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Afghanistan e dialogo negoziale: le incognite del ritiro imposto dai Talebani

Intervista a Claudio Bertolotti del 27 gennaio 2019; di Emanuele Valenti per Radio Popolare

La guerra afghana è una guerra ormai abbandonata.

Per la Nato e la Comunità internazionale, la guerra afghana è persa perché non può essere vinta. I talebani sono imbattuti e crescono in numero e capacità. Queste le ragioni alla base dell’apertura ai negoziati in Qatar.

Un abbandono sostanziale che ha portato le truppe a ridurre a zero le attività operative con l’avvio della missione Resolute Support nel 2015, lasciando agli Usa la condotta di azioni mirate con forze speciali e bombardamenti aerei (azioni record dall’inizio della guerra, ma con risultati assai modesti). E il presidente Ashraf Ghani a Davos lo ha evidenziato chi sta davvero combattendo la guerra sul campo di battaglia: le forze afghane, che hanno patito 45.000 caduti dal 2014 a oggi, e di questi ben 28.000 solo nel 2018.

Lo Stato afghano non è e non sarà più in grado di sostenere la pressione dei talebani, che già detengono il controllo di circa la metà del Paese. Esercito e Polizia di Kabul sono incapaci di garantire la sicurezza della popolazione afghana e stanno abbandonando le aree periferiche per concentrarsi in quelle urbane.

Lo Stato islamico sta aumentando la propria presenza, con numeri crescenti, per quanto ridotti, di combattenti stranieri e tra questi anche europei. Ma parliamo di numeri che sono di circa 2000 combattenti, contro i 50.000 talebani, gli oltre 300mila soldati afghani e i poco meno di 20.000 della Nato e degli Stati Uniti. Aumenta la componente di contractor, il che apre all’ipotesi di una privatizzazione di almeno una parte della guerra.

I talebani, a fronte di questa situazione, hanno aperto, con tempi molto dilatati, il dialogo negoziale, ma lo hanno fatto su diversi fronti: con la Russia, con la Cina e con gli Stati Uniti. Così facendo hanno indebolito e diviso il fronte internazionale impegnato nella stabilizzazione dell’Afghanistan, togliendo agli Stati Uniti il sostanziale monopolio nella condotta della guerra e nella ricerca della pace.

Gli incontri di Doha, conclusi il 26 gennaio 2019, rientrano in questa strategia multi-livello avviata dai talebani. Sono certamente gli incontri più importanti tra quelli svolti sino a ora ma, guardando al passato e ai precedenti annunci, non dobbiamo farci illusioni. Alcune incognite e perplessità si impongono.

1. Se è vero che il ritiro statunitense possa essere stato messo sul tavolo, non sono chiari né i tempi né i meccanismi per la realizzazione di tale ritiro. I 18 mesi da più parte rilanciati come tempo massimo per il ritiro sono stati bollati come falsa notizia dagli stessi talebani. Dunque, dobbiamo attendere ulteriori incontri ed è facile che questi, così come in passato, ci riserveranno grandi sorprese.

2. Il governo afghano cosa farà? Intanto si è dovuto piegare al doppio diktat talebano di rinunciare a sedersi al tavolo negoziale di Doha e di posticipare a luglio le elezioni presidenziali che erano previste per il mese aprile. Il che dimostra una sostanziale sottomissione, e una ampia disponibilità del governo, certamente anche sotto pressione da parte degli Stati Uniti.

3. E infine, l’accordo vale per tutti i talebani o per alcuni, magari anche i principali, gruppi che si riconoscono nel movimento che fu del mullah Omar, morto nel 2013, e che oggi è guidato dal mawlawì Haibatullah Akundzada al cui fianco siede Jualuddin Haqqani, a capo della nota rete Haqqani responsabile dei principali e spettacolari attacchi che vengono portati a termine nella capitale Kabul. Il rischio è che se da un lato una componente, pragmatica e per lo più appartenente alla generazione più matura dei talebani, possa effettivamente aderire al processo negoziale, possa però emergere quella componente più giovane e radicale che invece continuerà a combattere nel nome dello stesso ideale o – questo è il rischio principale – aderire al crescente gruppo Stato Islamico Khorasan, il franchise afghano del movimento già guidato da Abu Bakr al-Baghdadi in Iraq e Siria.