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Il presidente Joe Biden e il dossier siriano

di Claudio Bertolotti

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Il passaggio dall’amministrazione di Donald J. Trump alla nuova amministrazione del presidente Joe Biden potrebbe portare a pochi cambiamenti alla politica statunitense nel Medioriente. Gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo importante nella stabilizzazione dell’area e nel tentativo di dissuadere attori locali e regionali dal prendere iniziative sfavorevoli.

Il 25 febbraio, aerei statunitensi hanno bombardato alcuni obiettivi nella parte orientale della Siria, al confine con l’Iraq. Target dei bombardamenti erano due milizie operative in Iraq, Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al Shuhada, indicate da Washington quali responsabili di operazioni mirate ai dannni delle truppe statunitensi in Iraq.

Nonostante l’annuncio del disimpegno statunitense e del conseguente ritiro militare dalla Siria nord-orientale, Washington continua a schierare nell’area alcune centinaia di truppe.

Il passaggio dall’amministrazione di Donald J. Trump alla nuova amministrazione del presidente Joe Biden potrebbe portare a pochi cambiamenti alla politica statunitense nel Medioriente. Questo perché la visione del nuovo presidente in termini di relazioni estere e approcci alle dinamiche mediorientali non è così diversa da quella dei suoi predecessori (compresa l’amministrazione di Barack Obama, di cui Biden fu vice-presidente).

Quello che potrebbe cambiare sarà l’approccio più aggressivo degli altri attori e concorrenti: Turchia, Russia e, ultimo ma non meno importante, l’Iran. Di sicuro, chi pagherà il prezzo più alto saranno gli attori di seconda linea: la pletora di milizie, così come i gruppi islamisti, e il cosiddetto fronte delle forze democratiche siriane (SDF, Syrian Democratic Forces) tra le cui fila c’è lo Yekîneyên Parastina Gel (YPG, People’s Protection Units) – componente maggioritaria delle SDF – osteggiato dalla Turchia. Turchia che considera l’YPG come estensione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), designato da Ankara – e dagli stessi Stati Uniti – come gruppo terroristico. Ma, nonostante la designazione terroristica del PKK da parte statunitense, l’YPG ha mantenuto il ruolo di partner fedele e indispensabile all’interno della coalizione internazionale (contro lo Stato islamico) guidata da Washington. L’YPG, che il PKK di fatto continua comunque a considerare come propria affiliata siriana, nega gli attuali legami istituzionali tra le due organizzazioni.

Sull’altro fronte, nel nord-est della Siria permane una residua presenza e attività dello Stato Islamico: una sfida che perdura. Sebbene le capacità operative del gruppo rimangano limitate e non si sia verificato alcun grave fatto sul piano della sicurezza, i suoi membri sono stati in grado di ricompattarsi ed oggi istituiscono posti di blocco, estorcono denaro a trafficanti locali di petrolio, impongono tasse per le transazioni commerciali ai proprietari terrieri, immobiliari, industriali, dirigenti, medici e fornitori delle principali organizzazioni non governative (ONG), mentre a tutti coloro che vengono considerati benestanti viene imposta la zakat, la beneficenza “volontaria”. Ciò che più preoccupa, nel complesso scenario siriano (ma anche iracheno) è l’apparente capacità del gruppo di coinvolgere e addestrare nuove reclute nelle aree periferiche e desertiche a ovest dell’Eufrate, solo nominalmente controllate da forze del governo siriano (ICG, 2020).

Analisi, valutazioni, previsioni

Gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo importante nella stabilizzazione dell’area e nel tentativo di dissuadere attori locali e regionali dal prendere iniziative sfavorevoli. Un ruolo che però è stato fortemente indebolito dall’ambiguità degli annunci, spesso vaghi e contraddittori, che hanno caratterizzato la precedente amministrazione statunitense in merito alla presenza di Washington in Siria. Da un lato, la linea strategica palesata non ha consentito di pianificare efficacemente l’impegno militare sulla base di una time-line e un end-state definito; dall’altro lato, l’ipotesi di un impegno a tempo indeterminato, senza una tabella di marcia, né una chiara strategia diplomatica potrebbe mantenere in una condizione di permanente destabilizzazione e violenza (IGC, 2020); oppure, ulteriore variabile, un ritiro precipitoso degli Stati Uniti, o anche solo il semplice annuncio di un ritiro imminente, potrebbe sconvolgere il già precario equilibrio tra gli attori in campo.

Infine, guardando dal punto di vista giuridico, l’ipotesi di permanenza a tempo indeterminato potrebbe essere vista come una violazione del diritto internazionale del principio di sovranità, a danno del legittimo Stato siriano; una preoccupazione esacerbata dalla dichiarazione, fatta dall’allora presidente Donald J. Trump a fine 2019, di impegno a rimanere in Siria per “proteggere il petrolio” (ICG, 2020).

Sebbene Joe Biden appaia meno propenso di Trump a chiudere l’operazione in Siria, la sua amministrazione potrebbe però decidere di disimpegnare le truppe statunitensi esattamente come avrebbe fatto Trump. È una possibilità, sebbene i consiglieri di Biden ritengano la presenza militare a tempo indeterminato quale requisito necessario a scongiurare violenti stravolgimenti sul fronte che minaccerebbero gli alleati locali di Washington – e tra questi certamente i curdi dell’YPG – e potrebbero agevolare la rinascita del gruppo Stato islamico.

Ma se, per ipotesi, gli Stati Uniti decidessero di attuare un disimpegno immediato dal teatro siriano quali potrebbero essere gli esiti più probabili?

In primo luogo potrebbe aprirsi una nuova fase di violenza, a tutto vantaggio dei gruppi jihadisti e terroristi – in primis lo Stato islamico, che si rafforzerebbe riacquisendo capacità operative e di controllo territoriale e sociale.

In secondo luogo, questa nuova fase del conflitto incentiverebbe il confronto, e dunque lo scontro, tra il partner locale degli Stati Uniti, le cosiddette Syrian Democratic Forces (SDF), e la Turchia – che vede negli elementi curdi delle SDF un’estensione siriana del PKK.

Una possibile via di uscita alternativa potrebbe concretizzarsi qualora Washington decidesse di giocare il ruolo di mediatore ai fini di un accordo tra le parti che affronti i problemi di sicurezza turchi (reali e percepiti), protegga gli oltre tre milioni di siriani che risiedono nel nord-est della Siria e, in particolare, riduca il rischio di rinascita dello Stato islamico (ICG, 2020).

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L’Afghanistan di Biden: alla ricerca di una via d’uscita

di Claudio Bertolotti

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Articolo originale pubblicato per Europa Atlantica

L’eredità di Donald Trump

Il passaggio di potere dall’amministrazione di Donald J. Trump a quella del neo presidente Joseph R. Biden jr. è in primo piano sullo sfondo dei colloqui intra-afgani.

L’accordo negoziale, concluso tra il governo degli Stati Uniti ei talebani a Doha nel febbraio 2020, prevede il ritiro totale delle forze statunitensi entro il 1° maggio 2021 in cambio di un abbassamento del livello di violenza da parte dei talebani fissato all’80% e la fine della collaborazione con al-Qa’ida: ma i talebani, ad oggi, non hanno rispettato nessuno degli impegni alla base di quell’accordo. Tutto come previsto.

L’ex presidente Trump, alla fine dello scorso anno, aveva ordinato il ritiro parziale dei militari statunitensi dall’Afghanistan, coerentemente con il suo obiettivo politico (ed elettorale) di porre fine alle “guerre americane senza fine”. Un ritiro che, nonostante l’incessante offensiva talebana, si è concretizzato il 15 gennaio e che ha ridotto la presenza di truppe statunitensi in Afghanistan da 4.500 a 3.000: una scelta che, di fatto, ha aperto la porta a un ritorno dei talebani al governo del paese – al termine di una guerra, ormai persa, che si è concentrata prima sull’annientamento, poi sul contenimento e infine sul dialogo alla pari con i talebani, cacciati dalla guida del paese proprio dagli Stati Uniti nell’ottobre del 2001.

La doppia strategia dei talebani

La strategia dei talebani per negoziare un accordo con il governo afghano – la cui Costituzione e principi sono rifiutati dal movimento talebano in quanto “non islamici” – si muove sostanzialmente su due piani: da una parte la partecipazione formale a un dialogo negoziale volutamente rallentato e inconcludente, dall’altra parte la rinnovata determinazione a ottenere una vittoria militare per prendere il pieno controllo del paese dopo il ritiro, ormai prossimo, delle truppe statunitensi e della NATO.

I talebani, che ormai da tempo controllano o hanno influenza su metà del paese, hanno dato avvio a un’offensiva violenta sostenuta da una serie di attacchi e di uccisioni mirate di giornalisti, funzionari e membri delle forze di sicurezza afghane ed esponenti della società civile: una conferma della volontà di vanificare il dialogo negoziale, seminando panico e minando la già scarsa fiducia nei confronti del governo afghano.

La Nato e i suoi limiti

Il presidente afghano Mohammad Ashraf Ghani e il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg hanno recentemente discusso “del processo di pace afghano e del continuo sostegno della NATO alla forza di difesa e sicurezza afghana”. L’Alleanza Atlantica ha inoltre ribadito la volontà di sostenere le forze afghane – che sono deboli, prive di capacità operativa autonoma – e di continuare la sua missione di addestramento, consulenza e assistenza.

È però vero che, a fronte del possibile disimpegno statunitense, la NATO potrebbe fare davvero poco per continuare a sostenere il governo afghano, anche perché, a differenza delle truppe combattenti statunitensi dell’operazione Freedom’s Sentinel, l’Alleanza Atlantica non schiera nel paese truppe combattenti, né ha la necessaria logistica per sostenere un’eventuale azione di combattimento.

La visione di Joe Biden

Il ritiro parziale delle truppe statunitensi dall’Afghanistan è una mina che l’amministrazione Trump ha lasciato al suo successore, e la scadenza fissata al 1° maggio per il ritiro delle truppe è la più grande sfida iniziale per il negoziato ed la decisione più urgente per Biden.

Sebbene sia trapelata la decisione di Biden di posticipare il ritiro delle truppe rispetto a quanto inizialmente concordato, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha affermato che la nuova amministrazione sosterrà la “diplomazia” con i talebani, esortando il gruppo a ridurre la violenza, a partecipare “in buona fede” ai negoziati con il governo afghano e a tagliare i legami con al-Qa’ida – cosa che però non avverrà, con buona pace di chi ancora crede alle garanzie dei talebani.

Biden avrebbe però manifestato l’intenzione di voler mantenere una piccola presenza di unità di intelligence a Kabul. Ma i talebani, nel rifiutare categoricamente questa ipotesi, hanno chiesto a Biden di onorare l’accordo degli Stati Uniti per un ritiro di tutte le forze americane dall’Afghanistan entro la data concordata. Talebani che, in caso contrario, si sentirebbero legittimati ad aumentare – ancora di più – l’intensità della loro violenta offensiva con attacchi nei centri abitati e contro le forze internazionali.

Poiché la residua forza militare è insufficiente per contrastare e contenere i talebani e gli altri gruppi insurrezionali e terroristi, il presidente Biden potrebbe essere costretto a prendere una decisione impopolare: l’invio di ulteriori truppe in Afghanistan, allo scopo di impedirne la conquista totale da parte talebana.

Foto: US Dept. of Defense

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L’Afghanistan di Biden – C. Bertolotti a Checkpoint RAINEWS24 – 26 gennaio 2021

Il ritiro parziale di Washington dall’Afghanistan è una mina che Trump ha lasciato al suo successore, sebbene il ritiro sia stato ordinato dall’allora presidente Barack Obama. Ora, Joe Biden potrebbe dover prendere una decisione impopolare: inviare ulteriori truppe allo scopo di impedire la conquista totale del Paese da parte talebana. E ancora: quale il ruolo della Cina?

Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, ne ha parlato con Emma Farnè a Checkpoint – RAINEWS24

Link diretto a Checkpoint RAINews24

Negoziati intra-afghani, a che punto siamo?

Procedono a rilento con i tempi imposti dai talebani e accettati da Stati Uniti e governo afghano. I primi intenzionati a disimpegnarsi dalla guerra più lunga, i secondi molto preoccupati e forse anche rassegnati a un futuro estremamente incerto che sarà caratterizzato da un crescente potere dei talebani.
Il governo afghano ha concesso tutto ciò che i talebani hanno chiesto: tempi del negoziato, rilascio dei prigionieri, riduzione delle operazioni militari. E lo ha fatto su richiesta e pressione statunitense. Ma ha ottenuto ben poco, anzi, Oggi il dialogo negoziale ci sta portando verso una possibile soluzione che vedrà i talebani accedere alle forme di potere formale, imporre una rinuncia di sostanza di quelli che sono i diritti ad oggi previsti dalla costituzione afghana e, in particolare, lo stesso ordinamento democratico del paese sarà ridimensionato. E questo accadrà non perché gli Stati Uniti se ne andranno, perché lo faranno così come aveva pianificato Obama e poi Trump ha in parte realizzato, ma perché quella afghana è una guerra che non poteva più essere vinta e che le forze di sicurezza afghane non potranno mai affrontare con successo.
Di fatto il tavolo negoziale, formalizzato a febbraio dello scorso anno, avviato a settembre porterà progressivamente verso uno Stato che sarà sempre più simile all’Emirato islamico così come lo immaginano i talebani, e con un’economia saldamente ancorata al traffico di oppiacei di cui l’Afghanistan è il maggior produttore globale.

Negoziati USA-talebani, ritiro usa, e che cosa vuol dire per amministrazione biden “rivedere” accordo

In base ai negoziati di Doha di un anno fa, gli Stati Uniti hanno chiesto due cose ai talebani in cambio del ritiro delle forze militari dall’Afghanistan: ridurre dell’80% i loro attacchi. Non lo hanno fatto. Poi hanno chiesto di tagliare i legami con al-Qa’ida. E i talebani non solo non lo hanno fatto ma hanno consolidato le relazioni con i qaedisti operativi nell’area a sud dell’Afghanistan.
Ci saremmo potuti aspettare un mancato ritiro delle truppe di Washington, ma così non è stato, anche perché l’allora presidente Donald Trump voleva dichiarare chiusa la partita afghana. Ora, il ritiro parziale delle truppe statunitensi è una mina che l’amministrazione Trump ha lasciato al suo successore, e la scadenza fissata al 1° maggio per il ritiro delle restanti 2500 truppe è la più grande sfida per Biden.
Sebbene non sia chiaro se Biden ritirerà tutte le truppe statunitensi entro la data concordata la nuova amministrazione ha dichiarato di voler sostenere la “diplomazia” con i talebani, esortando il gruppo a ridurre la violenza, a partecipare “in buona fede” ai negoziati e a tagliare i legami con al-Qa’ida – cosa che però non avverrà, con buona pace di chi ancora crede alle garanzie dei talebani.
E allora, il presidente Biden potrebbe essere costretto a prendere una decisione impopolare: l’invio di ulteriori truppe in Afghanistan allo scopo di impedirne la conquista totale da parte talebana.

Ruolo cina in afghanistan: indiscrezione cnn e interessi economici

La Cina, dopo due decenni dall’abbattimento del regime talebano, senza essere coinvolta nella lunga guerra, è riuscita a proporsi come valida alternativa, implementando il proprio ruolo di «sponsor della stabilità» in Afghanistan, ruolo che crescerà sempre più a mano a mano che le truppe occidentali diminuiranno. Sebbene non direttamente sul campo di battaglia, la Cina è entrata, sul piano politico, economico e diplomatico, a pieno titolo tra gli attori del nuovo grande gioco afghano. E i grandi interessi economici legati all’estrazione di minerali rari dal sottosuolo afghano rappresentano una garanzia in questo senso.
La notizia riportata dalla CNN in merito alla possibile presenza della Cina dietro ad alcuni gruppi di opposizione armata va valutata con cautela e, se confermata, potrebbe essere letta come una probabile reazione cinese alla politica dell’amministrazione Trump certamente non benevola nei confronti della Cina, in particolare per quanto riguarda il l’espansione economica e commerciale di Pechino attraverso le numerose vie della seta che si stanno estendendo a livello globale.