero che non sono i numeri a fare la differenza in questo momento (comunque troppo esigui), bensì la tipologia di truppe e i loro limiti di impiego. Meglio un contingente ridotto ma operativo, anche in un’ottica di cooperazione paritetica e bilanciata tra gli alleati. In altri termini: se gli Stati Uniti combattono, è opportuno che lo facciano anche gli alleati.

Infine, l’ultima parte del solo punto dedicato all’Afghanistan si concentra sul ruolo degli attori regionali nel “sostegno della pace e della stabilizzazione in Afghanistan” invitati “a cooperare più strettamente nella lotta al terrorismo, a migliorare le condizioni per lo sviluppo economico, a sostenere gli sforzi di pace e riconciliazione del governo afghano e a prevenire qualsiasi forma di supporto all’insurrezione“, con particolare riguardo a “Pakistan, Iran e Russia” invitati “a contribuire alla stabilità regionale sostenendo pienamente un processo di pace guidato dall’Afghanistan”. Un invito che, se da un lato apre le porte ai principali attori regionali, dall’altro segue i richiami che gli Stati Uniti hanno in più occasioni rivolto ai tre paesi accusati, in maniera diretta e indiretta, di sostenere i gruppi insurrezionali ai fini delle proprie agende nazionali o in opposizione all’impegno degli Stati Uniti in Afghanistan.

Nessun riferimento alla Cina, che in Afghanistan riveste un ruolo di primo piano nello sviluppo infrastrutturale, attraverso la costruzione di strade e l’estrazione mineraria, e nel processo negoziale con i talebani, formalmente invitati e ospitati in Cina in più occasioni a partire dal 2015. Beijing ha bisogno di un’area stabile ai propri confini, questo per ragioni di politica interna (il rischio di allargamento delle istanze autonomiste unite al crescente jihadismo degli uiguri, la minoranza musulmana dello Xinjiang) e di sostenibilità degli investimenti all’estero, in primo luogo la “”uova Via della Seta” (o OBOR – One Belt, One Road) che, pur non attraversando l’Afghanistan, ne lambisce i confini.

Una nuova strategia degli Stati Uniti?

I tale quadro, che ha visto la partecipazione dei capi di stato delle principali potenze mondiali, rimane un’incognita, che avrà la capacità di condizionare l’esito di qualunque decisione presa a Bruxelles. La reazione dei talebani e degli altri gruppi di opposizione armata, in primo luogo lo Stato Islamico-Khorasan.

I primi, in grado di controllare una parte consistente del paese ma afflitti da un processo di frammentazione e competizione interna tra l’ala pragmatica, propensa a un accordo negoziale, e quella radicale, votata alla lotta ad oltranza. I secondi, desiderosi di imporre la propria presenza attraverso il ricorso a una sempre più violenta offensiva per portare quella che è una guerra di liberazione nazionale all’interno di un conflitto globale su base ideologica.

Infine, dipenderà anche da cosa deciderà Washington e da quali elementi innovativi introdurrà la nuova strategia per l’Afghanistan. Difficile ipotizzare qualcosa di radicalmente nuovo, essendo state adottate e sperimentate, dal 2001 a oggi, molte strategie militari. È immaginabile un aumento di truppe, in particolare forze speciali e addestratori, e maggiore azione aerea contro obiettivi di “alto valore” strategico. Ma ancora una volta, non sarà lo strumento militare a fare la differenza.