Aumentano i casi di terrorismo in Svizzera e i minorenni implicati
Nel 2023 sono aumentati del 50% i procedimenti per terrorismo aperti dal Ministero Pubblico della Confederazione. A preoccupare le autorità, anche l’abbassamento dell’età di chi è coinvolto.
L’intervento di Chiara Sulmoni, presidente di START InSight al TG della Radiotelevisione Svizzera
Il 2023 a livello europeo ha segnato un aumento della mobilitazione di matrice jihadista. La Svizzera è parte di questo contesto. L’attacco di Zurigo del 2 marzo, quando un 15enne ha accoltellato un ebreo ortodosso in un quartiere del centro, ha avuto un’eco internazionale e frequentemente si riscontrano ramificazioni nelle inchieste europee, che portano alla Svizzera.
Si consolida inoltre la tendenza che vede minorenni e teenager implicati in pianificazione di attentati. La Polizia anti-terrorismo inglese già nel 2021 segnalava un aumento dei casi di minorenni implicati nelle indagini, anche minori di 15 anni. Minorenni sono entrati in azione in Francia, in passato. Gli analisti invitano a non sottovalutare il ruolo dei minorenni, oggi iperconnessi anche a livello transnazionale e autonomi sia per ciò che concerne la pianificazione di attacchi, la produzione e distribuzione di propaganda e il reclutamento.
Le scuole possono e devono fare prevenzione prima che si instauri in processo di radicalizzazione, lavorando dal profilo educativo sul pensiero critico, i valori della diversità e dell’integrazione, ma i docenti devono anche conoscere i contesti delle galassie estremiste, sapere individuare eventuali segnali di disagio e di rischio e a chi rivolgersi e segnalare, poiché non è la scuola a dover risolvere queste problematiche.
Terrorismo: lo Stato islamico e i campionati di calcio.
di Claudio Bertolotti. Dall’intervista di Giampaolo Musumeci per Radio 24 – Nessun Luogo è Lontano del 9 aprile 2024.
Il Cairo, 9 apr. (Adnkronos) – Il sedicente Stato Islamico, tornato a spaventare l’Europa dopo l’attentato a Mosca, ha minacciato di lanciare un attacco contro i quattro stadi in cui da stasera si disputeranno i quarti di finale di Champions League. Al-Azaim, uno degli organi di propaganda dell’Isis, ha confermato queste intenzioni pubblicando l’immagine dei quattro stadi in cui si disputeranno le partite di andata – il Parco dei Principi di Parigi, il Santiago Bernabeu di Madrid, il Metropolitan sempre di Madrid e l’Emirates di Londra – accompagnata dalla didascalia “Uccideteli tutti”.
Una necessaria premessa: l’esperienza dell’ISIS, così come l’abbiamo conosciuta in Iraq e Siria si è conclusa nel giugno 2014 con la proclamazione del Califfato da parte di al-Baghdadi e l’istituzione dello Stato islamico. L’ISIS non esiste più, al suo posto lo Stato islamico dunque. Non è una precisazione da poco, perché segna l’avvio dell’epoca post-territoriale del movimento, quella che stiamo osservando e subendo oggi, sia in Occidente, sia in Medioriente come dimostra la forza sempre più manifesta di questo gruppo in particolare in Siria e Afghanistan.
Quanto seria è questa minaccia? Ricordiamo una allerta simile il 30 marzo in Germania.
Un primo aspetto. In questo caso, come nella maggior parte degli episodi, non è lo Stato islamico ma i suoi gruppi affiliati a chiamare alla lotta. E quella attuale sembra non tanto una avvisaglia quanto un appello a colpire, e dunque non una minaccia diretta. Anche perchè, come ci ha dimostrato la storia recente dello Stato islamico e dei suoi affiliati in franchise, quando il gruppo colpisce lo fa senza preavvertire – di fatto sfruttando l’effetto sorpresa per ottenere il massimo dei risultati. Quanto accaduto in Russia ne è una conferma. Però, e questo è il secondo aspetto, coerentemente con gli attacchi degli ultimi anni, attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico, è l’appello a colpire che viene colto da singoli soggetti, o più raramente da parte di piccoli gruppi, spesso disorganizzati o scarsamente organizzati, che costituisce la forza propulsiva del gruppo che, di norma e per evidente opportunità, rivendica solamente quelli di successo, una minima parte, non citando quelli invece più numerosi che si concludono con un risultato fallimentare.
Dopo l’attentato a Mosca, queste minacce e l’arresto ieri a Roma di un tajiko ex miliziano Isis, ci sono a tuo parere le condizioni per capire quale sia la strategia dell’Isis? Sta rialzando la testa? Riacquisendo forza?
Lo Stato islamico sta rialzando la testa, e lo sta facendo in maniera dirompente ed efficace, riportandoci sul piano emotivo e del terrore ai terribili anni 2015-2017 quando l’Europa fu travolta da una serie di eventi dirompenti, a loro volta in grado di riportare le emozioni agli attacchi dial-Qa’idain Europa del 2004, a Madrid e a Londra. Oggi è sufficiente guardare alla Siria, dove si pensava – complici anche i riflettori mediatici rivolti altrove – che lo Stato islamico fosse stato sconfitto: non è così. Al contrario, l’aumento progressivo di attacchi dello Stato islamico, gli assalti continui e ripetuti alle carceri per liberare i combattenti detenuti dal regime siriano, la capacità di colpire sostanzialmente ovunque. È un campanello d’allarme che suona molto forte e che anticipa una nuova ondata che si autoalimenta: dalla retorica della vittoria talebana in Afghanistan, alla competizione con i talebani, all’aumentare degli affiliati, singoli e gruppi dal Medioriente al Sud-Est asiatico, fino all’Europa. Non uno Stato islamico ex-novo, ma è un fenomeno che si sta risvegliando.
Russia: attentato a Crocus City Hall. Bertolotti (Ispi): Mosca paga aiuto a talebani e Siria in lotta a Stato Islamico (La Presse).
Roma, 23 mar. (LaPresse) – “In Afghanistan la Russia dialoga con la frangia più anziana dei talebani contribuendo a quel ciclo di intelligence che consente ai talebani stessi di combattere lo Stato islamico del Khorasan (Is-Kp)”, quindi l’attentato a Mosca per il gruppo jihadista “è un modo per dire ‘tu aiuti i talebani a colpirci e noi colpiamo te‘”. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight, commentando l’attentato nella Crocus City Hall, a nordovest della capitale russa. La Russia, prosegue, ha anche “un ruolo specifico e ben definito, da una parte, nella lotta al terrorismo islamico” e dall’altra nel sostegno in Siria al presidente Bashar al Assad nel contrasto “a tutti i gruppi sunniti ribelli, compresi quelli affiliati allo Stato islamico“.
Roma, 23 mar. (LaPresse) – “E’ molto difficile tenere sotto controllo e prevenire un attacco” come quello avvenuto alla Crocus City Hall, a nordovest di Mosca, rivendicato dall’Isis. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight. “La storia recente, sia in Europa che in Russia”, spiega, ha dimostrato quanto sia difficile prevedere attentati di questo tipo, “sia quelli organizzati, sia quelli emulativi, ovvero portati avanti da singoli soggetti che si rifanno all’ideologia dello Stato islamico ma agiscono in modo autonomo”. (segue)
Roma, 23 mar. (LaPresse) – Gli Stati Uniti, sottolinea Bertolotti, avevano avvertito sul rischio di attentati in Russia “perché hanno un’ottima capacità di raccolta di informazioni legate all’intelligence associata al dialogo con la nuova leadership talebana” in Afghanistan che è “acerrima nemica dello Stato Islamico del Khorasan (Is-Kp)”. Washington, prosegue il ricercatore Ispi, ha “quindi raccolto informazioni e le ha messe e a diposizione della Russia che ha anche messo in atto misure preventive ma è impossibile organizzare in tutto il Paese un sistema efficace al 100%“.
Roma, 23 mar. (LaPresse) – “In Europa non sono mai diminuiti i tentativi di attacchi terroristici che si attestano sui 10-15 l’anno. E’ però diminuita”, rispetto a qualche anno fa, “l’efficacia e quindi anche l’attenzione mediatica“, che porta lo Stato Islamico a rivendicare solo gli attentati “che hanno successo”. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight, commentando l’attentato nella Crocus City Hall, a nordovest di Mosca. La strage rivendicata “è un grande rilancio per lo Stato Islamico”, spiega. C’è poi, prosegue Bertolotti, l’appello di Hamas a tutti i musulmani, dopo l’inizio della guerra con Israele, “a colpire ovunque” gli alleati di Tel Aviv, e questo rappresenta “una minaccia sostanziale” anche per l’Europa.
Roma, 23 mar. (LaPresse) – Il Cremlino ha “tutto l’interesse a parlare di una responsabilità di Kiev” nell’attacco nella Crocus City Hall, a nordovest di Mosca, poi rivendicato dall’Isis, “perché questo consente di confermare la minaccia rappresentata dall’Ucraina di fronte all’opinione pubblica russa“. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight. “E’ un modo per spostare la responsabilità contro un obiettivo che si sta già colpendo”, spiega, un messaggio anche “per quelle frange dell’opinione pubblica russa che dopo due anni cominciano a non essere più convinte” sulla guerra. Bertolotti esclude una responsabilità ucraina nell’attacco, sia per le “tecniche e procedure” usate dai terroristi sia per l’obiettivo che sarebbe “appagante” per l’Ucraina, in quanto “colpire civili nella narrazione di un popolo che si difende da un’aggressione non è vincente”.
Attacco a Parigi: terrorismo emulativo ed effetti della guerra Israele-Hamas (#ReaCT2023)
2 dicembre. Un uomo si è lanciato contro i passanti uccidendo una persona e ferendone altre a Parigi, nel quartiere di Grenelle, poco lontano dalla Tour Eiffel, gridando “Allah Akbar”. Lo ha reso noto il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin. L’assalitore è stato fermato dalle forze dell’ordine: l’aggressore ha 25 anni ed era schedato “S”, cioè a rischio radicalizzazione (ANSA).
Un evento, quello descritto, che può richiamare l’ondata di violenza jihadista associata all’appello dell’organizzazione palestinese “Hamas”, e subito ripresa dalla succursale afghana dello Stato islamico, che si inserisce nel filone di azioni terroristiche emulative, individuali e non organizzate che negli ultimi anni hanno più colpito la Francia, il Paese che si conferma essere tra i principali obiettivi del jihadismo in Europa.
La
violenza jihadista in Europa: una minaccia marginale ma persistente con
conseguenze devastanti.
A livello globale, il cosiddetto
gruppo Stato Islamico non ha più la
capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e
finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano
una minaccia non marginale. Anche se lo Stato
Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che
riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha
ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla
guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in
Afghanistan ha, a sua volta, alimentato la propaganda jihadista e la
competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere
l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. Un
effetto ancora maggiore deriverebbe dalla guerra Israele-Hamas, dall’appello
dei terroristi palestinesi a colpire Israele e tutti i suoi alleati e dall’adesione
individuale di terroristi improvvisati così come dall’adesione politica e
ideologica dello Stato islamico della
provincia di Khorasan in Afghanistan (Islamic
State Khorasan Province, ISKP), erede dello Stato islamico in Siria e Iraq (ISIS).
Guardando ai paesi dell’Unione
Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero
totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la
minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime ed
effetti diretti.
In seguito ai principali eventi
di terrorismo legati al gruppo Stato
Islamico in Europa, dal 2014 al 2023 si sono verificate oltre 200 azioni
jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 36 sono state
esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato
Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 236
terroristi (63 uccisi in azione); 432 vittime hanno perso la vita e 2.515 sono
rimaste ferite.
Rilevante è il numero di azioni
emulative: il 48% del totale nel 2020, salite al 56% nel 2021, diminuite al 17%
nel 2022, per poi tornare a salire in maniera rilevante nel 2023, in
concomitanza con gli appelli alla violenza di Hamas e della Jihad islamica palestinese, rilanciati con
efficacia dall’ISKP afghano. Il 2022-2023 ha confermato anche la predominanza
di azioni individuali, non organizzate, principalmente improvvisate e fallite
che sostituiscono di fatto le azioni strutturate e coordinate che avevano
caratterizzato il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni dal
2015 al 2017.
Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence
Il profilo dell’attentatore del 2 dicembre a Parigi,
già noto alle forze di sicurezza, precedentemente coinvolto in azioni
terroristiche e classificato come a “rischio di radicalizzazione”, è coerente
con quello di molti terroristi che hanno colpito in precedenza. Un fatto che
conferma come il ruolo giocato dai recidivi – individui già condannati per
terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro condanna detentiva
e, in alcuni casi, in prigione – non sia trascurabile; erano il 3% dei
terroristi nel 2018, poi saliti al 7% nel 2019, al 27% nel 2020. Un’evidenza
che confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una
condanna detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche;
questa evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei
prossimi anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi
attualmente detenuti.
In parallelo ai recidivi, START InSight ha
riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da
terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei
che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022,
nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.
Vi è una certa stabilità riguardo alla
partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in
carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11%
nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021,
33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma
l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.
Quale è oggi la capacità offensiva del terrorismo?
Ci sono alcuni fattori che indicano una possibile
riduzione della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento
delle misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore
cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle
strutture organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro
capacità di reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del
terrorismo, è necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si
sviluppa e opera: il livello strategico, operativo e tattico. La strategia
consiste nell’impiego del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego
delle truppe per la battaglia; il livello operativo si trova tra questi due.
Questa è una semplice sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale:
l’impiego di combattenti.
Il
successo a livello strategico è marginale
Come anticipato con il rapporto #ReaCT2022 e poi
richiamato in #ReaCT2023, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di
successo a livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze
strutturali consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale
e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di
vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le
limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti
solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una
progressiva riduzione della capacità ed efficacia con il passare del tempo.
Nel complesso, gli attacchi hanno attirato
l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello
nazionale, mentre le azioni commando
e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei
media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato
significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti
jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di
attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza
dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero
che questa attenzione tende a diminuire nel tempo poiché sono aumentate le
azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta intensità – che sono
diminuite – mentre le azioni a bassa e media intensità sono aumentate significativamente
dal 2017 al 2021.
Il
livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo
Assumendo che lo scopo degli
attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei
casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato
raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, si
rileva un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi
a bassa intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare. In
particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a
livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli
insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un
tasso di fallimento del 20%. Un trend
complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a
livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un
ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il
risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi
e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi
suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il
carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed
emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel
2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una
nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.
Anche quando fallisce, il terrorismo ottiene una vittoria
Il
vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco
funzionale”.
Anche
quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo
obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo
straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone
l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i
servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità
collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle
attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle
comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio
tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in
generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla
capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini
è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.
In
altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può
comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il
comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di
sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo
“blocco funzionale”.
Nonostante la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un “blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del 92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio è senza dubbio a favore del terrorismo.
La violenza jihadista in Europa: una minaccia persistente con conseguenze devastanti.
A livello globale, il cosiddetto gruppo Stato Islamico non ha più la capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano una minaccia non marginale. Anche se lo Stato Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in Afghanistan potrebbe a sua volta alimentare la propaganda jihadista e la competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. In tale ottica, le crescenti forze estremiste nell’Africa subsahariana rappresentano una minaccia in evoluzione per la stessa Europa. La presenza di gruppi che si rifanno all’idea e all’esperienza dello Stato Islamico in Africa si concentra sulla lotta contro il cristianesimo, portando alla violenza contro missionari, ONG e villaggi cristiani.
Oggi, in particolare, la chiamata alla “rabbia dei musulmani” fatta dal gruppo terrorista palestinese Hamas, ha svolto un ruolo di attivatore nei confronti di quei soggetti predisposti a commettere attivi di violenza jihadista, spesso disorganizzati e improvvisati, ma non per questo meno pericolosi.
Guardando ai paesi dell’Unione
Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero
totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la
minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime – da
16 vittime nel 2020 a 13 nel 2021 e 9 nel 2022 – ed effetti diretti.
In seguito ai principali eventi
di terrorismo legati al gruppo Stato
Islamico in Europa, dal 2014 al 2022 si sono verificate 182 azioni
jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 34 sono state
esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato
Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 225
terroristi (63 uccisi in azione); 428 vittime hanno perso la vita e 2.505 sono
rimaste ferite.
Il numero di eventi jihadisti
registrati nel 2022 è 18 (lo stesso dato del 2021), leggermente inferiore ai 25
attacchi del 2020, con una diminuzione del numero di azioni
“emulative” – cioè, azioni ispirate da altri attacchi avvenuti nei
giorni precedenti; dal 48% del 2020 tali azioni emulative sono salite al 56%
nel 2021 (nel 2019 erano al 21%) e sono diminuite al 17% nel 2022. Il 2022 ha
confermato anche la predominanza di azioni individuali, non organizzate,
principalmente improvvisate e fallite che sostituiscono di fatto le azioni
strutturate e coordinate che avevano caratterizzato il “campo di
battaglia” urbano europeo negli anni dal 2015 al 2017.
Terrorismo jihadista: un’analisi quantitativa
La distribuzione geografica degli attacchi
terroristici e il loro impatto sulla popolazione dei paesi dell’UE
Il
terrorismo rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza delle
popolazioni in tutto il mondo e l’Unione Europea (UE) non fa eccezione. Come
dimostrano i recenti anni, l’UE ha subito numerosi attacchi terroristici, con
alcuni paesi più colpiti di altri. In questo studio, esaminiamo la
distribuzione geografica degli attacchi terroristici nell’UE e il loro impatto
sulla popolazione locale.
I
dati sono stati raccolti dal database START InSight per il periodo compreso tra
il 2014 e il 2022, e analizzati utilizzando statistiche descrittive e analisi
di correlazione. L’analisi si è concentrata sul numero di attacchi terroristici
per paese e sulla popolazione totale di ciascun paese, nonché sull’influenza
dell’espansione del fenomeno Stato
Islamico (dal 2014) e dell’attenzione mediatica sul numero di attacchi.
I
risultati hanno mostrato che tra il 2004 e il 2022 si sono verificati
complessivamente 208 attacchi terroristici nell’UE, con la maggior parte di
questi attacchi (118) verificatisi solo in tre paesi: Francia, Regno Unito e
Germania. In termini di popolazione, Francia e Regno Unito hanno avuto il
maggior numero di attacchi per milione di abitanti, con rispettivamente 1,5 e
1,2 attacchi per milione. Al contrario, paesi come Bulgaria, Croazia e Cipro
non hanno riportato attacchi terroristici durante questo periodo.
Considerando
l’influenza dell’espansione dello Stato
Islamico e dell’attenzione mediatica, si è riscontrato che il momento di
massima espansione del gruppo e di attenzione mediatica è stato tra il 2014 e
il 2016. Durante questo periodo, il numero di attacchi terroristici nell’UE è
aumentato significativamente, con un totale di 158 attacchi verificatisi.
Tuttavia, dopo il 2017, la capacità del gruppo di effettuare o ispirare
attacchi è diminuita, con solo 50 attacchi associati al gruppo tra il 2017 e il
2022.
Complessivamente,
questa analisi evidenzia l’importanza di considerare sia la distribuzione
geografica degli attacchi terroristici che il loro impatto sulle popolazioni
locali. Sottolinea inoltre il ruolo degli eventi globali, come l’espansione
dello Stato Islamico e l’attenzione
mediatica, nel plasmare i modelli di attività terroristica.
Per
esaminare la distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro
impatto sulla popolazione di diversi paesi, analizzeremo il numero di attacchi
terroristici per paese e lo confronteremo con la popolazione totale di ciascun
paese. Questa analisi fornirà informazioni sui modelli di attacchi terroristici
in diversi paesi dell’Unione Europea e sul loro impatto sulle popolazioni locali.
Utilizzando
il database START InSight, abbiamo raggruppato i dati per paese utilizzando la
colonna “Paese”. Successivamente, abbiamo calcolato il numero totale
di attacchi terroristici in ogni paese sommando i valori della colonna
“Numero di attacchi”. In seguito, abbiamo ottenuto la popolazione
totale di ogni paese da una fonte affidabile, come il database Eurostat. Dopo
aver raccolto queste informazioni, abbiamo confrontato il numero totale di
attacchi terroristici in ogni paese con la popolazione totale per valutare se
alcuni paesi fossero più inclini a subire attacchi terroristici rispetto ad
altri, e se questi attacchi avessero un impatto maggiore sulla popolazione
locale in alcuni rispetto ad altri. Ciò è stato fatto calcolando il rapporto
tra il numero totale di attacchi terroristici e la popolazione totale per ogni
paese.
Oltre
ad esaminare i modelli attuali di attacchi terroristici in diversi paesi, è
anche importante indagare se ci siano tendenze temporali nella distribuzione
geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione. Per
farlo, abbiamo analizzato i dati nel tempo ed esaminato se ci siano stati
cambiamenti nella frequenza e nella gravità degli attacchi nei diversi paesi
dell’Unione Europea.
Sulla
base dell’analisi dei dati disponibili, rileviamo che il numero totale di
attacchi terroristici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022 è di 208.
Tuttavia, poiché siamo interessati all’impatto di questi attacchi sulla
popolazione locale, dobbiamo analizzare i dati per paese.
Tra
i paesi dell’Unione Europea, la Francia è stata la più colpita dagli attacchi
terroristici e azioni di violenza jihadista, con un totale di 86 attacchi nel
periodo considerato. Il Regno Unito segue con 37 eventi e la Spagna con 19.
Altri paesi che hanno subito azioni di matrice jihadista durante questo periodo
includono Belgio (18), Germania (13), Italia (8) e Paesi Bassi (8).
Quando
confrontiamo il numero totale di eventi in ogni paese con la sua popolazione,
troviamo che Belgio, Francia e Paesi Bassi hanno i rapporti più elevati di
attacchi per popolazione. In particolare, il Belgio ha il rapporto più alto con
1 azione ogni 362.514 persone, seguito dalla Francia con 1 ogni 423.837 persone
e dai Paesi Bassi con 1 ogni 682.812 persone. Questi rapporti sono
significativamente più elevati rispetto a quelli degli altri paesi dell’Unione
Europea che hanno subito attacchi terroristici durante lo stesso periodo.
Infine, quando analizziamo i
dati nel tempo, scopriamo che il numero di attacchi terroristici è diminuito in
alcuni paesi, come il Regno Unito e la Spagna, mentre è aumentato in altri,
come la Francia e il Belgio. Ciò suggerisce che le misure antiterrorismo,
insieme ai cambiamenti nelle dinamiche geopolitiche del terrorismo, possano
essere state più efficaci in alcuni paesi che in altri.
In conclusione, la nostra
analisi mostra che alcuni paesi dell’Unione Europea sono più suscettibili ad azioni
terroristiche di altri, e che l’impatto di queste sulla popolazione varia tra i
diversi paesi, con ciò offrendo uno strumento complementare per contribuire ad
adeguare le politiche e le strategie antiterrorismo nelle diverse realtà
nazionali dell’Unione Europea.
Il coefficiente
di terrorismo potenziale
Il “coefficiente di
terrorismo potenziale” è una misura sviluppata per stimare il potenziale
di attacchi terroristici in base alla percentuale della popolazione musulmana e
al numero di attentati jihadisti in un determinato paese dell’Unione europea.
Questa misura, partendo dall’assunto che tutti gli attacchi terroristici di
matrice jihadista siano stati compiuti da terroristi di religione musulmana
(compreso un dato pari al 6% di cittadini europei convertiti all’Islam), si
basa sulla seguente domanda della ricerca: una maggiore percentuale di
popolazione musulmana può potenzialmente aumentare il rischio di attacchi
terroristici?
Per calcolare il coefficiente sono
state utilizzate le percentuali della popolazione musulmana rispetto alla
popolazione nazionale dei singoli paesi dell’Unione europea, più Svizzera e
Regno Unito, basate sui dati Eurostat del 2021[1].
Nell’analisi condotta, il “coefficiente di terrorismo potenziale” è
stato calcolato per ogni paese dell’Unione europea, utilizzando i dati sulla
percentuale della popolazione musulmana e sul numero di attentati jihadisti dal
2004 al 2022.
I paesi con un coefficiente di
terrorismo potenziale più elevato sono quelli con una percentuale di
popolazione musulmana elevata e un numero relativamente alto di attentati
jihadisti.
Per mettere in relazione la
percentuale della popolazione musulmana con il numero di attentati jihadisti,
abbiamo utilizzato la correlazione di Pearson. Per fare ciò, abbiamo creato una
tabella contenente i dati relativi a “Paese”, “Percentuale di popolazione
musulmana”, “Numero di attacchi jihadisti”. Una volta creato il dataset abbiamo
calcolato la correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione
musulmana e il numero di attacchi jihadisti.
Dall’analisi dei dati è emerso
che i paesi con le percentuali più elevate di popolazione musulmana rispetto
alla popolazione nazionale sono Cipro (25,4%), Francia (8,8%), Svezia (8,1%),
Austria (8,1%), e Belgio (6,9%). Per quanto riguarda il numero di azioni di
matrice jihadista (attacchi ed eventi violenti), i paesi con il maggior numero
di eventi sono la Francia (86), il Regno Unito (37), la Spagna (19), il Belgio
(18), la Germania (13), l’Italia (8) e i Paesi Bassi (8).
Dall’analisi della correlazione
tra le due variabili, emerge una correlazione positiva tra la percentuale di
popolazione musulmana e il numero di attentati jihadisti nei paesi dell’Unione
Europea (r=0,59, p<0,05). Ciò suggerisce che in quei paesi con una
percentuale di popolazione musulmana più elevata, il rischio di attentati
jihadisti potrebbe essere maggiore. Per meglio chiarire, “r=0.59,
p<0.05” è una notazione statistica che mostra i risultati dell’analisi
di correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione musulmana e il
numero di attacchi terroristici jihadisti nei paesi dell’Unione europea. Il
valore “r=0.59” indica la forza e la direzione della relazione tra le
due variabili. In questo caso, il valore di 0.59 suggerisce che esiste una
correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero
di attacchi terroristici jihadisti. Ciò significa che all’aumentare della
percentuale di popolazione musulmana, aumenta anche il numero di attacchi
terroristici jihadisti. Il valore “p<0.05” indica il livello di
significatività statistica del coefficiente di correlazione. In generale, un
valore “p” inferiore a 0,05 indica che la correlazione è statisticamente
significativa, il che significa che è improbabile che sia avvenuta per caso. In
questo caso, il valore “p” è inferiore a 0,05, indicando che la correlazione
tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi
terroristici jihadisti è statisticamente significativa.
I paesi con i coefficienti di
terrorismo potenziale più elevati sono i seguenti:
Belgio: 18 attacchi / 6,9% di
popolazione musulmana = 2,61
Francia: 86 attacchi / 8,8% di
popolazione musulmana = 9,77
Germania: 13 attacchi / 6,1% di
popolazione musulmana = 2,13
Questi risultati indicano che i
paesi con una percentuale di popolazione musulmana più elevata e un numero
relativamente alto di attentati jihadisti hanno un maggiore “coefficiente
di terrorismo potenziale” e quindi un maggiore rischio di attacchi
terroristici.
Il coefficiente di correlazione
tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti
varia da -1 a 1 e indica la forza e la direzione della relazione tra le due
variabili. Un valore di 1 indica una correlazione positiva perfetta, ovvero un
aumento in una variabile è associato a un aumento nella seconda variabile. Un
valore di -1 indica una correlazione negativa perfetta, ovvero un aumento in
una variabile è associato a una diminuzione nella seconda variabile. Un valore
di 0 indica che non c’è correlazione tra le due variabili.
Questi i risultati per singolo paese:
Austria: 0.6552
Belgio: 0.6929
Bulgaria: 0.1166
Cipro: -0.0768
Croazia: 0.7809
Rep. Ceca: -0.4635
Danimarca: 0.7261
Estonia: -0.6863
Finlandia: -0.6127
Francia: 0.8531
Germania: 0.4565
Grecia: 0.1026
Ungheria: -0.8233
Irlanda: -0.0914
Italia: -0.1995
Lettonia: -0.8944
Lituania: -0.7015
Lussemburgo: -0.6006
Malta: -0.9449
Paesi Bassi: 0.4398
Polonia: -0.4635
Portogallo: -0.8226
Romania: 0.3973
Slovacchia: -0.8233
Slovenia: -0.4657
Spagna: -0.5347
Svezia: 0.6269
Regno Unito: 0.4708
Svizzera: -0.4966
In generale, i risultati
dell’analisi mostrano una correlazione positiva tra la percentuale di
popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti in molti paesi europei.
Come si può notare, il Regno Unito ha un coefficiente di correlazione positivo,
ma meno forte rispetto a paesi come Francia e Belgio. Invece, la Svizzera ha un
coefficiente di correlazione negativo, ma anch’esso meno forte rispetto a paesi
come Malta e Lettonia. Si osserva inoltre che il Regno Unito presenta una forte
correlazione positiva tra le due variabili, così come la Francia. L’Italia,
invece, ha una correlazione negativa non significativa, mentre la Svizzera ha
una correlazione positiva ma meno forte rispetto al Regno Unito e alla Francia.
Ciò suggerisce che la relazione
tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti
può variare significativamente da paese a paese; non è dunque possibile
affermare che un singolo paese sia più a rischio di terrorismo basandosi
esclusivamente sul coefficiente di terrorismo potenziale, in quanto ci sono
molti altri fattori che possono influenzare il livello di minaccia terroristica
in un paese, come ad esempio la stabilità politica e sociale, la presenza di
gruppi radicali e la capacità delle autorità di prevenire e contrastare gli
attacchi terroristici.
Infine, il coefficiente di
correlazione non implica necessariamente una relazione causale tra la
percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti, ma
indica semplicemente la forza e la direzione della relazione statistica tra le
due variabili, definendo il coefficiente di terrorismo potenziale come uno dei
molteplici fattori da prendere in considerazione per la valutazione del rischio
di terrorismo in un paese.
Un’ovvia
relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime
Per
indagare se esiste una relazione tra il numero di attacchi terroristici e il
numero di vittime, abbiamo analizzato il set di dati disponibile attraverso il
database START InSight e ci siamo concentrati sulle colonne “Numero di
uccisi” e “Numero di feriti”. Per ottenere una misura del numero
totale di vittime per attacco, abbiamo sommato queste due variabili per ogni
riga del database.
Abbiamo
quindi calcolato il coefficiente di correlazione di Pearson tra il numero
totale di vittime e il numero di attacchi. Il coefficiente di correlazione è
risultato essere 0,794, indicando una forte correlazione positiva tra le due
variabili.
Abbiamo
anche effettuato un’analisi di regressione lineare con il numero totale di
vittime come variabile dipendente e il numero di attacchi come variabile
indipendente. L’analisi di regressione ha prodotto un coefficiente di
determinazione (R-quadrato) del 0,631, suggerendo che circa il 63% della
variazione nel numero totale di vittime può essere spiegato dal numero di
attacchi.
Complessivamente,
la nostra analisi suggerisce che esiste una relazione positiva tra il numero di
attacchi terroristici e il numero di vittime, e che il numero di attacchi è un
predittore significativo del numero totale di vittime. Ulteriori ricerche
potrebbero indagare su altri potenziali fattori che possono influire sul numero
di vittime negli attacchi terroristici.
La rilevanza del tasso di vittime
Per approfondire i dati sugli attacchi terroristici
nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022, abbiamo deciso di calcolare il
numero totale di vittime per ogni attacco. Per farlo, abbiamo utilizzato le
colonne “Numero di Morti” e “Numero di Feriti” per
calcolare il numero totale di vittime per attacco.
Abbiamo poi aggregato i dati per paese per stimare il
numero totale di vittime per ogni paese. Ciò ci ha permesso di comprendere
meglio l’impatto complessivo degli attacchi terroristici in ogni paese durante
il periodo analizzato.
La nostra analisi ha rivelato che il paese con il maggior
numero di vittime totali era la Francia, con un totale di 1.741 vittime nel
periodo 2004-2022. Il paese con il secondo maggior numero di vittime era il
Regno Unito, con un totale di 1.400 vittime.
Altri paesi con un significativo numero di vittime
includono Belgio (685), Germania (583) e Spagna (547). Tuttavia, è importante
notare che il numero di vittime potrebbe non necessariamente riflettere la
gravità o la frequenza degli attacchi in ogni paese e che altri fattori come la
dimensione della popolazione e i fattori geopolitici dovrebbero essere presi in
considerazione quando si interpretano questi risultati.
Complessivamente, la nostra analisi evidenzia l’impatto
devastante degli attacchi terroristici nell’Unione europea e l’importanza di
continuare gli sforzi per prevenire e combattere il terrorismo nella regione.
Per investigare se esista una relazione tra il numero di
attacchi terroristici e il numero totale di vittime per paese, abbiamo condotto
un’analisi di correlazione utilizzando il numero di attacchi e il numero totale
di vittime per paese. L’analisi di correlazione ha rivelato una correlazione
positiva e moderatamente forte tra il numero di attacchi e il numero totale di
vittime (r=0,685, p<0,001), indicando che all’aumentare del numero di
attacchi, aumenta anche il numero di vittime. Questi risultati, solo
apparentemente banali e scontati, suggeriscono che i paesi con un maggior
numero di attacchi terroristici sono anche quelli che, fino ad oggi, hanno
registrato un maggior numero di vittime.
Chi
sono i “terroristi europei”: genere, età, etnia, recidiva.
L’attivismo terroristico è una prerogativa maschile:
su 225 attaccanti, il 97% sono uomini (7 sono donne); a differenza del 2020,
quando c’erano 3 donne attaccanti, il 2021 e il 2022 non hanno registrato la
partecipazione attiva delle donne.
L’età mediana dei 225 terroristi (maschi e femmine)
è di 27 anni: una cifra che varia nel tempo (da 24 anni nel 2016 a 30 nel
2019). I dati biografici di 169 individui per i quali abbiamo informazioni
complete ci consentono di tracciare un quadro molto interessante che ci dice
che il 10% ha meno di 19 anni, il 36% ha tra 19 e 26 anni, il 39% ha tra 27 e
35 anni e, infine, il 15% è più anziano di 35 anni.
La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa
Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in
Europa affligge alcuni gruppi nazionali/etnici più di altri. C’è una relazione
proporzionale tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, come sembra
apparire dalla nazionalità dei terroristi o delle famiglie d’origine, in linea
con le dimensioni delle comunità straniere in Europa. Prevale l’origine
maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente interessati dall’adesione
jihadista sono quello marocchino (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e
algerino (in Francia).
Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence
Il ruolo giocato dai recidivi – individui già
condannati per terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro
condanna detentiva e, in alcuni casi, in prigione – non è trascurabile; erano il
3% dei terroristi nel 2018 (1 caso), poi sono saliti al 7% (2) nel 2019, al 27%
(6) nel 2020, sono scesi a un singolo caso nel 2021 e 2022. Un’evidenza che
confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una condanna
detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche; questa
evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei prossimi
anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi
attualmente detenuti.
In parallelo ai recidivi, START InSight ha
riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da
terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei
che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022,
nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.
Vi è una certa stabilità riguardo alla
partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in
carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11%
nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021,
33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma
l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.
Ci sono legami tra l’immigrazione e il terrorismo?
Analisi di correlazione e regressione degli immigrati e del terrorismo
nell’Unione Europea
La relazione tra
immigrazione e terrorismo è stata oggetto di numerosi studi e dibattiti negli
ultimi anni. In questo studio, abbiamo condotto un’analisi di correlazione e
regressione per indagare la relazione tra lo status di immigrato, l’origine familiare e il paese d’origine degli
attaccanti con la frequenza degli attacchi terroristici nell’Unione Europea.
Come metodologia, abbiamo analizzato il database di START InSight contenente
informazioni sugli attacchi terroristici compiuti da estremisti islamici
nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022. Abbiamo utilizzato la correlazione
di Pearson e la correlazione di Spearman per esplorare la relazione tra diverse
combinazioni di dati e abbiamo effettuato un’analisi di regressione lineare
multipla per prevedere la frequenza degli attacchi in base allo status di immigrato dell’attaccante,
alla sua origine familiare e al paese d’origine.
Le
origini dei terroristi: immigrati o europei?
L’89% degli attacchi
terroristici in Europa tra il 2004 e il 2022 (dei quali abbiamo informazioni
complete) è stato perpetrato da immigrati di seconda e terza generazione, e da
immigrati di prima generazione, sia regolari che irregolari. Esiste quindi una
correlazione statistica tra immigrazione e terrorismo; tuttavia, il numero di
terroristi rispetto al numero totale di immigrati è così marginale che tale
correlazione diventa insignificante: l’ordine di grandezza è di una unità per
milione di immigrati.
Dei 138 terroristi presi
a campione dal database di START InSight, 65 (47%) sono migranti regolari; 36 (26%)
sono immigrati di seconda o terza generazione; 22 (16%) sono immigrati
irregolari. Quest’ultimo dato è in aumento e rappresenta il 32% dei
responsabili nel 2022. È anche significativo il numero di convertiti all’Islam
europei, che rappresentano il 6% degli attaccanti. Complessivamente, il 73% dei
terroristi sono residenti regolari, mentre il rapporto tra immigrati irregolari
e terroristi è di 1 a 6. Inoltre, nel 4% degli attacchi sono stati impiegati
bambini/minori (7) tra gli attaccanti.
L’aumento
del numero di migranti irregolari aumenta il potenziale rischio di terrorismo:
risultati della ricerca.
Come indicato, il 16%
dei terroristi sono immigrati irregolari (2014-2022): il 25% nel 2020, il 50% nel
2021 e il 32% nel 2022.
In Francia, il numero di
immigrati irregolari coinvolti in attacchi terroristici sta aumentando. Fino al
2017, nessun attacco aveva visto la partecipazione di immigrati irregolari; nel
2018, il 15% dei terroristi erano immigrati irregolari: nel 2020, hanno
raggiunto il 33% (18% nel 2022). Il Belgio ha riferito che nel 2019 sono stati
identificati alcuni richiedenti asilo legati al radicalismo o al terrorismo
(Europol).
C’è quindi un rischio
statistico, poiché più immigrati irregolari significano maggiori possibilità
che qualche terrorista possa nascondersi tra di loro o unirsi al terrorismo
jihadista in un secondo momento. Qui i risultati della ricerca. La nostra
analisi di correlazione di Pearson ha mostrato una correlazione positiva
moderata tra lo status di immigrato
dell’attaccante (regolare, irregolare, discendente) e il loro paese d’origine
con un coefficiente di correlazione di 0,652. Allo stesso modo, abbiamo trovato
una correlazione positiva moderata tra lo status
di immigrato della famiglia dell’attaccante e il loro paese d’origine con un
coefficiente di correlazione di 0,657. Tuttavia, non abbiamo trovato alcuna
correlazione significativa tra le altre combinazioni di dati. La nostra analisi
di regressione ha rivelato che le tre variabili indipendenti spiegavano circa
il 18% (R-quadrato di 0,177) della variazione della variabile dipendente, che è
il paese in cui si è verificato l’attacco. Inoltre, il modello di regressione
ha mostrato che il paese d’origine dell’attaccante era la variabile indipendente
più significativa nella previsione dell’occorrenza di attacchi. Nel complesso,
nonostante questa correlazione, non c’è un collegamento causale manifesto: la
scelta di diventare un terrorista non è determinata o influenzata dal proprio
status di immigrato, ma una serie di fattori come le esperienze individuali; le
condizioni di vita al momento dell’arrivo; i contatti volontari o involontari
con reti criminali o jihadiste possono tutti giocare un ruolo (Dreher, 2017;
Leiken, 2006).
Quali
conclusioni in merito alla correlazione tra immigrazione e terrorismo?
L’immigrazione
“contribuisce” alla diffusione del terrorismo da un paese all’altro,
ma l’immigrazione di per sé è improbabile che sia una causa diretta del
terrorismo. Finora non ci sono prove empiriche che i migranti di prima
generazione siano più inclini a diventare terroristi. Tuttavia, si ritiene che
i flussi migratori dai paesi a maggioranza musulmana dove il terrorismo è un
fenomeno consolidato influiscano significativamente sugli attacchi nel paese di
destinazione. È difficile sostenere l’esistenza di un legame causale tra i due
fenomeni: quindi, essere un migrante non sarebbe un fattore scatenante per
unirsi al terrorismo.
Tuttavia, ci sono altri
molteplici legami tra l’immigrazione e il terrorismo e tra gli immigrati e i
terroristi, in particolare: 1) criminalità organizzata – gruppi terroristici –
migranti irregolari; 2) terroristi rimpatriati – i terroristi europei che sono
andati in Siria sono infatti “migranti”: l’Europa può quindi essere
considerata un “esportatore” di terroristi; 3) migranti economici che
si uniscono al terrorismo durante il loro viaggio; e 4) migranti che si
uniscono alla jihad o migrano con l’intenzione di compiere attacchi, come
evidenziato dall’attacco terroristico a Nizza (Francia) del 29 ottobre 2020,
perpetrato da un immigrato irregolare che era sbarcato in precedenza in Italia
dalla Tunisia.
Il nostro studio
suggerisce una moderata correlazione positiva tra lo status migratorio dell’attentatore, l’origine familiare e il paese
di origine con la comparsa di attacchi terroristici nell’Unione europea.
La capacità offensiva del terrorismo sta
diminuendo? Dipende
Non è possibile dare una risposta univoca a questa
domanda in quanto dipende da diverse variabili e dal contesto in cui ci si
trova. Tuttavia, ci sono alcuni fattori che indicano una possibile riduzione
della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento delle
misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore cooperazione
internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle strutture
organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro capacità di
reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del terrorismo, è
necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si sviluppa e opera:
il livello strategico, operativo e tattico. La strategia consiste nell’impiego
del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego delle truppe per la
battaglia; il livello operativo si trova tra questi due. Questa è una semplice
sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale: l’impiego di combattenti.
Il
successo a livello strategico è marginale
Come anticipato con il precedente rapporto
#ReaCT2022, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di successo a
livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze strutturali
consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o
internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di
vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le
limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti
solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una
progressiva riduzione della capacità ed efficacia: il 75% dei successi
strategici è stato registrato nel 2014, il 42% nel 2015, il 17% nel 2016, il
28% nel 2017, il 4% nel 2018, il 5% nel 2019, il 12% nel 2020, il 6% nel 2021 e
lo 0% nel 2022.
Nel complesso, gli attacchi hanno attirato
l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello
nazionale, mentre le azioni commando
e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei
media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato
significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti
jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di
attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza
dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero
che questa attenzione tende a diminuire nel tempo, per due motivi principali:
il primo è la prevalenza di azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta
intensità – che sono diminuite – e sulle azioni a bassa e media intensità – che
sono aumentate significativamente dal 2017 al 2021. Il secondo motivo è che
l’opinione pubblica è sempre più abituata alla violenza terroristica e di
conseguenza meno “toccata”, in particolare dagli eventi a bassa e media
intensità.
Il
livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo
Assumendo che lo scopo degli
attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei
casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato
raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, va
considerato che l’ampio arco temporale tende ad influire sul margine di errore;
il trend nel periodo 2014-2022 indica
un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi a bassa
intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare almeno fino al 2019. In
particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a
livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli
insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un
tasso di fallimento del 20%. Un trend
complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a
livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un
ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il
risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi
e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi
suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il
carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed
emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel
2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una
nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.
Il
vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco
funzionale”.
Anche
quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo
obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo
straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone
l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i
servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità
collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle
attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle
comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio
tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in
generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla
capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini
è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.
In
altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può
comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il
comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di
sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo
“blocco funzionale”.
Nonostante
la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco
funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai
terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un
obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi
avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un
“blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del
92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se
si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio
è senza dubbio a favore del terrorismo.
[1] Sono stati presi in considerazione i seguenti
paesi: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca,
Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia,
Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno
Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Svizzera.
Il richiamo di Hamas e il rischio di terrorismo. Il commento del direttore C. Bertolotti a TGCOM 24
Dopo gli attacchi terroristici operati da Hamas e il Jihad Islamico nel sud
di Israele, e dopo la violenza inaudita utilizzata contro civili inermi, sembra
che si stia riproponendo il metodo jihadista utilizzato all’epoca aurea del
Califfato. Questo ha riacceso gli animi dei così detti lupi solitari in Europa.
Che rischi di emulazione si corrono sulla base di quanto accaduto in Francia e
Belgio?
Il terrorismo
jihadista, così come l’abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi anni, ha avuto
la sua massima espressione di violenza nel periodo 2015-2017, in concomitanza
con l’espansione dello Stato islamico in Siria e in Iraq. Anche grazie
all’amplificazione massmediatica, lo Stato islamico riuscì ad
attirare una serie di reclute, di adepti, ma anche semplicemente a ispirare soggetti
che poi colpirono in suo nome, pur senza fare parte dell’organizzazione. Dal
2018, gli attacchi terroristici sono diminuiti e si sono stabilizzati su numeri
comunque importanti per l’Europa. Parliamo di 18, 20 attentati all’anno, spesso
fallimentari e con una bassa attenzione mediatica. Azioni che non hanno
alimentato l’effetto emulativo.
Oggi,
al contrario, ci troviamo di nuovo in una situazione simile a quella del
2015-2017: non c’è più lo Stato islamico che si impone
mediaticamente, ma c’è la guerra, la contrapposizione fra israeliani e Hamas.
La
guerra tra Israele e Hamas è un grande evento che, purtroppo, alimenta la
minaccia potenziale – sempre in attesa di essere attivata – di singoli soggetti
emulatori, i quali aspirano a essere riconosciuti come mujaheddin ed
eventualmente shahid (martiri) imponendo, attraverso la violenza, il messaggio
jihadista del “noi contro voi”.
La
fabbrica dell’odio – se così possiamo chiamarla – è però sempre rimasta attiva,
non si è mai fermata, con riferimento a ciò che avviene in un mondo parallelo,
quello virtuale del Web dove la fabbrica dell’odio non soltanto esiste, ma si
consolida lentamente. Un mondo parallelo, nel quale tutto viene inteso e
interpretato in maniera assoluta e trasformato in una visione del mondo a senso
unico. Chi entra in questa bolla virtuale, alla fine crede di essere portatore
di un’istanza di massa contro l’Occidente, che inevitabilmente diventa il
nemico da abbattere. Piùdei luoghi fisici, cioè più delle moschee
e più dei centri sociali di incontro dei radicalizzati, il Web è così diventato
da molto tempo il terreno di confronto e di raccolta di informazioni degli
estremisti.
Presentazione del Rapporto #ReaCT2023 a Lugano il 6 ottobre
Ad oltre venti anni dagli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno aperto un lungo capitolo di lotta al terrorismo sotto varie forme, la minaccia non solo non è svanita, ma è oggi più diffusa, frammentata e complessa da affrontare.
In Occidente,
lo scenario dell’estremismo violento è oggi caratterizzato da una varietà di
ideologie, orientamenti, profili e motivazioni, spesso sovrapposte o
indefinite, che rendono più difficile indicarne la portata, prevedere il
rischio e tracciare l’evoluzione del fenomeno.
Le iniziative di contrasto e prevenzione implicano una collaborazione multidisciplinare fra attori diversi e un dialogo costante tra ricercatori, operatori sul campo, forze dell’ordine, legislatori e società civile. Di fronte alla capacità di adattamento del terrorismo e al ‘new normal’ della radicalizzazione che definisce l’epoca attuale, è importante aggiornare le conoscenze, gli approcci e gli strumenti a nostra disposizione.
Invito alla presentazione del 4° Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa #ReaCT2023
Venerdì 6 ottobre 2023, ore 17.30 Lugano, Università della Svizzera italiana Auditorium, Palazzo Centrale
PROGRAMMA Introduce i lavori Jean-Patrick Villeneuve, Direttore dell’Istituto di Comunicazione e Politiche pubbliche, Università della Svizzera Italiana Saluti istituzionali dell’On. Norman Gobbi,Dipartimento delle Istituzioni, Cantone Ticino (videomessaggio)
Ore 17.45 INTERVENTI “Terrorismi ed estremismi in continua evoluzione: il Rapporto #ReaCT2023”
Claudio Bertolotti, Direttore dell’Osservatorio ReaCT, ricercatore Chiara Sulmoni, Presidente di START InSight, giornalista, analista Marco Lombardi, Prof. e direttore del centro di ricerca ITSTIME, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Ore 18.15 TAVOLA ROTONDA “Il contrasto e la prevenzione del terrorismo e dell’estremismo violento. Prospettive svizzere e italiane”
On. Rocco Cattaneo, Consigliere nazionale, Commissione della politica di sicurezza Martin von Muralt, Delegato della Rete integrata svizzera per la sicurezza (intervento in francese) Diego Parente, Direttore centrale della Polizia di Prevenzione, Polizia di Stato (in collegamento da Roma) Michela Trisconi, Capo-progetto, Piattaforma cantonale di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento
Le definizioni, le categorie e l’idea stessa del terrorismo e dell’estremismo violento sulle cui basi sono state concepite le strategie di prevenzione e contrasto degli ultimi anni, che si sono concentrate soprattutto sulla lotta alla mobilitazione jihadista e al gruppo Stato Islamico, non corrispondono più alla realtà sul terreno o, quantomeno, non bastano a contenerla. In Occidente lo scenario attuale è caratterizzato da una varietà di ideologie, orientamenti, profili e motivazioni, spesso sovrapposte o indefinite, che rendono più difficile indicarne la portata, prevedere il rischio e tracciare l’evoluzione di questi fenomeni.
Keywords Accelerazionismo, incels, jihadismo, sovereign citizens
Una realtà sempre più intricata Il terrorismo di matrice jihadista rimane la forma di violenza più letale, sia in Europa che a livello globale. Tuttavia, non più solo gli analisti ma anche un Rapporto presentato dal Segretario generale dell’ONU (2022) attira l’attenzione sull’aumento degli attacchi di natura xenofoba, razzista, contro le minoranze o dovuti ad altre forme di intolleranza, nel nome della religione o altre credenze, nonché sulla crescita di misoginia, antisemitismo e islamofobia (1); a preoccupare gli Stati membri, in particolare, è la dimensione transnazionale che può assumere questa minaccia; cosa che notoriamente avviene sia attraverso le relazioni e le reti intessute online, che tramite la partecipazione ad incontri nel mondo reale, in occasione di eventi comuni o anche addestramenti paramilitari. I cosiddetti ‘manifesti’, veri e propri testamenti ideologici lasciati dagli attentatori di vari orientamenti, con richiami a stragisti e stragi avvenute in precedenza anche in aree geografiche distanti tra loro, mostrano come vi sia una condivisione di argomenti e rivendicazioni a diverse latitudini. La battaglia contro la propaganda è particolarmente difficile a causa della molteplicità degli strumenti di comunicazione utilizzati da militanti e simpatizzanti, tra piattaforme social e di gioco (gaming), messaggistica, canali di informazione alternativa e forum. Le tensioni politiche ed economiche che hanno caratterizzato la fase acuta della pandemia di COVID19, sommate alle vulnerabilità e predisposizioni personali, hanno dato inoltre un’accelerazione ad atteggiamenti di sfiducia e antagonismo verso le istituzioni, favorendo l’adesione alle teorie cospiratorie e la diffusione della disinformazione, che costituiscono la trama delle narrative estremiste, promuovono la radicalizzazione e l’incapsulamento sociale, possono spingere alla violenza contro simboli e/o rappresentanti politici e si adattano rapidamente ai nuovi scenari, come ad esempio la guerra in Ucraina-. Movimenti, sub-culture e complottismi tipicamente americani – come ad esempio l’accelerazionismo, i sovereign citizens, gli incels (celibi involontari) e QAnon – sono stati progressivamente inglobati ed adattati al panorama europeo. I dati del Global Terrorism Index (GTI) 2022 e 2023 mettono in rilievo come, in Occidente, il terrorismo ideologico (attacchi di estrema destra e sinistra) sull’arco degli ultimi dieci anni abbia superato di oltre tre volte quello di matrice religiosa.
Profili e obiettivi si moltiplicano Gran parte delle azioni di matrice ideologica sono ad opera di individui che non appartengono a gruppi formalmente (ri)conosciuti tanto che, fa notare sempre il GTI 2023, l’intelligence di diversi paesi si astiene dall’attribuzione a sigle di estrema destra o sinistra. L’età di chi è attratto dall’estremismo si è progressivamente abbassata nel corso degli ultimi anni, particolarmente in Gran Bretagna dove nelle inchieste sono coinvolti anche teenagers al di sotto dei 15 anni (2). I ricercatori sono però stati in grado di osservare ulteriori sfumature, vale a dire che in presenza di motivazioni legate alla misoginia (nel caso degli incels, ad esempio), i soggetti tendono ad avere un’età inferiore rispetto a chi è ostile alle minoranze (e nutre sentimenti anti-immigrazione, ad esempio (3) ). Un’analisi pubblicata dall’Institute for Strategic Dialogue all’indomani dell’attacco al centro migranti di Dover nel 2022 (Comerford, Squirrel, Leenstra, Guhl) sottolinea l’importanza di non concentrarsi su un’unica tendenza: “the increasingly singular focus on ‘vulnerable’ younger terrorists has created a blind-spot for older perpetrators and the radicalisation of an older generation of people, statistically more likely to be involved in acts of terrorism, often driven by hatred towards various marginalised groups rather than a coherent ideology” (4) . Anche nel caso del jihadismo, in Europa si è da tempo consolidato un trend post-organizzato, con attacchi portati avanti da singoli (ma non necessariamente solitari) attentatori motivati tanto da convinzioni solide quanto da problematiche personali e mentali che sfociano nella violenza, e le cui azioni tendono ad assumere la forma di eventi talvolta improvvisati, con “armi” facilmente reperibili, “ispirati” (piuttosto che rivendicati) e isolati, rispetto ad un più ampio obiettivo di gruppo. Gli attacchi continuamente sventati e l’alto numero di arresti indicano come -nonostante un lavoro di contrasto più efficiente- questa matrice non tenda affatto ad affievolirsi, ma sia piuttosto in costante evoluzione. Nel suo ultimo Rapporto (TESAT 2022) Europol segnala infatti di aver smantellato una serie di gruppi intenti a pianificare attacchi con modus operandi più complessi. Questo scenario stratificato è dunque dinamico e imprevedibile, caratterizzato dalla presenza di ideologie e motivazioni anche contrapposte che si rafforzano a vicenda dando forma al cosiddetto estremismo cumulativo (è ciò che accade, ad esempio, tra jihadismo ed estrema destra); oppure, da gruppi e individui con orientamenti diversi, che rappresentano a loro volta livelli di rischio diversi (non tutti violenti), uniti da una convinzione comune -come nel caso del network tedesco anti-governativo e anti-democratico Reichsbürger (con ramificazioni anche in Austria, Svizzera, Italia), salito alla ribalta a dicembre 2022 dopo una retata in Germania. Una frangia era accusata di pianificare un colpo di Stato. Come scrive Alexander Ritzmann in un’analisi per la rivista specializzata CTC Sentinel, “the only thing that connects them is the fundamental denial of the legitimacy of the German state. This is one of the main reasons why German authorities have a somewhat difficult time assessing their (changing) potential for violence and terrorist acts in comparison to more ideologically coherent, unified, and structured extremist movements” (5) . Di fronte a una realtà così composita, si allarga anche il cerchio degli obiettivi che – fra semplici cittadini negli spazi pubblici, luoghi di culto e rappresentanti religiosi, istituzioni e figure di governo, forze dell’ordine e membri delle forze armate, autorità e personale sanitario (nel caso di no-vax e negazionisti del COVID), infrastrutture (target di sabotaggi e cyberattacchi), docenti, donne, minoranze (fra cui la comunità LGBT+), centri d’accoglienza per migranti e via dicendo – è potenzialmente infinito.
Le sfide della prevenzione. Cambiano i temi e le priorità Oggi i cosiddetti “everyday extremists” possono emergere in un contesto che il Prof. Gilles Kepel definisce di “jihadismo d’atmosfera”, in cui fomentatori d’odio scatenano la rabbia collettiva contro un obiettivo -una persona accusata, ad esempio, di blasfemia- con esiti che possono essere mortali se soggetti radicalizzati prendono l’iniziativa ed agiscono su questa spinta; oppure nel quale posizioni e atteggiamenti radicali, controversi e violenti ottengono visibilità sulla rete e sui social media anche grazie a figure di riferimento e influencers che hanno un ampio seguito sia tra i giovanissimi che tra gli adulti (ad esempio nel caso della misoginia o del complottismo), mentre teorie cospiratorie e disinformazione si fanno strada nel pensiero corrente (mainstream) e anche nelle istituzioni tramite l’elezione di figure politiche ‘di rottura’. In questo quadro, in cui la minaccia non è rappresentata unicamente dalle ideologie violente, ma da una retorica violenta che può affondare le radici anche in una mentalità più o meno diffusa, la prevenzione assume un ruolo di primo piano, con un ventaglio di destinatari più ampio rispetto al passato, e richiede come mai prima d’ora il coinvolgimento della società civile. Con prevenzione si intende infatti, essenzialmente, un insieme di attività e iniziative di natura non securitaria, portate avanti da istituzioni pubbliche e private, ONG e organizzazioni varie (anche assistenziali), concepite per anticipare e diminuire il rischio di adesione all’estremismo; atte, ad esempio, a promuovere la coesione sociale e dare sostegno a persone vulnerabili. Una prevenzione al passo con le tendenze attuali richiede interventi maggiormente diversificati rispetto a quelli messi in campo nella lotta contro lo jihadismo, con nuovi temi e priorità. Da tempo si ritiene – giustamente – che il settore educativo e la scuola debbano svolgere un ruolo fondamentale nel fornire ai giovani, che sono sempre più esposti a un ecosistema virtuale tossico, dei validi strumenti di difesa come la competenza tecnologica e lo spirito critico. Ma è solo una faccia della medaglia: nonostante internet fin dall’inizio della pandemia abbia fatto la parte del leone nel facilitare la radicalizzazione, una ricerca effettuata su un campione di jihadisti che sono entrati in azione fra il 2014 e il 2021 in 8 paesi occidentali ha messo in luce che chi si radicalizza offline rappresenta ancora la maggioranza e soprattutto un grado di pericolosità superiore -“those radicalised offline are greater in number, more successful in completing attacks and more deadly than those radicalised online” (6) . Ciò che riporta l’attenzione sull’importanza del contesto -domestico, famigliare, sociale e locale (la cosiddetta comunità) da sempre considerato cruciale nella svolta verso la radicalizzazione, ma talvolta sottovalutato. Un altro studio condotto in Spagna da un team internazionale, basato fra l’altro sulle scansioni cerebrali di (simpatizzanti) jihadisti in vari stadi di radicalizzazione, ha confermato da un lato, il ruolo dell’esclusione sociale come fattore rilevante nel processo di radicalizzazione (processo che essenzialmente spinge verso una rigidità mentale, o verso una progressiva propensità a “combattere e morire per i propri valori sacri”, come dimostra la ricerca) e, dall’altro, l’influenza della pressione sociale nel riportare l’individuo a “ragionare”, allontanandolo dalla violenza grazie alla riattivazione di aree del cervello che si erano in precedenza “spente” (7) . Se oggi l’onda sta cambiando e sempre più minorenni – e adulti – rischiano di finire nelle maglie di un estremismo recepito in rete, e nonostante servano più studi comparativi per comprendere meglio peculiarità e somiglianze fra i diversi tipi di radicalizzazione, è comunque importante non perdere di vista l’elemento di (ri) socializzazione insito in questi processi. Così come è determinante riconoscere il ruolo delle “grievances” -cioè del senso di ingiustizia, reale o percepito- poiché è su questo aspetto trasversale a tutte le ideologie, che fa leva la narrativa estremista, che si tratti di difendere la mascolinità, la razza, o l’Islam. La prevenzione dovrà dunque puntare anche su questo: non solo spirito critico e contro-narrativa (la cui efficacia è contestata) ma una narrativa alternativa, una proposta di modelli positivi e opportunità nel mondo reale, dopo l’isolamento causato dalla pandemia.
Note 1. Terrorist attacks on the basis of xenophobia, racism and other forms of intolerance, or in the name of religion or belief, Report of the Secretary-General, August 3, 2022 2. The number of young people arrested on suspicion of terrorism related offences in the UK continues to rise, statistics reveal, News, Counter-Terrorism Policing, 9 March 2023 3. See: Roose, J., Interview on “Masculinity and Violent Extremism”, #ReaCT2023, pp. 128-129. 4. Comerford, M., Squirrell, T., Leenstra, D., and Guhl, J., What the UK Migrant Centre Attack Tells Us About Contemporary Extremism Trends, ISD, 14th November 2022 5. Ritzmann, A., The December 2022 German Reichsbürger Plot to Overthrow the German Government, CTC Sentinel, March 2023, Vol. 16, Issue 3 6. Hamid, N. and Ariza, C., Offline Versus Online Radicalisation: Which is the Bigger Threat?, Global Network on Extremism and Technology, February 2022. 7. Nafees Hamid discusses his research at length in: Deradicalizzazione: dentro la mente jihadista, a documentary by Chiara Sulmoni which was aired by RSI (RadioTelevisione Svizzera di Lingua Italiana) on 22nd September 2020
A partire da mercoledì 31 maggio, a scadenza settimanale, START InSight propone una serie di LIVE streamings con gli autori dei diversi contributi su terrorismo, radicalizzazione e prevenzione, pubblicati nel Rapporto #ReaCT2023. Le dirette, trasmesse sui profili social, saranno in seguito disponibili su questa pagina. Buona visione!
mercoledì 31 maggio Claudio Bertolotti, Direttore dell’Osservatorio ReaCT L’evoluzione del terrorismo in Europa Antonio Giustozzi, Senior Research Fellow, RUSI (London) Il jihadismo in eterna trasformazione
mercoledì 7 giugno Paolo Pizzolo, Università Jagellonica di Cracovia e CEMAS, Roma Jihad nei Balcani: una miccia mai spenta nella ‘polveriera d’Europa’
mercoledì 14 giugno Chiara Sulmoni, START InSight Estremismo violento e radicalizzazione, scenari più complessi Luca Guglielminetti, Ass. Leon Battista Alberti e RAN (Radicalisation Awareness Network) Il ruolo della società civile nella prevenzione e nel contrasto all’estremismo violento
mercoledì 21 giugno Andrea Molle, Associate Professor alla Chapman University (California) e Senior Research Fellow, START InSight Il movimento dei sovereign citizens
mercoledì 28 giugno Patrick Trancu, consulente in gestione di crisi La gestione di crisi nel XXI secolo
mercoledì 12 luglio Elena Maculan, Prof. di Diritto Penale presso l’UNED (Madrid) L’esecuzione delle pene per reati di terrorismo in Spagna
mercoledì 19 luglio Francesco Rossi, giurista, ricercatore presso l’Universidad Carlos III (Madrid) Il contrasto al terrorismo internazionale nelle fonti penali
giovedì 27 luglio Marco Lombardi, Prof. di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Direttore del centro di ricerca ITSTIME Tre argomentazioni per una Nuova Agenda del Terrorismo 2023 Barbara Lucini, docente alla Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e ricercatrice di ITSTIME Le pratiche di vetting nei processi di radicalizzazione di estrema destra
LIBRO SIMTERRORISM – Modeling Religious Terrorism in Populations impacted by Climate Change
This volume examines the combined effects of risk propensity, relative deprivation, and social learning of deviance on the collective grievance within a religious population under the assumption of civil unrest caused by extreme climatic events. We designed an agent-based model to demonstrate how greater or lesser amounts of grievance towards political authority are likely to create an ideal en-vironment for organized violence to emerge when resources are threatened by climate change.
Scholars have tried to formulate a generally accepted definition of religious terrorism for almost four decades, but its investigation is still controversial, especially in the context of the emerging study of the political and social consequences of climatic events. This particular form of terrorism is nevertheless highly diffuse and observed to be coming from smaller clubs of radicalized individuals instead of main-stream religious groups. However, we find that doctrinal explanations appear irrelevant in explaining how terrorist cells emerge and organize themselves.
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🔴@cbertolotti1 a FanPage sulle varie ipotesi dell'attacco👉"(...) non si tratterebbe di droni in grado di fare danni significativi, ma piuttosto di una tipologia di equipaggiamento in grado di fare danni limitati con l'obiettivo di portare l'attenzione mediatica sulla questione" twitter.com/cbertolotti1/s…
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