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De-radicalizzazione e studi sul cervello degli estremisti jihadisti nella puntata del programma ‘Laser’ (Radio svizzera di lingua italiana)

Di cosa si occupano e cosa implicano i programmi di de-radicalizzazione?

E come reagisce il cervello di un sostenitore di gruppi jihadisti, in determinate situazioni? Cosa ci raccontano le scansioni cerebrali?

Cosa può intensificare la radicalizzazione e cosa favorisce invece il distacco e il disimpegno dalla violenza? 

spesso gli individui, quando vengono allontanati dall’ISIS o da al-Qaeda o da altri orientamenti jihadisti, si trovano nella condizione di non appartenere più a nessuno. La loro identità è spezzata, non corrisponde più a quella del combattente in guerra contro il mondo. Anche il rapporto con la moralità è reciso, perché la loro prospettiva precedente, che era bianca o nera, è andata in frantumi. Non hanno più, necessariamente, un senso della moralità. Ognuna di queste cose deve essere sostituita da un’altra. Devono essere reintegrati. (Rashad Ali)

ASCOLTA ‘DERADICALIZZAZIONE. DENTRO LA MENTE JIHADISTA’ 

Nella puntata del programma Laser (RSI) andato in onda martedì 22 settembre 2020, Chiara Sulmoni ne ha parlato con Rashad Ali (Institute for Strategic Dialogue, Londra), impegnato nei progetti di contrasto al radicalismo sia nelle prigioni, che nell’ambito della libertà vigilata e della società più in generale; e con Nafees Hamid, ricercatore e psicologo della radicalizzazione (Artis International e International Centre for Counter-Terrorism), che racconta i risultati delle sue indagini sul terreno in Spagna, volte a capire cosa avviene nel cervello di un sostenitore di movimenti jihadisti; con delle conclusioni importanti, per capire anche le difficoltà legate al processo di disimpegno dalla violenza. Questi risultati, convalidati scientificamente dalle scansioni cerebrali, sottolineano e confermano il ruolo centrale dell’esclusione sociale come fattore importante nel processo di radicalizzazione, e rispettivamente dell’influenza e della pressione sociale nel riportare l’individuo a ‘ragionare’, grazie alla riattivazione di aree del cervello che si erano in precedenza spente.

Oltre alle questioni trattate nel documentario di approfondimento, riportiamo un’ulteriore affermazione di Nafees Hamid:

“Tendiamo a concentrarci troppo sul singolo soggetto, sul modo di sviluppare le capacità personali, il pensiero critico, per prevenire la radicalizzazione. Il problema è che mentre la radicalizzazione si manifesta a livello individuale, le sue origini si trovano dentro la comunità. Per questo vediamo una distribuzione geografica caratterizzata da focolai che attecchiscono in quartieri specifici, da cui proviene il grosso delle reclute -vale per tutti i gruppi terroristici, non solo jihadisti-. Si tratta in genere di comunità vulnerabili, dove mancano coesione sociale, senso di identità, di appartenenza, obiettivi da realizzare.

molti sono attratti dai gruppi terroristici perché invitano a battersi per una causa, ti danno qualcosa da fare. Se vogliamo fare prevenzione, non basta buttare lì dei bei messaggi, o creare delle relazioni fra un soggetto e un mentore

Invece di soffermarci tutto questo tempo sulle facoltà individuali e sui messaggi alternativi, dovremmo impegnarci maggiormente nel contrastare il coinvolgimento. Molti sono attratti dai gruppi terroristici perché invitano a battersi per una causa, ti danno qualcosa da fare, una ragione per alzarti dal divano -puoi diventare un foreign fighter, un trafficante, un predicatore, puoi promuovere il movimento, puoi fare delle cose, con la tua vita-. Dovremmo trovare il modo di offrire un’alternativa concreta. Se vogliamo fare prevenzione, non basta buttare lì dei bei messaggi, o creare delle relazioni fra un soggetto e un mentore. Se questa esigenza primaria di essere agenti di cambiamento sociale viene soddisfatta all’interno delle comunità, che sia attraverso i centri sociali, le scuole o altri luoghi dove trovare uno scopo -non un semplice mestiere, o una fonte di reddito, parlo di un vero scopo- allora offri alle persone un motivo per non rivolgersi ai gruppi estremisti.”