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#ReaCT2021 – L’esperienza del Kosovo nel rimpatrio dei foreign fighters

di Matteo Bressan, SIOI

Mentre la maggior parte dei paesi europei è stata riluttante a rimpatriare i propri cittadini che si sono uniti al gruppo terroristico dello Stato Islamico (IS) in Siria e in Iraq, il governo del Kosovo ha preso una strada diversa, rimpatriando dozzine di persone con l’intenzione di reintegrarle nella società.

Nell’aprile del 2019, il Kosovo ha rimpatriato 110 cittadini, inclusi uomini, donne e bambini, diventando uno dei pochi paesi che hanno rimpatriato i propri cittadini che avevano combattuto per lo Stato Islamico. Si stima che circa 403 kosovari si siano uniti al conflitto in Siria e in Iraq; tra questi 255 uomini e il resto donne e bambini. Quasi la metà ha viaggiato prima che IS dichiarasse il suo califfato nel giugno 2014, unendosi ai vari gruppi di milizie che hanno cercato di rovesciare il regime di Assad. Un’altra ondata si è successivamente unita e si ritiene che chi ha viaggiato dopo il giugno del 2014 abbia aderito direttamente all’IS. Circa 76 bambini con almeno un genitore kosovaro è nato in zone di conflitto. Il flusso di combattenti stranieri dal Kosovo era piuttosto alto date le dimensioni della popolazione complessiva (circa 1,8 milioni), mentre relativamente bassa è stata la percentuale dei suoi cittadini musulmani.

Nell’affrontare la minaccia dei foreign fighters, il Kosovo ha optato per una combinazione tra misure punitive, misure riabilitative e di reinserimento.

Nel 2015, il Kosovo è diventato il primo paese dei Balcani occidentali ad adottare una legislazione completamente nuova al fine di vietare la partecipazione a conflitti armati al di fuori del territorio nazionale, rendendo l’adesione a conflitti stranieri punibile fino a 15 anni di carcere. Il codice penale del Kosovo, modificato nel 2019, copre tutti gli aspetti del finanziamento del terrorismo e contiene nuove disposizioni legali relative ai documenti falsi utilizzati per viaggi per attività terroristiche, agevolando in questo modo l’individuazione e la cattura dei terroristi.

Oltre a queste misure, anticipando il possibile rientro di cittadini dalle zone di conflitto, già dal 2017, il governo del Kosovo aveva iniziato a mettere in atto un piano per affrontare le sfide legate al rimpatrio. La maggior parte delle donne e dei bambini mostravano sintomi del disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e molti, compresi sei bambini feriti e diverse donne con gravi problemi di salute, avevano bisogno di cure mediche. Sebbene i tribunali kosovari stiano accusando un numero crescente di donne, oltre agli uomini, per reati legati al terrorismo, le loro pene rimangono più leggere che per le loro controparti maschili. La stragrande maggioranza dei maschi rimpatriati sono stati sottoposti a processo e quelli che sono stati condannati hanno scontato in media 3,5 anni di carcere.

I bambini rimpatriati vengono considerati vittime e si stima che sarà necessario predisporre azioni specifiche per affrontare il trauma, determinare la nazionalità e stabilirne la custodia, nonché affrontare il potenziale rischio di alienazione sociale. Nella maggior parte dei casi, le famiglie hanno accolto con favore il loro ritorno e questo ha agevolato l’azione del governo.

In altri stati europei, il processo di reinserimento non è stato così naturale. Questo potrebbe essere almeno in parte dovuto al fatto che in altri stati europei molti dei cittadini che sono partiti per combattere in Siria e in Iraq erano immigrati, spesso con doppia cittadinanza dello stato dell’Unione Europea e di un altro paese, e quindi non sono visti come cittadini “veri” degni di rimpatrio e reintegrazione. Nel caso del Kosovo, invece, sono visti semplicemente come kosovari[1].

[1] T. Avdimetaj e J. Coleman, What EU Member States can learn from Kosovo’s experience in repatriating former foreign fighters and their families, International Centre for Counter – Terrorism, 20 maggio 2020

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