#ReaCT2020 – Ripensare il terrorismo per combattere un nemico che perdura (M. Lombardi)

di M. Lombardi, Direttore ITSTIME – Università Cattolica e REACT

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Negli ultimi mesi dell’anno 2019, una serie di eventi che riguardano il terrorismo fanno notizia. Certamente a livello internazionale la morte del leader di Daesh, Al-Baghdadi si impone al centro di ogni riflessione: il Califfo si sarebbe fatto saltare in aria attivando la cintura da suicida che portava, quando scovato dalla operazione delle forze speciali del Delta Team americano, a Barisha, in provincia di Idlib, a 5 chilometri dal confine turco.

Ma anche, per quanto riguarda l’Italia, ha destato interesse il processo a carico dell’autista Ousseynou Sy, che prese in ostaggio 50 ragazzini, due insegnanti e una bidella sul bus che guidava e diede fuoco al mezzo, il 20 marzo 2019 a San Donato Milanese. Un tema discusso nel procedimento riguarda l’appartenenza o meno dell’autista a qualche gruppo terrorista e la premeditazione del gesto: tutto molto incerto rispetto all’acquisto di una taser nei giorni precedenti e il suo coinvolgimento per atti di molestie precedenti, fatti che fanno emergere una figura ancora poco conosciuta e problematica rispetto alla sua “appartenenza”.

Si tratta di eventi molto diversi che tuttavia attengono alla nuova forma di terrorismo che stentiamo a comprendere ma che caratterizza questa forma di conflitto da anni. E che continuerà nel futuro, sviluppando queste caratteristiche.

Infatti, la morte di al Baghdadi non ha nulla a che fare con la morte del terrorismo jihadista, ma si inserisce nella ristrutturazione di Daesh del “reshaping and adapting”: una riorganizzazione cominciata dopo l’attacco di Barcellona, accelerata dopo la caduta di Baghouz, che si è evidenziata nella riorganizzazione della comunicazione istituzionale e spontanea del Califfato e nella ristrutturazione nel nuovo Califfato decentrato, promossa con la frammentazione delle wilaya, dando vita alle nuove province. In tale prospettiva, questa morte di Al-Baghdadi rinforza le ragioni di appartenenza al Daesh da parte dei membri dispersi che trovano nuove motivazioni.

Infatti, il gesto di Ousseynou Sy, il cui attentato segue quelli a Christchurch (15 marzo 2019) e a Utrecht (18 marzo 2019) evidenzia la viralizzazione dei comportamenti violenti senza la condivisione di cause che li motivano o di percorsi di radicalizzazione simili, proponendoci un futuro in cui il terrorismo sarà una modalità diffusa di attacco senza i fondamenti a sostegno di una scelta politica o ideologica, caratterizzato dalla massima imprevedibilità.

In sostanza questi anni hanno segnato un punto di rottura per la comprensione del terrorismo e, di conseguenza, delle strategie per combatterlo che richiama la necessità di sviluppare nuovi paradigmi di comprensione del fenomeno da cui elaborare nuove metodologie di intelligence e di contrasto.

Con questa breve nota desidero solamente sottolineare i punti emergenti con cui inquadrare il terrorismo di questo drammatico avvio di Millennio.

Si tratta di quattro premesse:

  • La Guerra Ibrida, che è una guerra diffusa, pervasiva e delocalizzata, un conflitto che va ben oltre la definizione di asimmetrico, per collocarsi nell’incertezza della guerra senza regole condivise tra i competitors:  giocatori diversi che entrano in campo per “sbranarsi” senza condividere alcunché.
  • La reticolarizzazione e la globalizzazione: sono fenomeni diversi, che si implicano reciprocamente, ma mantengono la loro autonomia, benché la seconda venga in genere considerata il prodotto della prima. In parole povere, una concezione reticolare non globalizzante smonta il facile paradigma dei “lupi solitari” del terrorismo: tutto tranne che solitari (se non perché non necessitano indicazioni operative dalla rete) in quanto nella rete cercano la soddisfazione, la compiacenza e il sostegno morale (per tanti sono i “like”) che fa da booster alla scelta espressiva violenta, in quel regime comunicativo ben gestito dal terrorismo che governa emozioni prima ancora che modelli cognitivi.
  • La comunicazione, come peculiarità del terrorismo, in ciò distinto da ogni forma criminale. Infatti, l’obiettivo del terrorismo è destabilizzare facendo paura (terrore) in tal senso la minaccia è sufficiente a conseguire l’obiettivo senza che quanto minacciato si debba manifestare. Bastano due considerazioni: la necessità di rivendicare ogni attacco, anche opportunisticamente quando non generato all’interno della propria organizzazione ma ad essa funzionale, come Daesh ha sistematicamente fatto in questi anni. Pertanto, la comunicazione è al centro di ogni strategia terroristica da cui gli strumenti della communication research così come le sue prospettive di ricerca (a cominciare dalla necessità di comprensione empatica del nemico da Itstime sintetizzata nel suo motto “think terrorist”) sono strumenti centrali della nuova intelligence declinati alla luce dei nuovi ambienti comunicativi (ecosistemi comunicativi).
  • La viralità di Daesh che da esempio di terrorismo innovativo e opportunista che ha saputo sfruttare tutte le vulnerabilità del suo nemico, è diventata modalità di diffusione delle pratiche da attacco, senza necessità di condividere le premesse motivazionali. Si tratta di azioni che ciascuno ha nell’immaginario, dunque semplici, ripetibili senza necessità di programmazione, di scarsissima efficacia in termini di vittime ma con alto ritorno comunicativo.

Alla luce di queste premesse è pertanto inutile cercare a tutti i costi di ricollocare il terrorismo di oggi nelle definizioni europee, in quelle nazionali e internazionali, nelle più diffuse o proposte nei vari circoli. Per quanto detto, il richiamarsi alla necessaria dimensione organizzativa formale e alla matrice politica o ideologica per definire il terrorismo è una sciocchezza pericolosa.

Le nuove strutture organizzative sono diventati flessibili e adattabili: alla appartenenza di gruppo si è sostituita l’appartenenza di rete, fondata sulle relazioni tra singolarità che si imitano, si confermano e si emulano. Tarrant nelle sue rivendicazioni non si richiama a gruppi ma a singoli individui. L’idea di lupo solitario non riconosce il fatto che la solitudine organizzativa non corrisponde a una solitudine esistenziale: non si appartiene più a gruppo, che legittima idee e magari pianifica attacchi, ma si partecipa una rete che si auto-seleziona per la capacità di soddisfazione che offre a bisogni individuali che possono mutare anche rapidamente: al punto da rendere, in un contesto organizzativo liquido, ogni prevenzione pressoché impossibile.

Allo stesso modo ragionare per matrice politica o per ideologia è roba vecchia. Le ideologie, così come l’orientamento politico, erano uno strumento “socialmente utile” di compensazione della espressione delle proprie credenze: condividere una ideologia determinava anche un’etica e una legittimazione di certi comportamenti, non di altri. Oggi le ideologie, assenti, hanno lasciato la primazia ai problemi che si affacciano con la loro urgenza pratica senza alcuna mediazione ideale, con il risultato che la comunanza delle questioni esplode nella diversità con la quale ciascuno manifesta la propria strada per risolverle. Tarrant e Greta usano il medesimo linguaggio e affrontano le medesime questioni, per fortuna con percorsi diversi. Ma rappresentano, nella drammatica trasversalità delle narrative, la sostituzione di un sistema segmentato di ideologie con un brodo ideologico globalista che non fornisce alcuna mediazione rispetto ai comportamenti.

Per chi si occupa di terrorismo oggi la questione, pertanto, non è quella di cercare di inscatolare i diversi eventi in definizioni esistenti – di cui nessuna generalmente condivisa – ma andare alla ricerca dei modelli interpretativi più adeguati per comprendere un fenomeno diverso dal terrorismo che finora ci ha interessato.

La mia posizione di sintesi per una definizione nuova di terrorismo ha fatto discutere: un fenomeno è terrorismo per le conseguenze che produce e non per le motivazioni che lo generano. Capisco che sia un approccio “operativo” legato al presente, quindi evolutivo, ma dal mio punto di vista è meno vulnerabile che non le vecchie definizioni a cui tanti interpreti rimandano. In questa prospettiva non significa affermare che tutto è allora terrorismo ma sostenere che la dimensione con cui leggo l’attributo di terrorismo non sta nelle sue ragioni, ma nelle sue manifestazioni.

Il più grande rischio che stiamo correndo in questi giorni è di volerci tranquillizzare confermando le nostre credenze cristallizzate in definizioni e sistemi normativi, invece di andare alla ricerca di nuovi modelli interpretativi che sappiano rendere conto di una realtà che cambia indipendentemente dal nostro modo conformista di vedere il mondo. Cambiare il nostro mind set per arrivare a una miglior comprensione del fenomeno e sviluppare nuovi metodi di intelligence e di contrasto.