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La direzione delle normative anti-terrorismo in Europa. Ne discutiamo con il giurista Francesco Rossi

Il terrorismo in Europa rimane una minaccia concreta. Al di là degli attentati riusciti, lo dimostrano i numerosi piani sventati, le reti estremiste regolarmente scompaginate dalle forze di sicurezza, la propaganda online che tiene costantemente impegnati in una guerra senza quartiere partner pubblici e privati nel campo della tecnologia e per finire, anche alcuni recenti casi di recidiva -un aspetto, quest’ultimo, su cui si sta concentrando la ricerca specialistica nel tentativo di definire meglio i contorni del rischio per gli anni a venire-.

Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, due brutali attacchi portati a termine da jihadisti passati per il carcere in Gran Bretagna, hanno dato avvio a un dibattito attorno alla durata della reclusione. Una prima, urgente stretta legislativa ha annullato la procedura di rilascio automatico a metà della pena. In seguito, ha preso avvio l’iter parlamentare per l’approvazione di una nuova legge anti-terrorismo più severa che, per quelli che saranno considerati i reati più gravi, prevede fra l’altro condanne più lunghe, da scontare per intero e un monitoraggio dopo la scarcerazione che può arrivare a 25 anni. Anche in altri paesi come la Francia e la Svizzera sono attualmente in discussione e in dirittura d’arrivo misure più restrittive, che in prima bozza hanno anche suscitato le critiche e la preoccupazione di organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, Amnesty International o la stessa UE.

Per approfondire la questione e fornire un ritratto più preciso del panorama giuridico europeo, START InSight ha posto alcune domande a Francesco Rossi, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, membro di MacroCrimes (Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità) e a breve ricercatore post-doc presso la Faculty of Law, Economy and Finance dell’Università di Lussemburgo.

  1. Dr. Rossi, le polemiche e le discussioni accese che seguono ogni attentato in Europa, sembrano dipingere uno scenario in cui l’apparato legislativo sarebbe in costante ritardo rispetto alla realtà della minaccia terroristica; qual è la posizione del giurista al riguardo?

Il giurista è tradizionalmente critico al riguardo. Beninteso: ineccepibilmente, contrastare il terrorismo costituisce una priorità assoluta di un numero sempre più alto di governi. Tuttavia, non può destare stupore che in una democrazia – che deve rispettare le “regole del gioco” fissate dalle Carte e dalle Corti dei diritti – la legislazione evolva più lentamente di un fenomeno criminale organizzato e pronto a reagire a ogni intervento repressivo.

Grazie anche a programmi di analisi del fenomeno ben sviluppati, chi legifera è tendenzialmente a conoscenza dei tratti essenziali del terrorismo che stiamo contrastando. I problemi risiedono altrove: non è l’attenzione, bensì l’approccio a suscitare le critiche degli addetti ai lavori. Dopo pressoché ogni attentato, tutte le forze politiche finiscono per convergere sull’introduzione di nuovi reati, sull’aumento delle pene, sulla previsione di regole processuali derogatorie, sul potenziamento delle misure amministrative “di corredo” allo strumentario penale. I sistemi penali vengono sempre più sovraccaricati, senza però creare un reale valore aggiunto in ottica preventiva. Anziché aspirare a riportare terroristi attuali e potenziali dalla nostra parte, la strategia antiterrorismo diffusa in Europa persegue piuttosto gli obiettivi di neutralizzarli e sorvegliarli il più a lungo possibile, preferibilmente in carcere.  

non può destare stupore che in una democrazia la legislazione evolva più lentamente di un fenomeno criminale organizzato e pronto a reagire a ogni intervento repressivo

Vi è comunque un’altra ragione. Dalla prospettiva politica, volenti o nolenti, legiferare rapidamente e rigidamente nel vivo dell’emergenza è razionale perché coagula il consenso elettorale. In una fase storica in cui il populismo è così forte, questa circostanza non favorisce affatto un dibattito lucido sul contenuto delle leggi antiterrorismo. Anzi…

  1. Tendenzialmente, le leggi che abbiamo oggi nei vari paesi quanto sono efficaci e commisurate alla situazione che viviamo?

Scientificamente, non esistono criteri che consentano di valutare univocamente, senza possibilità di replica, l’efficacia e la proporzionalità delle misure antiterrorismo. Certo, i contributi accademici umanistici forniscono le coordinate culturali imprescindibili per comprendere a fondo il fenomeno. Inoltre, le analisi statistiche in materia aumentano e vengono progressivamente affinate.

Sulla base di questo background è possibile sviluppare riflessioni eterogenee. Molto brevemente, le possibili prese di posizione sul modo in cui contrastare il terrorismo sono fondamentalmente inquadrabili in tre linee di pensiero. La prima postula che il terrorismo debba essere sconfitto senza violare o derogare alcuna norma della Costituzione e delle Carte sovranazionali dei diritti. La seconda, diametralmente opposta, accosta il contrasto al terrorismo a una guerra e legittima persino l’annichilimento delle norme di garanzia. La terza, mediana, sostiene che si debba individuare quali deroghe alle regole del gioco siano costituzionalmente sostenibili e al tempo stesso utili a contrastare il terrorismo.

Nel mondo accademico, la prima linea di pensiero è decisamente prevalente. Tuttavia, una precisazione si impone. Le leggi antiterrorismo vigenti sono senza dubbio utili ed efficaci per le autorità preposte alla protezione della sicurezza collettiva, che possono intervenire ben prima che un individuo radicalizzato passi all’azione: tendenzialmente, nella pratica, prima che intraprendano un viaggio con finalità di terrorismo o quando dichiarano, online o ad altri soggetti, di essere risoluti a passare all’azione. Le stesse leggi consentono altresì di monitorare con attenzione i reclutatori e i facilitatori, dediti rispettivamente ad assicurarsi la disponibilità all’azione di individui radicalizzati e a rendere materialmente possibile la concretizzazione futura dei loro propositi terroristici. Gli interventi delle autorità in questione sono evidentemente preziosi: senza di loro, il numero di attentati realizzati in Europa sarebbe più alto.

le leggi antiterrorismo vigenti sono senza dubbio utili ed efficaci per le autorità preposte alla protezione della sicurezza collettiva, che possono intervenire ben prima che un individuo radicalizzato passi all’azione

Tuttavia, le leggi antiterrorismo vigenti non risultano affatto risolutive. Esse non incidono affatto sulle cause della radicalizzazione e del terrorismo: consentono soltanto di intervenire sui focolai già emersi. Dunque, il risultato che questa modalità di intervento può produrre non è macro-, ma micro-preventivo.

Inoltre, al risultato micro-preventivo lordo (determinato dalla quantità di interventi restrittivi cautelari e irrevocabili effettuati) vanno sottratti gli effetti collaterali che gli attuali eccessi di incriminazione possono produrre. A medio-lungo termine, in un contesto in cui si tende tuttora ad associare – acriticamente, a volte in maniera discriminatoria – terrorismo e Islam, la scelta di anticipare all’estremo l’intervento repressivo rischia persino di rivelarsi in parte criminogena. Punire, apertamente o sotto mentite spoglie, la sola radicalizzazione del singolo musulmano stigmatizza un fenomeno interiore sì aberrante e potenzialmente pericoloso, ma che costituisce comunque una pura e semplice ideologia.

Questo è un lusso che il sistema penale non può permettersi: storicamente, non serve il terrorismo per comprendere l’essenza contro-democratica del punire pensieri in luogo di fatti… Le potenziali ricadute del ricorso alla pena in questo settore devono essere stimate alla luce di molteplici fattori. In breve, più l’incriminazione risulta sproporzionata, maggiore sarà il numero di soggetti borderline – simpatizzanti non violenti, per varie ragioni vulnerabili alla presa ideologica della galassia “jihadista” – che potrebbero finire nel vortice della radicalizzazione e, nel peggiore dei casi, del terrorismo.

Il vero risultato micro-preventivo netto si deve dunque determinare considerando anche queste ipotesi; comprese quelle della radicalizzazione in carcere, causata sia a monte da scelte incriminatrici non del tutto razionali, sia a valle da strategie e modalità di esecuzione della pena detentiva inadeguate. Non solo in Italia, persino i contesti familiari, affettivi e di aggregazione come i centri culturali –soprattutto prima che ne aumentasse la sorveglianza – si sono spesso tramutati in focolai di radicalizzazione. In casi simili, provate a pensare cosa potrebbe implicare il ricorso a una punizione stigmatizzante ed esemplare, non seriamente improntata a un reinserimento sociale e nemmeno preceduta da un diverso sforzo di natura non coercitiva. Di fronte a un fenomeno che fermenta in contesti geopolitici, sociali, culturali ed economici torbidi, condizionati da decenni di conflitti, discriminazioni e ingiustizie, questo tipo di punizione dissuaderebbe le persone vicine al condannato o rischierebbe piuttosto di rafforzare in loro un’ideologia antagonista, incline alla violenza terroristica?

Ad alcuni tale osservazione apparirà provocatoria, o persino un affronto. Essa dovrà però essere presa in seria considerazione, se si intende razionalizzare ed innovare le strategie di contrasto al terrorismo.    

  1. Le preoccupazioni che possono essere espresse dagli organismi internazionali nei confronti di alcune misure repressive o anticipatorie, sono giustificate di fronte al pericolo rappresentato dal terrorismo? 

La risposta può variare a seconda delle misure di volta in volta analizzate. Adottare un approccio mediano nella valutazione delle misure antiterrorismo consentirebbe di discernere quali di esse siano per certi versi difficili da digerire, ma per altri versi necessarie o comunque utili, e quali invece risultino più “costose” che benefiche o persino manifestamente inefficaci e incostituzionali.

È comunque bene sottolineare che un numero sempre crescente delle misure adottate in Europa negli ultimi anni non supera il “test di necessità”. Un esempio: a volte criticato dalla dottrina d’oltralpe per la sua tendenziale ritrosia in materia, il Conseil constitutionnel (la Corte costituzionale francese) ha dichiarato illegittime le norme antiterrorismo più controverse (tra cui quella che sanzionava penalmente la mera consultazione abituale di siti web a contenuto terroristico).

è bene sottolineare che un numero sempre crescente delle misure adottate in Europa negli ultimi anni non supera il “test di necessità”

Non possono e non devono essere puniti puri indici di adesione psicologica a ideologie senza che sia stata commessa alcuna azione tangibilmente pericolosa. Pronunce pur ancora sporadiche come quelle del Conseil constitutionnel possono rappresentare un modello di riferimento per le Corti degli altri Stati, attente sempre più spesso alle mosse delle colleghe europee per trarne potenziali spunti argomentativi.

  1. In un suo saggio del 2017, mette in rilievo come i sistemi penali nazionali tendano ad essere più rigidi -sia in senso preventivo che repressivo- rispetto alle fonti sovranazionali. Cosa ne consegue, e qual è l’impatto concreto sulla lotta al terrorismo?

Ne consegue una catena di interventi circolari che si consolidano e rafforzano reciprocamente. Spesso la dottrina addossa alle organizzazioni sovranazionali le fette maggiori di responsabilità per la scarsa chiarezza delle disposizioni, la carente pericolosità dei fatti sanzionati e la sproporzione delle pene irrogate. Ci si limita spesso a constatare che quando un’organizzazione sovranazionale interviene attraverso convenzioni internazionali, risoluzioni, decisioni quadro, direttive, gli Stati sono obbligati ad adattare la legislazione nazionale. La realtà è però più complessa. Radiografando i molti atti normativi che si sono succeduti tra le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa, l’Unione europea e gli Stati del Vecchio Continente, ci si accorge che questi ultimi hanno spesso anticipato – e persino ecceduto – molti degli interventi sovranazionali di cui stiamo parlando. Più precisamente: dall’11 settembre in poi, gli Stati europei più preparati e “quotati” nel settore del contrasto al terrorismo (Italia, Francia, Spagna e Regno Unito) hanno esportato in più occasioni i propri modelli politico-criminali, legislativi e pratico-applicativi. Finora, in questo ambito, le riforme penali sovranazionali hanno sempre avuto referenze in uno o più Stati, le cui legislazioni sono state più che altro “sintetizzate” per poterle adattare a ordinamenti che si rivolgono a Paesi numerosi e diversi tra loro.

A pressoché ogni attentato realizzato in uno Stato segue ivi una riforma penale, via via sempre più rigida. Lo Stato colpito interviene per primo e più duramente, mentre altri Paesi osservano le mosse altrui e le prendono in considerazione come possibili modelli da emulare. A questo punto, le agende antiterrorismo delle istituzioni sovranazionali si infittiscono e i modelli nazionali vengono elaborati fino a estrarne un nucleo condiviso in seno a ciascuna organizzazione (Nazioni Unite, Consiglio d’Europa, Unione europea).

a pressoché ogni attentato realizzato in uno Stato segue ivi una riforma penale, via via sempre più rigida

Questo nucleo condiviso di previsioni penali antiterrorismo viene irradiato negli Stati ancora illesi dal terrorismo. Fuori dall’emergenza, questi ultimi – che non avevano varato riforme settoriali incisive – vengono trainati legislativamente dalle organizzazioni sovranazionali. Come si è visto, però, l’input politico e contenutistico proviene da quelle mosse nazionali cui si è fatto riferimento poc’anzi.

Dunque, almeno in prima approssimazione, il diritto penale antiterrorismo in Europa si sta armonizzando. Tuttavia, se questo modello di diritto penale è inadeguato, lo saranno anche tutte le sue varie declinazioni nei singoli Stati europei, e le rispettive controindicazioni potrebbero disseminarsi su tutto il Vecchio Continente.

  1. Quali sono i ruoli, i rapporti e anche i limiti che intercorrono fra le legislazioni nazionali e internazionali (UN, Unione Europea)?

Le legislazioni nazionali e le normative sovranazionali possiedono caratteristiche diverse. In breve, mentre le legislazioni nazionali fissano precetti e sanzioni penali applicabili nel territorio dello Stato e rivolti direttamente ai consociati, le normative sovranazionali fissano standard comuni per gli Stati ai quali le normative stesse si rivolgono (i Paesi aderenti a una convenzione internazionale, i membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati membri dell’Unione europea e così via).

Le normative sovranazionali servono principalmente ad armonizzare (o ravvicinare) le legislazioni nazionali entro un contesto geografico più vasto rispetto a quello del singolo Stato. Sebbene nessuna fonte normativa sovranazionale possa mai dirsi identica a un’altra, l’armonizzazione delle legislazioni nazionali è favorita dalla vincolatività delle normative sovranazionali.

le normative sovranazionali servono principalmente ad armonizzare le legislazioni nazionali entro un contesto geografico più vasto rispetto a quello del singolo Stato

Sempre sintetizzando e semplificando, dall’ottica dei singoli Stati tale vincolatività si arresta soltanto di fronte a una violazione della Costituzione da parte della normativa sovranazionale. In ogni caso, l’armonizzazione delle legislazioni nazionali indotta dalle fonti sovranazionali vincolanti è affiancata dai flussi spontanei tra i modelli normativi dei Paesi europei. Simili flussi risultano fisiologici nell’era del pluralismo, dell’apertura, della globalizzazione giuridica e della trans-nazionalizzazione del crimine in cui viviamo.

  1. I paesi terzi come la Svizzera, dal profilo giuridico, come si posizionano dentro il ‘panorama’ UE della lotta al terrorismo? 

Pur con tutti i particolarismi derivanti dai mutevoli contesti storici, sociali e politici di volta in volta considerati, il terrorismo è un fenomeno transnazionale che necessita strategie di contrasto condivise su larga scala, capaci di facilitare quantomeno la cooperazione giudiziaria tra Stati diversi. Questa consapevolezza favorisce forme di incontro spontaneo tra istituzioni e autorità dei vari Paesi. A tal fine, tramite la designazione e l’operato di rappresentanti politici e magistrati di collegamento nazionali, l’Unione europea rappresenta anche per gli Stati terzi un punto di riferimento ideale per un confronto politico, legislativo e pratico-applicativo costruttivo, volto soprattutto a condividere informazioni, linee d’azione e migliori prassi.

  1. I foreign fighters di rientro dalla Siria porrebbero davvero dei problemi di difficile soluzione ai sistemi penali/giudiziari nazionali/europei, come sostiene chi è contrario al rimpatrio?

Attualmente, sì. I carichi di lavoro per gli stakeholders della sicurezza aumenterebbero, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire, ad esempio, in termini di dispendio di risorse umane ed economiche, di esigenze di aggiornamento professionale e di disponibilità e formazione di personale specializzato.

Il discorso muta, invece, riguardo alla possibilità delle Procure di sottoporre con successo a procedimento penale un numero consistente di returnees. Il problema principale è di ordine probatorio: una volta lasciato uno Stato europeo per recarsi sui teatri del conflitto, solo l’intelligence riesce (non sempre, e incontrando svariati ostacoli) a reperire informazioni utili sui foreign fighters. Inoltre, alcune testimonianze recentemente raccolte sul campo hanno fotografato un’altra rilevantissima problematica: per cause di natura non solo giuridica – attinenti essenzialmente alle discrepanze legislative e alla questione dei diritti umani – ma anche politica, il tentativo di cooperare con le autorità degli Stati (mediorientali, africani e via dicendo) in prima linea nella guerra al terrorismo si rivela spesso una strada a fondo chiuso.

rimpatriare foreign fighters di ritorno solleva timori per la sicurezza pubblica e può mettere in bilico persino la maggioranza al governo

Anche in questo caso, comunque, ogni responsabilità da mancato rimpatrio è imputabile anche agli Stati europei, che si dimostrano particolarmente recalcitranti anche di fronte alle vicende drammatiche che vedono coinvolti donne e bambini. La ragione è fondamentalmente duplice: rimpatriare foreign fighters di ritorno solleva timori per la sicurezza pubblica e può mettere in bilico persino la maggioranza al governo. Le recenti vicende politiche in Norvegia, dove nel gennaio 2020 il partito della destra populista ha infranto l’accordo che li legava alla coalizione di governo in reazione alla decisione di rimpatriare dalla Siria una donna sospettata di aver preso parte alle atrocità dello Stato Islamico, sono emblematiche in questo senso. Una tra le possibili alternative – lo svolgimento di processi penali nei confronti dei membri dello Stato Islamico in Siria – rappresenta forse una tentazione per molti Stati europei; anche se, mentre toglierebbe all’Europa alcune castagne dal fuoco, questa soluzione non porrebbe certo rimedio alle violazioni dei diritti umani diffuse in quelle aree.

  1. Le leggi attuali e le riforme in corso secondo lei possono rispondere bene alle necessità e ai requisiti della prevenzione e della deradicalizzazione? Ci sono criticità da affrontare?

il mondo penalistico denuncia da tempo l’inadeguatezza dei programmi di de-radicalizzazione in carcere, dal quale molti escono ancor più de-socializzati

Le criticità sono numerose. Oggi, una larghissima parte del carico preventivo è scaricato sulla sorveglianza e sulla giustizia penale. Invece, il quadro relativo alla prevenzione extra-penale della radicalizzazione in Europa è ancora molto frammentato. È evidente, ad esempio, il ritardo legislativo dell’Italia su questo fronte (mentre proseguono, fortunatamente, alcune sperimentazioni progettuali virtuose, concertate da accademici e operatori professionali). Inoltre, il mondo penalistico denuncia da tempo l’inadeguatezza dei programmi di deradicalizzazione in carcere, dal quale molti escono ancor più de-socializzati. Sono disponibili esempi anche recenti in questo senso: soprattutto nel Regno Unito e in Francia, dove lo stigma derivante dalla condanna per reati terroristici – che comprendono anche mere manifestazioni ideologiche sì aberranti, ma di per sé innocue – si protrae anche a pena espiata, mediante l’applicazione misure di sicurezza marcatamente restrittive.

non è stata ancora raggiunta una sufficiente uniformità di vedute, ad esempio, sui limiti etici e sugli obiettivi concreti che i programmi di prevenzione e de-radicalizzazione devono porsi

Investire maggiori risorse sulla prevenzione extra-penale della radicalizzazione e sui programmi di de-radicalizzazione in carcere si rivela cruciale per perfezionare strategie di contrasto, a lungo termine e a più ampio raggio, alla radicalizzazione e al terrorismo. Tuttavia, lo stato dell’arte in materia è non solo frammentato, ma anche per certi aspetti controverso. Non è stata ancora raggiunta una sufficiente uniformità di vedute, ad esempio, sui limiti etici e sugli obiettivi concreti che i programmi di prevenzione e de-radicalizzazione devono porsi. Inoltre, uno studio recente ha evidenziato uno scarto ancora da colmare tra gli apporti accademici e le reali esigenze degli operatori professionali sul campo. Non si può negare, dunque, che la strada sia ancora particolarmente lunga e insidiosa.




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