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#ReaCT2020: è online il rapporto sul Radicalismo e il Terrorismo in Europa

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Claudio Bertolotti, Direttore START Insight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

La fine territoriale dello Stato islamico ha portato il movimento a reinterpretare la propria natura originale, basata su un approccio insurrezionale clandestino (principalmente nelle aree sunnite in Iraq) a cui si sono affiancate due linee d’azione: da un lato la delocalizzazione e i franchise in Afghanistan, Libia e in Africa i cui attori principali sono i gruppi locali a cui si sono uniti i reduci fuggiti dal fronte siriano; dall’altro lato l’espansione all’interno dell’arena globale, inclusa l’Europa, in cui le azioni sono lasciate all’iniziativa individuale e delle cellule.

 

Il rapporto #ReaCT2020 pone la sua attenzione sull’evoluzione del fenomeno terroristico, analizzandone le manifestazioni violente degli attacchi e gli eventi associabili al jihadismo individuale

LA SITUAZIONE IN EUROPA

Sebbene gli attacchi diretti ed effettivamente collegati allo Stato islamico abbiano meno probabilità di verificarsi nei Paesi europei dove la sicurezza è stata significativamente rafforzata, gli attacchi emulativi ispirati allo Stato islamico rappresentano una minaccia potenzialmente in crescita. Usando la sofisticata ed efficace propaganda, gli jihadisti si rivolgono direttamente ai potenziali “combattenti” del jihad incitandoli ad agire nel paese di residenza. È un quadro in cui il terrorismo nostrano definisce una tendenza alla violenza particolarmente preoccupante e in cui la minaccia futura dipende da come l’uditorio seguirà gli appelli del “Califfato” ad aderire alla “guerra di logoramento” contro le nazioni “crociate”. A tale fattore si inserisce la volontà di al-Qa’ida di riconquistare quel terreno perso negli anni dello Stato islamico territoriale; una volontà che potrà manifestarsi attraverso la condotta di azioni spettacolari ed eclatanti, dal forte impatto mediatico e comunicativo.

Nel complesso i Paesi europei affrontano una minaccia terroristica concreta a causa dell’alto numero di foreign terrorist fighters, della presenza di reti jihadiste sviluppate e della vicinanza geografica alle zone di guerra.

#ReaCT2020: IL RAPPORTO

Il terrorismo jihadista che accompagna la nostra epoca è la manifestazione violenta di una crescente radicalizzazione religiosa che coinvolge una parte, marginale, della società musulmana. Ma si tratta di un fenomeno sociale consolidato, in Europa, come nelle altre aree geografiche del Medioriente, del Nord Africa, del Sud-est asiatico e dell’Asia.

L’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo – ReaCT, monitora ed analizza costantemente il panorama del terrorismo jihadista europeo e, attraverso il primo rapporto sul fenomeno del terrorismo in Europa, intende offrire al pubblico uno studio sintetico sull’evoluzione e sugli effetti del fenomeno terroristico di matrice jihadista e della violenza in nome dell’Islam, attraverso un approccio quantitativo e qualitativo; in particolare quello quantitativo approfondisce aspetti quali la tipologia di attacco, le tecniche utilizzate, le armi, gli effetti diretti e indiretti, così come i risultati effettivi ottenuti.

Il rapporto #ReaCT2020 pone la sua attenzione sull’evoluzione del fenomeno terroristico, analizzandone le manifestazioni violente degli attacchi e gli eventi associabili al jihadismo individuale ma non direttamente rientranti nella categoria di terrorismo tout court; e ancora, osserva i dati dei potenziali indicatori di rischio associabili al fenomeno della radicalizzazione jihadista. Il risultato è una “lettura” più completa e ragionata del modus operandi dei terroristi e i risultati da questi ottenuti in Europa attraverso gli attacchi e le azioni violente.

L’obiettivo che ci siamo posti è definire il trend del fenomeno e delle sue manifestazioni; al tempo stesso, l’Osservatorio intende promuovere una ricerca più approfondita su possibili denominatori comuni presenti negli episodi europei di violenza jihadista, così da realizzare uno strumento utile da condividere con gli operatori per la sicurezza, sociali e istituzionali.

Il Rapporto si compone di 11 contributi di analisi e valutazione e un case study relativo a un soggetto condannato per terrorismo in Italia. Partendo dai numeri ed i risultati del “Nuovo Terrorismo Insurrezionale”, anche alla luce dell’uccisione di Al Baghdadi, si analizza la metodologia di comunicazione dello Stato islamico con uno specifico focus su quelli che sono gli strumenti virtuali del cosiddetto cyber-terrorism e della “guerra dell’informazione”.

Tenendo conto dell’evoluzione tecnologica offerta dal mercato e disponibile al terrorismo contemporaneo, si è voluto inoltre approfondire il pericolo potenziale, quale sfida del futuro, dell’intelligenza artificiale e robot (droni e non solo).

Si è poi voluto porre attenzione al fenomeno del terrorismo di “estrema destra” fra rischio attuale e minaccia futura, evidenziandone alcuni aspetti in comune con il terrorismo jihadista.

Sul piano sociale, e in una duplice ottica preventiva e predittiva, #ReaCT2020 offre una lettura dei processi di radicalizzazione violenta e avvia un’analisi critica sui tentativi di de-radicalizzazione e di induzione alla rinuncia della violenza da parte delle istituzioni.

Inoltre #ReaCT2020 fa il punto sulla prevenzione del
finanziamento al terrorismo tra interventi comunitari e panorama normativo nazionale.

In tale quadro evolutivo, alla luce degli eventi e degli sviluppi quasi quotidiani che il terrorismo contemporaneo riesce ad imporre nel panorama della violenza globale, #ReaCT2020 propone una riflessione sulla definizione della minaccia, invitando accademici, operatori della sicurezza e decisori politici a ripensare il concetto stesso di terrorismo per combattere un nemico che perdura.

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Scarica i singoli articoli del 1° rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa

Claudio Bertolotti, Una fotografia del terrorismo in Europa

Claudio Bertolotti, Numeri e risultati del “Nuovo Terrorismo Insurrezionale” in Europa: dal califfato al post-Stato islamico

Matteo Bressan, L’evoluzione della minaccia terroristica alla luce dell’uccisione di Al Baghdadi

Chiara Sulmoni, Radicalizzazione e de-radicalizzazione. Piste d’indagine

Francesco Pettinari, Radicalizzazione jihadista: il “tempo di attivazione” dei radicalizzati

Giusy Criscuolo, La comunicazione dello Stato islamico

Deborah Basileo, Tra cyber-terrorism e guerra dell’informazione: scarsa consapevolezza e limiti normativi

Valentina Ciappina, Videogiochi e cyber-jihad: dimensioni ed effetti

Ginevra Fontana, Il terrorismo 2.0: tra droni e nuove tecnologie

Barbara Lucini, Estrema destra fra rischio attuale e minaccia futura

Annalisa Triggiano, La prevenzione del finanziamento al terrorismo tra interventi comunitari e panorama normativo nazionale

Marco Lombardi, Ripensare il terrorismo per combattere un nemico che perdura

Claudio Bertolotti, L’aspirante ideologo dello Stato islamico (Case study)

 


#ReaCT2020: Una fotografia del terrorismo in Europa

di Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

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Alla fine di giugno del 2019, in ottemperanza alla misura cautelare in carcere emessa dal Gip di Brescia per il reato di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo, la Polizia di Brescia, coordinata dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione e con il supporto dell’Fbi statunitense, ha arrestato il foreign terrorist fighters Samir Bougana: un 25enne italo marocchino che nel 2013, partendo dalla Germania per la Siria, è accusato di essersi unito prima alle milizie associate ad al-Qa’ida e poi allo Stato Islamico. Bougana era stato catturato dalle milizie curde in Siria il 27 agosto 2018.

Un caso, tra i tanti, che mantiene i riflettori accesi sulla minaccia del terrorismo jihadista associato allo Stato islamico, a conferma della strategia post-territoriale di ciò che fu l’Isis. Ora le cellule nascoste, i singoli “combattenti”, l’effetto emulativo, l’aumento della propaganda e il reclutamento in tutto il mondo, sono le principali armi su cui il gruppo terrorista sta concentrando gli sforzi, nonostante la morte del suo leader carismatico conosciuto come il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi (al tempo Ibrāhīm ʿAwed Ibrāhīm ʿAlī al-Badrī al-Sāmarrāʾī) ucciso dalle forze speciali statunitensi in Siria, nel governatorato di Idlib,  il 26 ottobre 2019.

Il terrorismo di matrice jihadista, da solo responsabile del 96% delle morti per terrorismo in Europa, come dimostrato dagli attacchi di Utrecht, Londra e Lione, che hanno portato alla morte di dieci persone

Degli oltre 5mila foreign terrorist fighters “europei” partiti per combattere in Medio Oriente (di cui il 14 percento donne), mille sarebbero caduti in Siria e Iraq. Almeno un terzo è sopravvissuto; un altro terzo sarebbe tornato nel proprio Paese, altri 2500 avrebbero trovato rifugio in Paesi terzi unendosi ai gruppi jihadisti locali (dall’Afghanistan alla Libia, dall’Africa all’Asia centrale). Circa 800 al momento sono detenuti nelle carceri curde in Iraq: molte le donne e i bambini. Una condizione di “prigionia” che ha sollevato ampi e legittimi dibattiti in Europa e negli Stati Uniti sull’opportunità di limitare loro la possibilità di rientro nei Paesi di origine, a cui ha fatto seguito la decisione di molti Paesi europei di togliere loro la nazionalità così da non permetterne il ritorno.

Un problema di sicurezza collettiva che, seppur limitato nei numeri e interessante principalmente quattro paesi (Francia, Regno Unito, Germania e Belgio da cui sono partiti circa 3mila e 700 dei 5000 combattenti), si muove su due binari paralleli che hanno portato al bipolarismo dello jihadismo globale, diviso tra due principali attori in competizione: da un lato al-Qa’ida, dall’altro l’evoluzione dello Stato islamico.

Le reti jihadiste ispirate ad al-Qa’ida hanno costituito la base dell’emigrazione jihadista dall’Europa alla Siria e all’Iraq sino a tutto il 2015: le reti europee collegate al movimento Sharia4 hanno rappresentato il punto di riferimento per i gruppi radicali europei impegnati nell’inviare combattenti e supporto finanziario in Siria e Iraq. L’ascesa al potere dello Stato islamico a partire dalla fine del 2014, è poi riuscita a far (temporaneamente) eclissare al-Qa’ida dal panorama jihadista, almeno quello comunicativo.

Ma se lo Stato islamico ha perso, insieme alla sua natura territoriale, anche parte della spinta mediatica e comunicativa, la maggior parte dei social network e dei leader di al-Qa’ida in Europa è riuscita a sopravvivere allo Stato islamico, dando inizio alla nuova battaglia per “i cuori e le menti”, che è appena all’inizio.

I principali modelli organizzativi dell’attività del terrorismo islamista – in termini di struttura, reclutamento e formazione – non sono dunque cambiati in modo significativo, ma si sono evoluti in maniera efficace.

L’evoluzione del terrorismo di matrice jihadista in Europa si inserisce all’interno di un più ampio fenomeno sociale di natura ideologica, politica e religiosa, che continua a colpire i cittadini europei, provocando vittime e danni rilevanti, sia sul piano sociale che economico. Un calcolo, quello degli effetti del terrorismo, che deve tenere in considerazione l’entità dei fenomeni terroristici, certamente limitati in rapporto alla popolazione europea, ma che sono in grado di provocare rilevanti ripercussioni in termini di sicurezza, reale e percepita, tali da influire sulle politiche e sulle strategie di sicurezza nazionale e internazionale, così come sui processi elettorali.

L’analisi dei numeri relativi agli eventi terroristici avvenuti un Europa è uno strumento essenziale per riuscire a definire un fenomeno le cui manifestazioni di violenza hanno il potere di influire in maniera significativa, e spesso distorta, sulla percezione dell’opinione pubblica a cui contribuisce in parte il ruolo dei media tradizionali e, in particolare, dei social-network.

L’evoluzione del terrorismo jihadista si inserisce all’interno di un più ampio fenomeno sociale di natura ideologica, politica e religiosa, che provoca vittime e danni rilevanti, sia sul piano sociale che economico.

Nello specifico, è bene evidenziare come, pur a fronte di una particolare attenzione mediatica nei confronti del “terrorismo jihadista” e di quello cosiddetto di “estrema destra”, queste due manifestazioni rappresentano solamente una minima parte degli eventi violenti registrati all’interno dei Paesi europei: i dati del 2018 ci mostrano che la minaccia più significativa in termini di azioni violente è rappresentata dal terrorismo etno-nazionalista, con 84 casi registrati in Europa; seguono gli attacchi terroristi di matrice jihadista – 24 azioni, che hanno provocato 13 morti; al terzo posto gli attacchi terroristici perpetrati da gruppi di estrema sinistra e anarco-insurrezionalisti – per un totale di 19 eventi, di cui 13 in Italia; all’ultimo posto gli attacchi terroristici attribuiti all’estrema destra, con un singolo evento.

Numeri che, nel complesso, indicano una flessione nell’intensità della violenza terrorista in termini assoluti rispetto agli anni precedenti, sebbene in maniera differente in base all’ideologia di riferimento e a giustificazione degli atti di violenza. Nel panorama europeo si impone la sostanziale scarsa rilevanza degli attacchi di fatto portati a compimento da gruppi di estrema destra, storicamente marginali nelle statistiche del terrorismo in Europa: un solo evento nel 2018, a fronte dei cinque registrati nel 2017. Diminuiscono anche gli attacchi terroristici dell’estrema sinistra e dei gruppi anarco-insurrezionalisti: 19 eventi nel 2018 rispetto ai 24 del 2017.

Le azioni maggiormente rilevanti rimangono quelle riconducibili ai gruppi etno-nazionalisti: 84 contro le 137 del 2017; sebbene quelle più pericolose in termini di danni e vittime rimangano le azioni terroristiche associate allo jihadismo: 24 eventi nel 2018 contro i 33 del 2017.

Il Regno Unito è il paese più interessato dalle azioni violente del terrorismo indipendentista, in particolare da parte dei Dissident Republican (seguito da Francia e Spagna – Euskadi ta Askatasuna e Resistencia Galega); la Francia è invece il Paese nel mirino del terrorismo jihadista, seguita dal Regno Unito.

L’Italia, nella graduatoria europea, è il Paese più colpito da attacchi di estrema sinistra: il 70 percento  di tutti gli attacchi in Europa. Nel nostro Paese, questi gruppi terroristici hanno confermato la propria volontà violenta, l’intensità e il modus operandi rilevati negli ultimi cinque anni. La Federazione Anarchica Informale / Fronte Rivoluzionario Internazionale (FAI/FRI) è considerato il gruppo più pericoloso. È tristemente noto per le sue campagne contro bersagli italiani e stranieri, attraverso l’impiego di IED (ordigni esplosivi improvvisati) o pacchi bomba. Altri gruppi terroristici anarchici hanno preso di mira obiettivi fisici, quali sedi di partiti, e gruppi di estrema destra.

Una fotografia della violenza che descrive come il terrorismo continui a costituire una grave minaccia per la sicurezza degli Stati europei. In tale quadro si impone, anche nel 2019, il terrorismo di matrice jihadista – da solo responsabile del 96 percento delle morti per terrorismo in Europa – come dimostrato dagli attacchi di Utrecht, Londra e Lione: un‘evoluzione della forma di violenza terroristica che tende a imporsi sempre più come un mezzo di confronto e competizione politica. I terroristi si impongono come soggetti che non solo mirano a uccidere e ferire, ma anche a dividere le nostre società e diffondere odio e intolleranza.

Terrorismo jihadista e violenza di matrice islamista

Nel 2019 sono stati portati a termine 17 attacchi terroristici ed episodi di violenza di matrice jihadista: 9 in Francia, 2 in Italia, 2 nei Paesi Bassi, 2 in Norvegia, 1 in Svezia e 1 nel Regno Unito. Un totale di 10 persone sono state uccise e 46 feriti in attacchi jihadisti nel 2019: le vittime includono 8 agenti di polizia, tre dei quali sono rimasti uccisi. Francia, Paesi Bassi e Regno Unito sono stati colpiti da azioni a più elevata intensità di violenza.

La maggior parte delle azioni è stata portata a compimento attraverso l’utilizzo di coltelli (76 percento) e armi da fuoco (18 percento); solamente in un caso (Lione, 24 maggio 2019) è stato fatto uso di esplosivi.

Gli attaccanti che hanno colpito nel 2019 sono tutti di sesso maschile, con un’età mediana di 32 anni; superiore a quella del periodo 2014-2019 che è di 27 anni.

Il 70 percento dei terroristi europei sono nati negli anni Ottanta e Novanta, dunque relativamente giovani, sebbene un 20 percento sia costituito da soggetti nati prima del 1980.

Jihadisti europei

Il 70 percento dei terroristi europei sono nati negli anni Ottanta e Novanta, dunque relativamente giovani, sebbene un 20 percento sia costituito da soggetti nati prima del 1980: un elemento interessante poiché pone in evidenza la presenza di una quota importante di uomini di “mezza età” al fianco della massa più giovane.

Le donne hanno svolto e svolgono un ruolo molto più attivo di quanto non sia stato posto in evidenza, e rappresentano una minaccia crescente; delle circa 650 partite dall’Europa per il fronte siriano e iracheno, 21 hanno fatto rientro in Belgio e 28 in Francia.

I bambini al di sotto dei dieci anni rappresentano un problema estremamente serio e una potenziale minaccia alla sicurezza europea per il futuro. Delle centinaia di bambini che avrebbero lasciato l’Europa, 16 sono rientrati in Belgio e 68 in Francia; gli altri sono detenuti in Iraq e Siria, altri trasferiti in paesi terzi con almeno uno dei genitori, ma della maggior parte non si sa nulla.

Se da un lato i convertiti radicalizzati pongono seri problemi in termini securitari, ma anche culturali e sociali, va posta una particolare attenzione alle carceri che continuano a svolgere un ruolo importante sia nell’attivazione che nel rafforzamento del processo di radicalizzazione.

L’origine etnica e geografica dei terroristi jihadisti si impone come importante elemento e strumento di analisi e nel monitoraggio delle reti e delle cellule jihadiste. I gruppi principalmente afflitti dall’adesione al modello jihadista sono quelli marocchini (in Belgio, Spagna e Italia), algerini (in Francia), turchi (in Germania e Paesi Bassi).

Infine, una considerazione sulla questione che si concentra sul possibile collegamento tra immigrati e terrorismo: dal gennaio 2014, 44 rifugiati o richiedenti asilo sono stati coinvolti in 32 complotti jihadisti in Europa. Sebbene la maggior parte di questi soggetti si sia radicalizzata prima dell’ingresso in uno dei Paesi europei, tuttavia i processi di radicalizzazione avviati dopo l’arrivo in Europa sono divenuti più comuni a partire dall’autunno del 2016. Nel complesso, il periodo di latenza tra l’arrivo in Europa e la partecipazione a un’azione terrorista in genere associata allo Stato islamico (di successo o sventata) è di 26 mesi.

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#ReaCT2020 – Numeri e risultati del “Nuovo Terrorismo Insurrezionale” in Europa: dal califfato al post-Stato islamico (C. Bertolotti)

di C. Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

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Il terrorismo di matrice jihadista che accompagna la nostra generazione è la manifestazione violenta di una crescente radicalizzazione religiosa che coinvolge una parte, marginale, della società musulmana: un fenomeno sociale consolidato. Ma il terrorismo non è il problema, bensì è la manifestazione violenta di un problema oggettivo che è la diffusione dell’ideologia jihadista; un’ideologia che si muove su un piano comunicativo efficace e che coinvolge un numero importante di soggetti che possono rappresentare una minaccia seria e concreta alla sicurezza: l’ideologia jihadista alimenta il fenomeno della radicalizzazione.

La dimensione europea del nuovo terrorismo (2014-2019)

Degli 895 attacchi terroristici, di successo, falliti e sventati, registrati nell’Unione Europea dal 2014 al 2017, il 67 percento sono riconducibili a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 12 percento a movimenti della sinistra radicale, il 3 percento a gruppi appartenenti alla destra militante: solamente il 16 percento sono azioni di matrice jihadista. Una percentuale, riferita alla violenza jihadista, che aumenta nel 2018 attestandosi al 19 percento su 129 attacchi. Ma sebbene gli atti riconducibili allo jihadismo siano una parte marginale del totale, sono però causa del 96 percento delle morti complessive.

E se nel solo 2017 Europol ha registrato 205 tra attacchi di successo, sventati o fallimentari, 45 sono quelli di natura jihadista (22 di successo, 3 fallimentari e 20 sventati). Nel 2018 gli attacchi complessivi scendono a 129; di questi, sempre secondo Europol, 24 sono di natura jihadista di cui 7 di successo. Un dato al ribasso rispetto a quanto registrato dal database START InSight, che conferma la condotta di 27 azioni terroristiche portate a termine. I numeri complessivi degli attacchi di successo, sventati o falliti erano di 142 nel 2016, 193 nel 2015 e 226 nel 2014.

Nel 2018, tutte le vittime di terrorismo sono il risultato di attacchi jihadisti: 14 morti e 67 feriti in attacchi jihadisti secondo START InSight.

Secondo Europol si tratterebbe di una riduzione considerevole rispetto al 2017, quando dieci attacchi provocarono la morte di 62 persone, sebbene la lettura più approfondita degli episodi di violenza jihadista attraverso il database di START InSight riporti un dato pari a 25 azioni, per un totale di 63 morti e 843 feriti. Nel 2018, gli Stati membri dell’UE hanno segnalato 16 tentativi di azioni terroristiche contrastate, un fatto che indica sia una dimostrazione dell’efficacia degli sforzi antiterrorismo, sia una continua attività terroristica confermata dai 17 episodi del 2019 (START InSight).

Nel 2019 sono stati portati a termine 17 attacchi terroristici ed episodi di violenza di matrice islamista in Europa: 9 in Francia, 2 in Italia (Torino – 21.04.2019, e Milano – 17.09.2019), 2 nei Paesi Bassi, 2 in Norvegia, 1 in Svezia e 1 nel Regno Unito. 10 persone sono state uccise e 46 ferite in attacchi jihadisti: le vittime includono 8 agenti di polizia, tre dei quali sono rimasti uccisi.

I numeri europei del terrorismo jihadista

Dei 149 attacchi terroristici di matrice jihadista in Europa dal 2004 al 2019, sette su dieci si concentrano nel periodo di massima espansione dello Stato islamico (2015-2017). Parallelamente a un aumento delle azioni terroristiche, diminuiscono la qualità tecnica degli attacchi condotti, la preparazione e la sofisticazione degli equipaggiamenti utilizzati. Le vittime sono in prevalenza civili: gli obiettivi intenzionalmente attaccati dai terroristi sono stati nel 45 percento obiettivi civili e nel 41 percento dei casi forze armate o di polizia.

È l’evoluzione di un fenomeno che trova conferma nel trend degli arresti, avvenuti in diciotto paesi dell’Unione europea, di soggetti radicalizzati e coinvolti nella pianificazione o nella condotta di azioni terroristiche: 216 arresti nel 2013, 395 nel 2014, 687 nel 2015, 718 nel 2016, 705 nel 2017 (di cui 373 nella sola Francia) e 511 nel 2018 (273 in Francia). Nel 2017 la maggior parte degli arresti (354) ha coinvolto soggetti sospettati di essere parte di un’organizzazione terroristica di matrice jihadista; altri soggetti invece perché sospettati di pianificare (120) o preparare (112) un attacco. Situazione analoga a quella del 2018 dove gli arrestati con la stessa motivazione sono più della metà del totale; arresti avvenuti principalmente in Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania e Italia.

Le 121 azioni portate a termine in Europa, dal 2014 a al 2019, hanno visto la partecipazione di 161 terroristi (dei quali 57 sono deceduti), che hanno provocato la morte di 390 persone e il ferimento di altre 2359.

Tecniche e tattiche di attacco: evoluzione e adattamento. Dagli attacchi strutturati a quelli improvvisati

L’85 percento degli attacchi registrati nel periodo 2014-2019 è stato portato a termine da singoli attentatori, il 15 percento da commando suicidi o “team raid”; i commando suicidi rappresentano il 2 percento degli attacchi totali. Nel 63 percento dei casi è stato fatto uso di armi bianche, nel 28 percento armi da fuoco da guerra ed esplosivi; nel 16 percento sono stati impiegati, quale arma principale, i “veicoli-ariete” contro i pedoni – obiettivi estremamente vulnerabili (soft target) – all’interno di aree ad alta concentrazione di popolazione.

8 giorni per colpire: l’effetto emulativo e improvvisato dei self-starter

In Europa è emerso sempre più il ruolo dinamizzante di azioni “autonome” e “ispirate”, dove la capacità attrattiva ed emulativa degli attacchi organizzati e strutturati, ad alta intensità e ad alto impatto mediatico, ha spinto individui non direttamente riconducibili all’organizzazione Stato islamico a commettere azioni violente ma con un livello di preparazione minimale, dai risultati tattici non rilevanti, ma in grado di ottenere un’elevata attenzione mass-mediatica.

Gli attacchi a bassa intensità, a connotazione “autonoma” e improvvisata, si sono concentrati negli 8 giorni successivi ai grandi eventi, a media e alta intensità, che hanno ottenuto un’ampia, spesso eccessiva, eco mediatica. È l’effetto emulativo, conseguenza di una reazione emotiva che si auto-alimenta.

Tali attacchi emulativi, che compaiono a partire dal 2015, sono il 24 percento del totale (nel periodo 2015/2019). Un dato interessante che evidenzia la capacità attrattiva e la funzione di “innesco”, in particolare nel Regno Unito, dove gli attacchi emulativi sono il 41,5 percento (quasi il 10 per cento del totale europeo), in Germania (26,6 percento) e in Francia (23 percento).

Risultati: successo o fallimento?

L’analisi del fenomeno si sviluppa attraverso la lettura dei tre livelli strategico, operativo e tattico.

Il 19 percento delle azioni che hanno colpito i paesi europei, ha ottenuto un successo a livello strategico: blocco temporaneo del traffico aereo, mobilitazione di grandi unità militari, revisione delle procedure di sicurezza, mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, ecc. L’andamento nel corso degli anni è stato discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione di capacità ed efficacia: 75 percento nel 2014, 42 percento nel 2015, 17 percento nel 2016, 28 percento nel 2017, 4 percento nel 2018 e 6 percento nel 2019.

Il 34 percento delle azioni ha ottenuto un successo a livello tattico: un andamento complessivo che, passando dal 33 percento di successo e un raddoppio degli attacchi fallimentari (42 percento) nel 2018 ci consegna un dato ulteriormente al ribasso del 25 percento di successo nel 2019; un quadro che viene letto come il duplice effetto della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’accresciuta reattività delle forze di sicurezza dei paesi europei.

Il 78 percento degli attacchi ottiene un successo a livello operativo: è questo il dato più interessante perché a fronte di azioni apparentemente di scarso rilievo mediatico o in termini di vittime prodotte, mostra una capacità confermata nel tempo di limitare o condizionare le normali attività quotidiane degli apparati pubblici, o di mobilità urbana, o movimento a danno delle comunità colpite. Qui si introduce il concetto di “blocco funzionale”.

Il “blocco funzionale” a livello operativo

Il “blocco funzionale” è il più importante dei risultati ottenuti dai terroristi sul moderno campo di battaglia europeo. All’interno di questa categoria sono inseriti tutti quegli eventi che hanno influito in maniera significativa sul livello operativo delle forze di sicurezza, sulla limitazione delle normali attività quotidiane degli apparati pubblici, o di mobilità urbana. I risultati sono tangibili e, a livello operativo, gli attacchi hanno ottenuto dal 2004 a oggi, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 74 percento dei casi (84 percento nel 2017, 81 percento nel 2016, 83 percento nel 2015, 75 percento nel 2014) per attestarsi al 70 percento nel 2018 e al 75 percento nel 2019. Un risultato impressionante considerando le limitate risorse messe in campo dai gruppi, o dai singoli terroristi.

 


#ReaCT2020 – Case study: L’aspirante ideologo italiano dello Stato islamico (C. Bertolotti)

di Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

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Associazione a delinquere al fine del raggiungimento degli obiettivi dello Stato islamico (…), ai fini dell’eversione dell’ordinamento costituzionale democratico.

Con queste parole il Pubblico Ministero Emilio Gatti aveva chiesto la condanna per Elmahdi Halili, il giovane jihadista marocchino naturalizzato italiano, condannato a 6 anni e 6 mesi di reclusione per terrorismo – apologia e istigazione a commettere un attentato -, difeso dall’avvocato Enrico Bucci (in sostituzione di Wilmer Perga): il giovane marocchino naturalizzato italiano è colpevole, lo ha stabilito il tribunale di Torino il 28 giugno, dopo un processo andato avanti mesi, tra rinvii e cambi di avvocato difensore.

Chi è Halili, il terrorista torinese? 23 anni al momento dell’arresto avvenuto nel marzo del 2018, è un personaggio noto agli investigatori dell’Antiterrorismo della Digos; il suo nome compare nella maggior parte dei processi per jihadismo celebrati in Italia: quello a Fatima Sergio, la prima foreign fighter italiana, di origini campane, condannata a nove anni e probabilmente morta in Siria tra le fila del Califfato; e ancora, è protagonista di un’altra vicenda legata al terrorismo internazionale che lega l’Italia alla Svizzera: il caso di Abderrahim Moutaharrik, l’ex campione di kickboxing (di origini marocchine) residente in Lombardia ma che si allenava nel Luganese, poi condannato a sei anni per terrorismo.

Un elemento chiave per comprendere lo jihadismo italiano legato al fenomeno dello Stato islamico

Halili – già in precedenza indagato e poi condannato, previo patteggiamento, a due anni di reclusione con sospensione condizionale della stessa per istigazione a delinquere con finalità di terrorismo per aver redatto e pubblicato via web alcuni importanti documenti a favore dello Stato Islamico – rappresenta un elemento chiave per comprendere lo jihadismo italiano legato al fenomeno dello Stato islamico.

Halili non è stato un combattente, non ha avuto ambizioni operative, né ha manifestato l’interesse ad immolarsi come soldato nel nome del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Halili è stato molto di più: nelle sue intenzioni lui si è imposto, in parte riuscendoci, come ideologo dello Stato islamico in Italia: esaltando le virtù del movimento terrorista, impegnandosi per l’imposizione della shari’a (la legge coranica) in Italia, incitando soggetti conosciuti prima sul web – e poi incontrati di persona – ad agire, a colpire nel nome dell’Islam, giustificando qualunque tipo di violenza nei confronti degli infedeli, degli apostati, ma anche dei musulmani che si sono lasciati corrompere dalla “religione della democrazia”.

Il suo è stato un lavoro intellettuale molto articolato, sapientemente ricostruito dagli operatori della Digos di Torino il cui lavoro è stato fondamentale per il Pubblico Ministero Emilio Gatti, che in sede di dibattimento ha chiesto la condanna a cinque anni per Halili raccomandando la necessità di farlo partecipare a un corso di de-radicalizzazione. Difficile dire quali potranno essere gli sviluppi di tale processo di de-radicalizzazione: va ricordato come in Italia non esista un percorso articolato e strutturato, anche a causa del fatto che il progetto di legge che lo avrebbe istituito (promosso da Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli) dopo essere stato approvato alla Camera, si è fermato al Senato nella precedente legislatura.

Qualsiasi cittadino non musulmano che fa parte della coalizione che bombarda lo Stato islamico è un obiettivo militare per noi

Il lavoro di Halili in questi anni, come hanno ben ricostruito gli inquirenti, si è concentrato sull’ideologia jihadista, sulla sua giustificazione religiosa e, cosa più importante, sullo sviluppo di un manuale teologico per gli aspiranti jihadisti italiani. È il ”quaderno rosso” di Halili: un elaborato di 64 pagine, meticolosamente compilato ed estremamente ordinato che, in maniera efficace, sintetica e analitica, ripropone i concetti tratti dalle lezioni dei “predicatori dell’odio” reperite sul web, e da cui sono stati sviluppati i suoi successivi scritti poi condivisi dalla rete jihadista che ne ha fatto un documento di riferimento. Nel suo “quaderno rosso” Halili ha riportato la sua interpretazione del “dovere di uccidere” anche attraverso gli attacchi terroristici, che lui riconosce come “legittimi atti di guerra”: “qualsiasi cittadino non musulmano che fa parte della coalizione che bombarda lo Stato islamico è un obiettivo militare per noi” – dice Halili nel suo scritto. E ancora, sempre nel quaderno, Halili parla di Islam come elemento politico, e dunque guerra, che deve contrapporsi alla democrazia e sottometterla.

L’analisi del caso Halili mette in evidenza la sua estrema intelligenza e capacità di reclutamento e indottrinamento: è bravo a scrivere, bravo a parlare, convincente e determinato. La sua ambizione personale, oltre al suo contributo nella realizzazione del Califfato globale, è stata quella di crearsi una nuova identità, quella di ideologo e veicolo “critico” del messaggio dello Stato islamico. Una sorta di imam, capo spirituale. Ma è il suo approccio che ne ha dimostrato le indiscusse capacità: “lobbistico”, improntato a “fare rete”, allagare l’uditorio e i soggetti con cui interfacciarsi e dialogare. Un atteggiamento che si colloca sul piano dell’apologia di shari’a che tende alla radicalizzazione violenta. È indubbiamente un islamista, ha contatti radicali e accede a contenuti ideologici radicali che rielabora e diffonde: ma è l’ideologia della shari’a. E questo conferma le preoccupazioni nei confronti di quell’islam politico che dell’applicazione della legge coranica fa la sua battaglia.

Un’analisi, quella degli inquirenti, che si accompagna alle evidenze di anni di indagini da cui emergono le idee, le intenzioni e le azioni di un Halili che si radicalizza sempre di più, attraverso il web, a da qui ai contatti, prima virtuali e poi fisici con i suoi interlocutori, a loro volta nel mirino di altre procure che indagano sul terrorismo jihadista in Italia. Il giovane jihadista marocchino aumenta sempre più, con il passare del tempo, le ore dedicate allo “studio” del jihad, all’analisi dei testi dello Stato islamico, arrivando a trascorrere anche due ore al giorno leggendo il giornale Dabiq e Amaq, organi di informazione del gruppo in Siria e Iraq. Trascorre ore e ore lasciandosi ipnotizzare da video e audio jihadisti che lo alienano e lo motivano sempre più.

Si allontana dalla famiglia, arrivando a picchiare il padre, accusandolo di essere un apostata; effettua donazioni di soldi ad organizzazioni jihadiste, attraverso la pagina Facebook “musulmani d’Italia”. Fino ad allargare la sua rete virtuale al di la dei confini nazionali, arrivando direttamente alla linea del fronte siriano dove è stato in contatto, tra gli altri, con uno jihadista combattente, Omar al-Amriki, con cui dialoga a lungo e raccoglie, diffondendole successivamente, le informazioni dal campo di battaglia e sulle truppe che combattono. È con Omar al-Amriki che Halili si accredita, presentandosi come l’autore del documento-guida tradotto in italiano: un’autodenuncia che ha rappresentato per l’accusa un elemento forte per confermare il capo di imputazione e definire nel dettaglio il ruolo di Halili a supporto dello Stato islamico.

Il 28 giugno 2019 viene così condannato a sei anni e sei mesi di detenzione per terrorismo, Elmahdi Halili, lo jihadista di Lanzo torinese, l’aspirante ideologo dello Stato islamico in Italia; una condanna che conferma ancora una volta la concretezza della minaccia jihadista dello Stato islamico, non solamente nella sua essenza territoriale e fisica, ma ancora più pericolosamente su un piano ideologico e religioso che continua ad auto-alimentarsi e ad adattarsi alle misure di contrasto.

 


Camera dei Deputati – Analisi degli attacchi terroristici in Europa tra “blocco funzionale” e spinta all’emulazione

La relazione alla Camera dei Deputati di Claudio Bertolotti, Direttore esecutivo dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo – ReaCT e Direttore di START InSight, in occasione del convegno “Il futuro del terrorismo di matrice jihadista”, martedì 29 ottobre (VIDEO).

Il successo del terrorismo: “blocco funzionale” e spinta all’emulazione

Il terrorismo non è il problema. Il terrorismo è la manifestazione violenta di un problema oggettivo che è la diffusione dell’ideologia jihadista; un’ideologia che si muove su un piano comunicativo estremamente efficace e che coinvolge un numero importante di soggetti che possono rappresentare una minaccia seria e concreta alla sicurezza.

L’ideologia jihadista alimenta il fenomeno della radicalizzazione. È dunque sull’ideologia (anche attraverso la contro-narrativa) che devono essere concentrati gli sforzi maggiori, così da contenerne o sconfiggerne le manifestazioni violente.

La nostra generazione è testimone di un fenomeno che si è imposto mediaticamente, ancor più che su quei campi di battaglia che dall’Afghanistan all’Iraq alla Siria sono giunti sino alle porte di casa, in Nord Africa e poi nel cuore stesso dell’Europa con gli attacchi principali di Parigi, Bruxelles, Londra, Berlino, ecc…. e dei tantissimi attacchi secondari a bassa intensità che portano a un totale di 116 azioni violente “in nome del jihad” registrate dal 2014 a oggi.

Parliamo certamente di terroristi che hanno importato la violenza in Europa, ma parliamo di un numero ben superiore di individui che invece, nati e cresciuti in Europa, sono cittadini europei o comunque regolarmente residenti in Europa, e dall’interno hanno colpito. Parliamo di soggetti prevalentemente immigrati regolari o di seconda o terza generazione appartenenti, prevalentemente, alle comunità Marocchina, Algerina, Tunisina – con un’età mediana di 22 anni (44 percento di età inferiore ai 26 anni). Solo una minima parte sono “irregolarmente entrati all’interno dell’Unione Europea: l’11 percento del totale.

In tale scenario, e in particolare nel momento in cui lo Stato islamico nel 2014 fa appello per entrare a far parte del proto-stato teocratico e sunnita che si impone in Siria e Iraq, e dunque a trasferirsi, dall’Europa rispondono in migliaia all’appello. E l’Europa diviene dunque esportatrice di terrorismo, con oltre 5.000 volontari che vanno a combattere in Siria.

Ma quel terrorismo che in Europa si impone, violentemente nelle nostre quotidianità, lo fa con una violenza micidiale e con numeri ben superiori, per quanto limitati, rispetto all’attenzione mediatica sugli stessi. Parliamo di 116 azioni, portate a termine in Europa dal 2014 a oggi da 157 terroristi (dei quali 56 sono deceduti) e che hanno provocato la morte di 388 persone e il ferimento di altre 2353: l’ultimo il 3 ottobre in Francia, a Parigi.

Ma soltanto 11 del totale sono attacchi terroristici ad alta intensità (con un numero di vittime superiore a 20); gli altri sono eventi che classifichiamo come eventi a media intensità con un numero di vittime compreso tra 3 e 20 (il 36 percento del totale,) e a bassa intensità, meno di due vittime (il 56 percento – circa 6 su 10).

Ma al di là del numero dei morti e dei feriti, o degli attentatori che effettivamente hanno portato a compimento le azioni terroristiche, quali i risultati effettivi del terrorismo jihadista in Europa all’epoca dello Stato islamico che fu di Abu Bakr al Baghdadi? Attraverso l’analisi del dataset sul terrorismo di START InSight, ci concentreremo su questo aspetto, tra i tanti interessanti: quello del terrorismo è successo o insuccesso?

il successo degli attacchi terroristici: ottenuto il “blocco funzionale” nel 74 percento dei casi

In primo luogo, gli anni di maggior espansione territoriale e mediatica dello Stato islamico sono stati quelli in cui vi sono i principali attacchi terroristici in Europa: 2016-2017 e 2018. Nel 2017 si concentrano gli attacchi che percentualmente hanno maggior successo (4 su 10 provocano almeno una morte).

Ma nel complesso, guardando all’intero periodo, il 24 percento sono attacchi fallimentari (nessuna vittima, solo feriti o nulla); il 34 percento ottengono “successo tattico” (almeno una vittima deceduta); il 18 percento ottengono successo strategico (blocco traffico aereo, mobilitazione delle Forze armate, coinvolgimento opinione pubblica a livello internazionale).

Ma un aspetto ancora più importante, che in genere non viene riconosciuto, sia sul piano divulgativo-informativo, sia su quello tecnico-accademico è quello che abbiamo voluto chiamare “blocco funzionale”: il più importante dei risultati ottenuti dai terroristi sul moderno campo di battaglia europeo.

All’interno di questa categoria sono inseriti tutti quegli eventi che hanno influito in maniera significativa sul livello operativo delle forze di sicurezza, pensiamo alla mobilitazione militare conseguente all’attacco parigino del Bataclan, ma anche sulla limitazione o lo svolgimento regolare delle normali attività quotidiane degli apparati pubblici, o di mobilità urbana a danno delle comunità colpite. Si tratta di ripercussioni dirette sulle attività delle forze di sicurezza e sulle comunità in grado di agire sulla libertà di accesso a determinate aree, imponendo tempistiche dilatate e, ancora, riducendo in maniera efficace il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo.

I risultati sono tangibili e, a livello operativo, gli attacchi hanno ottenuto dal 2004 a oggi, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 74 percento dei casi (84 percento nel 2017). Un risultato impressionante considerando le limitate risorse messe in campo dai gruppi, o dai singoli terroristi. E sono danni, quelli provocati dagli attacchi terroristici, che si traducono in costi elevati per la collettività.

un terzo degli attacchi terroristici sono “emulativi”

Un altro aspetto interessante è il ruolo di “attivatore” giocato dagli eventi ad alta intensità che, in relazione al numero di vittime provocato, stimola soggetti autonomi ad agire con atti “EMULATIVI”. Guardando all’elenco degli attacchi ad alta e media intensità (quelli che cioè provocano un maggiore numero di vittime) ci rendiamo subito conto di una concentrazione di eventi a bassa intensità entro gli otto giorni successivi ai principali eventi (quelli che ottengono maggiore attenzione mediatica): il 27percento.

Questi eventi, secondari, spesso fallimentari, raramente ottengono l’attenzione dei media che vada oltre il livello locale ma suggeriscono come il coinvolgimento di soggetti “autonomi” avvenga attraverso lo stimolo emotivo alimentato dall’attenzione mediatica e dalla narrativa utilizzata dai gruppi terroristi attraverso i social.

Questo, in estrema sintesi, può essere letto sul terrorismo in Europa, un fenomeno che, a livello di manifestazione si è significativamente ridotto, ma che sul piano potenziale continua ad essere una grandissima sfida su cui è necessario agire con crescente impegno sul piano della prevenzione. Tanto più che con la morte del leader jihadista, Abu Bakr al-Baghdadi, la struttura multipla dello Stato Islamico gli sopravvive.


L’interesse strategico della Turchia in Libia: l’attivismo militare a sostegno degli islamisti

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 3/2019

L’aeroporto di Misurata, all’interno del quale si trova anche la base della missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIASIT), è stato più volte bombardato dai droni a supporto del Libyan National Army guidato dal Generale Khalifa Haftar. Attacchi aerei che si sono concentrati su obiettivi militari riconducibili alla Turchia, attivamente impegnata a supporto del Governo di Accordo Nazionale di Fajez al-Serraj, e che pongono in evidenza gli effetti della war by proxy in corso in Libia

Attivismo turco in Libia: tra interessi finanziari e aiuti militari

Il governo di accordo nazionale (GNA – Government of National Accord) di Tripoli, guidato da Fajez al-Sarraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite, è sostenuto direttamente sul piano politico, diplomatico e militare da Regno Unito, Tunisia, Qatar, Turchia, Marocco e Algeria.
Il supporto turco, in particolare, ha contribuito alla sopravvivenza del GNA, minacciato dall’offensiva lanciata il 4 aprile scorso dal rivale Khalifa Haftar alla guida dell’esercito nazionale libico (LNA, Libyan National Army) di Tobruk.
Un aiuto, quello turco, che solamente negli ultimi due mesi ha garantito al governo tripolino rifornimenti militari comprendenti quaranta veicoli protetti MRAP KIRPI e VURAN di produzione turca, sistemi missilistici UCAV BAYRAKTAR TB2 , equipaggiamenti, mine anti-carro, fucili di precisione, mitragliatrici, munizioni e droni militari. A questi aiuti materiali si sommerebbero, come più volte denunciato dal governo di Tobruk, miliziani islamisti provenienti dalla Siria.
Un consistente e fondamentale aiuto militare che è prova del sostegno politico alla compagine governativa di Tripoli a cui la Turchia guarda con grande favore in virtù dei consolidati interessi di natura economico-finanziaria e geopolitica.
Il supporto della Turchia al GNA è una delle molte decisioni di politica estera che hanno collocato Ankara sul fronte opposto all’Egitto e ai suoi alleati degli Stati del Golfo, portando alcuni analisti a descrivere il conflitto libico come una guerra regionale per procura (war by proxy). Una guerra in cui il governo di Tobruk – e il suo esercito guidato da Haftar – gode del sostegno diretto di Russia, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi, attraverso la base militare nigerina al confine con la Libia, continuerebbero a garantire il loro supporto alle forze di Haftar in Fezzan (area di Saba) attraverso azioni ISR (intelligence, sorveglianza e ricognizione) e attacco al suolo  nella zona di Misurata e Tripoli.

La Turchia sostiene l’opzione politica e governativa della Fratellanza musulmana al fine di creare un fronte a guida islamista ma con l’esclusione del parlamento, dei militari, di influenti attori sociali e delle forze liberali e progressiste, a discapito di un vero processo di riconciliazione nazionale.

Una polarizzazione, tra competitor regionali che giocano le loro partite attraverso il confronto tra Tripoli e Tobruk, in cui dal 2014 si inserisce la Turchia del presidente Recep Tayyp Erdogan a sostegno di quegli elementi islamisti che compongono il GNA che, opponendosi ai risultati elettorali, hanno portato alla formazione di un governo rivale a Tobruk. Le ragioni del sostegno turco al GNA sono complesse, ma emergono una serie di fattori utili a comprendere il perché dell’intervento sempre più attivo di Ankara in Libia.
Una delle ragioni più plausibili è la vicinanza ideologica alla componente islamista all’interno del GNA rappresentata dalla Fratellanza Musulmana. Da un lato è evidente il ruolo giocato dai Fratelli Musulmani nel contribuire a definire le relazioni della Turchia con la Siria, il Sudan, i territori palestinesi e l’Egitto; dall’altro lato, l’Egitto (a cui Erdogan non ha mai nascosto la sua opposizione al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, da quando il generale ha rovesciato il suo predecessore, e caro amico del presidente turco, Mohammed Morsi) e gli Stati del Golfo considerano il gruppo islamista un’organizzazione terroristica, e per questa ragione condannano il ruolo di Ankara in loro sostegno.
L’opzione turca si baserebbe dunque sul coinvolgimento politico e governativo della Fratellanza musulmana al fine di creare un fronte a guida islamista ma con l’esclusione del parlamento, dei militari, di influenti attori sociali e delle forze liberali e progressiste, a discapito di un vero processo di riconciliazione nazionale . Un sostegno, quello turco agli islamisti libici, che avrebbe portato a un rapporto simbiotico e di reciproca dipendenza tra i due soggetti: gli islamisti hanno bisogno del sostegno di Ankara per sopravvivere all’offensiva dell’LNA, mentre la Turchia ha bisogno degli islamisti poiché sono gli unici in grado di consentire un’influenza turca sul piano politico, e dunque su quello economico e finanziario. E in tale quadro rientrano i rapporti di collaborazione con il Qatar – sostenitore di Ankara, tanto da finanziare il governo turco afflitto dalla recente recessione economica – che è il maggiore finanziatore del GNA. Dunque, un’alleanza che ha portato a definire i ruoli coordinati dei due partner in Libia: Ankara, sul piano militare, Doha, su quello finanziario .
Sul piano degli equilibri a livello regionale, inoltre, la presa di posizione turca a sostegno degli islamisti libici rientrerebbe in una scelta politica volta a indebolire internamente lo stesso al-Sisi (che insieme ai suoi alleati del Golfo sostiene Haftar e l’LNA) attraverso un contrasto militare che avrebbe ripercussioni anche in Egitto.
Un’ulteriore ragione plausibile del sostegno turco al GNA, è l’aspetto economico: la Libia possiede tra le più ricche riserve di idrocarburi in Africa, pari a 48 miliardi di barili; mentre le riserve tecnicamente recuperabili dal petrolio di scisto (attraverso la tecnica del fracking) sono stimate in 26 miliardi di barili. Inoltre, la Libia ha un enorme potenziale di esportazione: che garantisce circa il 90% delle entrate complessive del paese .
La Turchia, guardando con favore a una divisione del paese tra spinte competitive tra le tribù e la debolezza delle istituzioni democratiche, avrebbe gioco facile nell’imporre la propria egemonia; così facendo otterrebbe un accesso privilegiato alle risorse energetiche libiche e, al contempo, avrebbe un alleato in grado di “alleggerire” l’isolamento sul piano delle estrazioni di idrocarburi nel Mediterraneo orientale, conseguente all’opposizione della Turchia ai piani di perforazione autorizzati dall’amministrazione cipriota. Una scoperta di riserve potenzialmente enormi di idrocarburi, quelle nel mare di Cipro, che ha portato a una collaborazione da parte dei paesi regionali per accedervi – Egitto, Cipro, Grecia, Israele –, a svantaggio di Ankara .

L’attivismo della Turchia a Misurata e il bombardamento dell’aeroporto che ospita il contingente italiano

Misurata rappresenta un obiettivo primario nella strategia di Ankara per la Libia. Qui risiede un’importante minoranza etnica di origine turca – la tribù dei Karaghla – che, stando a quanto afferma Ali Muhammad al-Sallabi, leader della Fratellanza musulmana di Misurata, avrebbe stretto alleanza con il gruppo islamista locale . I Karaghla, le cui origini risalirebbero all’inizio dell’occupazione ottomana, sono oggi presenti nelle aree di Misurata, Tripoli, Zawiya e Zliten; il clan più numeroso è quello di Ramla, prevalente a Misurata. Nel complesso si tratta di un gruppo tribale economicamente forte e influente in ambito politico e finanziario .
L’importanza dei Karaghla e la loro vicinanza ai Fratelli musulmani ne hanno fatto un elemento di interesse da parte della Turchia, contribuendo alla crescente influenza di Ankara sulla città attraverso il sostegno finanziario, politico e militare ai gruppi di potere locali legati alla lotta armata e ai commerci, legali e illegali, che attraversano l’area.
Riporta G. Criscuolo nella sua analisi sulla Libia : “Saad Amgheib, membro del Parlamento libico: La Turchia sta giocando con l’appoggio dei Fratelli Musulmani per mettere le mani sulla Libia. In più sta lavorando di fino con coloro che appartengono alla tribù di origine turca e che hanno grande potere soprattutto nella città di Misurata (…)”. Secondo l’analista politico libico Abdul Basit Balhamil – riporta G. Criscuolo –, “Dal 2014 Misurata è stata trasformata in una base turca in cui vengono trasferite armi (…)” . Accuse analoghe provengono da parte di Haftar: “dall’aeroporto di Misurata passano le armi e i velivoli turchi che aiutano il governo di Tripoli”.
Ragioni, queste, per la quali i droni degli Emirati Arabi Uniti a supporto dell’esercito di Haftar avrebbero colpito, con “attacchi molto precisi” , obiettivi all’interno dell’aeroporto di Misurata, sede dell’Accademia aerea libica e dove è schierato ed opera il contingente italiano. Attacchi che, ha affermato Haftar, sono “rappresaglia per l’attacco aereo di Jufra condotto da droni turchi”  e che si sono concentrati su obiettivi riconducibili agli interessi di Ankara: una prima volta nella notte tra venerdì 26 e sabato 27 luglio, seguito da un secondo attacco martedì 6 agosto e un terzo mercoledì 7 agosto. L’ultimo bombardamento, avvenuto nella notte tra il 17 e il 18 agosto, ha provocato almeno undici esplosioni a meno di cinquecento metri di distanza dal contingente italiano. Gli obiettivi colpiti, sulla base delle dichiarazioni delle forze di Haftar, sarebbero dieci, comprendenti “una sala operatoria, equipaggiamenti di difesa aerea, depositi di munizioni” .

La presenza militare italiana a Misurata

A Misurata l’Italia è impegnata con un proprio contingente militare, nell’ambito della missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIASIT), il cui compito consiste nel fornire assistenza e supporto al GNA libico ed è frutto della riconfigurazione, in un unico dispositivo, delle attività di supporto sanitario e umanitario previste dalla precedente Operazione Ippocrate (conclusa, come missione autonoma, il 31 dicembre 2017) e di alcuni compiti di supporto tecnico-manutentivo a favore della Guardia costiera libica rientranti nell’operazione Mare Sicuro. La nuova missione, che ha avuto inizio a gennaio 2018, ha l’obiettivo di rendere l’azione di assistenza e supporto in Libia maggiormente incisiva ed efficace, sostenendo le autorità libiche nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, in armonia con le linee di intervento decise dalle Nazioni Unite.
Il contingente italiano, composto da 400 militari, 130 mezzi terrestri e mezzi navali e aerei (questi ultimi tratti nell’ambito delle unità del dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro), comprende personale sanitario, unità per assistenza e supporto sanitario, unità con compiti di formazione, addestramento consulenza, assistenza, supporto e mentoring (compresi i Mobile Training Team), unità per il supporto logistico generale, unità per lavori infrastrutturali, unità di tecnici/specialisti, squadra rilevazioni contro minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (CBRN), team per ricognizione e per comando e controllo, personale di collegamento presso dicasteri/stati maggiori libici, unità con compiti di force protection del personale nelle aree in cui esso opera. Inoltre, nell’ambito della missione sono confluite le attività di supporto sanitario e umanitario già parte dell’Operazione Ippocrate e alcuni compiti previsti dalla missione in supporto alla Guardia costiera libica, tra i quali quelli di ripristino dei mezzi aerei e degli aeroporti libici, fino ad ora inseriti tra quelli svolti dal dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro .
Il contributo militare italiano, nel dettaglio, ha il compito di fornire assistenza e supporto sanitario; condurre attività di sostegno a carattere umanitario e a fini di prevenzione sanitaria attraverso corsi di aggiornamento a favore di team libici impegnati nello sminamento; fornire attività di formazione, addestramento, consulenza, assistenza, supporto e mentoring a favore delle forze di sicurezza e delle istituzioni governative libiche, in Italia e in Libia, al fine di incrementarne le capacità complessive; assicurare assistenza e supporto addestrativi e di mentoring alle forze di sicurezza libiche per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza della Libia; svolgere attività per il ripristino dell’efficienza dei principali assetti terrestri, navali e aerei, comprese le relative infrastrutture, funzionali allo sviluppo della capacità libica di controllo del territorio e al supporto per il contrasto dell’immigrazione illegale; supportare le iniziative, nell’ambito dei compiti previsti dalla missione, poste in essere da altri Dicasteri; incentivare e collaborare per lo sviluppo di capacity building della Libia; effettuare ricognizioni in territorio libico per la determinazione delle attività di supporto da svolgere; garantire un’adeguata cornice di sicurezza/force protection al personale impiegato nello svolgimento delle attività/iniziative in Libia .


I principali eventi nell’area del Maghreb e del Mashreq – luglio

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico – Ce.Mi.S.S. Scarica l’analisi completa dal Report

Algeria

Continuano le proteste nelle piazze algerine, nonostante il risultato ottenuto ad aprile con le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika. In questo incerto periodo di transizione, importanti aspetti interessano due gruppi chiave per il futuro politico dell’Algeria: i giovani manifestanti e il personale militare. Secondo un nuovo rapporto del Brookings Institute – intitolato “Algeria’s uprising: A survey of protesters and the military” – cresce il sostegno militare verso i manifestanti, e aumenta il divario tra i ranghi superiori e inferiori dell’esercito algerino a sostegno del movimento di protesta. Mentre l’80% dei ranghi inferiori sosterrebbe le istanze dei manifestanti, la percentuale dei sostenitori tra gli ufficiali superiori, al contrario, sarebbe non superiore al 60% afferma.

Israele ed Egitto

A novembre Israele inizierà a esportare gas naturale in Egitto, con volumi stimati in sette miliardi di metri cubi all’anno. Le forniture segneranno l’avvio di un accordo di esportazione di 15 miliardi di dollari tra Israele – Delek Drilling e il partner statunitense Noble Energy – e l’Egitto: un accordo di collaborazione che i funzionari israeliani hanno definito come il più importante dagli accordi di pace del 1979. L’accordo garantirà l’immissione nella rete egiziana del gas naturale israeliani proveniente dai campi offshore Tamar e Leviathan.

Libano

Possibile disputa tra il presidente Michel Aoun e il primo ministro Saad Hariri a causa della sparatoria mortale che ha coinvolto due membri del Partito democratico libanese nell’area drusa di Aley. Le ripercussioni politiche dell’evento hanno paralizzato il governo in un momento critico e rischiano di complicare gli sforzi volti ad attuare le riforme necessarie per risolvere il problema del debito pubblico aggravato dalla crisi finanziaria.

Libia

La compagnia petrolifera nazionale libica ha sospeso le operazioni nel più grande giacimento petrolifero del paese a causa della chiusura “illegale” di una valvola del gasdotto che collega il giacimento petrolifero di Sharara al porto di Zawiya, sulla costa del Mediterraneo. La National Oil Corporation ha annunciato la decisione senza attribuire formalmente la responsabilità dell’atto definito “illegale”. Il giacimento petrolifero di Sharara, che produce circa 290.000 barili al giorno per un valore di 19 milioni di dollari, è controllato da forze fedeli a Khalifa Haftar, capo del cosiddetto esercito nazionale libico (LNA) artefice dell’offensiva lanciata ad aprile contro la capitale libica.

Morocco

Nel suo discorso per la “Giornata del trono” di quest’anno, il 30 luglio il re marocchino Mohammed VI ha annunciato nuovi programmi di sviluppo nazionale e un rimpasto del governo interessante i dicasteri per la politica interna. In termini di politica estera, Mohammed VI ha nuovamente invitato l’Algeria al dialogo e auspicato “l’unità tra le popolazioni nordafricane”. Per quanto riguarda il Sahara occidentale –m ha ribadito –la posizione del Marocco rimane “saldamente ancorata all’integrità territoriale”. Infine, per celebrare i suoi 20 anni di regno, Mohammed VI ha graziato 4.764 detenuti, inclusi alcuni detenuti per terrorismo.

Siria

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha affermato che il suo paese è determinato ad eliminare quello che ha definito il “corridoio del terrore” nel nord della Siria; una decisione, ha ribadito Erdogan, indipendente dal fatto che la Turchia e gli Stati Uniti siano o meno d’accordo sulla creazione di una zona sicura. Ankara vuole una zona lungo il confine con la Siria che sia libera dalla presenza di combattenti curdi. La Turchia ha avvertito dell’intenzione di avviare una nuova offensiva in Siria se non venisse raggiunto un accordo; in tale quadro sono stati recentemente inviati rinforzi militari nella zona di frontiera

Tunisia

Il 25 luglio è morto, all’età di 92 anni, il presidente tunisino Béji Caïd Essebsi. Il presidente del parlamento, Mohamed Ennaceur (85 anni), ha assunto la carica di capo di stato sino alla conclusione del processo elettorale, in calendario per il prossimo 15 settembre. Crisi istituzionale ed economica e minaccia jihadista: la morte di Essebsi si verifica in un periodo di potenziale destabilizzazione per il Paese nordafricano.


Perché in Europa la minaccia del terrorismo jihadista è ancora alta?

articolo originale di C. Bertolotti per Europa Atlantica, su Formiche.net

I Paesi europei affrontano una minaccia terroristica estremamente concreta a causa dell’alto numero di foreign terrorist fighter, della presenza di reti jihadiste sviluppate e della vicinanza geografica alle zone di guerra

A giugno, due attentatori suicidi si sono fatti esplodere nel centro di Tunisi: l’azione è stata seguita dalla rivendicazione dello Stato islamico. A luglio è stato diffuso, attraverso il web, un video edito dal franchise tunisino dello Stato islamico in cui compaiono alcuni uomini armati che, dichiarandosi seguaci del “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, hanno incitato all’azione attraverso la condotta di attacchi violenti.

Alla fine di giugno, in ottemperanza alla misura cautelare in carcere emessa dal Gip di Brescia per il reato di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo, la Polizia di Stato di Brescia, coordinata dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione e con il supporto dell’Fbi statunitense, ha arrestato il foreign terrorist fighter Samir Bougana. L’arrestato è un 25enne italo marocchino che nel 2013, partendo dalla Germania per la Siria, è accusato di essersi unito prima alle milizie associate ad al-Qa’ida e poi allo Stato Islamico. Bougana era stato catturato dalle milizie curde in Siria il 27 agosto 2018.

Casi, tra i tanti, che mantengono i riflettori accesi sulla minaccia del terrorismo jihadista associato allo Stato islamico, a conferma della strategia post-territoriale di ciò che fu l’Isis. Ora le cellule nascoste, i singoli “combattenti”, l’effetto emulativo, l’aumento della propaganda e il reclutamento in tutto il mondo, sono le principali armi su cui il gruppo terrorista sta concentrando gli sforzi, così come evidenziato nell’ultimo video in cui al-Baghdadi ha chiesto ai “lupi solitari” di colpire con “coltelli e veicoli” lanciati contro civili inermi, trasferendo così il campo di battaglia dal Medio Oriente all’Occidente.

Degli oltre 5mila foreign terrorist fighter “europei” partiti per combattere in Medio Oriente (di cui il 14% donne), mille sarebbero caduti in Siria e Iraq. Un numero significativo è però sopravvissuto; un terzo (1500) sarebbero tornati nei propri Paesi, altri 2500 avrebbero trovato rifugio in Paesi terzi unendosi ai gruppi jihadisti locali (dall’Afghanistan alla Libia, dall’Africa all’Asia centrale). Circa 800 al momento sono detenuti nelle carceri curde in Iraq: molte le donne e i bambini. Una condizione di “prigionia” che ha sollevato ampi e legittimi dibattiti in Europa e negli Stati Uniti sull’opportunità di limitare loro la possibilità di rientro nei Paesi di origine, a cui ha fatto seguito la decisione di molti Paesi europei di togliere loro la nazionalità così da non permetterne il ritorno.

Un problema di sicurezza collettiva che, seppur limitato nei numeri e interessante principalmente quattro paesi (Francia, Regno Unito, Germania e Belgio da cui sono partiti almeno 3mila e 700 dei 5000 combattenti), si muove su due binari paralleli e in competizione tra di loro che hanno portato al bipolarismo dello jihadismo globale, diviso tra due principali attori in competizione per il potere e l’influenza: da un lato al-Qa’ida, dall’altro l’evoluzione dello Stato islamico.

Le reti jihadiste ispirate ad al-Qa’ida hanno costituito la base dell’emigrazione jihadista dall’Europa alla Siria e all’Iraq sino a tutto il 2015: le reti europee collegate al movimento Sharia4 hanno rappresentato il punto di riferimento per i gruppi radicali europei impegnati nell’inviare combattenti e supporto finanziario in Siria e Iraq. L’ascesa al potere dello Stato islamico a partire dalla fine del 2014, è poi riuscita a far (temporaneamente) eclissare al-Qa’ida dal panorama jihadista, almeno quello comunicativo.

Ma se lo Stato islamico ha perso, insieme alla sua natura territoriale, anche parte della spinta mediatica e comunicativa, la maggior parte dei social network e dei leader di al-Qaida in Europa è riuscita a sopravvivere all’Isis, dando inizio a una nuova battaglia, quella per “i cuori e le menti”, che è appena all’inizio.

A guardare l’attuale situazione in Europa, Medio Oriente e in Nord Africa, ci possiamo rendere conto di come i principali modelli organizzativi dell’attività del terrorismo islamista – in termini di struttura, reclutamento e formazione – non siano cambiati in modo significativo, ma si siano evoluti in maniera estremamente efficace.

La fine territoriale dello Stato islamico ha portato il movimento a reinterpretare la propria natura originale, basata su un approccio insurrezionale clandestino (principalmente nelle aree sunnite in Iraq) a cui si sono affiancati due linee d’azione: da un lato la delocalizzazione e i franchise in Afghanistan, Libia e in Africa i cui attori principali sono i gruppi locali a cui si sono uniti i reduci fuggiti dal fronte siriano; dall’altro lato l’espansione all’interno dell’arena globale, inclusa l’Europa, in cui le azioni sono lasciate all’iniziativa individuale e delle cellule.

JIHADISTI IN EUROPA

Relativamente a età e genere, il 70% dei terroristi europei sono nati negli anni Ottanta e Novanta, dunque relativamente giovani, sebbene un 20% sia costituito da soggetti nati prima del 1980: un elemento interessante poiché pone in evidenza la presenza di una quota importante di uomini di “mezza età” al fianco della massa più giovane.

Le donne hanno svolto e svolgono un ruolo molto più attivo di quanto non sia stato posto in evidenza, e rappresentano una minaccia crescente; delle circa 650 partite dall’Europa per il fronte siriano e iracheno, 21 hanno fatto rientro in Belgio e 28 in Francia.

I bambini al di sotto dei dieci anni rappresentano un problema estremamente serio e una potenziale minaccia alla sicurezza europea per il futuro. Delle centinaia di bambini che avrebbero lasciato l’Europa, 16 sono rientrati in Belgio e 68 in Francia; gli altri sono detenuti in Iraq e Siria, altri trasferiti in paesi terzi con almeno uno dei genitori, ma della maggior parte non si sa nulla.

Se da un lato i convertiti radicalizzati pongono seri problemi in termini securitari, ma anche culturali e sociali, va posta una particolare attenzione alle carceri che continuano a svolgere un ruolo fondamentale sia nell’attivazione che nel rafforzamento del processo di radicalizzazione.

L’origine etnica e geografica dei terroristi jihadisti si impone come importante elemento e strumento di analisi e nel monitoraggio delle reti e delle cellule jihadiste. I gruppi principalmente afflitti dall’adesione al modello jihadista sono quelli marocchini (in Belgio, Spagna e Italia), algerini (in Francia), turchi (in Germania e Paesi Bassi).

Infine, una considerazione sulla questione che si concentra sul possibile collegamento tra immigrati e terrorismo: dal gennaio 2014, 44 rifugiati o richiedenti asilo sono stati coinvolti in 32 complotti jihadisti in Europa. Sebbene la maggior parte di questi soggetti si sia radicalizzata prima dell’ingresso in uno dei Paesi europei, tuttavia i processi di radicalizzazione avviati dopo l’arrivo in Europa sono divenuti più comuni a partire dall’autunno del 2016. Nel complesso, il periodo di latenza tra l’arrivo in Europa e la partecipazione a un’azione terrorista in genere associata allo Stato islamico (di successo o sventata) è di 26 mesi.

In conclusione, più della metà dei jihadisti sono nati in un Paese dell’Unione Europea, l’11% sono immigrati naturalizzati o di prima generazione, mentre solo il 17% sono terroristi “stranieri”, cioè cittadini non comunitari che non avevano precedentemente vissuto in Europa.

LA SITUAZIONE IN EUROPA

Sebbene gli attacchi diretti ed effettivamente collegati allo Stato islamico abbiano meno probabilità di verificarsi nei Paesi europei dove la sicurezza è stata significativamente rafforzata, gli attacchi emulativi ispirati allo Stato islamico rappresentano una minaccia potenzialmente in crescita. Usando la sofisticata ed efficace propaganda, gli jihadisti si rivolgono direttamente ai potenziali “combattenti” del jihad incitandoli ad agire nel paese di residenza. È un quadro in cui il terrorismo nostrano definisce una tendenza alla  violenza particolarmente preoccupante e in cui la minaccia futura dipende da come l’uditorio, a cui il sedicente “califfo” al-Baghdadi si rivolge, seguirà i suoi appelli ad aderire alla “guerra di logoramento” contro le nazioni “crociate”, al centro delle nuove minacce di terrorismo che provengono dallo Stato islamico. A tale fattore si inserisce la volontà di al-Qa’ida di riconquistare quel terreno perso negli anni dello Stato islamico territoriale; una volontà che potrà manifestarsi attraverso la condotta di azioni spettacolari ed eclatanti, dal forte impatto mediatico e comunicativo.

Nel complesso i Paesi europei affrontano una minaccia terroristica estremamente concreta a causa dell’alto numero di foreign terrorist fighter, della presenza di reti jihadiste sviluppate e della vicinanza geografica alle zone di guerra.


Pantano afghano: Radio 24 – intervista a Claudio Bertolotti

L’intervento di Claudio Bertolotti a RADIO 24 – Nessun luogo è lontano, a cura di Giampaolo Musumeci

 

Ennesimo attacco oggi in Afghanistan. I civili continuano a morire: più di 1300 civili nel primo semestre del 2019 e anche oggi un bus che trasportava donne e bambini è saltato in aria causando una trentina di morti. Claudio Bertolotti, partiamo da li, dalla zona di Bala Baluk dove gli italiani si sono spesi in termini di sforzi e anche vite.
Bala Baluk è un nome che i soldati italiani non possono dimenticare per gli sforzi e i sacrifici, anche in termini di vite umane. La base denominata “Tobruk”, costruita dagli italiani proprio a Bala Baluk venne passata in consegna all’esercito afghano nell’ottobre del 2014, all’interno del processo di “transizione irreversibile”, come l’aveva chiamata l’allora presidente statunitense Obama; un anno dopo quella base cadeva nelle mani dei talebani che, dopo la chiusura della missione ISAF, hanno progressivamente conquistato ampie porzioni di territorio e posto sotto il loro controllo oltre il 40% del territorio. Il distretto di Bala Baluk, oggi al centro dell’offensiva talebana, è nominalmente sotto la responsabilità italiana, e dunque della NATO: ma la nuova missione Resolute Support dell’Alleanza atlantica non schiera più oggi soldati in formazione da combattimento, bensì in funzione di supporto e addestramento alle forze afghane, anche se questo vuol dire un sostanziale passo indietro su un campo di battaglia che né i numeri né le agende politiche dei paesi che contribuiscono alla missione possono controllare. La NATO oggi non combatte, non combatte più al fianco delle forze afghane, le truppe della NATO rimangono in sostanza all’interno delle principali basi, mentre le forze di sicurezza afghane – incapaci di garantire il controllo del territorio – sono rassegnate a ritirarsi anch’esse verso le aree urbane, lasciando quelle periferiche e rurali ai talebani.

Sei fresco di pubblicazione di un libro che fotografa molto bene il paese: Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga (ed. START InSight). Se dovessi sintetizzare chi comanda oggi?
Come ho voluto mettere in evidenza nel mio libro, che è anche un manuale per il personale civile e militare destinato a prestare servizio in Afghanistan, oggi comandano tutti e nessuno. In Afghanistan regna il caos. In questo momento non c’è un attore che possa essere indicato come il più forte. Non comandano gli Stati Uniti, la cui priorità è dichiarare concluso un conflitto che va avanti da 18 anni, pur senza rinunciare a una residuale presenza all’interno delle basi strategiche.
Non comanda certamente la NATO, il cui ruolo benché fondamentale, rimane comunque subordinato alle agende politiche dettate da Washington. Non lo consentono neanche i numeri, limitati a poche migliaia di soldati.
Il governo di Kabul, guidato dalla diarchia Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, è incapace di governare il paese, anche a causa della competizione tra i due capi. Il governo afghano è in grado di controllare parte delle aree urbane, ma non tutte.
Quel che è certo è che i talebani saranno quelli che trarranno maggior vantaggio da questa guerra, ottenendo il riconoscimento formale di ciò che di fatto hanno conquistato combattendo.
I talebani stanno aspettando, il tempo è dalla loro parte e un giorno comanderanno anche loro, al termine di una guerra che non è stata vinta, né sostanzialmente persa… forse dimenticata.

Complessità: della società, della politica, le frizioni etniche, la domanda è sempre quella: ha senso un debole stato centrale? Il dibattito sul federalismo sembra un po’ sparito dai radar o mi sbaglio?
Tutto si intreccia in Afghanistan dove la normalità è proprio in questa complessità politica, sociale ed etno-culturale. A cui più recentemente si è aggiunta la lotta settaria tra sciiti-sunniti avviata con estrema violenza da quello che siamo abituati a definire il nuovo attore della guerra afghana, ma che nuovo non è ormai più: parliamo dello Stato islamico e del suo tentativo di trasformare, anche grazie all’arrivo di molti reduci dalla guerra in Siria, una ormai storica guerra di liberazione nazionale – quella combattuta dai talebani – in guerra globale, senza confini e fortemente ideologizzata.
In questo contesto si alimenta la contrapposizione centro-periferia dove a una progressiva incapacità del governo centrale si contrappone la frammentazione del potere a livello locale – diviso tra i signori della guerra e della droga e la galassia dei gruppi insurrezionali.
Di federalismo si è parlato a lungo, specialmente durante i primi anni di guerra, ma temo che ormai, al di la di ciò che potrà avvenire a livello locale, il governo di Kabul avrà una sempre minore voce in capitolo in merito alla gestione dello Stato così come lo abbiamo conosciuto sino ad oggi. Ormai non è più il tempo di ambiziose strategie per la ricostruzione dello Stato afghano, è il tempo del disimpegno, nonostante tutto.

Il tutto mentre a Doha ci sono i colloqui di pace tra Usa e talebano. A che punto siamo?
È necessario essere realisti: il dialogo di Doha, iniziato nel 2012, è parte di un processo di dialogo che va avanti dal 2007. Dunque ritengo che i tempi per la conclusione di un negoziato soddisfacente tra le parti non sia un obiettivo a breve termine… come certamente non è prevedibile il ritiro del grosso delle truppe statunitensi e della Nato prima di 18 mesi. Se ne parlerà dopo le elezioni presidenziali, in calendario per il 28 settembre. Ma è da vedere se il calendario elettorale verrà rispettato… sino ad oggi non lo è mai stato.
Certo è che i talebani sono sempre più forti, sia sul campo di battaglia, sia al tavolo negoziale, dove la partecipazione del governo afghano sarà una concessione talebana.
Credo che il prossimo passo sarà sul piano comunicativo, più che militare: ossia presentare i talebani come il baluardo all’espansione dello Stato islamico in Afghanistan. Tanto potrebbe bastare a Washington e alle cancellerie europee per convincere le opinioni pubbliche ad accettare i talebani quali artefici del futuro afghano. Ma sappiamo bene che la realtà sarà ben diversa, a partire dalle concessioni economiche di cui beneficeranno i talebani, dalla sostanziale libertà di gestione del più florido mercato di oppiacei al mondo, sino alle rinunce di parte dei diritti civili ad oggi garantiti dalla costituzione afghana.


Libia: l’assedio di Tripoli e lo stallo strategico (Ce.Mi.S.S.)

di Claudio Bertolotti

Il 4 aprile le forze dell’Esercito nazionale libico (LNA) sono entrate nella città di Garian, da dove hanno lanciato un assalto che avrebbe dovuto consegnare la città nelle mani del generale Khalifa Haftar. L’obiettivo non è stato raggiunto e, a tre mesi da quella mancata conquista, lo scenario è quello di uno stallo strategico che si sta dimostrando ancora più sfavorevole per le forze di Haftar, e per i suoi supporter esterni, che hanno perso terreno e sono state costrette ad assumere una posizione difensiva.

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 1/2019 (scarica il file)

L’assedio di Tripoli e l’attivismo dello “Stato islamico” libico

Il 4 aprile le forze dell’Esercito nazionale libico (LNA – Libyan National Army) sono entrate nella città di Garian, 100 chilometri a sud di Tripoli, da dove hanno lanciato un assalto che avrebbe dovuto consegnare la città nelle mani del generale Khalifa Haftar Haftar che ha giustificato l’offensiva affermando di voler combattere le “milizie private e i gruppi estremisti” che, secondo lui, stavano guadagnando influenza sotto al-Sarraj. Nel complesso l’offensiva ha ottenuto il risultato di costringere oltre 75.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni e ha provocato la morte di almeno 510 persone, stando ai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Circa 2.400 persone sono state ferite, mentre 100.000 persone – tra cui centinaia di migranti – sono rimaste intrappolate negli scontri. All’inizio di giugno, le forze libiche dell’LNA avevano attaccato la parte militare dell’aeroporto di Tripoli colpendo due obiettivi turchi: un aereo cargo AN-124 e un drone; il 30 giugno il traffico aereo nell’unico scalo di Tripoli in funzione, quello “Mitiga”, è stato sospeso a causa di un altro bombardamento da parte dell’aviazione del generale Haftar.
Una conquista, quella auspicata dal capo dell’esercito di Tobruk, che avrebbe dovuto concludersi in tempi brevi e senza spargimento di sangue. Così non è stato, anche in conseguenza della mobilitazione delle milizie di Misurata – la città militarmente più potente della Libia – a supporto del governo di accordo nazionale (GNA – Government of National Accord) di Tripoli. A tre mesi da quella mancata conquista, lo scenario è quello di uno stallo strategico in cui l’assedio di lungo periodo non ha offerto possibilità di sviluppi favorevoli agli assedianti e ha limitato la capacità di azione degli assediati impegnati a gestire una capitale con oltre un milione di abitanti e i difficili equilibri tra le milizie tribali.
Alla fine di giugno la situazione si è dimostrata ancora più sfavorevole per le forze guidate da Haftar, che hanno perso terreno e sono state costrette ad assumere una posizione difensiva a causa della manovra di accerchiamento da parte delle forze alleate di al-Sarraj che hanno chiuso in una “sacca” alcune unità avversarie a sud-ovest di Tripoli. Un arresto operativo che segue la perdita della città di Gharyan, punto di partenza dell’offensiva di Haftar del 4 aprile, riconquistata alcuni giorni prima da parte delle forze tripoline attraverso una manovra terrestre sostenuta dall’aviazione del GNA. Due episodi di rilevanza strategica poiché se da un lato il GNA priva l’LNA del suo principale hub logistico (Gharyan), dall’altro impone agli occhi dei supporter esterni l’incapacità di Haftar dimostrata nella perdita del contatto con le proprie truppe che, in un’inversione di ruoli, da assedianti di Tripoli sono divenute assediate.
Un quadro complessivo che però palesa come anche le forze di al-Sarraj siano di fronte a grandi difficoltà, in primo luogo per quanto riguarda la capacità di operare in profondità: carenze logistiche, limiti oggettivi di comando, controllo e comunicazione non hanno consentito né, verosimilmente consentiranno in tempi brevi a Tripoli , di poter andare oltre le posizioni riconquistate. Nel complesso lo scenario che potrebbe palesarsi nel breve-medio periodo potrebbe essere un ritorno allo status quo ante.
Nel frattempo, in una situazione sempre più caotica, è tornato a far parlare di se il franchise libico dello Stato islamico che ha rivendicato l’attacco armato in cui sono state uccise tre persone – tra le quali il presidente del Consiglio locale del villaggio e il capo della guardia municipale – nella cittadina di Fuqaha, distretto di Giofra; tra i risultati dell’azione anche l’interruzione delle linee di comunicazione e dell’elettricità, e la distruzione di alcuni edifici. Un episodio, certamente marginale nel complesso delle violenze in Libia che conferma come il fenomeno Stato islamico rimanga un elemento dinamico e con una provata capacità di azione che si è inoltre manifestata attraverso una serie di azioni mirate a colpire le forze di Haftar già duramente impegnate nel difficile tentativo, poi fallito, di conquistare la città di Tripoli e di mantenere il controllo sulle vie di comunicazione e rifornimento.

Il fronte politico

L’analisi politica complessiva della situazione libica si riassume in un consolidamento dei due principali schieramenti che ha portato a una sempre più marcata polarizzazione dei conflitto; una polarizzazione che, definendo un quadro di proxy-war, vede contrapposti attori locali affiancati da soggetti esterni il cui ruolo è sempre più rilevante.
Su un fronte c’è la fazione di Tripoli. Il governo di accordo nazionale guidato da Fajez al-Sarraj, ufficialmente riconosciuto dalla Comunità Internazionale, è sostenuto direttamente sul piano politico, diplomatico e militare da Regno Unito, Tunisia, Qatar, Turchia, Marocco e Algeria in un contesto di opposizione attiva all’altro competitor, il generale Khalifa Haftar, pur in presenza di una componente islamista che riveste un ruolo determinante all’interno del GNA tripolino. L’ultima decade di giugno è stata caratterizzata dalla la consegna alle milizie tripoline di equipaggiamenti militari provenienti dai supporter esterni; in particolare la Turchia avrebbe rifornito le forze a sostegno del GNA con mine anti-carro, fucili di precisione, mitragliatrici, munizioni, sistemi missilistici UCAV BAYRAKTAR TB2 e quaranta veicoli protetti MRAP KIRPI e VURAN di produzione turca, come dimostrato dalle fotografie pubblicate sui siti ufficiali del GNA e quelli non ufficiali associati al governo di Tripoli; il rifornimento sarebbeè avvenuto attraverso il mercantile “Amazon” battente bandiera moldava ma gestita dalla società turca Akdeniz Roro Sea.
Sull’altro fronte, il governo di Tobruk – sostenuto dall’esercito nazionale libico guidato dal generale Khalifa Haftar – gode del sostegno diretto di Russia, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti; tra i sostenitori di Haftar ci sarebbe anche la Francia che pur continuando a sedere al tavolo diplomatico insieme al resto della Comunità internazionale, ad aprile ha bloccato la dichiarazione ufficiale conin cui l’Unione Europea avrebbeaveva intenzione di chiesto chiedere ad Haftar di fermare la sua offensiva militare. Va evidenziato, inoltre, che gli Emirati Arabi Uniti, acquisito il diritto di utilizzo della base militare nigerina al confine con la Libia, proseguirebbero il loro supporto alle forze di Haftar in Fezzan (area di Saba) attraverso azioni ISR (intelligence, sorveglianza e ricognizione) e attacco al suolo; mentre sul piano degli equipaggiamenti, l’LNA ha recentemente ricevuto – sempre dagli Emirati Arabi Uniti – i sistemi anti-aerei russi a breve-medio raggio PANTSIR-S1 allestiti su veicoli MAN SX45.
Gli Stati Uniti, ufficialmente in posizione di neutralità, si sono mossi nella direzione di un disimpegno formale ma che, nella sostanza, non si è tradotto nel ritiro dei propri operatori dalla Libia.
Al-Sarraj e Haftar, impegnati a confrontarsi sul campo di battaglia, sono al tempo stesso molto attivi sul piano della diplomazia, come dimostrato dai numerosi viaggi e incontri che hanno portato i due leader all’estero e nella stessa Libia alla ricerca di sostegno politico e materiale. Al-Sarraj si è recato in Tunisia (22 maggio), Algeria (23 maggio), Malta (27 maggio) e a La Mecca (31 maggio), mentre Haftar è stato ospite in Francia (22 maggio), Arabia Saudita (La mecca, 28 maggio) e in Russia (Mosca, 31 maggio).

Il fronte militare

Sul piano militare la contrapposizione vede schierati sui due fronti centinaia di gruppi e milizie che, se in apparenza possono sembrare elementi organici e formali, in realtà basano i propri ruoli e fedeltà sulla base di delicati equilibri e dinamiche di natura tribale. L’assedio di Tripoli, se sul piano politico e diplomatico si trova in un vero e proprio empasse, su quello operativo vive al momento una situazione di stallo a cui hanno contribuito proprio le tribù che, con proprie aree di interesse e azione, hanno “resistito” all’avanzata di Haftar, non cedendo alle proposte di accordo da parte di questo, e ne hanno determinato lo stop sulla linea di posizione a sud di Tripoli dove a giugno l’LNA, pur in grado di controllare le aree di Tarhouna e Ghryan fino alla fine del mese, ha cercato di contendere alle unità fedeli al GNA le aree di Asbi’ah e l’aeroporto di Ben Gashir, a 34 chilometri a sud di Tripoli. Haftar ha inoltre proceduto, ormai da tempo, alla militarizzazione delle installazioni petrolifere nella regione della mezzaluna petrolifera utilizzando i porti petroliferi di Ras Lanuf e i campi aerei di Es Sider per le attività belliche.
Dalla parte di al-Sarraj si contano circa 300 differenti gruppi; tra questi le milizie di Misurata e Zintan sono quelle meglio equipaggiate e con maggiore capacità operativa, essendo entrambe dotate di mezzi corazzati. Le principali sono la Tripoli Protection force (composta dalle forze di dissuasione-Rada, Katiba Ghnewa, brigata rivoluzionaria di Tripoli, Katiba Nawasi e altre minori), la National Mobile Force, le forze antiterrorismo di Misurata (dipendenti dal generale Mohammad al-Zein), Katiba Halbous, 166 ͣ brigata e altre milizie minori di Misurata, Samood Force, conosciuta anche come Fakhr o Pride of Libya (guidata da Salah Badi, anche comandante del battaglione di Misurata, che lo scorso anno ha svolto un ruolo di primo piano nei pesanti scontri a Tripoli ); e ancora, le forze di Zintan – le fazioni guidate dal generale Osama Juweili di Misurata e da Imad Trabulsi, capo della Special Operations Force –, battaglioni al-Daman, “33” di Tajoura, Fursan Janzour e le unità di Zuwarah e Zawiyah (battaglioni al-Nasr, Abu Surra e Faruk).
L’LNA sarebbe invece forte di circa 25.000 uomini, tra i quali una significativa componente straniera. Tra le principali unità componenti la compagine militare di Tobruk figurano la 9ͣ brigata di Tarhouna, le forze di Zintan (fazioni del generale Idris Madhi e Mukhtar Fernana), i combattenti di Bani Walid (tra i quali i battaglioni 52°, 60°, al-Fatah e la 27ͣ brigata di fanteria), il battaglione al-Wadi di Sabratah, la West Zawiyah Counter Crime Force di Sorman, le brigate 12 ͣ (di Brak al-Shati), 18 ͣ, 26 ͣ, 73ͣ , la 36 ͣ Special Force, la 106ͣ di Benghasi, i battaglioni 115°, 116°, 127°, 128°, 152°, 155°, 173°. Infine, va evidenziata la presenza significativa di combattenti stranieri provenienti dal Sudan.

Si intensifica la competizione per la ricchezza petrolifera della Libia: colpiti gli interessi italiani

L’attuale escalation di violenza potrebbe portare a un conflitto più ampio sul controllo delle risorse petrolifere del paese. La Libia ha riserve di petrolio stimate in 48 miliardi di barili: la più grande riserva petrolifera dell’Africa, la 9ͣ al mondo; mentre le riserve tecnicamente recuperabili di olio di scisto (attraverso la tecnica del fracking) sono stimate in 26 miliardi di barili. Le esportazioni di petrolio e gas rappresentano circa il 90% delle entrate complessive della Libia e qualsiasi grave turbamento significa un forte calo delle entrate.
L’economia nazionale è quella tipica rentier in cui lo Stato, che è il principale datore di lavoro, fornisce salari a circa 1,8 milioni di persone (un terzo della popolazione totale).
Mentre il GNA controlla le strutture estrattive offshore, dal 2016 Haftar detiene il controllo delle strutture e dei terminali della Libia orientale e, più recentemente, quelle del sud (El Sharara e El Feel).
Le entrate derivanti dalle esportazioni di petrolio, tuttavia, continuano a confluire nella Banca centrale della Libia a Tripoli (sotto il controllo del GNA) mentre la National Oil Corporation (NOC), a partecipazione pubblica e privata (esclusivamente italiana – ENI), che domina il settore petrolifero del Paese, ha cercato di rimanere fuori dai conflitti politici mantenendo una posizione neutrale; una scelta di opportunità che però non è servita a preservarla da azioni mirate a colpire gli interessi energetici italiani in Libia – come dimostrato dall’attacco aereo di giugno al deposito della Mellitah Oil & Gas (partnership ENI/NOC) a Tripoli: un’azione che, ha dichiarato il Presidente di FederPetroli Italia – Michele Marsiglia, è un «forte segnale di attacco all’Italia, essendo ENI primo ed unico partner con l’azienda petrolifera nazionale National Oil Corporation (NOC)».