IRAQ-POLITICS-UNREST

Lo Stato islamico oltre la sua natura territoriale

di Francesca Citossi

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico del Ce.Mi.S.S. 1/2018

We don’t see things as they are. Each of us see things as we are. We are captive of our own particular experience. So when you deal with people there isn’t one reality. What seems obvious to you is not obvious to the other party. If you get into the other persons world it makes you so much more effective. You are able to virtually predict their behavior… power is based upon perception.

Herb Cohen in Ep. 33 Negotiations Ninja Podcast, May 28, 2018.

Lo Stato Islamico uno stato non lo è mai stato, e questa è la sua forza. Il terrorismo si espande fino a riempire ogni spazio lasciato disponibile: se prospera è perché il territorio è ingovernato, alle volte ingovernabile, e finché non saranno modificate le condizioni che hanno permesso e favorito il suo emergere si ripeterà il ciclo. Le vittorie militari sono temporanee, ed estemporanee. La narrativa del gruppo si basa sul “tradimento” del 1919 da parte delle potenze occidentali che avevano promesso un grande stato arabo, l’ordine mondiale stabilito è, quindi, illegittimo e va distrutto: è un obiettivo di lungo termine che non si incrina per la semplice perdita di territorio. Molti stati in quest’area soffrono di un deficit di legittimità che li indebolisce profondamente.

Stato islamico: vendetta per le umiliazioni subite con l’accordo Sykes-Picot e il crollo dell’Impero Ottomano

Indebolito ma non sconfitto, il Califfato reclama(va) le terre “illegalmente” espropriate ai musulmani dai crociati, si proclama l’unico governo legittimo sulla terra e i fedeli hanno l’obbligo divino di vivere nell’area riconquistata. La comunità è immaginata e immaginaria, condivide un territorio storico prima che reale, miti, memoria ancestrale ineludibile, una cultura pubblica di massa che ispirano coscienza e azione collettiva. L’appartenenza a questa entità, che va ben oltre i concetti classici e occidentali di stato-nazione, procura agli individui la redenzione dall’oblio del singolo, la speranza della rigenerazione, la salvezza da alienazione, solitudine, anonimità, è fonte di orgoglio collettivo e personale, rivendicazione e vendetta per le umiliazioni subite con l’accordo Sykes-Picot e il crollo dell’Impero Ottomano. La narrativa si basa sul rifiuto dell’ordine mondiale stato-nazionale inventato e imposto dall’Occidente, aspira al predominio musulmano in Asia e Medio Oriente: le frustrazioni personali confluiscono nella persecuzione universale di tutti i musulmani, che va vendicata e rettificata in un futuro permanente, prescinde da temporanee sconfitte, è una missione che cambierà e salverà il mondo.

entità, che va ben oltre i concetti classici e occidentali di stato-nazione

Il Primo Ministro al Abadi nel dicembre 2017, così come il Presidente Trump a gennaio 2018, aveva dichiarato la vittoria finale: il gruppo aveva perso il 96% del proprio territorio – ma la strada tra Baghdad e Kirkuk durante l’estate è stata impraticabile a causa degli attacchi. IS sta ripiegando verso il deserto di Anbar – inhiyaz ila al-sahra come l’ha chiamata il portavoce Abu Mohammad al Adnani– per riorganizzarsi: la sconfitta è solo militare, l’organizzazione si sta rimodulando per adattarsi al contesto e continuare a promuovere l’obiettivo finale, la realizzazione del Califfato.
Nel mese di agosto 2018 in Iraq, lo Stato Islamico ha ripreso attacchi, omicidi, rapimenti, finti check-point per sequestrare materiali, sabotaggi alle linee elettriche e agli oleodotti, in particolar modo nelle zone di Diyala, Kirkuk e Salahuddin, complice, o causa, la mancanza di effettivo controllo da parte del governo centrale che, dopo le elezioni di maggio, deve ancora completare e stabilizzare nomine ed equilibri istituzionali. I partiti stanno ancora negoziando per formare il nuovo governo e cercano un accordo sul power sharing dopo le pesanti accuse di frodi e lo scoppio di proteste anti-governative nelle province del sud, in particolare a Bassora.
L’attacco in Iran ad Ahvaz il 22 settembre è stato rivendicato – pur lasciando dei dubbi – anche da IS, la Guardia Rivoluzionaria ha risposto il 1° ottobre con un lancio di missili in Siria. Già nel giugno 2017 un gruppo di curdi iraniani jihadisti aveva attaccato il parlamento e il mausoleo dell’Ayatollah Khomeini: per ritorsione era seguito un lancio di sei missili in territorio siriano e a luglio 2018 otto esecuzioni capitali. L’Iran rifiuta di collaborare con Washington in questo ambito poiché ritiene che sia un pretesto per intervenire nella regione. Ha preferito, invece, fornire supporto all’Iraq sin dal 2014 in funzione anti-IS: consiglieri militari a Baghdad e armi ai Peshmerga, facendo attenzione a non polarizzare mai le divergenze con la minoranza sunnita, suscitare proteste da parte degli Iracheni o aggravare tensioni settarie. Ha favorito invece una strategia di inclusività: sia il Primo Ministro al-Abadi che al-Amiri riconobbero l’importanza del supporto iraniano in un’ottica di unità del paese, fino a siglare un apposito accordo.
L’Arabia Saudita ha subito diversi attacchi sul suo territorio nel 2015 (moschee di Qatife e Dammam, area di Asir e un’auto bomba a Riyadh). La risposta saudita ha assunto diverse forme: l’addestramento ed equipaggiamento di combattenti in Siria (ma si stima che circa 2.500 sauditi si siano uniti allo Stato Islamico15); Riyadh ha anche prodotto una serie televisiva (“Security for the Kingdom”) per combattere la propaganda del gruppo ed è attiva nel controllo dei fondi come co-presidente del CIFG, Counter-ISIL Finance Group, il meccanismo della Coalizione per monitorare i finanziamenti a IS. Inoltre ha tagliato fuori il gruppo dal sistema finanziario internazionale applicando le UNSCR 2253/2015 e 1267/1999 riguardo individui ed entità associate ISIL e Al-Qaeda e per questo sulla lista dei sanzionati. I sauditi hanno aumentato i contributi alle agenzie umanitarie che operano in Iraq.

Le reazioni internazionali per contrastare l’estremismo violento sono quasi sempre reattive invece che preventive.

Sinora la risposta a IS è stata prevalentemente di tipo militare-securitaria: ne hanno un’esperienza diretta i Peshmerga e le forze guidate da gruppi sciiti supportati dall’Iran in Iraq, con il supporto aereo di Stati Uniti e Francia. Le reazioni internazionali per contrastare l’estremismo violento sono quasi sempre reattive invece che preventive: queste strategie di breve termine hanno una portata limitata poiché non implicano lo sradicamento ideologico.
L’attuale sconfitta territoriale del gruppo non scalfisce in alcun modo le potenzialità di questo fenomeno, in quanto la sola valutazione della dimensione fisica è limitata, insufficiente per misurarsi e misurare una rivoluzione mediatica, comunicativa, religiosa e sociale. La mappa non è il territorio, una sconfitta militare è marginale se l’idea, un sogno di Califfato, permane.
La sconfitta militare è solo un aspetto della questione, e neanche il più importante. Quando persiste l’instabilità, il terreno è fertile. I combattenti non sono scomparsi, e anche se così fosse ce ne sarebbero molti pronti a rimpiazzarli. Il Califfato non è sconfitto poiché le aspirazioni e le condizioni che hanno portato alla formulazione del progetto persistono, sono impermeabili e superiori a valutazioni temporanee. La scomparsa completa è lontana, poiché l’organizzazione è semplicemente entrata in clandestinità: è un processo ciclico, non lineare. Dalla modalità di “governo” del territorio è passata all’insurgency. Non c’è un legame diretto tra la perdita del territorio in Siria ed Iraq e la sua capacità di continuare a reclutare adepti coltivando le divisioni di vario genere tra le popolazioni di quest’area. Il collasso territoriale ha creato una diaspora che ora sfugge a qualsiasi misurazione territoriale – così come è successo ad Al Qaeda che è sopravvissuta in Iraq ritirandosi per poi ripresentarsi in Siria nel 2011.

lo Stato Islamico è ancora forte di circa 30,000 combattenti e si è evoluto in una rete clandestina globale

Secondo l’ultimo rapporto presentato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, lo Stato Islamico è ancora forte di circa 30,000 combattenti ripartiti tra Iraq e Siria, ma soprattutto si è evoluto, in particolar modo sul territorio iracheno, in una rete clandestina globale: la disciplina, le finanze e la sicurezza sono intatte, l’ufficio di coordinamento per la logistica e l’immigrazione funzionano, continua lo sfruttamento delle risorse petrolifere, i superstiti seguono le indicazioni del portavoce Abu al-Hassan al-Muhajir e Abu Bakr al-Baghdadi rimane alla guida. Il comando e il controllo sono stati danneggiati, molti pianificatori e leader sono rimasti uccisi, il flusso dei foreign fighters si è arrestato, ma il Generale dell’Esercito statunitense Paul Funk ritiene che le condizioni per il ritorno del gruppo persistano, anzi siano acuite: la riduzione degli attacchi terroristici è temporanea, una pausa di riorganizzazione.
Non è da sottovalutare, inoltre, la questione irrisolta delle famiglie dei combattenti che sopravvivono in molti campi profughi in Siria e Iraq: una situazione molto favorevole per portare alla creazione in pochi anni di nuove cellule, una generazione alimentata dal risentimento per l’ostracismo e la marginalizzazione che stanno subendo. Sono migliaia di donne e bambini rifiutati dai loro stati nazionali, o apolidi, detestati dalle comunità che vogliono vendicarsi su di loro o, più semplicemente, non vogliono occuparsene, e di ambasciate che fanno resistenza alle loro richieste di rientro.
IS ha, sin dagli albori, specificamente orchestrato la propaganda per attirare i giovani, sfruttando la naturale ricerca di identità, la ricorrente ribellione nei confronti delle famiglie e la frustrazione tra le classi sociali più disagiate. Nonostante i report e le informazioni inviate a Baghdad sulle migliaia di famiglie in grave difficoltà, il governo centrale non ha risposto, lasciando la gestione alle autorità locali.

E’ necessaria una reale stabilizzazione politica di Siria e Iraq, e in particolare un accordo con le popolazioni sunnite

Il contrasto a IS è efficace attraverso un migliore coordinamento di intelligence tra i vari sistemi a livello nazionale ed internazionale, la stabilizzazione politica, il contrasto all’ideologia estremista e con un taglio netto al supporto finanziario e alla fornitura di armi.
E’ necessaria una reale stabilizzazione politica di Siria e Iraq, e in particolare un accordo con le popolazioni sunnite: il nuovo governo iracheno, dominato da Al Sadr anche se non ha ottenuto una piena vittoria in termini di seggi, se non farà passi avanti nel power sharing rispetto alla politica settaria del predecessore al Maliki si troverà con gli stessi problemi. Ristabilire l’effettiva sicurezza per tutte le popolazioni, al di là delle divisioni settarie, richiede un forte impegno in materia di sicurezza rispettando i raggruppamenti etnici.
La battaglia ideologica può essere vittoriosa solo se investe direttamente nelle giovani generazioni di estremisti, attraverso una strategia educativa di lungo termine che attacchi alle radici l’ideologia radicale, con programmi di recupero e reinserimento nelle comunità: debellare ideologie tossiche per la società può richiedere molto tempo, come ha provato il caso tedesco dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma è l’unica strategia durevole. Quella contro IS è, essenzialmente, una battle for minds, non uno scontro di civiltà o una contesa territoriale.