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La resilienza di Boko Haram e i limiti operativi della Multinational Joint Task Force

di Marco Cochi

articolo opriginale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. N.° 2/2020, scarica il pdf

Negli ultimi undici anni, il nord-est della Nigeria è stata caratterizzato da un numero impressionante di attacchi terroristici per mano della Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad (JAS)[1], un’organizzazione meglio nota come Boko Haram[2], che da quando venne fondata nel 2002 non è sempre stata terroristica.

Gli studiosi del gruppo estremista nigeriano rilevano, infatti, che a metà degli anni duemila Boko Haram perseguiva ancora scopi umanitari, concentrando la sua attività in tre dei sei Stati della Nigeria nord-orientale: Borno, Yobe e Adamawa. Lo prova anche il manifesto di Boko Haram intitolato: Hadhihi Aqidatuna wa Minhaj Da’awatuna[3], scritto in arabo dal suo fondatore e guida spirituale Ustaz Mohammed Yusuf, che richiama i fedeli a tornare alla pacifica età incontaminata dell’islam, in cui il Corano, la dottrina sunnita e gli hadith[4] costituiscono gli unici principi guida per i musulmani.

Tuttavia, i richiami di Yusuf all’età pacifica dell’Islam non sono stati seguiti dai suoi seguaci, visto che nel tempo Boko Haram è diventata una delle organizzazioni terroriste più letali al mondo, come è inequivocabilmente dimostrato dalle oltre 38.500 vittime che gli attacchi degli estremisti islamici hanno provocato, a partire dall’insurrezione armata del luglio 2009.

Da quel momento, il gruppo estremista ha fatto ricorso all’uso indiscriminato della violenza per imporre una variante della legge islamica molto più dura di quella adottata verso la fine degli anni novanta da una dozzina di stati del nord della Nigeria. Un’applicazione della sharia in netto contrasto con lo stato secolare esplicitamente proclamato dall’articolo 10 della Costituzione della Nigeria, che inizialmente ha portato i fondamentalisti nigeriani a prendere di mira le autorità e le istituzioni locali, senza risparmiare le élite musulmane tradizionali, che secondo gli estremisti sarebbero contigue con il governo di Abuja.

Tra il 2012 e il 2014, le occupazioni di città chiave situate sul confine nord-orientale con il Camerun, avevano consentito all’organizzazione di assumere il controllo di buona parte del territorio della Nigeria nord-orientale, fino a infiltrarsi nelle regioni più remote. Qui gli islamisti nigeriani sono riusciti a diffondere il loro messaggio più efficacemente del governo, ma ancor più attraverso la gestione di un sistema di welfare molto più efficiente di quello statale.

Il giuramento di fedeltà al leader dello Stato Islamico

La svolta all’interno dell’organizzazione si è registrata il 7 marzo 2015, quando Boko Haram ha giurato fedeltà al defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico. Poi, il 3 agosto 2016 il gruppo è stato oggetto di una scissione tra la fazione estremista dello storico leader Abubakar Shekau e quella di Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore Ustaz Mohammed Yussuf, che è stato imposto alla guida del gruppo dai vertici del Califfato.

La scissione venne resa nota sul numero 41 di Al-Naba, una delle riviste telematiche pubblicate dallo Stato Islamico. Nel magazine di propaganda jihadista c’è un’intervista ad al-Barnawi in cui emergono le cause della frattura e viene alleggerita l’immagine di Boko Haram attraverso l’impegno di porre fine agli attacchi alle moschee e ai mercati frequentati dai musulmani. Shekau però non ha mai riconosciuto la nomina di al-Barnawi, criticandolo per non essere abbastanza radicale. Da quel momento Boko Haram si è diviso in due fazioni rivali: una minoritaria guidata da Shekau, che ha conservato il nome integrale del gruppo Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad (JAS), mentre l’altra ufficialmente affiliata allo Stato Islamico ha preso il nome di Provincia dell’Africa Occidentale dello Stato Islamico (ISWAP).

Quest’ultima fazione è stata ripetutamente segnata da contrasti interni che nell’agosto 2018 causarono l’eliminazione di due dei suoi massimi esponenti: Mamman Nur Alkali e Ali Gaga, uccisi dai loro stessi compagni perché incarnavano una linea relativamente moderata. Gli stessi contrasti che nel marzo 2019 attraverso un comunicato ripreso su Twitter, indussero la shura (consiglio esecutivo) dell’ISWAP a rendere noto di aver esautorato anche Abu Musab al-Barnawi e di averlo sostituito con Abu Abdullah Ibn Umar al-Barnawi, conosciuto anche come Ba Idrisa.

Una nomina decisa direttamente dai vertici dell’ISIS e riconosciuta da tutte le wilayat (provincie) dell’Africa occidentale e centrale. Nel febbraio 2020, però, Ba Idrisa è stato ucciso nell’ennesima faida interna insieme ad altri sostenitori della linea dura vicini allo Stato Islamico. Dopo l’eliminazione di Ba Idrisa, il nuovo wali (governatore) dell’ISWAP sarebbe Lawan Abubakar, nome di guerra del jihadista di etnia kanuri Ba Lawan.

Per individuare meglio l’entità della minaccia è importante operare una distinzione tra i due gruppi estremisti basata sul fatto che la fazione di Abubakar Shekau è regolata da meccanismi di leadership diversi da quelli dell’ISWAP. Meccanismi che hanno reso la guida del co-fondatore di Boko Haram più stabile e sicura rispetto a quella del gruppo rivale, facendolo diventare il leader jihadista più longevo a livello globale.

 

[1]    Tradotto dall’arabo: ‘Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e il jihad’

[2]    La locuzione Boko Haram deriva dalla lingua araba [يحظر التعليم الغربي] e significa “L’educazione occidentale è proibita”. Di conseguenza è harām tutto ciò che segua uno stile di vita occidentale e non a caso i musulmani del Nord della Nigeria hanno generalmente respinto l’educazione occidentale giudicandola come ilimin boko (‘falso insegnamento’)

[3]    Tradotto dall’arabo: ‘Questo è il nostro credo e il nostro metodo di predicazione’

[4]    In genere si tratta di un singolo aneddoto di alcune righe sulla vita del profeta Maometto, ma ha un significato molto più importante perché è parte costitutiva della cosiddetta Sunna, la seconda fonte della sharia dopo il Corano


L’espansione di Mosca in Libia: il ruolo dei contractor russi della Wagner

Articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 6/2019

Gli interessi russi in Libia includono i vantaggi economici del “guns for oil”, i contratti governativi, il potere contrattuale nei confronti dell’Unione Europea, l’accesso ai porti nel Mediterraneo, il contrasto alla minacce del terrorismo islamico

La Russia guarda con estrema attenzione al futuro della Libia perché la considera strumentale al perseguimento dei propri interessi nazionali. Interessi che includono principalmente i vantaggi economici del cosiddetto commercio di “guns for oil” (armi in cambio di petrolio), i contratti governativi, il potere contrattuale nei confronti dell’Unione Europea, l’accesso ai porti nel Mediterraneo, il contrasto alla minacce del terrorismo islamico. Funzionari del governo russo hanno incontrato vari omologhi libici – a Tobrouk come a Tripoli – per creare le basi a garanzia degli obiettivi di Mosca, indipendentemente da chi vincerà lo scontro. Come riportato dal New York Times, la Russia avrebbe finanziato le forze del generale Kalifa Haftar con milioni di dollari e lo avrebbe supportato nella pianificazione operativa attraverso l’invio di consiglieri militari a Bengasi.

In tale quadro, la presenza di compagnie di sicurezza private di contractor ​​russi è un elemento determinante in termini di aumento della capacità militare nel contesto della guerra civile in Libia: almeno 300 contractor privati ​​russi (ma sarebbero in realtà circa 1.000), molti altamente addestrati e ben armati, starebbero oggi operando nel territorio controllato dall’esercito nazionale libico (LNA), nella Libia orientale e occidentale, a sostegno di Haftar, impegnato a contrastare ed abbattere il governo appoggiato dalle Nazioni Unite e guidato da Fayez al-Sarraj. Compagnie private di sicurezza che starebbero introducendo nuove tattiche e maggiore potenza di fuoco sul campo di battaglia, minacciando di prolungare il conflitto più violento del Nord Africa. Tale comparsa rappresenta un elemento che porta a una nuova escalation nella guerra per procura combattuta in Libia, a cui stanno contribuendo molti paesi europei e non – in particolare gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Turchia – nonostante un embargo internazionale sulle armi.

L’arrivo di questi contractor avviene in un momento in cui la Russia sta espandendo la propria presenza militare e diplomatica in tutto il Medio Oriente, in Africa e oltre, godendo di una forte influenza in luoghi come la Siria, dove gli Stati Uniti, al contrario, si sono in parte disimpegnati. I contractor russi lavorerebbero per il gruppo Wagner, una compagna di sicurezza privata che alcuni esperti hanno collegato a Yevgeniy Prigozhin, stretto alleato del presidente russo Vladimir Putin. Come riportato dal Washington Post, il Cremlino non ha confermato queste informazioni, mentre un portavoce di Prigozhin ha dichiarato di “non avere nulla a che fare con la cosiddetta società militare privata”. Il gruppo Wagner era già apparso in combattimento in Siria, nella Repubblica centrafricana, in Ucraina e in altri paesi considerati strategici per gli interessi geopolitici ed economici del Cremlino.

Come riportato dal New York Times, dopo quattro anni di supporto finanziario e militare a favore del generale Haftar, la Russia si starebbe impegnando sempre più per garantire una vittoria del fronte di Tobrouk, di cui Haftar è capo del LNA. Un aiuto diretto che si sarebbe concretizzato nella fornitura di aerei avanzati da combattimento Sukhoi, equipaggiamenti di artiglieria, supporto di fuoco, nonché la fornitura di tiratori scelti: la stessa strategia che ha fatto di Mosca un regista nella guerra civile siriana. Il recente spiegamento di compagnia private di contractor russi è solo uno degli elementi in comune tra la guerra in Libia e quella in Siria.

A livello tattico e operativo, la presenza di compagnie private di sicurezza avrebbe portato all’introduzione di nuove tattiche e all’aumento significativo della capacità militare del LNA; un’evoluzione che di fatto avrebbe aumentato il livello dello scontro tra le parti e che minaccerebbe il prolungamento di quello che è il conflitto più violento nel Nord Africa.

A livello strategico, la presenza di compagnie private di sicurezza ​​rappresenta l’ultima escalation nella guerra per procura in Libia, in cui giocano un ruolo primario alcuni paesi arabi e non solo – in particolare gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Turchia – nonostante un embargo internazionale sulle armi. E l’arrivo di questi attori privati ​​nel conflitto giunge nel momento in cui la Russia sta ampliando il proprio impegno militare e diplomatico in Medio Oriente e in Africa, godendo di un’accresciuta influenza in luoghi come la Siria dove gli Stati Uniti si starebbero disimpegnando. Qualunque sia il risultato che riuscirà ad ottenere, l’intervento russo ha di fatto dato a Mosca un potere di veto su qualsiasi risoluzione del conflitto.

Foto Twitter, TV Libica e Reuters


Principali eventi nell’ area del Maghreb e del Mashreq – Novembre

Algeria

La grande manifestazione del 1° novembre ha rappresentato il culmine della protesta, che dura ininterrottamente da 40 settimane, sostenuta dal movimento Hirak. Il 1° novembre è la “Giornata della Rivoluzione”, la festa nazionale algerina che segna l’inizio della guerra rivoluzionaria per l’indipendenza del 1954. Centinaia di migliaia di cittadini sono scesi in piazza della capitale Algeri dimostrando la consistenza del movimento che sta imponendo importanti sforzi di contenimento e contrasto da parte del regime (formalmente diretto da Bensalah ma con l’importante ruolo di “indirizzo politico” giocato dal capo militare Ahmed Gaid Salah); governo che ha annunciato e ribadito la volontà di tenere le elezioni presidenziali il 12 dicembre. Oltre alla grande manifestazione di Algeri, altri eventi minori di protesta sono stati registrati in tutto il paese. Il movimento di protesta, che era riuscito prima ad ottenere il rinvio e la cancellazione delle elezioni presidenziali e poi, ad aprile, a costringere Bouteflika alle dimissioni. Da allora, il regime ha cercato di ricostruire una propria legittimità portando avanti una politica di “repressione selettiva” nei confronti del movimento di protesta, procedendo con l’arresto di attivisti e di figure di spicco dell’opposizione, anche attraverso la repressione da parte delle forze armate.

Egitto

Egitto, Etiopia e Sudan si sono impegnati a risolvere la disputa sulla diga del Nilo e continueranno a discutere per trovare una soluzione al conflitto legato alla costruzione (avviata nel 2011) della grande diga idroelettrica da parte dell’Etiopia: un progetto che ha sollevato preoccupazioni per la carenza di acqua potabile. L’Etiopia prevede di iniziare a riempire e gestire il bacino idrico nel 2020, con l’obiettivo di completare una delle più grandi dighe del mondo e diventare il più grande esportatore africano di energia. Una volta completata, la diga genererà circa 6.450 Megawatt di elettricità, il doppio della produzione attuale. Il Nilo fornisce sia acqua che elettricità ai 10 paesi che attraversa e il Sudan e l’Egitto temono che il progetto possa minacciare il loro approvvigionamento idrico. L’Egitto, che ha sofferto un’importante crisi idrica negli ultimi anni, fa affidamento sul fiume per il 90% della sua acqua potabile .

Israele

Energia e affari: a novembre Israele ha iniziato a esportare gas naturale in Egitto, con volumi potenziali di sette miliardi di metri cubi all’anno. Le forniture segnano l’inizio di un accordo di esportazione di 15 miliardi di dollari tra Israele, Delek Drilling e il partner statunitense Noble Energy, con una controparte egiziana: i funzionari israeliani hanno definito l’accordo come il più rilevante dalla pace del 1979. L’accordo, firmato all’inizio dello scorso anno, garantisce il trasferimento nella rete egiziana del gas naturale dai giacimenti offshore israeliani “Tamar” e “Leviathan”.
Dinamiche politiche: Benyamin Netanyahu e Benny Gantz a settembre hanno entrambi promesso di formare il governo: Gantz, ex capo militare, aveva dichiarato di voler prendere in considerazione un governo di unità nazionale ma, a ottobre, Netanyahu ha rinunciato a formare il nuovo governo per indisponibilità delle parti coinvolte. Per la seconda volta in sei mesi, il leader del Likud – che ha appena compiuto 70 anni – non è riuscito a formare il governo. Netanyahu rimane dunque Primo Ministro, sebbene quest’anno non sia riuscito a ottenere la vittoria assoluta in due elezioni. Il suo principale rivale, Gantz, si è impegnato nel tentativo di formare un governo di coalizione per succedergli. A fronte di un fallimento da parte di Gantz, Israele potrebbe tornare alle urne per la terza volta in un anno; uno scenario senza precedenti. Ciò darebbe a Netanyahu un’altra possibilità di estendere il suo decennale mandato.

Libano

Le proteste di massa hanno travolto il Libano in seguito all’annuncio del governo, del 17 ottobre, di voler adottare nuove misure fiscali. In uno scenario senza precedenti, decine di migliaia di manifestanti di diversi gruppi sociali e confessionali si sono radunati nelle città di tutto il paese accusando la leadership politica di corruzione e chiedendo riforme sociali ed economiche. In tutto il Libano i manifestanti hanno bloccato le principali strade come strategia della loro protesta. Nonostante i tentativi del governo di placare i manifestanti con l’annuncio di possibili riforme, le manifestazioni sono continuate a Beirut, Tripoli, Zouk, Jal el Dib, Saida, Nabatieh, Sour e Zahle. Il 13° giorno delle proteste, il Primo Ministro Saad Hariri ha annunciato le sue dimissioni . Dopo tre settimane di proteste antigovernative in gran parte pacifiche, i manifestanti hanno cambiato approccio e concentrando la propria azione contro gli istituti bancari, i ministeri e le società a partecipazione statale. Sit-in sono stati registrati in molte zone di Beirut e delle altre principali aree urbane. A novembre l’esercito libanese si è schierato in tutto il paese al fine di liberare le strade e autostrade che erano state chiuse dai manifestanti. Secondo alcune stime, sarebbero un milione le persone che hanno preso parte alle manifestazioni di protesta, quasi un quarto della popolazione libanese, chiedendo la fine della corruzione e una soluzione alla crisi economica del Paese .
Secondo alcuni analisti, la questione principale legata alle manifestazioni in Libano è queste rafforzeranno o indeboliranno Hezbollah; all’inizio delle proteste, gli uomini di Hezbollah hanno cercato di fermarle, ma non appena l’esercito libanese è intervenuto a tutela dei manifestanti, Hezbollah ha rinunciato alla sua azione repressiva. I manifestanti chiedono un nuovo corso della politica nazionale, che trascenda le divisioni settarie e le macchinazioni regionali: un eventuale successo della piazza rappresenterebbe un ostacolo significativo alla realizzazione dell’ampia agenda geopolitica di Hezbollah (e dell’Iran). Orna Mizrahi, esperta israeliana presso l’Institute for National Security Studies (INSS) dell’Università di Tel Aviv, ha affermato che il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, sarebbe molto preoccupato per le proteste in corso .
Secondo un normale calcolo politico, queste proteste rappresenterebbero un’opportunità per Hezbollah e i suoi alleati, come uno dei più grandi blocchi in parlamento, di sostenere un alleato politico sunnita e tentare di formare un nuovo governo. Ma il Libano non è un paese normale. Ciò che l’attuale situazione libanese conferma è che, anche in condizioni più favorevoli, il consenso è sfuggente nella politica libanese. In tale quadro è prevedibile che lo scoppio di nuove dinamiche conflittuali, focalizzate sul piano economico e generazionale, aggraverà ulteriormente la situazione di stallo politico del paese.

Libia

L’arrivo di compagnie di sicurezza private di contractor russi è un elemento determinante in termini di aumento della capacità militare nel contesto della guerra civile in Libia: almeno 300 contractor privati russi, molti altamente addestrati e ben armati, starebbero operando nel territorio controllato dall’esercito nazionale libico (LNA), nella Libia orientale e occidentale, a sostegno del generale Khalifa Haftar, impegnato a contrastare ed abbattere il governo appoggiato dalle Nazioni Unite e guidato da Fayez al-Sarraj. Compagnie private di sicurezza che starebbero introducendo nuove tattiche e maggiore potenza di fuoco sul campo di battaglia, minacciando di prolungare il conflitto più violento del Nord Africa. Tale comparsa rappresenta è un elemento che porta a una nuova escalation nella guerra per procura combattuta in Libia, a cui stanno contribuendo molti paesi europei e non – in particolare gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Turchia – nonostante un embargo internazionale sulle armi. E l’arrivo di questi contractor arriva in un momento in cui la Russia sta espandendo la propria presenza militare e diplomatica in tutto il Medio Oriente, in Africa e oltre, godendo di una forte influenza in luoghi come la Siria, dove gli Stati Uniti, al contrario, si sono in parte disimpegnati. I contractor russi lavorerebbero per il gruppo Wagner, una compagna di sicurezza privata che alcuni esperti hanno collegato a Yevgeniy Prigozhin, stretto alleato del presidente russo Vladimir Putin. Il gruppo Wagner era già apparso in combattimento in Siria, nella Repubblica centrafricana, in Ucraina e in altri paesi considerati strategici per gli interessi geopolitici ed economici del Cremlino .

Marocco

Il Marocco è preoccupato per il ritorno in patria dei militanti del gruppo Stato Islamico. Il ministero degli interni marocchino ha descritto il ritorno dei terroristi dai “focolai di tensione” in Siria, Iraq e Libia come “preoccupante” per il paese e come una delle sfide più impegnative per i paesi interessati. Ha sottolineato che gli sforzi compiuti dai servizi di sicurezza del Regno hanno permesso di scoprire, alla fine di ottobre, 13 cellule terroristiche intente a reclutare giovani marocchini per combattere nelle aree di crisi in cui sono attivi gruppi jihadisti . In coordinamento con i servizi di sicurezza dell’anti-terrorismo, il Ministero ha annunciato di aver adottato “una politica che si adatta alle strategie dei gruppi terroristici”. Secondo l’ufficio centrale marocchino di indagine giudiziaria (BCIJ) “questi gruppi, che ricevono finanziamenti e risorse, continuano a utilizzare ideologie radicali e violente attraverso i social media e i siti web, coinvolgendo fasce di popolazione giovani e maggiormente fragili”. ”A marzo, le autorità marocchine hanno espulso un gruppo di otto cittadini marocchini, che si trovavano nelle zone di conflitto in Siria .

Siria

Come riportato dal New York Times, la Turchia ha iniziato a rimandare nei propri paesi di origine i combattenti stranieri catturati in Siria: all’inizio di novembre sono state avviate le procedure di espulsione per 11 cittadini francesi e sette tedeschi, insieme ad altri dalla Danimarca e dall’Irlanda. Durante la recente operazione militare in Siria (Sorgente di Pace), le milizie sostenute dalla Turchia hanno annunciato di aver catturato persone affiliate allo Stato islamico – la maggior parte delle quali donne e bambini fuggiti da un campo di Ain Issa – e combattenti filo-curdi. Il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan ha affermato che la Turchia avrebbe iniziato a rimpatriare i membri dello Stato islamico e ha esortato i paesi occidentali ad assumersi la responsabilità nella gestione dei loro cittadini .
Secondo il Chairman degli Stati Maggiori congiunti delle Forze Armate statunitensi, il generale Mark Milley, meno di 1.000 militari di Washington rimarranno in Siria, ma l’obiettivo di sconfiggere il gruppo Stato Islamico rimane confermato, nonostante la minore presenza militare.
L’11 novembre James Le Mesurier, ex ufficiale dell’esercito britannico e poi fondatore e CEO del gruppo Mayday Rescue – l’organizzazione volontaria di soccorso dei White Helmets siriani – è stato trovato morto in Turchia.

Tunisia

I principali partiti tunisini rifiutano il nuovo governo guidato dal partito islamista Ennahda, in seguito alla vittoria alle elezioni parlamentari di ottobre. Ennahda è il più grande partito nel nuovo parlamento della Tunisia, ma con solo 52 seggi su 217; ciò ha costretto il partito a scendere a compromessi nel tentativo di formare un Gabinetto. Ennahda ha affermato di aver deciso che uno dei suoi leader dovrà essere il Primo Ministro, coerentemente “con la scelta degli elettori che hanno affidato la responsabilità di attuare i programmi elettorali”. Se Ennahda non potrà formare un governo entro due mesi, il presidente potrà incaricare un altro gruppo parlamentare. Se anche questa scelta non dovesse portare a un risultato e lo stallo dovesse persistere, saranno indette altre elezioni .


“Fonte di pace”: la terza operazione militare turca in Siria. L’indebolimento dell’YPG curdo-siriano e la morte di Abu Bakr al Baghdadi

di Claudio Bertolotti

Articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 5/2019

“Fonte di pace”, 9-23 ottobre

9 ottobre: al via “Fonte di pace” (in turco Barış Pınarı Harekâtı) l’operazione militare della Turchia nel nord della Siria finalizzata a creare una “zona sicura”; annunciata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha visto al fianco delle truppe regolari turche i ribelli siriani alleati di Ankara, tra i quali anche membri delle disciolte unità jihadiste sostenute da Ankara durante l’annosa guerra siriana. “Fonte di pace” – di fatto l’occupazione militare di una porzione di territorio siriano da parte della Turchia – è la terza operazione turca dal 2016, dopo le operazioni Eufrate Shield (Scudo dell’Eufrate) e Olive Branch (Ramoscello d’ulivo).

L’Operazione Eufrate Shield, lanciata dalla Turchia nell’agosto 2016 per ripulire l’area di confine turco-siriano dai terroristi dello Stato islamico, ha portato alla neutralizzazione di circa 3.000 militanti jihadisti dell’IS. L’operazione Olive Branch, all’inizio del 2018, si è sviluppata nell’area di confine della provincia di Hatay, concentrandosi sulle milizie curde dell’YPG – le cosiddette “forze di difesa nazionale”.

L’operazione “Fonte di pace” rappresenterebbe dunque, da un lato, la prosecuzione di un approccio strategico di ampio respiro finalizzato alla creazione di un’area sicura al confine tra Turchia e Siria e, dall’altro lato, a consolidare l’influenza di Ankara su quell’area procedendo a un ridimensionamento del ruolo, e della presenza, delle stesse comunità curde. Una scelta che non rientra in una visione esclusiva dell’esecutivo guidato da Erdogan, ma che è in linea con un approccio nazionale coerente con la storica visione regionale della Turchia e con l’intento di annullare qualunque forma di opposizione armata di stampo terroristico, sia di tipo jihadista sia riconducibile alla componente anti-governativa curdo-turca del PKK – Partito curdo dei lavoratori – di cui, come sostiene Ankara, l’YPG sarebbe l’estensione curdo-siriana.

Tutte avviate con l’obiettivo di eliminare la presenza dello Stato islamico dalle zone di confine tra Siria e Turchia, le tre operazioni militari di Ankara hanno direttamente interessato anche i gruppi combattenti curdi dell’YPG, l’organizzazione politica siriana legata al PKK turco considerato organizzazione terrorista da Australia, Canada, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Unione Europea e Turchia. Tuttavia, pur essendo formata in prevalenza da combattenti siriani di etnia curda, la maggioranza dei suoi dirigenti non sono siriani, bensì curdi-turchi, il che confermerebbe lo YPG come braccio siriano del PKK. I miliziani dell’YPG sono dunque considerati terroristi dal governo di Ankara proprio perché legati al gruppo terrorista PKK, sebbene siano stati i principali alleati di Washington nella lotta contro lo Stato islamico. L’YPG guida militarmente le cosiddette Forze Democratiche Siriane (Syrian Democratic Forces – SDF), alleanza composta da milizie curde, arabe, assire, siriache e turkmene.

Due le opzioni perseguite da Ankara per contrastare la minaccia terroristica riconducibile YPG/PKK nei confronti della Turchia: l’eliminazione fisica dei miliziani curdi o il loro allontanamento attraverso un negoziato che coinvolga gli Stati Uniti, la Russia e la stessa Siria. Ankara si è mossa su entrambi i piani. Da mesi la Turchia aveva annunciato l’intenzione di avviare un’operazione finalizzata a creare una fascia smilitarizzata di 30 chilometri all’interno del territorio siriano. Lo ha fatto nel momento in cui il presidente statunitense Donald Trump ha dato avvio al ritiro delle proprie truppe dall’area. Sono così cambiati gli equilibri della guerra siriana, iniziata nel 2011 come guerra civile ma ben presto trasformatasi in proxy war attraverso il coinvolgimento di attori statali e non statali impegnati a realizzare proprie agende politiche.

Le SDF, come già avevano annunciato all’indomani del ritiro statunitense, il 13 ottobre hanno firmato un accordo con Damasco – e con il sostegno della Russia e dell’Iran – finalizzato ad unire il cosiddetto Rojava (l’amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est autoproclamatasi tale nel 2012 a seguito degli eventi bellici) e le forze governative siriane contro l’invasione turca. Una scelta che, se da un lato ha dato il via libera allo schieramento di forze siriane nelle aree di Manbij e di Ayn al-Arab (in curdo Kobane, passata sotto la responsabilità delle truppe siriane e russe il 17 ottobre), dall’altro lato ha trovato la resistenza statunitense che ha reagito colpendo con bombardamenti aerei le forze siriane in movimento verso le aree difese dai curdi dell’YPG, in particolare a Deir El Zor. Due gli obiettivi dell’accordo, uno nel breve e l’altro nel medio-lungo periodo: in primis, consentire alle truppe di Bashar al-Assad di schierarsi nelle aree curde tenute dalle SDF e lungo il confine con la Turchia; in secondo luogo, ma ben più importante, preservare l’integrità territoriale della Siria al fine di evitare la presenza di truppe di occupazione turche e di ribelli siriani che combattono al fianco di Ankara.

Una scelta politica di necessità, derivante dallo spazio lasciato libero dall’amministrazione statunitense, che ha portato a un ri-bilanciamento degli equilibri tra i competitor impegnati nella guerra in Siria e ridefinisce la partita geopolitica siriana. Washington ha di fatto lasciato che i curdi trovassero un nuovo alleato nei loro avversari: Damasco, e quindi Mosca. Dall’altra parte, la Turchia e i ribelli anti-Assad potrebbero ambire a un risultato che vada oltre il mero controllo delle aree di confine.

Il terzo fronte è invece tenuto dallo Stato islamico nella forma in cui è sopravvissuto oltre il campo di battaglia: un’incognita minacciosa che dai campi di prigionia curdi potrebbe riaccendere il conflitto alimentandone le spinte ideologiche di quello jihadismo cha si è saputo imporre in forma statuale[1]. Una minaccia sfruttata dagli stessi curdi che, in cerca di sostegno internazionale, avrebbero consentito la fuga di alcuni miliziani dello Stato islamico detenuti nei campi sotto controllo dell’YPG, al fine di indurre la Comunità internazionale, e in particolare l’Unione Europea, ad intervenire per fermare l’iniziativa turca.

Cronologia del conflitto: il campo di battaglia si sposta al confine

A cinque giorni dall’avvio dell’operazione “Fonte di pace”, il 14 ottobre le forze siriane si sono spinte sulla superstrada strategica M4 sino a Tal Tamr, area a prevalenza assiro-cristiana, a nord-est della Siria e a oltre 20 chilometri dal confine con la Turchia; ma la reazione delle milizie arabo-siriane del cosiddetto “Esercito siriano libero” (Free Syrian Army – FSA) al fianco dei turchi non si è fatta attendere, in particolare attorno all’area di Manbij (sponda ovest dell’Eufrate) dove queste hanno sferrato una violenta offensiva – utilizzando per la prima volta i carri armati T72 – condotta successivamente all’abbandono dell’area da parte delle forze statunitensi.

Il 17 ottobre, dopo tre giorni di intensi combattimenti, la pressione militare si è ridotta in maniera significativa nel nord-est della Siria, ad esclusione di Ra’s al-’Ayn – ubicata su un’importante rotta di rifornimento e trasporto tra i centri urbani di Tal Abyad a ovest e Qamishli a est – dove gli scontri sono continuati tra l’YPG e gruppi arabi-sunniti sostenuti da Ankara. Il conflitto si è così spostato sul piano diplomatico a seguito dell’accordo Stati Uniti-Turchia che ha portato a un cessate il fuoco di cinque giorni, durante i quali i curdi dell’YPG hanno ripiegato su posizioni arretrate; sebbene l’accordo prevedesse la distruzione delle postazioni difensive tenute dall’YPG e la consegna delle armi pesanti ciò non ha uniformemente trovato riscontro nei fatti.

Anche sul fronte Turco – hanno denunciato i curdi dell’YPG – il rispetto dell’accordo pare non aver trovato riscontro in maniera uniforme; denuncia che ha fatto il paio con quella del ministero della Difesa turco, che ha attribuito la responsabilità dei miliziani curdi nella prosecuzione dei combattimenti da cui è derivata la morte di un soldato turco e il ferimento di numerosi altri. Il comandante curdo Mazloum Kobane, il 19 ottobre aveva dichiarato che, pur intenzionato a “portare i suoi soldati fuori dalla cittadina assediata di Ra’s al-’Ayn” avrebbe però trovato la resistenza della Turchia che – secondo il comandante delle forze curde – non era “propensa a consentire un arretramento dell’YPG ma [avrebbe preferito] ucciderne i miliziani”. Come testimonia Emanuele Valenti nel suo reportage dal confine turco-siriano, “in realtà la tregua non ha retto completamente”: la zona più critica è quella di Tal Abyad, di fronte alla città turca di Akçakale”[2].

Da non sottovalutare, in tale contesto, quanto accaduto il giorno successivo (20 ottobre) proprio a Ra’s al-’Ayn, dove le milizie YPG si sono ritirate dalla cittadina assediata e hanno rinunciato alla resistenza – come annunciato dal portavoce delle SDF, Kino Gabriel[3] – ma lo hanno fatto contro le direttive dei leader della loro organizzazione madre PKK[4], tra i quali Cemil Bayık (tra i fondatori del partito dei lavoratori curdo) che aveva invitato i curdi-siriani a non ritirarsi: «Se ve ne andate ora non sarete in grado di riprendervi i vostri villaggi, la vostra terra e le vostre case».

Gli Stati Uniti, che avevano temporaneamente ritirato le proprie truppe dal confine con la Turchia per trasferirle in Iraq, al confine siriano-iracheno (nella provincia di Dahuk), hanno poi rischierato parte di queste – in prevalenza forze speciali sia rimasta – con i curdi nella zona dei pozzi petroliferi siriani di Tal Amer – in precedenza sotto controllo dell’IS – con il fine di precludere l’area al governo siriano e alle forze russe. In tale scenario, alle truppe presenti potrebbero a breve unirsi unità corazzate – si è parlato di 30 carri armati – a conferma di un parziale ripensamento da parte del Presidente Trump. Altre truppe statunitensi sono presenti nell’area orientale del distretto di Deir Ez Zor, a protezione dei giacimenti di al-Omar e Tabiya – Conoco, e nell’area di Al Tanf, nel Badiyah siriana, a sostegno dell’unico gruppo ribelle alleato degli Usa: la milizia Maghawir al-Thawra. Il 28 ottobre, le truppe statunitensi hanno ripreso posizione in prossimità della safe-zone, rischierando almeno 500 militari nel nord-est del Paese, lungo la strada M4 a sud di Ayn al-Arab (Kobane), nelle basi di Tal Tamr che avevano abbandonato a inizio mese. Marginali episodi di protesta per il ritiro statunitense sono stati registrati il 21 ottobre a Qamishli, al confine con la Turchia, dove alcuni manifestanti hanno lanciato frutta marcia e pietre contro i militari in fase di ripiegamento: di fatto si è trattato di pochi episodi ma ampiamente diffusi attraverso i social-network, e poi ripresi dai media occidentali che ne hanno amplificato artificialmente la portata.

Dal 23 ottobre, le forze siriane, insieme ai “consiglieri” russi e alla polizia militare di Mosca sono schierati nella fascia profonda 30 chilometri dal confine turco-siriano, ma sono proseguiti i combattimenti tra le forze turche e le milizie curdo-siriane dell’YPG, che non hanno abbandonato l’area come previsto dagli accordi. Tra il 24 e il 30 ottobre, gli attacchi condotti dalle milizie islamiste sostenute da Ankara a danno di unità militari siriane nella zona di Tal Tamr hanno provocato perdite tra le fila governative e la popolazione civile, costretta a fuggire a causa dei continui bombardamenti, particolarmente violenti sui villaggi curdi di Tel Temir e Dirbasiya. Al contempo sono proseguiti i bombardamenti turchi sulle aree di Tal al-Ward, area rurale di Abu Rasin.

Gli accordi Usa-Turchia e Russia-Turchia. L’alternanza statunitense e il rafforzamento dell’asse Mosca-Ankara

L’accordo Usa-Turchia per il cessate il fuoco

Il 17 ottobre Turchia e Stati Uniti hanno concordato un cessate il fuoco finalizzato a sospendere l’avanzata turca in territorio siriano e gli scontri con le milizie curde nella zona al confine tra i due paesi. Un accordo che consente al presidente Erdogan di proclamare l’istituzione dell’ambita zona cuscinetto oltre i confini turchi. L’accordo, annunciato dal vicepresidente statunitense Mike Pence dopo una lunga trattativa – e sotto pressione delle crescenti critiche da parte di democratici e repubblicani al Congresso – ha garantito alla Turchia di ottenere i principali obiettivi che l’operazione “Fonte di pace” si era prefissata e che Ankara persegue dal 2016: la messa in sicurezza dei propri confini sudorientali con la Siria attraverso l’istituzione di una zona di sicurezza profonda 30 chilometri sotto il proprio controllo[5], dal confine turco al tratto delimitato dall’autostrada M4, e l’espulsione delle milizie curdo-siriane dalla zona di confine (da sostituire in un secondo momento con parte degli oltre 3,5 milioni di arabi siriani). Al tempo stesso Ankara ha evitato le sanzioni statunitensi che avrebbero gravato su un’economia sempre più vulnerabile[6].

Di fatto gli Stati Uniti, impegnati per anni al fianco delle milizie curde contro lo Stato islamico, hanno lasciato intendere una loro uscita di scena, che però non si è concretizzata nei fatti. E sebbene l’assenza del presidente Trump all’incontro di Sochi – e con lui l’esclusione degli Stati Uniti – abbia definitivamente suggellato l’uscita di scena di Washington dal processo negoziale e politico per il futuro della Siria, è però vero che Washington potrebbe continuare a svolgere un ruolo di primo piano in Siria attraverso l’uso bilanciato delle proprie forze già schierate e, eventualmente, di nuove unità.

L’uccisione del capo del capo del sedicente Stato islamico da parte delle forze statunitensi, avvenuta il 26 ottobre proprio nella provincia di Idlib, nel villaggio di Barisha, a cinque chilometri dal confine con la Turchia – area in cui i turchi hanno forti contatti – è un evento di estrema importanza. La dichiarazione del Pentagono, seguita ad alcune voci che attribuivano ad Ankara un ruolo importante nella condotta dell’operazione, in cui gli Stati Uniti hanno negato alcun ruolo turco nell’eliminazione di Abu Bakr al-Baghdadi, rientrerebbe in una strategia comunicativa volta a rimarcare la volontà di continuare ad avere un ruolo di rilievo a livello regionale, in un’ottica di contenimento della Russia e della Turchia. Poco dopo l’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, le forze speciali statunitensi insieme a unità curde, hanno eliminato anche il portavoce dell’IS, Abu Hassan al Muhajir, a Jarablus (area sotto controllo dell’operazione turca “Scudo d’Eufrate”). Eventi che suggeriscono un ruolo diretto del Pentagono nel convincere il presidente Trump dell’importanza di mantenere impegni a livello tattico in Siria al fine di perseguire una strategia regionale che valorizzi gli sforzi militari sino ad oggi compiuti. L’operazione contro la leadership dello Stato islamico, nonostante l’annunciato disimpegno, ha così confermato la capacità statunitense di operare in profondità attraverso la combinazione di intelligence e forze speciali[7].

L’accordo Russia-Turchia di Sochi: un piano per la Siria nord-orientale che rafforza l’influenza russa

Il 22 ottobre, la Russia ha ospitato l’incontro tra il presidente Vladimir Putin e l’omologo turco Erdogan in coincidenza con il termine del cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti con le forze curde. Un evento che ha sottolineato l’emergere di Mosca che, pur non avendo il potere economico e la capacità militare degli Stati Uniti, si è imposta come un potente giocatore: i suoi aerei pattugliano i cieli siriani, i militari stanno espandendo le operazioni nella principale base navale in Siria (Tartus), i legami con la Turchia sono sempre più stretti mentre gli spazi lasciati vuoti dal ritiro statunitense stanno per essere colmati dalle forze russe e siriane. L’accordo, che rientra nel meccanismo di Astana, è indipendente dall’accordo Usa-Turchia in base al quale – ha affermato Fahrettin Altun, direttore delle comunicazioni della Presidenza turca – “tutti i terroristi del PKK/YPG sono tenuti a lasciare la zona di sicurezza”.

Cosa prevede, di significativo l’accordo di Sochi[8]? Nella sostanza tre sono i punti cardine dell’intero documento.

In primo luogo viene chiusa la questione curda, attraverso l’impegno a combattere il terrorismo – ricordiamo che l’YPG è associato dalla Turchia al PKK – e a porre termine “alle agende separatiste nel territorio siriano”: un segnale esplicito a qualunque rivendicazione curda in termini di “realtà indipendente”.

In secondo luogo, la Turchia acconsente al governo siriano – affiancato dalla Russia – di prendere il controllo dell’area non inclusa dall’operazione “Fonte di Pace” con l’obiettivo di “facilitare la rimozione degli elementi YPG e delle loro armi per una profondità di 30 km (19 miglia) dal confine turco-siriano”.

Infine, le unità congiunte russo-turche iniziano l’attività di pattugliamento congiunto a ovest e ad est dell’area di operazioni turca per una profondità di 10 km (sei miglia), ad eccezione della città di Qamishli, mentre tutti gli elementi YPG e le loro armi devono lasciare le aree di Manbij e Tal Rifat. Di fatto, la Turchia raggiunge un importante obiettivo, tra quelli che si era posti: la divisione in due aree del cosiddetto Rojava.

Figura 1. Safe-zone proposta dalla Turchia attraverso l’operazione “Peace Spring” e presenza degli attori del conflitto.

 

Dinamiche demografiche all’interno della safe-zone imposta dalla Turchia

La Turchia vuole ristabilire gli equilibri demografici nelle aree che dal 2012 sono controllate dall’YPG; la ragione risiede nella volontà di impedire alle organizzazioni affiliate al PKK di costruire un’entità di fatto.

All’interno della cosiddetta safe-zone voluta e imposta da Ankara, la maggior parte della popolazione è composta da arabi: ad eccezione dell’enclave di Ayn al-Arab e dei villaggi a ovest e ad est di Qamishli, che sono prevalentemente curdi, l’area ha una significativa maggioranza araba a cui si affiancano altre minoranze, come i turkmeni che vivono in diverse zone, da Tal Abyad a Raqqa, e gli assiri che vivono nella striscia tra Hasakah e Tal Baydah. Circa il 15 percento degli oltre 3,5 milioni di rifugiati siriani in Turchia sono originari delle aree contese all’YPG; così come tutti i 250 mila rifugiati siriani fuggiti nell’Iraq settentrionale. Quasi 300 mila rifugiati siriani sono tornati nell’area liberata a seguito dell’operazione Eufrate Shield. L’attuale controllo YPG nella parte orientale dell’Eufrate non solo rappresenta un limite al loro ritorno in patria, ma creerebbe anche molte nuove sacche di sfollati interni alla Siria: oltre 350 mila sfollati interni originari delle aree tenute sotto controllo dall’YPG sino all’avvio delle operazioni militari turche di ottobre, vivono ancora nella zona a nord di Aleppo.

Analisi, valutazioni, previsioni

L’operazione “Fonte di pace” è di fatto l’occupazione militare di una porzione di territorio nazionale siriano, fino ad oggi tenuto dalle milizie SDF, di cui l’YPG è elemento maggioritario. Una mossa, quella portata a termine da Ankara, che ha sollevato numerose voci di protesta da parte dei Paesi dell’Unione europea, a cui sono seguiti simbolici provvedimenti sanzionatori. La NATO, di cui la Turchia è uno dei principali alleati, ha espresso la sua preoccupazione ma non sono seguite decisioni formali in merito: il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg si è formalmente limitato ad avvertire Ankara del rischio di destabilizzazione dell’intera regione e di compromissione dei risultati ottenuti nell’azione contro lo Stato islamico. Sul piano politico interno agli Stati Uniti non sono mancate le continue critiche nei confronti della strategia di Trump per la Siria; lo stesso presidente è stato accusato di aver abbandonato gli alleati curdi e di essere stato troppo accondiscendente nei confronti dell’aggressività turca[10].

Con gli accordi tra le parti, quello tra SDF e governo siriano del 13 ottobre, il successivo tra Turchia e Stati Uniti del 17 ottobre e, infine, quello russo-turco del 22 ottobre, Ankara ha di fatto ottenuto un grande vantaggio prendendo il controllo di una zona all’interno della quale trasferire parte dei profughi siriani attualmente in Turchia, dei quali circa il 15 percento originari delle zone contese ai curdi dell’YPG. Di fatto una parziale riorganizzazione etno-sociale che intende ridurre il ruolo della componente curda nell’area. In tale quadro, la Turchia si sarebbe dimostrata intenzionata a coadiuvare la gestione degli aiuti alla ricostruzione, fornire accesso alla sanità e all’istruzione alla popolazione locale, fornire aiuti umanitari alla regione e contribuire a stabilire la sicurezza addestrando le forze di polizia: una strategia funzionale a creare un habitat sociale e culturale favorevole alla Turchia in un’ottica di contenimento e contrasto dell’attivismo curdo.

Se, da un lato, l’offensiva turca in Siria in pochi giorni ha modificato l’assetto diplomatico, politico e securitario dell’area, dall’altro lato, l’accordo di Sochi ha aperto a una ridefinizione sul terreno dei rapporti di forza tra le parti, e si impone come evento importante per il futuro della Siria, poiché dal memorandum siglato da Putin ed Erdogan deriva il futuro politico di Damasco e dell’influenza dei due attori che sono usciti vincitori dalla guerra iniziata nel 2011: Russia e Turchia, oggi intenti a definire le rispettive aree di influenza.

A est, Mosca e Ankara sono entrambe impegnate a definire a tavolino la propria presenza in quell’area, tenendo conto del fatto che la componente curda potrebbe essere presto minoritaria. In tale prospettiva non è possibile escludere una ripresa delle azioni di tipo terroristico da parte di alcune componenti YPG che non aderiranno all’accordo negoziale. A ovest, dove la regione di Idlib è oggi ancora sotto il controllo delle milizie jihadiste anti-governative, è prevedibile un’offensiva militare siriana affiancata dagli alleati russi, senza i quali qualunque impegno militare si risolverebbe in un fallimento[11].

Infine, a fronte di un non miglioramento delle relazioni turco-statunitensi, il Pentagono potrebbe decidere di sostituire la base militare strategica di Incirlik in Turchia con basi alternative in Grecia.

 

[1] Siria: accordo Assad-curdi, ecco cosa cambia, ISPI Focus, 14 ottobre 2019.
[2] Valenti M., corrispondente dalla Turchia per la Radio e Televisione Svizzera Italiana.
[3] Dichiarazione del portavoce dell’SDF Kino Gabriel del 20 ottobre 2019, SDF Spokeperson (@sdfspokeperson).
[4] Giustino M., corrispondente di Radio Radicale da Ankara.
[5] Ibidem.
[6] Full text of Turkey, US statement on northeast Syria.,Al-Jazeera, 17 ottobre 2019, in https://bit.ly/2pAZGhv.
[7] Bertolotti C., Sulmoni C., in Dopo al-Baghdadi. Considerazioni e dibattito a MODEM (RSI), in START InSight commentary del 28 ottobre 2019, in https://bit.ly/2MTphf9.
[8] Testo completo dell’accordo Turchia-Russia sulla Siria nord-orientale, Cfr. “Full text of Turkey, Russia agreement on northeast Syria”, Al-Jazeera, 22 ottobre 2019, protocollo d’intesa raggiunto dai due paesi, fornito ad Al Jazeera dal ministero degli Esteri turco.
[11] Ranieri D., Putin ed Erdogan ridisegnano la Siria, Il Foglio 23 ottobre 2019.


Le spese militari nelle aree del Maghreb e del Mashreq: diverse tendenze

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 3/2019

Come riportato recentemente  dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), il totale della spesa militare mondiale è salito a 1.822 miliardi di dollari nel 2018, con un aumento del 2,6 percento rispetto al 2017: la spesa globale è ora del 76 percento superiore al minimo del periodo post-guerra fredda registrato nel 1998. I cinque principali investitori nel settore militare nel 2018 sono stati gli Stati Uniti, la Cina, l’Arabia Saudita, l’India e la Francia, che insieme coprono il 60 percento della spesa militare globale.
Per quanto riguarda i paesi del Maghreb, in generale, possiamo osservare come le spese militari in Nord Africa siano diminuite per il quarto anno consecutivo, con importanti riduzioni registrate dall’Algeria. Nell’Africa sub-sahariana, la spesa militare è stata di 18,4 miliardi di dollari nel 2018, con un calo dell’11% dal 2017 (inferiore del 21% rispetto al 2009). Una forte riduzione che, per la prima volta, ha portato il Nord Africa (con solo quattro paesi) a spendere più dell’Africa sub-sahariana (con 45 paesi).
Le spese militari degli stati nel Mashreq, per i quali sono disponibili dati, sono diminuite dell’1,9% nel 2018. Tre dei 10 paesi con il più alto carico militare (spesa militare in proporzione al PIL) nel mondo nel 2018 sono nel Mashreq: Libano (5,0%), Giordania (4,7%) e Israele (4,4%).
Vediamo i quattro casi maggiormente rappresentativi delle due aree.

Algeria

Nonostante il peggioramento della crisi politica e il crescente disagio sociale, l’Algeria ha confermato gli investimenti in armamenti, riducendone leggermente l’importo rispetto all’anno precedente. Le spese militari in Algeria sono diminuite a 9,46 miliardi di dollari nel 2018 da 10,07 miliardi di dollari nel 2017 (un calo del 5,5% rispetto al 2017, in linea con una tendenza al ribasso a livello continentale). Le spese militari in Algeria sono state in media di 2,83 miliardi di dollari dal 1969 al 2018, raggiungendo un massimo storico di 10,64 miliardi di dollari nel 2016 e un minimo record di 217 milioni di dollari nel 1972 . Rispetto al prodotto interno lordo (PIL) nazionale, gli investimenti militari algerini nel 2018 ammontano al 5,3% (era del 6% nel 2017). Con un totale di 9,46 miliardi di dollari nel 2018, l’Algeria ha avuto di gran lunga la spesa militare più elevata in Africa. Mentre in termini nominali le spese militari dell’Algeria sono rimaste invariate dal 2016, l’inflazione ha però portato le spese militari a una diminuzione in termini reali del 6,1% tra il 2017 e il 2018. L’Algeria, inoltre, è tra i dieci principali clienti della Russia in termini di vendite militari.

Egitto

Le spese militari in Egitto sono scese a 2,56 miliardi di dollari nel 2018 dai 2,76 miliardi di dollari del 2017. Le spese militari in Egitto sono state in media di 4,394 miliardi di dollari dal 1962 al 2017, raggiungendo un massimo storico di 7,047 miliardi di dollari nel 1977 e un minimo record di 1,526 miliardi di dollari nel 1962 . Rispetto al PIL nazionale, gli investimenti militari ammontano all’1,2% nel 2018 (era dell’1,4% nel 2017): un dato in linea con la tendenza storica caratterizzata da una progressiva riduzione delle spese militari, come percentuale del PIL, contraddistinta da una diminuzione del 2% tra il 2003 e 2018. L’Egitto ha tradizionalmente perseguito un ruolo di leadership nella regione, ma ha perso molta influenza negli ultimi decenni a favore dei paesi del Golfo e del Levante . Nel complesso, la recente riorganizzazione del budget e delle risorse militari egiziane, deve essere letta come un mezzo per bilanciarne la debolezza economica attraverso l’abilità militare, anche al fine di evitare la dipendenza dalla “generosità” dei più ricchi stati arabi, in particolare l’Arabia Saudita .

Israele

Le spese militari israeliane nel 2018 rimangono in linea con quelle dell’anno precedente, con un leggero aumento a 15,690 miliardi di dollari, rispetto ai 15,582 miliardi di dollari nel 2017. Le spese militari sono state in media di 11,06 miliardi di dollari dal 1952 al 2018, raggiungendo il massimo storico di 18,27 miliardi di dollari nel 1991 e un minimo record di 358 milioni di dollari nel 1953 . Rispetto al PIL nazionale gli investimenti militari ammontano al 4,4% (era del 4,3% nel 2017): in linea con una tendenza storica caratterizzata da una progressiva riduzione delle spese militari, come percentuale del PIL, contraddistinta da una diminuzione del 5,8% tra il 2009 e 2018. Un anno fa, ad agosto del 2018, il primo ministro Benjamin Netanyahu presentava al governo il suo “Concetto di sicurezza 2030”, caratterizzato da un aumento del budget della difesa per i prossimi anni in termini di milioni di dollari destinati alla spesa militare . Secondo Netanyahu, l’obiettivo è un bilancio della difesa di almeno il 6% del PIL, al fine di rafforzare le capacità offensive di Israele, tra cui la capacità di cyber-attacco, il potenziamento dei sistemi di difesa antimissile, le misure di protezione sul fronte interno e il completamento delle barriere di sicurezza sulle frontiere . Inoltre, è bene evidenziare che le esportazioni militari di Israele sono cresciute del 40% nel 2017, portando a 9,2 miliardi di dollari i contratti della Difesa, e segnando per il terzo anno consecutivo un aumento delle esportazioni nel settore della Difesa . Nel 2017, le società israeliane hanno esportato sistemi missilistici (17%) e sistemi di difesa aerea (3%), sistemi di comunicazione (9%), osservazione e ottica (8%), UAV (2%), sistemi marittimi (1%), satelliti e spazio (1%). La più grande distribuzione delle esportazioni israeliane di difesa è rivolta all’Asia del Pacifico, con il 58%, seguita dall’Europa (21%), Nord America (14%), Africa (5%) e America Latina (2%) .

Libano

Le spese militari del Libano sono aumentate a 2,61 miliardi di dollari nel 2018, rispetto ai 2,44 miliardi di dollari nel 2017. Una media 1,6 miliardi di dollari dal 1980 al 2018, con picco massimo di 2,69 miliardi di dollari nel 2016 e un record minimo di 265 milioni nel 1988 . Rispetto al PIL nazionale, gli investimenti militari ammontano al 5% (era del 4,6% nel 2017 e del 5,2% nel 2016): in linea con la tendenza registrata negli anni precedenti, basata su importanti investimenti in spese militari in termini percentuali di PIL.


Principali eventi nell’area del Maghreb e del Mashreq – settembre

Algeria

L’Algeria continua ad essere scossa politicamente dalle manifestazioni di piazza. Il governo algerino, da un lato cerca di presentare il processo elettorale come risolutivo per le istanze sollevate dalla crescente massa di manifestanti; dall’altro lato la repressione della componente militare suggerisce il rischio di un deterioramento progressivo che potrebbe compromettere le elezioni presidenziali, in calendario per il prossimo 12 dicembre.

Algeria ed ExxonMobil, un gigante dell’energia degli Stati Uniti, hanno firmato un accordo per studiare il potenziale di idrocarburi nel deserto del Sahara nella nazione nordafricana, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa ufficiale APS. Secondo l’Agenzia nazionale per la valutazione delle risorse di idrocarburi dell’Algeria (ALNAFT), ExxonMobil ha mostrato interesse nel settore algerino di idrocarburi, valutato come particolarmente ricco di idrocarburi. Secondo una precedente dichiarazione del governo del 28 gennaio 2019, le riserve di energia non convenzionale dell’Algeria la rendono la terza al mondo per gas di scisto e la settima per il petrolio di scisto. La firma dell’accordo, parte della missione di ALNAFT di promozione e sviluppo dell’estrazione di idrocarburi, rende ExxonMobil la quarta società multinazionale ad aderire all’agenzia in questo studio, dopo l’ENI italiana, la Total francese e la Equinor norvegese.

Egitto

Più di 2.000 manifestanti sono stati arrestati dopo la manifestazione di piazza del 23 settembre. Le autorità egiziane hanno arrestato più di 2.000 persone, tra cui diversi soggetto di alto profilo, dopo che alcune proteste si sono svolte in diverse città per chiedere al presidente Abdel Fattah el-Sisi di dimettersi. Tra i denunciati e arrestati figurano uno dei più importanti personaggi dell’opposizione egiziana, un ex portavoce di un candidato alle elezioni presidenziali dell’anno scorso e un noto scrittore. Sfidando il divieto di protestare senza permesso, migliaia di persone sono scese in piazza nella capitale del Cairo e in altre città venerdì in risposta alle richieste di manifestazioni contro la presunta corruzione del governo. Le proteste sono proseguite sabato nella città di Suez nel Mar Rosso.

Israele

Elezioni israeliane: Netanyahu e Gantz promettono entrambi di formare il prossimo governo: Gantz ha suggerito di voler prendere in considerazione un governo di unità nazionale.

Libia

Un attacco aereo statunitense nel sud-ovest della Libia ha provocato la morte di 17 persone, presumibilmente affiliate allo Stato islamico: il terzo attacco contro i militanti jihadisti è stato effettuato il 26 settembre dal comando statunitense dell’Africa (AFRICOM), in collaborazione con il governo libico di accordo nazionale (GNA). Gli attacchi statunitensi in Libia, registrati a settembre, sono i primi dell’ultimo anno. Riporta l’Associated Press (AP) che, secondo fonti ufficiali degli Stati Uniti, Washington continuerà a colpire lo Stato islamico-Libia e altri gruppi terroristi nella regione, al fine di impedire la creazione di aree sicure per il terrorismo  e per coordinare e pianificare le operazioni in Libia.

Tunisia

Elezioni presidenziali: due candidati, uno è in prigione. Nel primo turno delle elezioni presidenziali, tutti i candidati del partito principale sono stati eliminati, lasciando due contendenti: Kais Saied, un professore di legge sconosciuto alla massa degli elettori, che aveva ottenuto il 18,4% dei voti come candidato indipendente, e Nabil Karoui, un uomo d’affari e comproprietario di una popolare rete televisiva (detenuto in carcere in attesa di processo per corruzione e riciclaggio sino a pochi giorni dalle elezioni), che ha ottenuto il 15,6 percento. Karoui è sostenuto principalmente da un elettorato di basso livello socio-economico, attraverso il quale ha fatto breccia attraverso la sua rete televisiva Nessma e un’organizzazione filantropica, Khalil Tounes. Il professor Saied, suo avversario, ha condotto una campagna quasi senza pubblicità, basandosi su un’immagine di integrità e sui voti dei giovani disillusi dal sistema politico. Il successo di questi due competitor minaccia di distruggere il modello di consenso della Tunisia in essere dal 2011, in cui conservatori e modernisti hanno condiviso il potere.


L’interesse strategico della Turchia in Libia: l’attivismo militare a sostegno degli islamisti

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 3/2019

L’aeroporto di Misurata, all’interno del quale si trova anche la base della missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIASIT), è stato più volte bombardato dai droni a supporto del Libyan National Army guidato dal Generale Khalifa Haftar. Attacchi aerei che si sono concentrati su obiettivi militari riconducibili alla Turchia, attivamente impegnata a supporto del Governo di Accordo Nazionale di Fajez al-Serraj, e che pongono in evidenza gli effetti della war by proxy in corso in Libia

Attivismo turco in Libia: tra interessi finanziari e aiuti militari

Il governo di accordo nazionale (GNA – Government of National Accord) di Tripoli, guidato da Fajez al-Sarraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite, è sostenuto direttamente sul piano politico, diplomatico e militare da Regno Unito, Tunisia, Qatar, Turchia, Marocco e Algeria.
Il supporto turco, in particolare, ha contribuito alla sopravvivenza del GNA, minacciato dall’offensiva lanciata il 4 aprile scorso dal rivale Khalifa Haftar alla guida dell’esercito nazionale libico (LNA, Libyan National Army) di Tobruk.
Un aiuto, quello turco, che solamente negli ultimi due mesi ha garantito al governo tripolino rifornimenti militari comprendenti quaranta veicoli protetti MRAP KIRPI e VURAN di produzione turca, sistemi missilistici UCAV BAYRAKTAR TB2 , equipaggiamenti, mine anti-carro, fucili di precisione, mitragliatrici, munizioni e droni militari. A questi aiuti materiali si sommerebbero, come più volte denunciato dal governo di Tobruk, miliziani islamisti provenienti dalla Siria.
Un consistente e fondamentale aiuto militare che è prova del sostegno politico alla compagine governativa di Tripoli a cui la Turchia guarda con grande favore in virtù dei consolidati interessi di natura economico-finanziaria e geopolitica.
Il supporto della Turchia al GNA è una delle molte decisioni di politica estera che hanno collocato Ankara sul fronte opposto all’Egitto e ai suoi alleati degli Stati del Golfo, portando alcuni analisti a descrivere il conflitto libico come una guerra regionale per procura (war by proxy). Una guerra in cui il governo di Tobruk – e il suo esercito guidato da Haftar – gode del sostegno diretto di Russia, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi, attraverso la base militare nigerina al confine con la Libia, continuerebbero a garantire il loro supporto alle forze di Haftar in Fezzan (area di Saba) attraverso azioni ISR (intelligence, sorveglianza e ricognizione) e attacco al suolo  nella zona di Misurata e Tripoli.

La Turchia sostiene l’opzione politica e governativa della Fratellanza musulmana al fine di creare un fronte a guida islamista ma con l’esclusione del parlamento, dei militari, di influenti attori sociali e delle forze liberali e progressiste, a discapito di un vero processo di riconciliazione nazionale.

Una polarizzazione, tra competitor regionali che giocano le loro partite attraverso il confronto tra Tripoli e Tobruk, in cui dal 2014 si inserisce la Turchia del presidente Recep Tayyp Erdogan a sostegno di quegli elementi islamisti che compongono il GNA che, opponendosi ai risultati elettorali, hanno portato alla formazione di un governo rivale a Tobruk. Le ragioni del sostegno turco al GNA sono complesse, ma emergono una serie di fattori utili a comprendere il perché dell’intervento sempre più attivo di Ankara in Libia.
Una delle ragioni più plausibili è la vicinanza ideologica alla componente islamista all’interno del GNA rappresentata dalla Fratellanza Musulmana. Da un lato è evidente il ruolo giocato dai Fratelli Musulmani nel contribuire a definire le relazioni della Turchia con la Siria, il Sudan, i territori palestinesi e l’Egitto; dall’altro lato, l’Egitto (a cui Erdogan non ha mai nascosto la sua opposizione al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, da quando il generale ha rovesciato il suo predecessore, e caro amico del presidente turco, Mohammed Morsi) e gli Stati del Golfo considerano il gruppo islamista un’organizzazione terroristica, e per questa ragione condannano il ruolo di Ankara in loro sostegno.
L’opzione turca si baserebbe dunque sul coinvolgimento politico e governativo della Fratellanza musulmana al fine di creare un fronte a guida islamista ma con l’esclusione del parlamento, dei militari, di influenti attori sociali e delle forze liberali e progressiste, a discapito di un vero processo di riconciliazione nazionale . Un sostegno, quello turco agli islamisti libici, che avrebbe portato a un rapporto simbiotico e di reciproca dipendenza tra i due soggetti: gli islamisti hanno bisogno del sostegno di Ankara per sopravvivere all’offensiva dell’LNA, mentre la Turchia ha bisogno degli islamisti poiché sono gli unici in grado di consentire un’influenza turca sul piano politico, e dunque su quello economico e finanziario. E in tale quadro rientrano i rapporti di collaborazione con il Qatar – sostenitore di Ankara, tanto da finanziare il governo turco afflitto dalla recente recessione economica – che è il maggiore finanziatore del GNA. Dunque, un’alleanza che ha portato a definire i ruoli coordinati dei due partner in Libia: Ankara, sul piano militare, Doha, su quello finanziario .
Sul piano degli equilibri a livello regionale, inoltre, la presa di posizione turca a sostegno degli islamisti libici rientrerebbe in una scelta politica volta a indebolire internamente lo stesso al-Sisi (che insieme ai suoi alleati del Golfo sostiene Haftar e l’LNA) attraverso un contrasto militare che avrebbe ripercussioni anche in Egitto.
Un’ulteriore ragione plausibile del sostegno turco al GNA, è l’aspetto economico: la Libia possiede tra le più ricche riserve di idrocarburi in Africa, pari a 48 miliardi di barili; mentre le riserve tecnicamente recuperabili dal petrolio di scisto (attraverso la tecnica del fracking) sono stimate in 26 miliardi di barili. Inoltre, la Libia ha un enorme potenziale di esportazione: che garantisce circa il 90% delle entrate complessive del paese .
La Turchia, guardando con favore a una divisione del paese tra spinte competitive tra le tribù e la debolezza delle istituzioni democratiche, avrebbe gioco facile nell’imporre la propria egemonia; così facendo otterrebbe un accesso privilegiato alle risorse energetiche libiche e, al contempo, avrebbe un alleato in grado di “alleggerire” l’isolamento sul piano delle estrazioni di idrocarburi nel Mediterraneo orientale, conseguente all’opposizione della Turchia ai piani di perforazione autorizzati dall’amministrazione cipriota. Una scoperta di riserve potenzialmente enormi di idrocarburi, quelle nel mare di Cipro, che ha portato a una collaborazione da parte dei paesi regionali per accedervi – Egitto, Cipro, Grecia, Israele –, a svantaggio di Ankara .

L’attivismo della Turchia a Misurata e il bombardamento dell’aeroporto che ospita il contingente italiano

Misurata rappresenta un obiettivo primario nella strategia di Ankara per la Libia. Qui risiede un’importante minoranza etnica di origine turca – la tribù dei Karaghla – che, stando a quanto afferma Ali Muhammad al-Sallabi, leader della Fratellanza musulmana di Misurata, avrebbe stretto alleanza con il gruppo islamista locale . I Karaghla, le cui origini risalirebbero all’inizio dell’occupazione ottomana, sono oggi presenti nelle aree di Misurata, Tripoli, Zawiya e Zliten; il clan più numeroso è quello di Ramla, prevalente a Misurata. Nel complesso si tratta di un gruppo tribale economicamente forte e influente in ambito politico e finanziario .
L’importanza dei Karaghla e la loro vicinanza ai Fratelli musulmani ne hanno fatto un elemento di interesse da parte della Turchia, contribuendo alla crescente influenza di Ankara sulla città attraverso il sostegno finanziario, politico e militare ai gruppi di potere locali legati alla lotta armata e ai commerci, legali e illegali, che attraversano l’area.
Riporta G. Criscuolo nella sua analisi sulla Libia : “Saad Amgheib, membro del Parlamento libico: La Turchia sta giocando con l’appoggio dei Fratelli Musulmani per mettere le mani sulla Libia. In più sta lavorando di fino con coloro che appartengono alla tribù di origine turca e che hanno grande potere soprattutto nella città di Misurata (…)”. Secondo l’analista politico libico Abdul Basit Balhamil – riporta G. Criscuolo –, “Dal 2014 Misurata è stata trasformata in una base turca in cui vengono trasferite armi (…)” . Accuse analoghe provengono da parte di Haftar: “dall’aeroporto di Misurata passano le armi e i velivoli turchi che aiutano il governo di Tripoli”.
Ragioni, queste, per la quali i droni degli Emirati Arabi Uniti a supporto dell’esercito di Haftar avrebbero colpito, con “attacchi molto precisi” , obiettivi all’interno dell’aeroporto di Misurata, sede dell’Accademia aerea libica e dove è schierato ed opera il contingente italiano. Attacchi che, ha affermato Haftar, sono “rappresaglia per l’attacco aereo di Jufra condotto da droni turchi”  e che si sono concentrati su obiettivi riconducibili agli interessi di Ankara: una prima volta nella notte tra venerdì 26 e sabato 27 luglio, seguito da un secondo attacco martedì 6 agosto e un terzo mercoledì 7 agosto. L’ultimo bombardamento, avvenuto nella notte tra il 17 e il 18 agosto, ha provocato almeno undici esplosioni a meno di cinquecento metri di distanza dal contingente italiano. Gli obiettivi colpiti, sulla base delle dichiarazioni delle forze di Haftar, sarebbero dieci, comprendenti “una sala operatoria, equipaggiamenti di difesa aerea, depositi di munizioni” .

La presenza militare italiana a Misurata

A Misurata l’Italia è impegnata con un proprio contingente militare, nell’ambito della missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIASIT), il cui compito consiste nel fornire assistenza e supporto al GNA libico ed è frutto della riconfigurazione, in un unico dispositivo, delle attività di supporto sanitario e umanitario previste dalla precedente Operazione Ippocrate (conclusa, come missione autonoma, il 31 dicembre 2017) e di alcuni compiti di supporto tecnico-manutentivo a favore della Guardia costiera libica rientranti nell’operazione Mare Sicuro. La nuova missione, che ha avuto inizio a gennaio 2018, ha l’obiettivo di rendere l’azione di assistenza e supporto in Libia maggiormente incisiva ed efficace, sostenendo le autorità libiche nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, in armonia con le linee di intervento decise dalle Nazioni Unite.
Il contingente italiano, composto da 400 militari, 130 mezzi terrestri e mezzi navali e aerei (questi ultimi tratti nell’ambito delle unità del dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro), comprende personale sanitario, unità per assistenza e supporto sanitario, unità con compiti di formazione, addestramento consulenza, assistenza, supporto e mentoring (compresi i Mobile Training Team), unità per il supporto logistico generale, unità per lavori infrastrutturali, unità di tecnici/specialisti, squadra rilevazioni contro minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (CBRN), team per ricognizione e per comando e controllo, personale di collegamento presso dicasteri/stati maggiori libici, unità con compiti di force protection del personale nelle aree in cui esso opera. Inoltre, nell’ambito della missione sono confluite le attività di supporto sanitario e umanitario già parte dell’Operazione Ippocrate e alcuni compiti previsti dalla missione in supporto alla Guardia costiera libica, tra i quali quelli di ripristino dei mezzi aerei e degli aeroporti libici, fino ad ora inseriti tra quelli svolti dal dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro .
Il contributo militare italiano, nel dettaglio, ha il compito di fornire assistenza e supporto sanitario; condurre attività di sostegno a carattere umanitario e a fini di prevenzione sanitaria attraverso corsi di aggiornamento a favore di team libici impegnati nello sminamento; fornire attività di formazione, addestramento, consulenza, assistenza, supporto e mentoring a favore delle forze di sicurezza e delle istituzioni governative libiche, in Italia e in Libia, al fine di incrementarne le capacità complessive; assicurare assistenza e supporto addestrativi e di mentoring alle forze di sicurezza libiche per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza della Libia; svolgere attività per il ripristino dell’efficienza dei principali assetti terrestri, navali e aerei, comprese le relative infrastrutture, funzionali allo sviluppo della capacità libica di controllo del territorio e al supporto per il contrasto dell’immigrazione illegale; supportare le iniziative, nell’ambito dei compiti previsti dalla missione, poste in essere da altri Dicasteri; incentivare e collaborare per lo sviluppo di capacity building della Libia; effettuare ricognizioni in territorio libico per la determinazione delle attività di supporto da svolgere; garantire un’adeguata cornice di sicurezza/force protection al personale impiegato nello svolgimento delle attività/iniziative in Libia .


Libia: l’assedio di Tripoli e lo stallo strategico (Ce.Mi.S.S.)

di Claudio Bertolotti

Il 4 aprile le forze dell’Esercito nazionale libico (LNA) sono entrate nella città di Garian, da dove hanno lanciato un assalto che avrebbe dovuto consegnare la città nelle mani del generale Khalifa Haftar. L’obiettivo non è stato raggiunto e, a tre mesi da quella mancata conquista, lo scenario è quello di uno stallo strategico che si sta dimostrando ancora più sfavorevole per le forze di Haftar, e per i suoi supporter esterni, che hanno perso terreno e sono state costrette ad assumere una posizione difensiva.

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 1/2019 (scarica il file)

L’assedio di Tripoli e l’attivismo dello “Stato islamico” libico

Il 4 aprile le forze dell’Esercito nazionale libico (LNA – Libyan National Army) sono entrate nella città di Garian, 100 chilometri a sud di Tripoli, da dove hanno lanciato un assalto che avrebbe dovuto consegnare la città nelle mani del generale Khalifa Haftar Haftar che ha giustificato l’offensiva affermando di voler combattere le “milizie private e i gruppi estremisti” che, secondo lui, stavano guadagnando influenza sotto al-Sarraj. Nel complesso l’offensiva ha ottenuto il risultato di costringere oltre 75.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni e ha provocato la morte di almeno 510 persone, stando ai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Circa 2.400 persone sono state ferite, mentre 100.000 persone – tra cui centinaia di migranti – sono rimaste intrappolate negli scontri. All’inizio di giugno, le forze libiche dell’LNA avevano attaccato la parte militare dell’aeroporto di Tripoli colpendo due obiettivi turchi: un aereo cargo AN-124 e un drone; il 30 giugno il traffico aereo nell’unico scalo di Tripoli in funzione, quello “Mitiga”, è stato sospeso a causa di un altro bombardamento da parte dell’aviazione del generale Haftar.
Una conquista, quella auspicata dal capo dell’esercito di Tobruk, che avrebbe dovuto concludersi in tempi brevi e senza spargimento di sangue. Così non è stato, anche in conseguenza della mobilitazione delle milizie di Misurata – la città militarmente più potente della Libia – a supporto del governo di accordo nazionale (GNA – Government of National Accord) di Tripoli. A tre mesi da quella mancata conquista, lo scenario è quello di uno stallo strategico in cui l’assedio di lungo periodo non ha offerto possibilità di sviluppi favorevoli agli assedianti e ha limitato la capacità di azione degli assediati impegnati a gestire una capitale con oltre un milione di abitanti e i difficili equilibri tra le milizie tribali.
Alla fine di giugno la situazione si è dimostrata ancora più sfavorevole per le forze guidate da Haftar, che hanno perso terreno e sono state costrette ad assumere una posizione difensiva a causa della manovra di accerchiamento da parte delle forze alleate di al-Sarraj che hanno chiuso in una “sacca” alcune unità avversarie a sud-ovest di Tripoli. Un arresto operativo che segue la perdita della città di Gharyan, punto di partenza dell’offensiva di Haftar del 4 aprile, riconquistata alcuni giorni prima da parte delle forze tripoline attraverso una manovra terrestre sostenuta dall’aviazione del GNA. Due episodi di rilevanza strategica poiché se da un lato il GNA priva l’LNA del suo principale hub logistico (Gharyan), dall’altro impone agli occhi dei supporter esterni l’incapacità di Haftar dimostrata nella perdita del contatto con le proprie truppe che, in un’inversione di ruoli, da assedianti di Tripoli sono divenute assediate.
Un quadro complessivo che però palesa come anche le forze di al-Sarraj siano di fronte a grandi difficoltà, in primo luogo per quanto riguarda la capacità di operare in profondità: carenze logistiche, limiti oggettivi di comando, controllo e comunicazione non hanno consentito né, verosimilmente consentiranno in tempi brevi a Tripoli , di poter andare oltre le posizioni riconquistate. Nel complesso lo scenario che potrebbe palesarsi nel breve-medio periodo potrebbe essere un ritorno allo status quo ante.
Nel frattempo, in una situazione sempre più caotica, è tornato a far parlare di se il franchise libico dello Stato islamico che ha rivendicato l’attacco armato in cui sono state uccise tre persone – tra le quali il presidente del Consiglio locale del villaggio e il capo della guardia municipale – nella cittadina di Fuqaha, distretto di Giofra; tra i risultati dell’azione anche l’interruzione delle linee di comunicazione e dell’elettricità, e la distruzione di alcuni edifici. Un episodio, certamente marginale nel complesso delle violenze in Libia che conferma come il fenomeno Stato islamico rimanga un elemento dinamico e con una provata capacità di azione che si è inoltre manifestata attraverso una serie di azioni mirate a colpire le forze di Haftar già duramente impegnate nel difficile tentativo, poi fallito, di conquistare la città di Tripoli e di mantenere il controllo sulle vie di comunicazione e rifornimento.

Il fronte politico

L’analisi politica complessiva della situazione libica si riassume in un consolidamento dei due principali schieramenti che ha portato a una sempre più marcata polarizzazione dei conflitto; una polarizzazione che, definendo un quadro di proxy-war, vede contrapposti attori locali affiancati da soggetti esterni il cui ruolo è sempre più rilevante.
Su un fronte c’è la fazione di Tripoli. Il governo di accordo nazionale guidato da Fajez al-Sarraj, ufficialmente riconosciuto dalla Comunità Internazionale, è sostenuto direttamente sul piano politico, diplomatico e militare da Regno Unito, Tunisia, Qatar, Turchia, Marocco e Algeria in un contesto di opposizione attiva all’altro competitor, il generale Khalifa Haftar, pur in presenza di una componente islamista che riveste un ruolo determinante all’interno del GNA tripolino. L’ultima decade di giugno è stata caratterizzata dalla la consegna alle milizie tripoline di equipaggiamenti militari provenienti dai supporter esterni; in particolare la Turchia avrebbe rifornito le forze a sostegno del GNA con mine anti-carro, fucili di precisione, mitragliatrici, munizioni, sistemi missilistici UCAV BAYRAKTAR TB2 e quaranta veicoli protetti MRAP KIRPI e VURAN di produzione turca, come dimostrato dalle fotografie pubblicate sui siti ufficiali del GNA e quelli non ufficiali associati al governo di Tripoli; il rifornimento sarebbeè avvenuto attraverso il mercantile “Amazon” battente bandiera moldava ma gestita dalla società turca Akdeniz Roro Sea.
Sull’altro fronte, il governo di Tobruk – sostenuto dall’esercito nazionale libico guidato dal generale Khalifa Haftar – gode del sostegno diretto di Russia, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti; tra i sostenitori di Haftar ci sarebbe anche la Francia che pur continuando a sedere al tavolo diplomatico insieme al resto della Comunità internazionale, ad aprile ha bloccato la dichiarazione ufficiale conin cui l’Unione Europea avrebbeaveva intenzione di chiesto chiedere ad Haftar di fermare la sua offensiva militare. Va evidenziato, inoltre, che gli Emirati Arabi Uniti, acquisito il diritto di utilizzo della base militare nigerina al confine con la Libia, proseguirebbero il loro supporto alle forze di Haftar in Fezzan (area di Saba) attraverso azioni ISR (intelligence, sorveglianza e ricognizione) e attacco al suolo; mentre sul piano degli equipaggiamenti, l’LNA ha recentemente ricevuto – sempre dagli Emirati Arabi Uniti – i sistemi anti-aerei russi a breve-medio raggio PANTSIR-S1 allestiti su veicoli MAN SX45.
Gli Stati Uniti, ufficialmente in posizione di neutralità, si sono mossi nella direzione di un disimpegno formale ma che, nella sostanza, non si è tradotto nel ritiro dei propri operatori dalla Libia.
Al-Sarraj e Haftar, impegnati a confrontarsi sul campo di battaglia, sono al tempo stesso molto attivi sul piano della diplomazia, come dimostrato dai numerosi viaggi e incontri che hanno portato i due leader all’estero e nella stessa Libia alla ricerca di sostegno politico e materiale. Al-Sarraj si è recato in Tunisia (22 maggio), Algeria (23 maggio), Malta (27 maggio) e a La Mecca (31 maggio), mentre Haftar è stato ospite in Francia (22 maggio), Arabia Saudita (La mecca, 28 maggio) e in Russia (Mosca, 31 maggio).

Il fronte militare

Sul piano militare la contrapposizione vede schierati sui due fronti centinaia di gruppi e milizie che, se in apparenza possono sembrare elementi organici e formali, in realtà basano i propri ruoli e fedeltà sulla base di delicati equilibri e dinamiche di natura tribale. L’assedio di Tripoli, se sul piano politico e diplomatico si trova in un vero e proprio empasse, su quello operativo vive al momento una situazione di stallo a cui hanno contribuito proprio le tribù che, con proprie aree di interesse e azione, hanno “resistito” all’avanzata di Haftar, non cedendo alle proposte di accordo da parte di questo, e ne hanno determinato lo stop sulla linea di posizione a sud di Tripoli dove a giugno l’LNA, pur in grado di controllare le aree di Tarhouna e Ghryan fino alla fine del mese, ha cercato di contendere alle unità fedeli al GNA le aree di Asbi’ah e l’aeroporto di Ben Gashir, a 34 chilometri a sud di Tripoli. Haftar ha inoltre proceduto, ormai da tempo, alla militarizzazione delle installazioni petrolifere nella regione della mezzaluna petrolifera utilizzando i porti petroliferi di Ras Lanuf e i campi aerei di Es Sider per le attività belliche.
Dalla parte di al-Sarraj si contano circa 300 differenti gruppi; tra questi le milizie di Misurata e Zintan sono quelle meglio equipaggiate e con maggiore capacità operativa, essendo entrambe dotate di mezzi corazzati. Le principali sono la Tripoli Protection force (composta dalle forze di dissuasione-Rada, Katiba Ghnewa, brigata rivoluzionaria di Tripoli, Katiba Nawasi e altre minori), la National Mobile Force, le forze antiterrorismo di Misurata (dipendenti dal generale Mohammad al-Zein), Katiba Halbous, 166 ͣ brigata e altre milizie minori di Misurata, Samood Force, conosciuta anche come Fakhr o Pride of Libya (guidata da Salah Badi, anche comandante del battaglione di Misurata, che lo scorso anno ha svolto un ruolo di primo piano nei pesanti scontri a Tripoli ); e ancora, le forze di Zintan – le fazioni guidate dal generale Osama Juweili di Misurata e da Imad Trabulsi, capo della Special Operations Force –, battaglioni al-Daman, “33” di Tajoura, Fursan Janzour e le unità di Zuwarah e Zawiyah (battaglioni al-Nasr, Abu Surra e Faruk).
L’LNA sarebbe invece forte di circa 25.000 uomini, tra i quali una significativa componente straniera. Tra le principali unità componenti la compagine militare di Tobruk figurano la 9ͣ brigata di Tarhouna, le forze di Zintan (fazioni del generale Idris Madhi e Mukhtar Fernana), i combattenti di Bani Walid (tra i quali i battaglioni 52°, 60°, al-Fatah e la 27ͣ brigata di fanteria), il battaglione al-Wadi di Sabratah, la West Zawiyah Counter Crime Force di Sorman, le brigate 12 ͣ (di Brak al-Shati), 18 ͣ, 26 ͣ, 73ͣ , la 36 ͣ Special Force, la 106ͣ di Benghasi, i battaglioni 115°, 116°, 127°, 128°, 152°, 155°, 173°. Infine, va evidenziata la presenza significativa di combattenti stranieri provenienti dal Sudan.

Si intensifica la competizione per la ricchezza petrolifera della Libia: colpiti gli interessi italiani

L’attuale escalation di violenza potrebbe portare a un conflitto più ampio sul controllo delle risorse petrolifere del paese. La Libia ha riserve di petrolio stimate in 48 miliardi di barili: la più grande riserva petrolifera dell’Africa, la 9ͣ al mondo; mentre le riserve tecnicamente recuperabili di olio di scisto (attraverso la tecnica del fracking) sono stimate in 26 miliardi di barili. Le esportazioni di petrolio e gas rappresentano circa il 90% delle entrate complessive della Libia e qualsiasi grave turbamento significa un forte calo delle entrate.
L’economia nazionale è quella tipica rentier in cui lo Stato, che è il principale datore di lavoro, fornisce salari a circa 1,8 milioni di persone (un terzo della popolazione totale).
Mentre il GNA controlla le strutture estrattive offshore, dal 2016 Haftar detiene il controllo delle strutture e dei terminali della Libia orientale e, più recentemente, quelle del sud (El Sharara e El Feel).
Le entrate derivanti dalle esportazioni di petrolio, tuttavia, continuano a confluire nella Banca centrale della Libia a Tripoli (sotto il controllo del GNA) mentre la National Oil Corporation (NOC), a partecipazione pubblica e privata (esclusivamente italiana – ENI), che domina il settore petrolifero del Paese, ha cercato di rimanere fuori dai conflitti politici mantenendo una posizione neutrale; una scelta di opportunità che però non è servita a preservarla da azioni mirate a colpire gli interessi energetici italiani in Libia – come dimostrato dall’attacco aereo di giugno al deposito della Mellitah Oil & Gas (partnership ENI/NOC) a Tripoli: un’azione che, ha dichiarato il Presidente di FederPetroli Italia – Michele Marsiglia, è un «forte segnale di attacco all’Italia, essendo ENI primo ed unico partner con l’azienda petrolifera nazionale National Oil Corporation (NOC)».


Analisi dei flussi migratori nei Paesi del Maghreb. Le migrazioni di transito tra i Paesi dell’Area e nel Mediterraneo verso l’Europa

Sbarchi di #immigrati irregolari, “chiusura dei porti”, ruolo delle ONG, criminalità organizzata e business dei migranti, analisi e previsioni dei flussi migratori verso l’Italia e l’Europa.

Tutto questo nell’importante studio di Claudio Bertolottiuscito oggi – sui flussi migratori verso l’Europa, prodotto per lo Stato Maggiore della Difesa e scaricabile gratuitamente

Analisi dei flussi migratori nei Paesi del Maghreb. Le migrazioni di transito tra i Paesi dell’Area e nel Mediterraneo verso l’Europa” – Studio Ce.Mi.S.S.

Lo scopo di questo studio – commissionato dalla Sezione Cooperazione Balcani e Mediterraneo dell’Ufficio Relazioni Internazionali dello Stato Maggiore della Difesa – è l’approfondimento di una tematica che investe pienamente le realtà dei Paesi nord-africani, in particolar modo Marocco, Algeria, Tunisia, Mauritania e Libia – ma anche Niger e Ciad – e ne analizza caratteristiche, origini, rotte e le conseguenze su sicurezza, stabilità ed economia.

Il tema dei flussi migratori verso l’Europa e della loro gestione da parte degli Stati nazionali e dell’Unione Europea è un tema ampiamente dibattuto sul piano politico interno e internazionale ed ha importanti ripercussioni su quello sociale e della sicurezza, sia a livello di percezione che su quello reale.

La crescente pressione migratoria dal continente africano verso l’Europa e l’Italia ha condizionato i processi politici ed elettorali interni all’Europa portando alla ridefinizione degli equilibri nazionali e comunitari.

Tra i soggetti migranti che raggiungono l’Europa attraverso i flussi migratori irregolari, si riconoscono le due grandi categorie: quelli di tipo “economico”, che con la collaborazione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) si tenta di rimpatriare nei Paesi di origine, ed i soggetti che fuggono da situazioni di guerra o conflittualità violenta, la cui protezione rappresenta la missione primaria dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR).

La prevalenza dei “migranti economici”, originari dell’Africa centrale, settentrionale e orientale e dell’area sub-sahariana, si contrappone alla componente minoritaria di soggetti di area mediorientale in fuga da zone di guerra.

Una delle rotte delle migrazioni extra-continente africano più calcate è quella che dai Paesi sub-sahariani attraversa il Nord Africa, in particolare la Libia, e il Mediterraneo; mentre una componente significativa di soggetti alimenta un flusso migratorio interno ai Paesi del Maghreb stesso.

All’interno dello studio, l’importante contributo di Filippo Rossi sui flussi migratori attraverso il Niger presentato in anteprima all’OtherMovie Film Festival di Lugano, diretto da Drago Stevanovic con la collaborazione di Chiara Sulmoni.

ISBN 978-88-99468-90-3

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La crisi nella regione anglofona del Camerun

di Marco Cochi

articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 2/2018

La crisi che da più di due anni affligge le provincie anglofone del Camerun ha avuto inizio con uno sciopero indetto da un consorzio di avvocati, che l’11 ottobre 2016 ha chiamato a raccolta i suoi iscritti per protestare contro l’utilizzo del francese nei tribunali locali e la scarsa conoscenza delle procedure anglosassoni da parte dei colleghi francofoni. Nessuno però poteva prevedere che la contestazione avrebbe rilanciato le spinte secessioniste nelle due provincie abitate dalla minoranza di lingua inglese, che rappresenta il 20% dei quasi venticinque milioni di abitanti del Paese africano.

Le prime avvisaglie della ribellione hanno cominciato a manifestarsi nei giorni seguenti, quando, alla mobilitazione forense, si è unito anche il sindacato degli insegnanti, che lamentava la presenza di troppi professori di lingua francese nel sottosistema scolastico-educativo anglofono. Alla protesta dei docenti hanno aderito anche gli studenti, ai quali è stato chiesto di non entrare in aula finché le rivendicazioni non fossero state prese in considerazione dal governo.

il dissenso e la ribellione sono dilagati

Dalle pacifiche manifestazioni di piazza si è arrivati ben presto alle violenze, che hanno raggiunto un punto di non ritorno tra il 21 e il 22 novembre 2016. In questi due giorni a Bamenda, capitale della provincia anglofona del Nord-ovest, durante un sit-in sono scoppiati dei tumulti sedati dalle forze dell’ordine che hanno aperto il fuoco sulla folla. Alla fine, la polizia ha ucciso un attivista anglofono e ha ferito dieci persone, oltre ad arrestare più di cento manifestanti.

Trascorsi più di due anni, il dissenso e la ribellione sono dilagati in entrambe le provincie del Nord-ovest e del Sud-ovest, mentre le manifestazioni di piazza si sono trasformate nella più grave crisi che ha colpito il Camerun dal tempo dell’indipendenza. 

Secondo i dati raccolti all’inizio dello scorso ottobre dall’International Crisis Group, la violenta repressione, condotta dai militari durante gli scontri con i diversi gruppi secessionisti, ha provocato la morte di circa 500 civili e di centinaia di insorti; mentre negli attacchi armati ad opera dei ribelli hanno perso la vita almeno 185 membri dei servizi di sicurezza. Molto critica è anche l’emergenza umanitaria prodotta dalla crisi che, secondo recenti stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli affari umanitari e l’Alto commissariato per i rifugiati, ha provocato 436mila sfollati interni e costretto oltre 30mila civili a cercare rifugio in Nigeria. L’instabilità ha inciso anche sulla sicurezza alimentare delle aree anglofone, con circa mezzo milione di persone che si trovano a dover affrontare una grave emergenza.

i soldati camerunesi hanno risposto agli attacchi con brutali ritorsioni

Un recente report di Human Rights Watch (HRW) ha rilevato che sia le forze governative che i separatisti armati hanno commesso gravi violazioni nei confronti di civili nella parte occidentale del Paese. Tra i vari abusi segnalati nel rapporto sono compresi rapimenti e uccisioni da parte dei separatisti, che hanno anche sequestrato studenti e ordinato la chiusura di alcune scuole. Di contro, i soldati camerunesi hanno risposto agli attacchi con brutali ritorsioni, incendiando interi villaggi, uccidendo civili, arrestando e torturando sospetti separatisti nella regione anglofona.

Per avere un’idea più precisa del livello raggiunto dallo scontro, è importante osservare che per reprimere la rivolta il governo di Yaoundé ha mobilitato il Battaglione di intervento rapido (BIR), un’unità d’élite dell’esercito camerunense impiegata nella lotta ai jihadisti nigeriani di Boko Haram. I soldati del BIR sono stati accusati di aver perpetrato gravi violazioni nei confronti della popolazione civile della regione meridionale del Camerun e secondo quanto riportato da un sacerdote cattolico di Bamenda, sarebbero responsabili della morte di centinaia di bambini.

La drammatica evoluzione della crisi è visivamente tangibile nel gran numero di videoclip ampiamente condivisi sui social media, alcuni dei quali sono stati analizzati dalla BBC Africa Eye. I filmati, talvolta confusi e difficili da verificare, mostrano villaggi dati alle fiamme, esecuzioni e torture. Ad alimentare il conflitto c’è anche un’accesa retorica, che ha visto dapprima i militari etichettare i separatisti anglofoni come “terroristi”, che a loro volta hanno accusato l’esercito di aver orchestrato un “genocidio” per sterminare la popolazione anglofona.

Marco Cochi, da oltre 16 anni è giornalista professionista con focus sull’Africa. Svolge attività di ricerca presso il CeMiSS per il monitoraggio e la produzione di analisi strategica sull’area tematica Africa sub-sahariana e Sahel ed è analista presso il think tank Il Nodo di Gordio. Docente del Corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI (Società italiana per le organizzazioni internazionali) di Roma e membro della Faculty del Master in Peacebuilding and International Cooperation attivato presso la Link Campus University. Per i tipi di Castelvecchi ha da poco pubblicato “Tutto cominciò a Nairobi. Come al-Qaeda è diventata la rete jihadista più potente dell’Africa”.