#ReaCT2020 – L’evoluzione della minaccia terroristica alla luce dell’uccisione di al-Baghdadi (M. Bressan)

di Matteo Bressan, Analista del NATO Defense College Foundation e docente di Relazioni internazionali e studi strategici alla LUMSA

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Diversi sono stati, in questi anni, gli annunci relativi alla sconfitta dell’ISIS. Stati Uniti, Russia, Iran, Iraq ed Hezbollah hanno infatti, più volte, dal 2016 in poi, costruito una narrazione intorno alla vittoria, così come già in passato era già stata annunciata l’uccisione di Al Baghdadi. Lo stesso merito dell’aver sconfitto il DAESH è stato oggetto di contrapposizione e letture differenti. Da un lato l’operazione Inherent Resolve a guida USA iniziata nel 2014, dall’altro la Russia (con ben 100.000 obiettivi colpiti) e infine l’Iran con le sue milizie libanesi, irachene e afghane. In una contrapposizione di narrazioni e contro – narrazioni, gli stessi risultati dell’operazione Inherent Resolve (più di 13.000 raid condotti in Iraq e 16.000 in Siria), alla quale anche l’Italia ha contribuito fornendo assistenza ai Peshmerga della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, sono sembrati aver avuto un minor impatto rispetto agli altri attori del campo di battaglia che, verosimilmente, hanno saputo costruire, specialmente nel caso russo, una narrativa vincente.

Inoltre, le differenti agende di politica internazionale sia degli attori regionali, sia delle superpotenze, hanno vanificato quella unità di intenti e quella necessaria cooperazione per fronteggiare non soltanto la sfida sul campo di battaglia, ma anche la gestione della sconfitta e dell’eredità del DAESH.

È evidente che senza un livello di cooperazione tra gli attori regionali e internazionali che hanno contrastato il DAESH e, senza uno scambio di informazioni, soprattutto sui percorsi che hanno reso possibile l’afflusso in Siria ed Iraq di circa 41.490 combattenti (32.809 uomini, 4.761 donne e 4.640 bambini) provenienti da 80 paesi, sarà difficile fronteggiare il fenomeno dei returnees o la loro adesione e partecipazione ad altri conflitti. La storia dei reduci del conflitto afghano degli anni ’80 ha dimostrato come questi ex combattenti si sparpagliarono in Europa, nei Balcani e in Asia, fino agli attacchi terroristici dell’11 settembre del 2001. Rispetto a quell’esperienza, il fenomeno dei foreign terrorist fighters che hanno aderito al DAESH, ha visto una partecipazione senza precedenti e con motivazioni spesso molto differenti tra loro, di cittadini europei.

La gestione dei prigionieri, delle mogli dei combattenti e dei figli

Lo scorso 16 febbraio, il Presidente Donald Trump aveva chiesto agli alleati europei di riprendersi i propri foreign fighters catturati dalle forze curde in Siria e di provvedere a processarli. L’alternativa, secondo quanto dichiarato da Trump, sarebbe stata la liberazione dei prigionieri (oltre 800 quelli stranieri e un numero di circa 2.000 bambini), con tutti i rischi del caso. Dalla caduta di Baghuz (23 marzo 2019), l’ultima roccaforte dell’ISIS in Siria, sempre più figli e mogli dei soldati del sedicente califfato si sono riversati fuori dai territori controllati per raccogliersi in campi di prigionia nel Nord Est della Siria, in Turchia e nella Regione Autonoma del Kurdistan Iracheno. Il tema posto da Trump, prevedibile sin dal 2014, sulla sorte dei combattenti che fino all’ultima battaglia di Baghuz sono rimasti fedeli all’ISIS, pone domande urgenti, alle quali non è detto che ci sia una risposta giusta e, rispetto alle quali, ogni paese occidentale si sta adoperando in maniera differente. L’offensiva dell’esercito di Ankara all’inizio del mese di ottobre, nei territori dove venivano tenuti prigionieri gli ex combattenti ha destato nuovamente l’attenzione della Comunità Internazionale, preoccupata come in parte accaduto, da possibili fughe dai centri di detenzione siti nel nord – est della Siria e dal ritorno di nuove forme di insorgenza nella stessa Siria ed in Iraq.

Altri foreign fighters

Accanto ai foreign fighters che hanno aderito in un primo momento alle milizie anti – Assad e poi ai gruppi quali al – Nusra e lo Stato Islamico, vanno considerate, nella categoria foreign fighters, anche le milizie sciite intervenute al fianco di Assad, sotto il coordinamento iraniano, così come gli stessi Hezbollah. La loro presenza sul campo di battaglia del SIRAQ non ha avuto la stessa attenzione di cui hanno goduto i miliziani dello Stato Islamico, né tantomeno è stato possibile ricostruire con esattezza la stima esatta di questi combattenti, da ritenersi tuttavia superiore ai 30.000 uomini. Un’altra categoria a lungo sottostimata è stata quella dei combattenti confluiti nel battaglione internazionale delle Unità di protezione popolare (YPG) dei curdi. Il caso del battaglione internazionale delle YPG, costituito da uomini e donne provenienti da Stati Uniti ed Europa, merita una particolare riflessione. I primi combattenti stranieri sarebbero giunti nel 2015, anno di massima espansione territoriale dell’ISIS. Dopo una prima fase «difensiva» nella battaglia di Kobane, le milizie curde, sostenute dagli Stati Uniti hanno svolto un ruolo determinate nella sconfitta territoriale dell’ISIS e molti combattenti hanno aderito al progetto politico e ideologico del Rojava. I volontari stranieri delle YPG possono essere divisi in tre gruppi:

  • Militanti di estrema sinistra e anarchici che decidono di unirsi alla guerra per solidarietà internazionale (francesi, tedeschi, britannici e italiani);
  • Indipendentisti e separatisti europei (bretoni, catalani, baschi e nordirlandesi);
  • Combattenti, compresi militanti di estrema destra, motivati dall’idea di difendere l’Occidente contro il jihadismo.

Alla regione siriana del Rojava e all’esperimento di “autorganizzazione politico – sociale”, ispirato dal leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Ocalan, sono riconducibili i circuiti anarchici italiani e ambienti dell’estremismo marxista, che hanno aderito alla causa curda sia con la spedizione di materiale medico che con l’adesione di alcuni connazionali al battaglione internazionale[1]. Proprio lo scorso marzo, nelle ultime battaglie che hanno preceduto la caduta di Baghuz, l’ISIS annunciava la morte dell’italiano Alessandro Orsetti, andato a combattere come volontario al fianco dei curdi delle YPG[2]. Lo scorso gennaio, la Procura di Torino aveva chiesto per 5 connazionali, rientrati dalla Siria dopo aver combattuto con le YPG, la sorveglianza speciale, che prevede il sequestro di patente e passaporto, l’obbligo di firma e di dimora e il divieto di svolgere attività sociali e politiche[3]. Il loro profilo è particolarmente interessante perché collegato agli ambienti anarchici e dell’antagonismo di Torino riconducibili ad alcuni centri sociali, tra cui l’Asilo e l’Askatasuna. Secondo la Procura di Torino, sono socialmente pericolosi ed inoltre avrebbero imparato ad usare armi[4]. Il Tribunale di Torino, nel mese di giugno, ha respinto la sorveglianza speciale per due dei 5 combattenti rientrati in Italia e, per gli altri tre, ha disposto nuovi accertamenti. Il pubblico ministero temeva che, tornati in Italia, potessero sfruttare le loro capacità acquisite sul campo di battaglia per utilizzare armi e condurre azioni di guerriglia. La Procura ha ritenuto che l’addestramento all’uso delle armi in guerra non possa essere ritenuto rischioso se non viene valutato il comportamento tenuto una volta tornati in Italia[5].

L’incognita di Al – Qaeda in Siria

Ad oggi, nella provincia di Idlib, permangono importanti gruppi jihadisti quali:

Hayat Tahrir al-Sham: è l’evoluzione del gruppo qaedista al Nusra. Ha tra i 12.000 e i 15.000 combattenti e ha centrato la sua agenda sulla lotta al governo di al-Assad, senza mostrare interesse a condurre attacchi all’estero, secondo una recente valutazione delle Nazioni Unite.

Hurras al-Din: si ritiene che abbia tra i 1.500 e i 2.000 combattenti, la metà dei quali sono combattenti terroristi stranieri, una percentuale molto più elevata rispetto a Hayat Tahir al-Sham. Secondo le Nazioni Unite, Hurras al-Din ha un maggior interesse alla realizzazione di attacchi all’estero. I funzionari dell’antiterrorismo americano stanno esprimendo un crescente allarme per questo gruppo affiliato ad Al – Qaeda, sorto nel 2018, ritenendo che possa pianificare attacchi contro l’Occidente sfruttando il caos nel nord-ovest del paese e la protezione inavvertitamente offerta dalle difese anti aeree russe, che proteggono le forze del governo siriano alleate con Mosca

National Liberation Front: gruppo ribelle sostenuto dalla Turchia.

Turkistan Islamic Party (TIP): gruppo composto prevalentemente da miliziani uiguri originari della regione dello Xinjiang.

Analizzando il trend complessivo della riorganizzazione di Al – Qaeda, la diffusione delle sigle jihadiste è ben più estesa, a livello geografico, di ciò che rimane in Siria. La perdurante instabilità in Iraq, la guerra nello Yemen, le tensioni in Libano e la pressione dei profughi in Giordania, possono rappresentare un terreno potenziale d’infiltrazione. Non va dimenticato come a fronte delle preoccupazioni rappresentate del 2013 dall’ISIS, gruppi come Al Qaeda si siano sostanzialmente rinforzati in Mali, Algeria, Niger, Kenya, Somalia, Yemen, e Afghanistan e Pakistan.

Accanto all’evoluzione così come al rafforzamento di Al – Qaeda in alcune aree della regione, va ad aggiungersi la perdurante instabilità nell’area dei Balcani occidentali ed in particolar modo nel Kosovo. La titubanza, così come la contrarietà da parte di alcuni paesi europei all’allargamento agli Stati dei Balcani occidentali dell’Unione Europea, può determinare il riemergere di tensioni nazionaliste così come una maggiore difficoltà nella gestione, in termini di cooperazione tra forze di polizia, delle sfide emergenti, quali il ritorno dei foreign fighters. La regione dei Balcani occidentali ha visto infatti il triste primato di più di 1.000 combattenti andati in Siria ed Iraq, con il caso del Kosovo che, con più di 350 combattenti, rappresenta il numero più elevato di foreign fighters, in rapporto alla popolazione.

[1] La valenza “rivoluzionaria del Rojava”, in Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2018, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, 28 febbraio 2019

[2] Siria, l’annuncio dell’Isis: “Abbiamo ucciso un crociato italiano”. È Lorenzo Orsetti, la Repubblica, 18 marzo 2019 https://www.repubblica.it/cronaca/2019/03/18/news/italiano_ucciso_in_siria_da_isis-221894468/

[3] Gli stranieri che combattono contro l’ISIS, il Post 23 marzo 2019 https://www.ilpost.it/2019/03/23/stranieri-guerra-contro-isis/

[4] Torino, andarono a combattere contro l’Isis: la procura chiede la sorveglianza per 5 foreign fighters, la Repubblica, 4 gennaio 2019 https://torino.repubblica.it/cronaca/2019/01/04/news/torino_andarono_a_combattere_contro_l_isis_la_procura_chiede_la_sorveglianza_per_4_foreign_fighters-215810907/

[5] A. Giambartolomei, Torino, respinta la sorveglianza speciale per due giovani che combatterono l’ISIS in Siria: nuovi accertamenti per altri tre, il Fatto Quotidiano, 20 giugno 2019 https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/06/20/torino-respinta-la-sorveglianza-speciale-per-due-giovani-che-combatterono-lisis-in-siria-nuovi-accertamenti-per-altri-tre/5269486/

 


Gli ostacoli sulla Nuova Via della Seta

Guerre ibride sulla Nuova Via della Seta

Leggi la recensione completa con l’indice dei contenuti e gli autori del saggio sul sito di Bloglobal.net 

di Chiara Sulmoni

A seguito di un attacco avvenuto nella mattinata di oggi, 23 novembre, al consolato cinese di Karachi, lo snodo commerciale del Pakistan, vi proponiamo la lettura di una serie di saggi raccolti nel libro Eurasia e Jihadismo – Guerre ibride sulla Nuova Via della Seta, a cura di Matteo Bressan, Stefano Felician Beccari, Alessandro Politi e Domitilla Savignoni, edito da Carocci (2016).

La realtà descritta nel libro disegna il contesto dentro il quale poter leggere gli avvenimenti (una possibile lettura, per il momento). Nello specifico, stiamo parlando dell’intenso lavoro di sviluppo infrastrutturale e di cooperazione economica fra Pakistan e Cina, nell’ambito della costruzione (anche diplomatica) della Nuova Via della Seta a trazione cinese. L’incognita del terrorismo e l’insicurezza gravano su ampie tratte del progetto.

Estratto dalla recensione del libro apparsa su Bloglobal.net 

“Nonostante l’attenzione dei media e dei governi occidentali sia ormai concentrata sul fronte siriano e iracheno, l’Afghanistan e le sue frontiere a sud-est con il Pakistan, a est con la Cina, a nord con Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan e a ovest con l’Iran rimane un’area fortemente instabile, percorsa da gruppi jihadisti non solo talebani, e dove si è recentemente insediata anche la sigla dell’IS (Islamic State – Khorasan Province). Una minaccia concreta che irradia da uno snodo importante per la Nuova Via della Seta, un grande piano di sviluppo dei trasporti e di corridoi commerciali promosso dalla Cina, volto a facilitare il transito di merci ed energia dall’Asia all’Europa. Un progetto ambizioso, noto anche con il nome di “One Belt, One Road” (o OBOR), che dovrebbe coinvolgere sul suo tragitto oltre 60 nazioni e che prevede la realizzazione di una serie di collegamenti autostradali, linee ferroviarie ad alta velocità, impianti d’appoggio come reti elettriche, oleodotti, gasdotti, parchi industriali. È prevista anche una via marittima che girerà attorno all’Asia del Sud per approdare in Africa Orientale, e attraverso il canale di Suez, arrivare al Mediterraneo.

Eurasia e jihadismo è una raccolta di analisi dettagliate che rintracciano alcuni seri ostacoli su questo percorso commerciale (…) Attraverso gli scambi e quella che Wade Shepard su Forbes chiama “diplomazia infrastrutturale”, definisce infatti nuovi scenari di influenza per Pechino. E gli ostacoli più temibili, che gettano ombre sempre più lunghe sulle strade di questo mirabolante piano sono rappresentati dalle cosiddette “guerre ibride”, cioè azioni ostili che possono rientrare nelle categorie di conflitti a bassa intensità oppure di natura confessionale, insurrezioni, attentati, pirateria dei mari, crimini informatici, offensive mediatiche, corruzione, criminalità organizzata, traffici illeciti.”