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“Fonte di pace”: la terza operazione militare turca in Siria. L’indebolimento dell’YPG curdo-siriano e la morte di Abu Bakr al Baghdadi

di Claudio Bertolotti

Articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 5/2019

“Fonte di pace”, 9-23 ottobre

9 ottobre: al via “Fonte di pace” (in turco Barış Pınarı Harekâtı) l’operazione militare della Turchia nel nord della Siria finalizzata a creare una “zona sicura”; annunciata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha visto al fianco delle truppe regolari turche i ribelli siriani alleati di Ankara, tra i quali anche membri delle disciolte unità jihadiste sostenute da Ankara durante l’annosa guerra siriana. “Fonte di pace” – di fatto l’occupazione militare di una porzione di territorio siriano da parte della Turchia – è la terza operazione turca dal 2016, dopo le operazioni Eufrate Shield (Scudo dell’Eufrate) e Olive Branch (Ramoscello d’ulivo).

L’Operazione Eufrate Shield, lanciata dalla Turchia nell’agosto 2016 per ripulire l’area di confine turco-siriano dai terroristi dello Stato islamico, ha portato alla neutralizzazione di circa 3.000 militanti jihadisti dell’IS. L’operazione Olive Branch, all’inizio del 2018, si è sviluppata nell’area di confine della provincia di Hatay, concentrandosi sulle milizie curde dell’YPG – le cosiddette “forze di difesa nazionale”.

L’operazione “Fonte di pace” rappresenterebbe dunque, da un lato, la prosecuzione di un approccio strategico di ampio respiro finalizzato alla creazione di un’area sicura al confine tra Turchia e Siria e, dall’altro lato, a consolidare l’influenza di Ankara su quell’area procedendo a un ridimensionamento del ruolo, e della presenza, delle stesse comunità curde. Una scelta che non rientra in una visione esclusiva dell’esecutivo guidato da Erdogan, ma che è in linea con un approccio nazionale coerente con la storica visione regionale della Turchia e con l’intento di annullare qualunque forma di opposizione armata di stampo terroristico, sia di tipo jihadista sia riconducibile alla componente anti-governativa curdo-turca del PKK – Partito curdo dei lavoratori – di cui, come sostiene Ankara, l’YPG sarebbe l’estensione curdo-siriana.

Tutte avviate con l’obiettivo di eliminare la presenza dello Stato islamico dalle zone di confine tra Siria e Turchia, le tre operazioni militari di Ankara hanno direttamente interessato anche i gruppi combattenti curdi dell’YPG, l’organizzazione politica siriana legata al PKK turco considerato organizzazione terrorista da Australia, Canada, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Unione Europea e Turchia. Tuttavia, pur essendo formata in prevalenza da combattenti siriani di etnia curda, la maggioranza dei suoi dirigenti non sono siriani, bensì curdi-turchi, il che confermerebbe lo YPG come braccio siriano del PKK. I miliziani dell’YPG sono dunque considerati terroristi dal governo di Ankara proprio perché legati al gruppo terrorista PKK, sebbene siano stati i principali alleati di Washington nella lotta contro lo Stato islamico. L’YPG guida militarmente le cosiddette Forze Democratiche Siriane (Syrian Democratic Forces – SDF), alleanza composta da milizie curde, arabe, assire, siriache e turkmene.

Due le opzioni perseguite da Ankara per contrastare la minaccia terroristica riconducibile YPG/PKK nei confronti della Turchia: l’eliminazione fisica dei miliziani curdi o il loro allontanamento attraverso un negoziato che coinvolga gli Stati Uniti, la Russia e la stessa Siria. Ankara si è mossa su entrambi i piani. Da mesi la Turchia aveva annunciato l’intenzione di avviare un’operazione finalizzata a creare una fascia smilitarizzata di 30 chilometri all’interno del territorio siriano. Lo ha fatto nel momento in cui il presidente statunitense Donald Trump ha dato avvio al ritiro delle proprie truppe dall’area. Sono così cambiati gli equilibri della guerra siriana, iniziata nel 2011 come guerra civile ma ben presto trasformatasi in proxy war attraverso il coinvolgimento di attori statali e non statali impegnati a realizzare proprie agende politiche.

Le SDF, come già avevano annunciato all’indomani del ritiro statunitense, il 13 ottobre hanno firmato un accordo con Damasco – e con il sostegno della Russia e dell’Iran – finalizzato ad unire il cosiddetto Rojava (l’amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est autoproclamatasi tale nel 2012 a seguito degli eventi bellici) e le forze governative siriane contro l’invasione turca. Una scelta che, se da un lato ha dato il via libera allo schieramento di forze siriane nelle aree di Manbij e di Ayn al-Arab (in curdo Kobane, passata sotto la responsabilità delle truppe siriane e russe il 17 ottobre), dall’altro lato ha trovato la resistenza statunitense che ha reagito colpendo con bombardamenti aerei le forze siriane in movimento verso le aree difese dai curdi dell’YPG, in particolare a Deir El Zor. Due gli obiettivi dell’accordo, uno nel breve e l’altro nel medio-lungo periodo: in primis, consentire alle truppe di Bashar al-Assad di schierarsi nelle aree curde tenute dalle SDF e lungo il confine con la Turchia; in secondo luogo, ma ben più importante, preservare l’integrità territoriale della Siria al fine di evitare la presenza di truppe di occupazione turche e di ribelli siriani che combattono al fianco di Ankara.

Una scelta politica di necessità, derivante dallo spazio lasciato libero dall’amministrazione statunitense, che ha portato a un ri-bilanciamento degli equilibri tra i competitor impegnati nella guerra in Siria e ridefinisce la partita geopolitica siriana. Washington ha di fatto lasciato che i curdi trovassero un nuovo alleato nei loro avversari: Damasco, e quindi Mosca. Dall’altra parte, la Turchia e i ribelli anti-Assad potrebbero ambire a un risultato che vada oltre il mero controllo delle aree di confine.

Il terzo fronte è invece tenuto dallo Stato islamico nella forma in cui è sopravvissuto oltre il campo di battaglia: un’incognita minacciosa che dai campi di prigionia curdi potrebbe riaccendere il conflitto alimentandone le spinte ideologiche di quello jihadismo cha si è saputo imporre in forma statuale[1]. Una minaccia sfruttata dagli stessi curdi che, in cerca di sostegno internazionale, avrebbero consentito la fuga di alcuni miliziani dello Stato islamico detenuti nei campi sotto controllo dell’YPG, al fine di indurre la Comunità internazionale, e in particolare l’Unione Europea, ad intervenire per fermare l’iniziativa turca.

Cronologia del conflitto: il campo di battaglia si sposta al confine

A cinque giorni dall’avvio dell’operazione “Fonte di pace”, il 14 ottobre le forze siriane si sono spinte sulla superstrada strategica M4 sino a Tal Tamr, area a prevalenza assiro-cristiana, a nord-est della Siria e a oltre 20 chilometri dal confine con la Turchia; ma la reazione delle milizie arabo-siriane del cosiddetto “Esercito siriano libero” (Free Syrian Army – FSA) al fianco dei turchi non si è fatta attendere, in particolare attorno all’area di Manbij (sponda ovest dell’Eufrate) dove queste hanno sferrato una violenta offensiva – utilizzando per la prima volta i carri armati T72 – condotta successivamente all’abbandono dell’area da parte delle forze statunitensi.

Il 17 ottobre, dopo tre giorni di intensi combattimenti, la pressione militare si è ridotta in maniera significativa nel nord-est della Siria, ad esclusione di Ra’s al-’Ayn – ubicata su un’importante rotta di rifornimento e trasporto tra i centri urbani di Tal Abyad a ovest e Qamishli a est – dove gli scontri sono continuati tra l’YPG e gruppi arabi-sunniti sostenuti da Ankara. Il conflitto si è così spostato sul piano diplomatico a seguito dell’accordo Stati Uniti-Turchia che ha portato a un cessate il fuoco di cinque giorni, durante i quali i curdi dell’YPG hanno ripiegato su posizioni arretrate; sebbene l’accordo prevedesse la distruzione delle postazioni difensive tenute dall’YPG e la consegna delle armi pesanti ciò non ha uniformemente trovato riscontro nei fatti.

Anche sul fronte Turco – hanno denunciato i curdi dell’YPG – il rispetto dell’accordo pare non aver trovato riscontro in maniera uniforme; denuncia che ha fatto il paio con quella del ministero della Difesa turco, che ha attribuito la responsabilità dei miliziani curdi nella prosecuzione dei combattimenti da cui è derivata la morte di un soldato turco e il ferimento di numerosi altri. Il comandante curdo Mazloum Kobane, il 19 ottobre aveva dichiarato che, pur intenzionato a “portare i suoi soldati fuori dalla cittadina assediata di Ra’s al-’Ayn” avrebbe però trovato la resistenza della Turchia che – secondo il comandante delle forze curde – non era “propensa a consentire un arretramento dell’YPG ma [avrebbe preferito] ucciderne i miliziani”. Come testimonia Emanuele Valenti nel suo reportage dal confine turco-siriano, “in realtà la tregua non ha retto completamente”: la zona più critica è quella di Tal Abyad, di fronte alla città turca di Akçakale”[2].

Da non sottovalutare, in tale contesto, quanto accaduto il giorno successivo (20 ottobre) proprio a Ra’s al-’Ayn, dove le milizie YPG si sono ritirate dalla cittadina assediata e hanno rinunciato alla resistenza – come annunciato dal portavoce delle SDF, Kino Gabriel[3] – ma lo hanno fatto contro le direttive dei leader della loro organizzazione madre PKK[4], tra i quali Cemil Bayık (tra i fondatori del partito dei lavoratori curdo) che aveva invitato i curdi-siriani a non ritirarsi: «Se ve ne andate ora non sarete in grado di riprendervi i vostri villaggi, la vostra terra e le vostre case».

Gli Stati Uniti, che avevano temporaneamente ritirato le proprie truppe dal confine con la Turchia per trasferirle in Iraq, al confine siriano-iracheno (nella provincia di Dahuk), hanno poi rischierato parte di queste – in prevalenza forze speciali sia rimasta – con i curdi nella zona dei pozzi petroliferi siriani di Tal Amer – in precedenza sotto controllo dell’IS – con il fine di precludere l’area al governo siriano e alle forze russe. In tale scenario, alle truppe presenti potrebbero a breve unirsi unità corazzate – si è parlato di 30 carri armati – a conferma di un parziale ripensamento da parte del Presidente Trump. Altre truppe statunitensi sono presenti nell’area orientale del distretto di Deir Ez Zor, a protezione dei giacimenti di al-Omar e Tabiya – Conoco, e nell’area di Al Tanf, nel Badiyah siriana, a sostegno dell’unico gruppo ribelle alleato degli Usa: la milizia Maghawir al-Thawra. Il 28 ottobre, le truppe statunitensi hanno ripreso posizione in prossimità della safe-zone, rischierando almeno 500 militari nel nord-est del Paese, lungo la strada M4 a sud di Ayn al-Arab (Kobane), nelle basi di Tal Tamr che avevano abbandonato a inizio mese. Marginali episodi di protesta per il ritiro statunitense sono stati registrati il 21 ottobre a Qamishli, al confine con la Turchia, dove alcuni manifestanti hanno lanciato frutta marcia e pietre contro i militari in fase di ripiegamento: di fatto si è trattato di pochi episodi ma ampiamente diffusi attraverso i social-network, e poi ripresi dai media occidentali che ne hanno amplificato artificialmente la portata.

Dal 23 ottobre, le forze siriane, insieme ai “consiglieri” russi e alla polizia militare di Mosca sono schierati nella fascia profonda 30 chilometri dal confine turco-siriano, ma sono proseguiti i combattimenti tra le forze turche e le milizie curdo-siriane dell’YPG, che non hanno abbandonato l’area come previsto dagli accordi. Tra il 24 e il 30 ottobre, gli attacchi condotti dalle milizie islamiste sostenute da Ankara a danno di unità militari siriane nella zona di Tal Tamr hanno provocato perdite tra le fila governative e la popolazione civile, costretta a fuggire a causa dei continui bombardamenti, particolarmente violenti sui villaggi curdi di Tel Temir e Dirbasiya. Al contempo sono proseguiti i bombardamenti turchi sulle aree di Tal al-Ward, area rurale di Abu Rasin.

Gli accordi Usa-Turchia e Russia-Turchia. L’alternanza statunitense e il rafforzamento dell’asse Mosca-Ankara

L’accordo Usa-Turchia per il cessate il fuoco

Il 17 ottobre Turchia e Stati Uniti hanno concordato un cessate il fuoco finalizzato a sospendere l’avanzata turca in territorio siriano e gli scontri con le milizie curde nella zona al confine tra i due paesi. Un accordo che consente al presidente Erdogan di proclamare l’istituzione dell’ambita zona cuscinetto oltre i confini turchi. L’accordo, annunciato dal vicepresidente statunitense Mike Pence dopo una lunga trattativa – e sotto pressione delle crescenti critiche da parte di democratici e repubblicani al Congresso – ha garantito alla Turchia di ottenere i principali obiettivi che l’operazione “Fonte di pace” si era prefissata e che Ankara persegue dal 2016: la messa in sicurezza dei propri confini sudorientali con la Siria attraverso l’istituzione di una zona di sicurezza profonda 30 chilometri sotto il proprio controllo[5], dal confine turco al tratto delimitato dall’autostrada M4, e l’espulsione delle milizie curdo-siriane dalla zona di confine (da sostituire in un secondo momento con parte degli oltre 3,5 milioni di arabi siriani). Al tempo stesso Ankara ha evitato le sanzioni statunitensi che avrebbero gravato su un’economia sempre più vulnerabile[6].

Di fatto gli Stati Uniti, impegnati per anni al fianco delle milizie curde contro lo Stato islamico, hanno lasciato intendere una loro uscita di scena, che però non si è concretizzata nei fatti. E sebbene l’assenza del presidente Trump all’incontro di Sochi – e con lui l’esclusione degli Stati Uniti – abbia definitivamente suggellato l’uscita di scena di Washington dal processo negoziale e politico per il futuro della Siria, è però vero che Washington potrebbe continuare a svolgere un ruolo di primo piano in Siria attraverso l’uso bilanciato delle proprie forze già schierate e, eventualmente, di nuove unità.

L’uccisione del capo del capo del sedicente Stato islamico da parte delle forze statunitensi, avvenuta il 26 ottobre proprio nella provincia di Idlib, nel villaggio di Barisha, a cinque chilometri dal confine con la Turchia – area in cui i turchi hanno forti contatti – è un evento di estrema importanza. La dichiarazione del Pentagono, seguita ad alcune voci che attribuivano ad Ankara un ruolo importante nella condotta dell’operazione, in cui gli Stati Uniti hanno negato alcun ruolo turco nell’eliminazione di Abu Bakr al-Baghdadi, rientrerebbe in una strategia comunicativa volta a rimarcare la volontà di continuare ad avere un ruolo di rilievo a livello regionale, in un’ottica di contenimento della Russia e della Turchia. Poco dopo l’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, le forze speciali statunitensi insieme a unità curde, hanno eliminato anche il portavoce dell’IS, Abu Hassan al Muhajir, a Jarablus (area sotto controllo dell’operazione turca “Scudo d’Eufrate”). Eventi che suggeriscono un ruolo diretto del Pentagono nel convincere il presidente Trump dell’importanza di mantenere impegni a livello tattico in Siria al fine di perseguire una strategia regionale che valorizzi gli sforzi militari sino ad oggi compiuti. L’operazione contro la leadership dello Stato islamico, nonostante l’annunciato disimpegno, ha così confermato la capacità statunitense di operare in profondità attraverso la combinazione di intelligence e forze speciali[7].

L’accordo Russia-Turchia di Sochi: un piano per la Siria nord-orientale che rafforza l’influenza russa

Il 22 ottobre, la Russia ha ospitato l’incontro tra il presidente Vladimir Putin e l’omologo turco Erdogan in coincidenza con il termine del cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti con le forze curde. Un evento che ha sottolineato l’emergere di Mosca che, pur non avendo il potere economico e la capacità militare degli Stati Uniti, si è imposta come un potente giocatore: i suoi aerei pattugliano i cieli siriani, i militari stanno espandendo le operazioni nella principale base navale in Siria (Tartus), i legami con la Turchia sono sempre più stretti mentre gli spazi lasciati vuoti dal ritiro statunitense stanno per essere colmati dalle forze russe e siriane. L’accordo, che rientra nel meccanismo di Astana, è indipendente dall’accordo Usa-Turchia in base al quale – ha affermato Fahrettin Altun, direttore delle comunicazioni della Presidenza turca – “tutti i terroristi del PKK/YPG sono tenuti a lasciare la zona di sicurezza”.

Cosa prevede, di significativo l’accordo di Sochi[8]? Nella sostanza tre sono i punti cardine dell’intero documento.

In primo luogo viene chiusa la questione curda, attraverso l’impegno a combattere il terrorismo – ricordiamo che l’YPG è associato dalla Turchia al PKK – e a porre termine “alle agende separatiste nel territorio siriano”: un segnale esplicito a qualunque rivendicazione curda in termini di “realtà indipendente”.

In secondo luogo, la Turchia acconsente al governo siriano – affiancato dalla Russia – di prendere il controllo dell’area non inclusa dall’operazione “Fonte di Pace” con l’obiettivo di “facilitare la rimozione degli elementi YPG e delle loro armi per una profondità di 30 km (19 miglia) dal confine turco-siriano”.

Infine, le unità congiunte russo-turche iniziano l’attività di pattugliamento congiunto a ovest e ad est dell’area di operazioni turca per una profondità di 10 km (sei miglia), ad eccezione della città di Qamishli, mentre tutti gli elementi YPG e le loro armi devono lasciare le aree di Manbij e Tal Rifat. Di fatto, la Turchia raggiunge un importante obiettivo, tra quelli che si era posti: la divisione in due aree del cosiddetto Rojava.

Figura 1. Safe-zone proposta dalla Turchia attraverso l’operazione “Peace Spring” e presenza degli attori del conflitto.

 

Dinamiche demografiche all’interno della safe-zone imposta dalla Turchia

La Turchia vuole ristabilire gli equilibri demografici nelle aree che dal 2012 sono controllate dall’YPG; la ragione risiede nella volontà di impedire alle organizzazioni affiliate al PKK di costruire un’entità di fatto.

All’interno della cosiddetta safe-zone voluta e imposta da Ankara, la maggior parte della popolazione è composta da arabi: ad eccezione dell’enclave di Ayn al-Arab e dei villaggi a ovest e ad est di Qamishli, che sono prevalentemente curdi, l’area ha una significativa maggioranza araba a cui si affiancano altre minoranze, come i turkmeni che vivono in diverse zone, da Tal Abyad a Raqqa, e gli assiri che vivono nella striscia tra Hasakah e Tal Baydah. Circa il 15 percento degli oltre 3,5 milioni di rifugiati siriani in Turchia sono originari delle aree contese all’YPG; così come tutti i 250 mila rifugiati siriani fuggiti nell’Iraq settentrionale. Quasi 300 mila rifugiati siriani sono tornati nell’area liberata a seguito dell’operazione Eufrate Shield. L’attuale controllo YPG nella parte orientale dell’Eufrate non solo rappresenta un limite al loro ritorno in patria, ma creerebbe anche molte nuove sacche di sfollati interni alla Siria: oltre 350 mila sfollati interni originari delle aree tenute sotto controllo dall’YPG sino all’avvio delle operazioni militari turche di ottobre, vivono ancora nella zona a nord di Aleppo.

Analisi, valutazioni, previsioni

L’operazione “Fonte di pace” è di fatto l’occupazione militare di una porzione di territorio nazionale siriano, fino ad oggi tenuto dalle milizie SDF, di cui l’YPG è elemento maggioritario. Una mossa, quella portata a termine da Ankara, che ha sollevato numerose voci di protesta da parte dei Paesi dell’Unione europea, a cui sono seguiti simbolici provvedimenti sanzionatori. La NATO, di cui la Turchia è uno dei principali alleati, ha espresso la sua preoccupazione ma non sono seguite decisioni formali in merito: il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg si è formalmente limitato ad avvertire Ankara del rischio di destabilizzazione dell’intera regione e di compromissione dei risultati ottenuti nell’azione contro lo Stato islamico. Sul piano politico interno agli Stati Uniti non sono mancate le continue critiche nei confronti della strategia di Trump per la Siria; lo stesso presidente è stato accusato di aver abbandonato gli alleati curdi e di essere stato troppo accondiscendente nei confronti dell’aggressività turca[10].

Con gli accordi tra le parti, quello tra SDF e governo siriano del 13 ottobre, il successivo tra Turchia e Stati Uniti del 17 ottobre e, infine, quello russo-turco del 22 ottobre, Ankara ha di fatto ottenuto un grande vantaggio prendendo il controllo di una zona all’interno della quale trasferire parte dei profughi siriani attualmente in Turchia, dei quali circa il 15 percento originari delle zone contese ai curdi dell’YPG. Di fatto una parziale riorganizzazione etno-sociale che intende ridurre il ruolo della componente curda nell’area. In tale quadro, la Turchia si sarebbe dimostrata intenzionata a coadiuvare la gestione degli aiuti alla ricostruzione, fornire accesso alla sanità e all’istruzione alla popolazione locale, fornire aiuti umanitari alla regione e contribuire a stabilire la sicurezza addestrando le forze di polizia: una strategia funzionale a creare un habitat sociale e culturale favorevole alla Turchia in un’ottica di contenimento e contrasto dell’attivismo curdo.

Se, da un lato, l’offensiva turca in Siria in pochi giorni ha modificato l’assetto diplomatico, politico e securitario dell’area, dall’altro lato, l’accordo di Sochi ha aperto a una ridefinizione sul terreno dei rapporti di forza tra le parti, e si impone come evento importante per il futuro della Siria, poiché dal memorandum siglato da Putin ed Erdogan deriva il futuro politico di Damasco e dell’influenza dei due attori che sono usciti vincitori dalla guerra iniziata nel 2011: Russia e Turchia, oggi intenti a definire le rispettive aree di influenza.

A est, Mosca e Ankara sono entrambe impegnate a definire a tavolino la propria presenza in quell’area, tenendo conto del fatto che la componente curda potrebbe essere presto minoritaria. In tale prospettiva non è possibile escludere una ripresa delle azioni di tipo terroristico da parte di alcune componenti YPG che non aderiranno all’accordo negoziale. A ovest, dove la regione di Idlib è oggi ancora sotto il controllo delle milizie jihadiste anti-governative, è prevedibile un’offensiva militare siriana affiancata dagli alleati russi, senza i quali qualunque impegno militare si risolverebbe in un fallimento[11].

Infine, a fronte di un non miglioramento delle relazioni turco-statunitensi, il Pentagono potrebbe decidere di sostituire la base militare strategica di Incirlik in Turchia con basi alternative in Grecia.

 

[1] Siria: accordo Assad-curdi, ecco cosa cambia, ISPI Focus, 14 ottobre 2019.
[2] Valenti M., corrispondente dalla Turchia per la Radio e Televisione Svizzera Italiana.
[3] Dichiarazione del portavoce dell’SDF Kino Gabriel del 20 ottobre 2019, SDF Spokeperson (@sdfspokeperson).
[4] Giustino M., corrispondente di Radio Radicale da Ankara.
[5] Ibidem.
[6] Full text of Turkey, US statement on northeast Syria.,Al-Jazeera, 17 ottobre 2019, in https://bit.ly/2pAZGhv.
[7] Bertolotti C., Sulmoni C., in Dopo al-Baghdadi. Considerazioni e dibattito a MODEM (RSI), in START InSight commentary del 28 ottobre 2019, in https://bit.ly/2MTphf9.
[8] Testo completo dell’accordo Turchia-Russia sulla Siria nord-orientale, Cfr. “Full text of Turkey, Russia agreement on northeast Syria”, Al-Jazeera, 22 ottobre 2019, protocollo d’intesa raggiunto dai due paesi, fornito ad Al Jazeera dal ministero degli Esteri turco.
[11] Ranieri D., Putin ed Erdogan ridisegnano la Siria, Il Foglio 23 ottobre 2019.




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