2 dicembre. Un uomo si è lanciato contro i passanti uccidendo una persona e ferendone altre a Parigi, nel quartiere di Grenelle, poco lontano dalla Tour Eiffel, gridando “Allah Akbar”. Lo ha reso noto il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin. L’assalitore è stato fermato dalle forze dell’ordine: l’aggressore ha 25 anni ed era schedato “S”, cioè a rischio radicalizzazione (ANSA).
Un evento, quello descritto, che può richiamare l’ondata di violenza jihadista associata all’appello dell’organizzazione palestinese “Hamas”, e subito ripresa dalla succursale afghana dello Stato islamico, che si inserisce nel filone di azioni terroristiche emulative, individuali e non organizzate che negli ultimi anni hanno più colpito la Francia, il Paese che si conferma essere tra i principali obiettivi del jihadismo in Europa.
La
violenza jihadista in Europa: una minaccia marginale ma persistente con
conseguenze devastanti.
A livello globale, il cosiddetto
gruppo Stato Islamico non ha più la
capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e
finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano
una minaccia non marginale. Anche se lo Stato
Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che
riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha
ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla
guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in
Afghanistan ha, a sua volta, alimentato la propaganda jihadista e la
competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere
l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. Un
effetto ancora maggiore deriverebbe dalla guerra Israele-Hamas, dall’appello
dei terroristi palestinesi a colpire Israele e tutti i suoi alleati e dall’adesione
individuale di terroristi improvvisati così come dall’adesione politica e
ideologica dello Stato islamico della
provincia di Khorasan in Afghanistan (Islamic
State Khorasan Province, ISKP), erede dello Stato islamico in Siria e Iraq (ISIS).
Guardando ai paesi dell’Unione
Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero
totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la
minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime ed
effetti diretti.
In seguito ai principali eventi
di terrorismo legati al gruppo Stato
Islamico in Europa, dal 2014 al 2023 si sono verificate oltre 200 azioni
jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 36 sono state
esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato
Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 236
terroristi (63 uccisi in azione); 432 vittime hanno perso la vita e 2.515 sono
rimaste ferite.
Rilevante è il numero di azioni
emulative: il 48% del totale nel 2020, salite al 56% nel 2021, diminuite al 17%
nel 2022, per poi tornare a salire in maniera rilevante nel 2023, in
concomitanza con gli appelli alla violenza di Hamas e della Jihad islamica palestinese, rilanciati con
efficacia dall’ISKP afghano. Il 2022-2023 ha confermato anche la predominanza
di azioni individuali, non organizzate, principalmente improvvisate e fallite
che sostituiscono di fatto le azioni strutturate e coordinate che avevano
caratterizzato il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni dal
2015 al 2017.
Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence
Il profilo dell’attentatore del 2 dicembre a Parigi,
già noto alle forze di sicurezza, precedentemente coinvolto in azioni
terroristiche e classificato come a “rischio di radicalizzazione”, è coerente
con quello di molti terroristi che hanno colpito in precedenza. Un fatto che
conferma come il ruolo giocato dai recidivi – individui già condannati per
terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro condanna detentiva
e, in alcuni casi, in prigione – non sia trascurabile; erano il 3% dei
terroristi nel 2018, poi saliti al 7% nel 2019, al 27% nel 2020. Un’evidenza
che confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una
condanna detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche;
questa evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei
prossimi anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi
attualmente detenuti.
In parallelo ai recidivi, START InSight ha
riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da
terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei
che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022,
nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.
Vi è una certa stabilità riguardo alla
partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in
carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11%
nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021,
33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma
l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.
Quale è oggi la capacità offensiva del terrorismo?
Ci sono alcuni fattori che indicano una possibile
riduzione della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento
delle misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore
cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle
strutture organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro
capacità di reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del
terrorismo, è necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si
sviluppa e opera: il livello strategico, operativo e tattico. La strategia
consiste nell’impiego del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego
delle truppe per la battaglia; il livello operativo si trova tra questi due.
Questa è una semplice sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale:
l’impiego di combattenti.
Il
successo a livello strategico è marginale
Come anticipato con il rapporto #ReaCT2022 e poi
richiamato in #ReaCT2023, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di
successo a livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze
strutturali consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale
e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di
vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le
limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti
solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una
progressiva riduzione della capacità ed efficacia con il passare del tempo.
Nel complesso, gli attacchi hanno attirato
l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello
nazionale, mentre le azioni commando
e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei
media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato
significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti
jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di
attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza
dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero
che questa attenzione tende a diminuire nel tempo poiché sono aumentate le
azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta intensità – che sono
diminuite – mentre le azioni a bassa e media intensità sono aumentate significativamente
dal 2017 al 2021.
Il
livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo
Assumendo che lo scopo degli
attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei
casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato
raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, si
rileva un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi
a bassa intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare. In
particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a
livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli
insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un
tasso di fallimento del 20%. Un trend
complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a
livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un
ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il
risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi
e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi
suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il
carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed
emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel
2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una
nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.
Anche quando fallisce, il terrorismo ottiene una vittoria
Il
vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco
funzionale”.
Anche
quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo
obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo
straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone
l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i
servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità
collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle
attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle
comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio
tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in
generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla
capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini
è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.
In
altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può
comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il
comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di
sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo
“blocco funzionale”.
Nonostante la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un “blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del 92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio è senza dubbio a favore del terrorismo.
Italia, riforma dell’intelligence: “lavorare sul funzionamento, non sulla struttura”
Nel 2023 il governo
italiano ha avviato una riflessione attorno a una riforma dell’Intelligence che
dovrebbe vedere la luce il prossimo anno.
In cosa consiste questo cambiamento, quali sono le ragioni, come funziona il sistema informativo ma soprattutto, come e dove bisognerebbe intervenire? Ecco le risposte del nostro esperto sul tema, il Senior Research Fellow Niccolò Petrelli, docente di Studi Strategici all’Università Roma Tre.
Perché riformare il
sistema informativo italiano?
Il nostro sistema informativo soffre di problemi di funzionamento, come sottolineato in diverse occasioni da addetti ai lavori, la sua efficacia è minata dalla persistente frammentazione tra le tre componenti, il DIS (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza), l’AISE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna) e l’AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna), un qualche tipo di intervento per correggere il problema è necessario.
l’efficacia del sistema informativo è minata dalla persistente frammentazione tra le tre componenti, il DIS, l’AISE e l’AISI
La creazione di un
servizio unico, ovvero la centralizzazione del sistema, è una soluzione
praticabile?
Certamente, ma ci sono ostacoli burocratici non da poco, nonché timori e resistenze che, sulla scorta della travagliata storia degli apparati informativi nell’Italia repubblicana, la proposta di creare un servizio informazioni unificato potrebbe generare in parte della classe politica e dell’opinione pubblica. Modificare l’architettura organizzativa del sistema di intelligence inoltre non è l’unica opzione per risolvere il problema della frammentazione e migliorarne la performance. Una soluzione alternativa potrebbe essere lavorare sul funzionamento del sistema, invece che sulla sua struttura.
La letteratura sulla progettazione organizzativa mostra chiaramente che l’elemento chiave per rendere un’organizzazione efficace è allineare i suoi processi di lavoro con la funzione da essa espletata e, soprattutto, con l’ambiente in cui l’organizzazione opera. Chiaramente sia un assetto centralizzato che uno decentralizzato hanno i propri vantaggi e svantaggi, tuttavia una serie di fattori sembrano rendere quest’ultimo più appropriato per il nostro sistema di intelligence oggi.
Infatti, in primo luogo è noto che un assetto decentralizzato risulta adatto per organizzazioni che, come i servizi informativi, operano oggi a beneficio di vari “clienti”; in secondo luogo, una struttura decentralizzata come quella attuale, promuovendo flessibilità, appare più in linea con la natura instabile e cangiante del contesto in cui il sistema informativo italiano si trova oggi ad operare; terzo ed ultimo, i problemi di coordinamento che inevitabilmente sono associati ad una struttura decentralizzata possono essere oggi meglio gestiti grazie alla disponibilità di sistemi e tecnologie digitali che favoriscono comunicazione, pianificazione e monitoraggio delle attività quasi in tempo reale.
una soluzione alternativa potrebbe essere lavorare sul funzionamento del sistema, invece che sulla sua struttura
Come procedere dunque?
Il costrutto-guida teorico
più adatto credo sia il concetto di “integrazione” (Jointness). Nella
teoria dell’intelligence con “integrazione” si fa riferimento ad un
livello di interazione tra le varie componenti del sistema più avanzato
rispetto a forme di collaborazione occasionali, che
sono piuttosto frequenti, come la condivisione di strutture (sistemi,
database), e prodotti (rapporti, analisi) o la formazione di gruppi di lavoro ad
hoc. L’“integrazione” si riferisce infatti alla creazione di nuove capacità
sistemiche attraverso la fusione delle risorse e delle competenze delle varie
componenti dello stesso. Tre sono le linee di riforma ritenute essenziali per
la creazione di tali capacità sistemiche: ridondanza, riordino dei processi di
lavoro, autonomia. La ridondanza si riferisce alla generazione all’interno
delle varie componenti del sistema di surplus di competenze analoghe rispetto
alle rispettive esigenze, sia per quanto concerne metodologie di raccolta delle
informazioni sia in relazione a tecniche analitiche.
Il secondo elemento, il
riordino dei processi lavorativi, contempla invece che all’interno delle varie
componenti del sistema, accanto ai classici processi lineari, paralleli e
funzionalmente segmentati, si sviluppino anche in pari misura processi “di
rete” che eliminino la tradizionale separazione tra la raccolta e
l’elaborazione delle informazioni, ad esempio attraverso l’istituzionalizzazione
di gruppi di lavoro che, in ambiti specifici, operino congiuntamente lungo l’intero
“ciclo dell’intelligence” su base permanente.
Infine, per quanto riguarda l’autonomia, ci si riferisce al trasferimento di autorità pratica dai capi reparto ai sottoposti in un modello analogo al “mission command” da tempo in uso nelle forze armate di molti paesi occidentali, in cui i componenti di ogni unità godono della massima autonomia nella gestione dei compiti affidati dai vertici che si limitano, da parte loro, a operare come facilitatori, “abilitatori” e “sintetizzatori” dei prodotti finali.
La teoria fa apparire le
cose sempre semplici e lineari, ma come e dove bisognerebbe intervenire? Che
cosa ci dice di rilevante in merito la storia del sistema informativo italiano?
Storicamente il sistema di intelligence della Repubblica italiana ha mostrato una più che buona predisposizione all’integrazione orizzontale, sia all’interno delle singole agenzie, sia nelle interazioni esterne tra le stesse. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare che già il primo apparato informativo militare della repubblica, il Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR), era strutturato in due branche principali, una offensiva e l’altra difensiva ognuna delle quali deputata alla gestione di entrambe le funzioni principali, raccolta e analisi delle informazioni, nei rispettivi ambiti di competenza. I successori del SIFAR, il Servizio Informazioni Difesa (SID), il Servizio Informazioni e Sicurezza Miliare (SISMI), così come poi il Servizio Informazioni e Sicurezza Democratica (SISDE) pur sviluppando strutture più articolate, hanno sempre mantenuto assetti organizzativi di tipo ibrido in cui le funzioni di raccolta e analisi erano compartimentate in alcuni ambiti e fuse in altri.
storicamente il sistema di intelligence della Repubblica italiana ha mostrato una più che buona predisposizione all’integrazione orizzontale
Per
quanto riguarda le interazioni tra le varie agenzie, dalla storia del sistema
informativo italiano emerge chiaramente come, anche in situazioni di accesa
rivalità, le varie componenti abbiano dimostrato eccellenti capacità sia di
coordinamento che di cooperazione. Tra il 1951 ed il 1954 SIFAR e la Divisione
Affari Riservati (DAR) del Ministero dell’Interno collaborarono efficacemente
attraverso tavoli di lavoro a scadenza regolare per coordinare le penetrazioni
della rete informativa Los Angeles, impiantata dall’intelligence
militare USA nell’Italia nordorientale (sfruttando ex-ufficiali nazisti ed i
loro collaboratori) e tentare di appropriarsene.
Anche la documentazione disponibile sul caso del rapimento di Aldo Moro mostra una notevole attitudine all’integrazione orizzontale da parte dell’apparato informativo. Infatti, in una condizione di gravissima crisi, il Comitato Esecutivo per le Informazioni e la Sicurezza – CESIS, il Servizio Informazioni e Sicurezza Militare – SISMI, ed il Servizio Informazioni e Sicurezza Democratica – SISDE, in diverse sedi (i noti “Comitati” istituiti dall’allora Ministro dell’Interno Cossiga) cooperarono abbattendo de facto le barriere tra raccolta ed analisi, condividendo non solo informazioni, ma in molti casi comunicandone le fonti, e conducendo analisi congiunte di specifici eventi, così come dell’evoluzione generale della situazione. Nonostante la mancanza di risultati rispetto all’obiettivo primario di fornire informazioni rilevanti per la liberazione dell’ostaggio, la collaborazione tra le componenti del sistema informativo che ebbe luogo durante i quasi due mesi del sequestro Moro si sarebbe rivelata di notevole importanza nel periodo immediatamente successivo, non solo come “esperimento organizzativo” utile a definire percorsi di cooperazione, ma anche per sviluppare il quadro informativo alla base delle operazioni anti-terrorismo condotte sotto il comando del Generale Dalla Chiesa.
la documentazione d’archivio disponibile evidenzia importanti lacune in relazione alla dimensione verticale dell’integrazione
Al contrario, la documentazione d’archivio disponibile evidenzia importanti lacune in relazione alla dimensione verticale dell’integrazione. Il principale organo di coordinamento e sintesi informativa creato dalla legge 801/1977, ovvero il CESIS, nel corso degli anni ha svolto un ruolo sempre più incisivo, i suoi poteri tuttavia sono de facto rimasti più circoscritti rispetto a quanto effettivamente previsto nella disciplina di legge. Ciò, a sua volta, ha fatto sì che in ultimo l’efficacia del CESIS sia storicamente rimasta molto legata alle capacità individuali del Segretario Generale.
Da
quanto ha detto sembra si possa concludere che gli interventi da attuarsi
sull’apparato informativo dovrebbero capitalizzare sul buon livello di
integrazione orizzontale esistente e, al contempo, correggere lo scarso livello
di integrazione verticale, è così?
Si. Non possiamo
ovviamente essere sicuri che l’attuale sistema d’intelligence italiano
sia ancora caratterizzato da alti livelli di integrazione orizzontale di cui
abbiamo parlato prima. L’ipotesi più plausibile, tuttavia, è la situazione non
sia cambiata molto da quel punto di vista, e che la creazione del Dipartimento
delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) in luogo del CESIS, abbia solo in
parte sanato le carenze in materia di integrazione verticale. Gli interventi
sul sistema di intelligence dovrebbero dunque mirare a: espandere lo
spazio di interazione delle due agenzie operative al fine di rafforzare
ulteriormente l’integrazione orizzontale, e consentire al DIS di perseguire quelle che
potremmo chiamare forme di “integrazione verticale a monte” sul
processo di produzione dell’intelligence.
Come visto in precedenza nella cultura organizzativa di entrambe le agenzie operative esiste una forte attitudine alla fusione di raccolta e analisi, così come, a mettere in pratica sia all’interno che all’esterno, processi di lavoro congiunti e non funzionalmente segmentati. Al fine di sfruttare questo vantaggio comparato, la riforma del sistema dovrebbe puntare sull’incrementare l’autonomia, spingendola quanto meno a livello di aree (introdurre ridondanza è più semplice e può essere fatto attraverso il reclutamento). Ciò rafforzerebbe ulteriormente l’integrazione orizzontale creando dei potenziali spazi di lavoro congiunti tra le agenzie operative da attivarsi in base alle necessità.
la riforma del sistema dovrebbe puntare sull’incrementare l’autonomia, spingendola quanto meno a livello di aree
Per quanto riguarda l’integrazione verticale, in cui invece come si è visto il sistema è relativamente debole, una soluzione potrebbe essere rappresentata dal consentire al DIS di integrare all’interno delle proprie attività un maggior numero di “passaggi intermedi” nel processo di produzione dell’intelligence. In altre parole dovrebbe essere consentito al Dipartimento di esercitare un ruolo di coordinamento (operando di fatto come “abilitatore”/”facilitatore”) sulle attività congiunte delle agenzie operative fino al livello più basso a cui si intende spingere l’integrazione orizzontale. Solo in tal modo sembra possibile lasciarsi definitivamente alle spalle le lacune croniche di integrazione verticale di cui il sistema sembra soffrire dal 1977.
Da ultimo, vale la pena ribadire che, come più volte sottolineato, essenziale per il rafforzamento dell’integrazione e la creazione di un surplus capacitivo è il reintegro del Reparto Informazioni per la Sicurezza (RIS) nel Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica. Ciò alla luce del fatto che il RIS dispone di una serie di risorse per la raccolta tecnica la cui condivisione in un sistema d’intelligence relativamente piccolo come quello italiano potrebbe essere di fondamentale importanza.
la soluzione al problema della frammentazione non passa dalla centralizzazione del processo di produzione dell’intelligence ma dalla centralizzazione della conoscenza
In sintesi, dunque, la soluzione qui prospettata potrebbe risolvere il problema della frammentazione non attraverso la centralizzazione del processo di produzione dell’intelligence, come avverrebbe con la creazione di servizio unico, ma mediante la centralizzazione del suo output, ovvero della conoscenza.
Niccolò Petrelli è
Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma
Tre, dove insegna Studi Strategici, e Senior Research Fellow per Start InSight.
I numeri del terrorismo jihadista in Europa: risultati e uno sguardo in prospettiva
La violenza jihadista in Europa: una minaccia persistente con conseguenze devastanti.
A livello globale, il cosiddetto gruppo Stato Islamico non ha più la capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano una minaccia non marginale. Anche se lo Stato Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in Afghanistan potrebbe a sua volta alimentare la propaganda jihadista e la competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. In tale ottica, le crescenti forze estremiste nell’Africa subsahariana rappresentano una minaccia in evoluzione per la stessa Europa. La presenza di gruppi che si rifanno all’idea e all’esperienza dello Stato Islamico in Africa si concentra sulla lotta contro il cristianesimo, portando alla violenza contro missionari, ONG e villaggi cristiani.
Oggi, in particolare, la chiamata alla “rabbia dei musulmani” fatta dal gruppo terrorista palestinese Hamas, ha svolto un ruolo di attivatore nei confronti di quei soggetti predisposti a commettere attivi di violenza jihadista, spesso disorganizzati e improvvisati, ma non per questo meno pericolosi.
Guardando ai paesi dell’Unione
Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero
totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la
minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime – da
16 vittime nel 2020 a 13 nel 2021 e 9 nel 2022 – ed effetti diretti.
In seguito ai principali eventi
di terrorismo legati al gruppo Stato
Islamico in Europa, dal 2014 al 2022 si sono verificate 182 azioni
jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 34 sono state
esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato
Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 225
terroristi (63 uccisi in azione); 428 vittime hanno perso la vita e 2.505 sono
rimaste ferite.
Il numero di eventi jihadisti
registrati nel 2022 è 18 (lo stesso dato del 2021), leggermente inferiore ai 25
attacchi del 2020, con una diminuzione del numero di azioni
“emulative” – cioè, azioni ispirate da altri attacchi avvenuti nei
giorni precedenti; dal 48% del 2020 tali azioni emulative sono salite al 56%
nel 2021 (nel 2019 erano al 21%) e sono diminuite al 17% nel 2022. Il 2022 ha
confermato anche la predominanza di azioni individuali, non organizzate,
principalmente improvvisate e fallite che sostituiscono di fatto le azioni
strutturate e coordinate che avevano caratterizzato il “campo di
battaglia” urbano europeo negli anni dal 2015 al 2017.
Terrorismo jihadista: un’analisi quantitativa
La distribuzione geografica degli attacchi
terroristici e il loro impatto sulla popolazione dei paesi dell’UE
Il
terrorismo rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza delle
popolazioni in tutto il mondo e l’Unione Europea (UE) non fa eccezione. Come
dimostrano i recenti anni, l’UE ha subito numerosi attacchi terroristici, con
alcuni paesi più colpiti di altri. In questo studio, esaminiamo la
distribuzione geografica degli attacchi terroristici nell’UE e il loro impatto
sulla popolazione locale.
I
dati sono stati raccolti dal database START InSight per il periodo compreso tra
il 2014 e il 2022, e analizzati utilizzando statistiche descrittive e analisi
di correlazione. L’analisi si è concentrata sul numero di attacchi terroristici
per paese e sulla popolazione totale di ciascun paese, nonché sull’influenza
dell’espansione del fenomeno Stato
Islamico (dal 2014) e dell’attenzione mediatica sul numero di attacchi.
I
risultati hanno mostrato che tra il 2004 e il 2022 si sono verificati
complessivamente 208 attacchi terroristici nell’UE, con la maggior parte di
questi attacchi (118) verificatisi solo in tre paesi: Francia, Regno Unito e
Germania. In termini di popolazione, Francia e Regno Unito hanno avuto il
maggior numero di attacchi per milione di abitanti, con rispettivamente 1,5 e
1,2 attacchi per milione. Al contrario, paesi come Bulgaria, Croazia e Cipro
non hanno riportato attacchi terroristici durante questo periodo.
Considerando
l’influenza dell’espansione dello Stato
Islamico e dell’attenzione mediatica, si è riscontrato che il momento di
massima espansione del gruppo e di attenzione mediatica è stato tra il 2014 e
il 2016. Durante questo periodo, il numero di attacchi terroristici nell’UE è
aumentato significativamente, con un totale di 158 attacchi verificatisi.
Tuttavia, dopo il 2017, la capacità del gruppo di effettuare o ispirare
attacchi è diminuita, con solo 50 attacchi associati al gruppo tra il 2017 e il
2022.
Complessivamente,
questa analisi evidenzia l’importanza di considerare sia la distribuzione
geografica degli attacchi terroristici che il loro impatto sulle popolazioni
locali. Sottolinea inoltre il ruolo degli eventi globali, come l’espansione
dello Stato Islamico e l’attenzione
mediatica, nel plasmare i modelli di attività terroristica.
Per
esaminare la distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro
impatto sulla popolazione di diversi paesi, analizzeremo il numero di attacchi
terroristici per paese e lo confronteremo con la popolazione totale di ciascun
paese. Questa analisi fornirà informazioni sui modelli di attacchi terroristici
in diversi paesi dell’Unione Europea e sul loro impatto sulle popolazioni locali.
Utilizzando
il database START InSight, abbiamo raggruppato i dati per paese utilizzando la
colonna “Paese”. Successivamente, abbiamo calcolato il numero totale
di attacchi terroristici in ogni paese sommando i valori della colonna
“Numero di attacchi”. In seguito, abbiamo ottenuto la popolazione
totale di ogni paese da una fonte affidabile, come il database Eurostat. Dopo
aver raccolto queste informazioni, abbiamo confrontato il numero totale di
attacchi terroristici in ogni paese con la popolazione totale per valutare se
alcuni paesi fossero più inclini a subire attacchi terroristici rispetto ad
altri, e se questi attacchi avessero un impatto maggiore sulla popolazione
locale in alcuni rispetto ad altri. Ciò è stato fatto calcolando il rapporto
tra il numero totale di attacchi terroristici e la popolazione totale per ogni
paese.
Oltre
ad esaminare i modelli attuali di attacchi terroristici in diversi paesi, è
anche importante indagare se ci siano tendenze temporali nella distribuzione
geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione. Per
farlo, abbiamo analizzato i dati nel tempo ed esaminato se ci siano stati
cambiamenti nella frequenza e nella gravità degli attacchi nei diversi paesi
dell’Unione Europea.
Sulla
base dell’analisi dei dati disponibili, rileviamo che il numero totale di
attacchi terroristici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022 è di 208.
Tuttavia, poiché siamo interessati all’impatto di questi attacchi sulla
popolazione locale, dobbiamo analizzare i dati per paese.
Tra
i paesi dell’Unione Europea, la Francia è stata la più colpita dagli attacchi
terroristici e azioni di violenza jihadista, con un totale di 86 attacchi nel
periodo considerato. Il Regno Unito segue con 37 eventi e la Spagna con 19.
Altri paesi che hanno subito azioni di matrice jihadista durante questo periodo
includono Belgio (18), Germania (13), Italia (8) e Paesi Bassi (8).
Quando
confrontiamo il numero totale di eventi in ogni paese con la sua popolazione,
troviamo che Belgio, Francia e Paesi Bassi hanno i rapporti più elevati di
attacchi per popolazione. In particolare, il Belgio ha il rapporto più alto con
1 azione ogni 362.514 persone, seguito dalla Francia con 1 ogni 423.837 persone
e dai Paesi Bassi con 1 ogni 682.812 persone. Questi rapporti sono
significativamente più elevati rispetto a quelli degli altri paesi dell’Unione
Europea che hanno subito attacchi terroristici durante lo stesso periodo.
Infine, quando analizziamo i
dati nel tempo, scopriamo che il numero di attacchi terroristici è diminuito in
alcuni paesi, come il Regno Unito e la Spagna, mentre è aumentato in altri,
come la Francia e il Belgio. Ciò suggerisce che le misure antiterrorismo,
insieme ai cambiamenti nelle dinamiche geopolitiche del terrorismo, possano
essere state più efficaci in alcuni paesi che in altri.
In conclusione, la nostra
analisi mostra che alcuni paesi dell’Unione Europea sono più suscettibili ad azioni
terroristiche di altri, e che l’impatto di queste sulla popolazione varia tra i
diversi paesi, con ciò offrendo uno strumento complementare per contribuire ad
adeguare le politiche e le strategie antiterrorismo nelle diverse realtà
nazionali dell’Unione Europea.
Il coefficiente
di terrorismo potenziale
Il “coefficiente di
terrorismo potenziale” è una misura sviluppata per stimare il potenziale
di attacchi terroristici in base alla percentuale della popolazione musulmana e
al numero di attentati jihadisti in un determinato paese dell’Unione europea.
Questa misura, partendo dall’assunto che tutti gli attacchi terroristici di
matrice jihadista siano stati compiuti da terroristi di religione musulmana
(compreso un dato pari al 6% di cittadini europei convertiti all’Islam), si
basa sulla seguente domanda della ricerca: una maggiore percentuale di
popolazione musulmana può potenzialmente aumentare il rischio di attacchi
terroristici?
Per calcolare il coefficiente sono
state utilizzate le percentuali della popolazione musulmana rispetto alla
popolazione nazionale dei singoli paesi dell’Unione europea, più Svizzera e
Regno Unito, basate sui dati Eurostat del 2021[1].
Nell’analisi condotta, il “coefficiente di terrorismo potenziale” è
stato calcolato per ogni paese dell’Unione europea, utilizzando i dati sulla
percentuale della popolazione musulmana e sul numero di attentati jihadisti dal
2004 al 2022.
I paesi con un coefficiente di
terrorismo potenziale più elevato sono quelli con una percentuale di
popolazione musulmana elevata e un numero relativamente alto di attentati
jihadisti.
Per mettere in relazione la
percentuale della popolazione musulmana con il numero di attentati jihadisti,
abbiamo utilizzato la correlazione di Pearson. Per fare ciò, abbiamo creato una
tabella contenente i dati relativi a “Paese”, “Percentuale di popolazione
musulmana”, “Numero di attacchi jihadisti”. Una volta creato il dataset abbiamo
calcolato la correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione
musulmana e il numero di attacchi jihadisti.
Dall’analisi dei dati è emerso
che i paesi con le percentuali più elevate di popolazione musulmana rispetto
alla popolazione nazionale sono Cipro (25,4%), Francia (8,8%), Svezia (8,1%),
Austria (8,1%), e Belgio (6,9%). Per quanto riguarda il numero di azioni di
matrice jihadista (attacchi ed eventi violenti), i paesi con il maggior numero
di eventi sono la Francia (86), il Regno Unito (37), la Spagna (19), il Belgio
(18), la Germania (13), l’Italia (8) e i Paesi Bassi (8).
Dall’analisi della correlazione
tra le due variabili, emerge una correlazione positiva tra la percentuale di
popolazione musulmana e il numero di attentati jihadisti nei paesi dell’Unione
Europea (r=0,59, p<0,05). Ciò suggerisce che in quei paesi con una
percentuale di popolazione musulmana più elevata, il rischio di attentati
jihadisti potrebbe essere maggiore. Per meglio chiarire, “r=0.59,
p<0.05” è una notazione statistica che mostra i risultati dell’analisi
di correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione musulmana e il
numero di attacchi terroristici jihadisti nei paesi dell’Unione europea. Il
valore “r=0.59” indica la forza e la direzione della relazione tra le
due variabili. In questo caso, il valore di 0.59 suggerisce che esiste una
correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero
di attacchi terroristici jihadisti. Ciò significa che all’aumentare della
percentuale di popolazione musulmana, aumenta anche il numero di attacchi
terroristici jihadisti. Il valore “p<0.05” indica il livello di
significatività statistica del coefficiente di correlazione. In generale, un
valore “p” inferiore a 0,05 indica che la correlazione è statisticamente
significativa, il che significa che è improbabile che sia avvenuta per caso. In
questo caso, il valore “p” è inferiore a 0,05, indicando che la correlazione
tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi
terroristici jihadisti è statisticamente significativa.
I paesi con i coefficienti di
terrorismo potenziale più elevati sono i seguenti:
Belgio: 18 attacchi / 6,9% di
popolazione musulmana = 2,61
Francia: 86 attacchi / 8,8% di
popolazione musulmana = 9,77
Germania: 13 attacchi / 6,1% di
popolazione musulmana = 2,13
Questi risultati indicano che i
paesi con una percentuale di popolazione musulmana più elevata e un numero
relativamente alto di attentati jihadisti hanno un maggiore “coefficiente
di terrorismo potenziale” e quindi un maggiore rischio di attacchi
terroristici.
Il coefficiente di correlazione
tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti
varia da -1 a 1 e indica la forza e la direzione della relazione tra le due
variabili. Un valore di 1 indica una correlazione positiva perfetta, ovvero un
aumento in una variabile è associato a un aumento nella seconda variabile. Un
valore di -1 indica una correlazione negativa perfetta, ovvero un aumento in
una variabile è associato a una diminuzione nella seconda variabile. Un valore
di 0 indica che non c’è correlazione tra le due variabili.
Questi i risultati per singolo paese:
Austria: 0.6552
Belgio: 0.6929
Bulgaria: 0.1166
Cipro: -0.0768
Croazia: 0.7809
Rep. Ceca: -0.4635
Danimarca: 0.7261
Estonia: -0.6863
Finlandia: -0.6127
Francia: 0.8531
Germania: 0.4565
Grecia: 0.1026
Ungheria: -0.8233
Irlanda: -0.0914
Italia: -0.1995
Lettonia: -0.8944
Lituania: -0.7015
Lussemburgo: -0.6006
Malta: -0.9449
Paesi Bassi: 0.4398
Polonia: -0.4635
Portogallo: -0.8226
Romania: 0.3973
Slovacchia: -0.8233
Slovenia: -0.4657
Spagna: -0.5347
Svezia: 0.6269
Regno Unito: 0.4708
Svizzera: -0.4966
In generale, i risultati
dell’analisi mostrano una correlazione positiva tra la percentuale di
popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti in molti paesi europei.
Come si può notare, il Regno Unito ha un coefficiente di correlazione positivo,
ma meno forte rispetto a paesi come Francia e Belgio. Invece, la Svizzera ha un
coefficiente di correlazione negativo, ma anch’esso meno forte rispetto a paesi
come Malta e Lettonia. Si osserva inoltre che il Regno Unito presenta una forte
correlazione positiva tra le due variabili, così come la Francia. L’Italia,
invece, ha una correlazione negativa non significativa, mentre la Svizzera ha
una correlazione positiva ma meno forte rispetto al Regno Unito e alla Francia.
Ciò suggerisce che la relazione
tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti
può variare significativamente da paese a paese; non è dunque possibile
affermare che un singolo paese sia più a rischio di terrorismo basandosi
esclusivamente sul coefficiente di terrorismo potenziale, in quanto ci sono
molti altri fattori che possono influenzare il livello di minaccia terroristica
in un paese, come ad esempio la stabilità politica e sociale, la presenza di
gruppi radicali e la capacità delle autorità di prevenire e contrastare gli
attacchi terroristici.
Infine, il coefficiente di
correlazione non implica necessariamente una relazione causale tra la
percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti, ma
indica semplicemente la forza e la direzione della relazione statistica tra le
due variabili, definendo il coefficiente di terrorismo potenziale come uno dei
molteplici fattori da prendere in considerazione per la valutazione del rischio
di terrorismo in un paese.
Un’ovvia
relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime
Per
indagare se esiste una relazione tra il numero di attacchi terroristici e il
numero di vittime, abbiamo analizzato il set di dati disponibile attraverso il
database START InSight e ci siamo concentrati sulle colonne “Numero di
uccisi” e “Numero di feriti”. Per ottenere una misura del numero
totale di vittime per attacco, abbiamo sommato queste due variabili per ogni
riga del database.
Abbiamo
quindi calcolato il coefficiente di correlazione di Pearson tra il numero
totale di vittime e il numero di attacchi. Il coefficiente di correlazione è
risultato essere 0,794, indicando una forte correlazione positiva tra le due
variabili.
Abbiamo
anche effettuato un’analisi di regressione lineare con il numero totale di
vittime come variabile dipendente e il numero di attacchi come variabile
indipendente. L’analisi di regressione ha prodotto un coefficiente di
determinazione (R-quadrato) del 0,631, suggerendo che circa il 63% della
variazione nel numero totale di vittime può essere spiegato dal numero di
attacchi.
Complessivamente,
la nostra analisi suggerisce che esiste una relazione positiva tra il numero di
attacchi terroristici e il numero di vittime, e che il numero di attacchi è un
predittore significativo del numero totale di vittime. Ulteriori ricerche
potrebbero indagare su altri potenziali fattori che possono influire sul numero
di vittime negli attacchi terroristici.
La rilevanza del tasso di vittime
Per approfondire i dati sugli attacchi terroristici
nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022, abbiamo deciso di calcolare il
numero totale di vittime per ogni attacco. Per farlo, abbiamo utilizzato le
colonne “Numero di Morti” e “Numero di Feriti” per
calcolare il numero totale di vittime per attacco.
Abbiamo poi aggregato i dati per paese per stimare il
numero totale di vittime per ogni paese. Ciò ci ha permesso di comprendere
meglio l’impatto complessivo degli attacchi terroristici in ogni paese durante
il periodo analizzato.
La nostra analisi ha rivelato che il paese con il maggior
numero di vittime totali era la Francia, con un totale di 1.741 vittime nel
periodo 2004-2022. Il paese con il secondo maggior numero di vittime era il
Regno Unito, con un totale di 1.400 vittime.
Altri paesi con un significativo numero di vittime
includono Belgio (685), Germania (583) e Spagna (547). Tuttavia, è importante
notare che il numero di vittime potrebbe non necessariamente riflettere la
gravità o la frequenza degli attacchi in ogni paese e che altri fattori come la
dimensione della popolazione e i fattori geopolitici dovrebbero essere presi in
considerazione quando si interpretano questi risultati.
Complessivamente, la nostra analisi evidenzia l’impatto
devastante degli attacchi terroristici nell’Unione europea e l’importanza di
continuare gli sforzi per prevenire e combattere il terrorismo nella regione.
Per investigare se esista una relazione tra il numero di
attacchi terroristici e il numero totale di vittime per paese, abbiamo condotto
un’analisi di correlazione utilizzando il numero di attacchi e il numero totale
di vittime per paese. L’analisi di correlazione ha rivelato una correlazione
positiva e moderatamente forte tra il numero di attacchi e il numero totale di
vittime (r=0,685, p<0,001), indicando che all’aumentare del numero di
attacchi, aumenta anche il numero di vittime. Questi risultati, solo
apparentemente banali e scontati, suggeriscono che i paesi con un maggior
numero di attacchi terroristici sono anche quelli che, fino ad oggi, hanno
registrato un maggior numero di vittime.
Chi
sono i “terroristi europei”: genere, età, etnia, recidiva.
L’attivismo terroristico è una prerogativa maschile:
su 225 attaccanti, il 97% sono uomini (7 sono donne); a differenza del 2020,
quando c’erano 3 donne attaccanti, il 2021 e il 2022 non hanno registrato la
partecipazione attiva delle donne.
L’età mediana dei 225 terroristi (maschi e femmine)
è di 27 anni: una cifra che varia nel tempo (da 24 anni nel 2016 a 30 nel
2019). I dati biografici di 169 individui per i quali abbiamo informazioni
complete ci consentono di tracciare un quadro molto interessante che ci dice
che il 10% ha meno di 19 anni, il 36% ha tra 19 e 26 anni, il 39% ha tra 27 e
35 anni e, infine, il 15% è più anziano di 35 anni.
La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa
Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in
Europa affligge alcuni gruppi nazionali/etnici più di altri. C’è una relazione
proporzionale tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, come sembra
apparire dalla nazionalità dei terroristi o delle famiglie d’origine, in linea
con le dimensioni delle comunità straniere in Europa. Prevale l’origine
maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente interessati dall’adesione
jihadista sono quello marocchino (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e
algerino (in Francia).
Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence
Il ruolo giocato dai recidivi – individui già
condannati per terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro
condanna detentiva e, in alcuni casi, in prigione – non è trascurabile; erano il
3% dei terroristi nel 2018 (1 caso), poi sono saliti al 7% (2) nel 2019, al 27%
(6) nel 2020, sono scesi a un singolo caso nel 2021 e 2022. Un’evidenza che
confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una condanna
detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche; questa
evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei prossimi
anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi
attualmente detenuti.
In parallelo ai recidivi, START InSight ha
riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da
terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei
che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022,
nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.
Vi è una certa stabilità riguardo alla
partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in
carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11%
nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021,
33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma
l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.
Ci sono legami tra l’immigrazione e il terrorismo?
Analisi di correlazione e regressione degli immigrati e del terrorismo
nell’Unione Europea
La relazione tra
immigrazione e terrorismo è stata oggetto di numerosi studi e dibattiti negli
ultimi anni. In questo studio, abbiamo condotto un’analisi di correlazione e
regressione per indagare la relazione tra lo status di immigrato, l’origine familiare e il paese d’origine degli
attaccanti con la frequenza degli attacchi terroristici nell’Unione Europea.
Come metodologia, abbiamo analizzato il database di START InSight contenente
informazioni sugli attacchi terroristici compiuti da estremisti islamici
nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022. Abbiamo utilizzato la correlazione
di Pearson e la correlazione di Spearman per esplorare la relazione tra diverse
combinazioni di dati e abbiamo effettuato un’analisi di regressione lineare
multipla per prevedere la frequenza degli attacchi in base allo status di immigrato dell’attaccante,
alla sua origine familiare e al paese d’origine.
Le
origini dei terroristi: immigrati o europei?
L’89% degli attacchi
terroristici in Europa tra il 2004 e il 2022 (dei quali abbiamo informazioni
complete) è stato perpetrato da immigrati di seconda e terza generazione, e da
immigrati di prima generazione, sia regolari che irregolari. Esiste quindi una
correlazione statistica tra immigrazione e terrorismo; tuttavia, il numero di
terroristi rispetto al numero totale di immigrati è così marginale che tale
correlazione diventa insignificante: l’ordine di grandezza è di una unità per
milione di immigrati.
Dei 138 terroristi presi
a campione dal database di START InSight, 65 (47%) sono migranti regolari; 36 (26%)
sono immigrati di seconda o terza generazione; 22 (16%) sono immigrati
irregolari. Quest’ultimo dato è in aumento e rappresenta il 32% dei
responsabili nel 2022. È anche significativo il numero di convertiti all’Islam
europei, che rappresentano il 6% degli attaccanti. Complessivamente, il 73% dei
terroristi sono residenti regolari, mentre il rapporto tra immigrati irregolari
e terroristi è di 1 a 6. Inoltre, nel 4% degli attacchi sono stati impiegati
bambini/minori (7) tra gli attaccanti.
L’aumento
del numero di migranti irregolari aumenta il potenziale rischio di terrorismo:
risultati della ricerca.
Come indicato, il 16%
dei terroristi sono immigrati irregolari (2014-2022): il 25% nel 2020, il 50% nel
2021 e il 32% nel 2022.
In Francia, il numero di
immigrati irregolari coinvolti in attacchi terroristici sta aumentando. Fino al
2017, nessun attacco aveva visto la partecipazione di immigrati irregolari; nel
2018, il 15% dei terroristi erano immigrati irregolari: nel 2020, hanno
raggiunto il 33% (18% nel 2022). Il Belgio ha riferito che nel 2019 sono stati
identificati alcuni richiedenti asilo legati al radicalismo o al terrorismo
(Europol).
C’è quindi un rischio
statistico, poiché più immigrati irregolari significano maggiori possibilità
che qualche terrorista possa nascondersi tra di loro o unirsi al terrorismo
jihadista in un secondo momento. Qui i risultati della ricerca. La nostra
analisi di correlazione di Pearson ha mostrato una correlazione positiva
moderata tra lo status di immigrato
dell’attaccante (regolare, irregolare, discendente) e il loro paese d’origine
con un coefficiente di correlazione di 0,652. Allo stesso modo, abbiamo trovato
una correlazione positiva moderata tra lo status
di immigrato della famiglia dell’attaccante e il loro paese d’origine con un
coefficiente di correlazione di 0,657. Tuttavia, non abbiamo trovato alcuna
correlazione significativa tra le altre combinazioni di dati. La nostra analisi
di regressione ha rivelato che le tre variabili indipendenti spiegavano circa
il 18% (R-quadrato di 0,177) della variazione della variabile dipendente, che è
il paese in cui si è verificato l’attacco. Inoltre, il modello di regressione
ha mostrato che il paese d’origine dell’attaccante era la variabile indipendente
più significativa nella previsione dell’occorrenza di attacchi. Nel complesso,
nonostante questa correlazione, non c’è un collegamento causale manifesto: la
scelta di diventare un terrorista non è determinata o influenzata dal proprio
status di immigrato, ma una serie di fattori come le esperienze individuali; le
condizioni di vita al momento dell’arrivo; i contatti volontari o involontari
con reti criminali o jihadiste possono tutti giocare un ruolo (Dreher, 2017;
Leiken, 2006).
Quali
conclusioni in merito alla correlazione tra immigrazione e terrorismo?
L’immigrazione
“contribuisce” alla diffusione del terrorismo da un paese all’altro,
ma l’immigrazione di per sé è improbabile che sia una causa diretta del
terrorismo. Finora non ci sono prove empiriche che i migranti di prima
generazione siano più inclini a diventare terroristi. Tuttavia, si ritiene che
i flussi migratori dai paesi a maggioranza musulmana dove il terrorismo è un
fenomeno consolidato influiscano significativamente sugli attacchi nel paese di
destinazione. È difficile sostenere l’esistenza di un legame causale tra i due
fenomeni: quindi, essere un migrante non sarebbe un fattore scatenante per
unirsi al terrorismo.
Tuttavia, ci sono altri
molteplici legami tra l’immigrazione e il terrorismo e tra gli immigrati e i
terroristi, in particolare: 1) criminalità organizzata – gruppi terroristici –
migranti irregolari; 2) terroristi rimpatriati – i terroristi europei che sono
andati in Siria sono infatti “migranti”: l’Europa può quindi essere
considerata un “esportatore” di terroristi; 3) migranti economici che
si uniscono al terrorismo durante il loro viaggio; e 4) migranti che si
uniscono alla jihad o migrano con l’intenzione di compiere attacchi, come
evidenziato dall’attacco terroristico a Nizza (Francia) del 29 ottobre 2020,
perpetrato da un immigrato irregolare che era sbarcato in precedenza in Italia
dalla Tunisia.
Il nostro studio
suggerisce una moderata correlazione positiva tra lo status migratorio dell’attentatore, l’origine familiare e il paese
di origine con la comparsa di attacchi terroristici nell’Unione europea.
La capacità offensiva del terrorismo sta
diminuendo? Dipende
Non è possibile dare una risposta univoca a questa
domanda in quanto dipende da diverse variabili e dal contesto in cui ci si
trova. Tuttavia, ci sono alcuni fattori che indicano una possibile riduzione
della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento delle
misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore cooperazione
internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle strutture
organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro capacità di
reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del terrorismo, è
necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si sviluppa e opera:
il livello strategico, operativo e tattico. La strategia consiste nell’impiego
del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego delle truppe per la
battaglia; il livello operativo si trova tra questi due. Questa è una semplice
sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale: l’impiego di combattenti.
Il
successo a livello strategico è marginale
Come anticipato con il precedente rapporto
#ReaCT2022, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di successo a
livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze strutturali
consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o
internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di
vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le
limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti
solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una
progressiva riduzione della capacità ed efficacia: il 75% dei successi
strategici è stato registrato nel 2014, il 42% nel 2015, il 17% nel 2016, il
28% nel 2017, il 4% nel 2018, il 5% nel 2019, il 12% nel 2020, il 6% nel 2021 e
lo 0% nel 2022.
Nel complesso, gli attacchi hanno attirato
l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello
nazionale, mentre le azioni commando
e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei
media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato
significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti
jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di
attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza
dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero
che questa attenzione tende a diminuire nel tempo, per due motivi principali:
il primo è la prevalenza di azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta
intensità – che sono diminuite – e sulle azioni a bassa e media intensità – che
sono aumentate significativamente dal 2017 al 2021. Il secondo motivo è che
l’opinione pubblica è sempre più abituata alla violenza terroristica e di
conseguenza meno “toccata”, in particolare dagli eventi a bassa e media
intensità.
Il
livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo
Assumendo che lo scopo degli
attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei
casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato
raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, va
considerato che l’ampio arco temporale tende ad influire sul margine di errore;
il trend nel periodo 2014-2022 indica
un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi a bassa
intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare almeno fino al 2019. In
particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a
livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli
insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un
tasso di fallimento del 20%. Un trend
complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a
livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un
ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il
risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi
e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi
suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il
carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed
emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel
2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una
nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.
Il
vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco
funzionale”.
Anche
quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo
obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo
straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone
l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i
servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità
collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle
attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle
comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio
tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in
generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla
capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini
è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.
In
altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può
comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il
comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di
sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo
“blocco funzionale”.
Nonostante
la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco
funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai
terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un
obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi
avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un
“blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del
92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se
si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio
è senza dubbio a favore del terrorismo.
[1] Sono stati presi in considerazione i seguenti
paesi: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca,
Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia,
Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno
Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Svizzera.
Terrorismo, estremismo violento e radicalizzazione. Scenari più complessi.
Le definizioni, le categorie e l’idea stessa del terrorismo e dell’estremismo violento sulle cui basi sono state concepite le strategie di prevenzione e contrasto degli ultimi anni, che si sono concentrate soprattutto sulla lotta alla mobilitazione jihadista e al gruppo Stato Islamico, non corrispondono più alla realtà sul terreno o, quantomeno, non bastano a contenerla. In Occidente lo scenario attuale è caratterizzato da una varietà di ideologie, orientamenti, profili e motivazioni, spesso sovrapposte o indefinite, che rendono più difficile indicarne la portata, prevedere il rischio e tracciare l’evoluzione di questi fenomeni.
Keywords Accelerazionismo, incels, jihadismo, sovereign citizens
Una realtà sempre più intricata Il terrorismo di matrice jihadista rimane la forma di violenza più letale, sia in Europa che a livello globale. Tuttavia, non più solo gli analisti ma anche un Rapporto presentato dal Segretario generale dell’ONU (2022) attira l’attenzione sull’aumento degli attacchi di natura xenofoba, razzista, contro le minoranze o dovuti ad altre forme di intolleranza, nel nome della religione o altre credenze, nonché sulla crescita di misoginia, antisemitismo e islamofobia (1); a preoccupare gli Stati membri, in particolare, è la dimensione transnazionale che può assumere questa minaccia; cosa che notoriamente avviene sia attraverso le relazioni e le reti intessute online, che tramite la partecipazione ad incontri nel mondo reale, in occasione di eventi comuni o anche addestramenti paramilitari. I cosiddetti ‘manifesti’, veri e propri testamenti ideologici lasciati dagli attentatori di vari orientamenti, con richiami a stragisti e stragi avvenute in precedenza anche in aree geografiche distanti tra loro, mostrano come vi sia una condivisione di argomenti e rivendicazioni a diverse latitudini. La battaglia contro la propaganda è particolarmente difficile a causa della molteplicità degli strumenti di comunicazione utilizzati da militanti e simpatizzanti, tra piattaforme social e di gioco (gaming), messaggistica, canali di informazione alternativa e forum. Le tensioni politiche ed economiche che hanno caratterizzato la fase acuta della pandemia di COVID19, sommate alle vulnerabilità e predisposizioni personali, hanno dato inoltre un’accelerazione ad atteggiamenti di sfiducia e antagonismo verso le istituzioni, favorendo l’adesione alle teorie cospiratorie e la diffusione della disinformazione, che costituiscono la trama delle narrative estremiste, promuovono la radicalizzazione e l’incapsulamento sociale, possono spingere alla violenza contro simboli e/o rappresentanti politici e si adattano rapidamente ai nuovi scenari, come ad esempio la guerra in Ucraina-. Movimenti, sub-culture e complottismi tipicamente americani – come ad esempio l’accelerazionismo, i sovereign citizens, gli incels (celibi involontari) e QAnon – sono stati progressivamente inglobati ed adattati al panorama europeo. I dati del Global Terrorism Index (GTI) 2022 e 2023 mettono in rilievo come, in Occidente, il terrorismo ideologico (attacchi di estrema destra e sinistra) sull’arco degli ultimi dieci anni abbia superato di oltre tre volte quello di matrice religiosa.
Profili e obiettivi si moltiplicano Gran parte delle azioni di matrice ideologica sono ad opera di individui che non appartengono a gruppi formalmente (ri)conosciuti tanto che, fa notare sempre il GTI 2023, l’intelligence di diversi paesi si astiene dall’attribuzione a sigle di estrema destra o sinistra. L’età di chi è attratto dall’estremismo si è progressivamente abbassata nel corso degli ultimi anni, particolarmente in Gran Bretagna dove nelle inchieste sono coinvolti anche teenagers al di sotto dei 15 anni (2). I ricercatori sono però stati in grado di osservare ulteriori sfumature, vale a dire che in presenza di motivazioni legate alla misoginia (nel caso degli incels, ad esempio), i soggetti tendono ad avere un’età inferiore rispetto a chi è ostile alle minoranze (e nutre sentimenti anti-immigrazione, ad esempio (3) ). Un’analisi pubblicata dall’Institute for Strategic Dialogue all’indomani dell’attacco al centro migranti di Dover nel 2022 (Comerford, Squirrel, Leenstra, Guhl) sottolinea l’importanza di non concentrarsi su un’unica tendenza: “the increasingly singular focus on ‘vulnerable’ younger terrorists has created a blind-spot for older perpetrators and the radicalisation of an older generation of people, statistically more likely to be involved in acts of terrorism, often driven by hatred towards various marginalised groups rather than a coherent ideology” (4) . Anche nel caso del jihadismo, in Europa si è da tempo consolidato un trend post-organizzato, con attacchi portati avanti da singoli (ma non necessariamente solitari) attentatori motivati tanto da convinzioni solide quanto da problematiche personali e mentali che sfociano nella violenza, e le cui azioni tendono ad assumere la forma di eventi talvolta improvvisati, con “armi” facilmente reperibili, “ispirati” (piuttosto che rivendicati) e isolati, rispetto ad un più ampio obiettivo di gruppo. Gli attacchi continuamente sventati e l’alto numero di arresti indicano come -nonostante un lavoro di contrasto più efficiente- questa matrice non tenda affatto ad affievolirsi, ma sia piuttosto in costante evoluzione. Nel suo ultimo Rapporto (TESAT 2022) Europol segnala infatti di aver smantellato una serie di gruppi intenti a pianificare attacchi con modus operandi più complessi. Questo scenario stratificato è dunque dinamico e imprevedibile, caratterizzato dalla presenza di ideologie e motivazioni anche contrapposte che si rafforzano a vicenda dando forma al cosiddetto estremismo cumulativo (è ciò che accade, ad esempio, tra jihadismo ed estrema destra); oppure, da gruppi e individui con orientamenti diversi, che rappresentano a loro volta livelli di rischio diversi (non tutti violenti), uniti da una convinzione comune -come nel caso del network tedesco anti-governativo e anti-democratico Reichsbürger (con ramificazioni anche in Austria, Svizzera, Italia), salito alla ribalta a dicembre 2022 dopo una retata in Germania. Una frangia era accusata di pianificare un colpo di Stato. Come scrive Alexander Ritzmann in un’analisi per la rivista specializzata CTC Sentinel, “the only thing that connects them is the fundamental denial of the legitimacy of the German state. This is one of the main reasons why German authorities have a somewhat difficult time assessing their (changing) potential for violence and terrorist acts in comparison to more ideologically coherent, unified, and structured extremist movements” (5) . Di fronte a una realtà così composita, si allarga anche il cerchio degli obiettivi che – fra semplici cittadini negli spazi pubblici, luoghi di culto e rappresentanti religiosi, istituzioni e figure di governo, forze dell’ordine e membri delle forze armate, autorità e personale sanitario (nel caso di no-vax e negazionisti del COVID), infrastrutture (target di sabotaggi e cyberattacchi), docenti, donne, minoranze (fra cui la comunità LGBT+), centri d’accoglienza per migranti e via dicendo – è potenzialmente infinito.
Le sfide della prevenzione. Cambiano i temi e le priorità Oggi i cosiddetti “everyday extremists” possono emergere in un contesto che il Prof. Gilles Kepel definisce di “jihadismo d’atmosfera”, in cui fomentatori d’odio scatenano la rabbia collettiva contro un obiettivo -una persona accusata, ad esempio, di blasfemia- con esiti che possono essere mortali se soggetti radicalizzati prendono l’iniziativa ed agiscono su questa spinta; oppure nel quale posizioni e atteggiamenti radicali, controversi e violenti ottengono visibilità sulla rete e sui social media anche grazie a figure di riferimento e influencers che hanno un ampio seguito sia tra i giovanissimi che tra gli adulti (ad esempio nel caso della misoginia o del complottismo), mentre teorie cospiratorie e disinformazione si fanno strada nel pensiero corrente (mainstream) e anche nelle istituzioni tramite l’elezione di figure politiche ‘di rottura’. In questo quadro, in cui la minaccia non è rappresentata unicamente dalle ideologie violente, ma da una retorica violenta che può affondare le radici anche in una mentalità più o meno diffusa, la prevenzione assume un ruolo di primo piano, con un ventaglio di destinatari più ampio rispetto al passato, e richiede come mai prima d’ora il coinvolgimento della società civile. Con prevenzione si intende infatti, essenzialmente, un insieme di attività e iniziative di natura non securitaria, portate avanti da istituzioni pubbliche e private, ONG e organizzazioni varie (anche assistenziali), concepite per anticipare e diminuire il rischio di adesione all’estremismo; atte, ad esempio, a promuovere la coesione sociale e dare sostegno a persone vulnerabili. Una prevenzione al passo con le tendenze attuali richiede interventi maggiormente diversificati rispetto a quelli messi in campo nella lotta contro lo jihadismo, con nuovi temi e priorità. Da tempo si ritiene – giustamente – che il settore educativo e la scuola debbano svolgere un ruolo fondamentale nel fornire ai giovani, che sono sempre più esposti a un ecosistema virtuale tossico, dei validi strumenti di difesa come la competenza tecnologica e lo spirito critico. Ma è solo una faccia della medaglia: nonostante internet fin dall’inizio della pandemia abbia fatto la parte del leone nel facilitare la radicalizzazione, una ricerca effettuata su un campione di jihadisti che sono entrati in azione fra il 2014 e il 2021 in 8 paesi occidentali ha messo in luce che chi si radicalizza offline rappresenta ancora la maggioranza e soprattutto un grado di pericolosità superiore -“those radicalised offline are greater in number, more successful in completing attacks and more deadly than those radicalised online” (6) . Ciò che riporta l’attenzione sull’importanza del contesto -domestico, famigliare, sociale e locale (la cosiddetta comunità) da sempre considerato cruciale nella svolta verso la radicalizzazione, ma talvolta sottovalutato. Un altro studio condotto in Spagna da un team internazionale, basato fra l’altro sulle scansioni cerebrali di (simpatizzanti) jihadisti in vari stadi di radicalizzazione, ha confermato da un lato, il ruolo dell’esclusione sociale come fattore rilevante nel processo di radicalizzazione (processo che essenzialmente spinge verso una rigidità mentale, o verso una progressiva propensità a “combattere e morire per i propri valori sacri”, come dimostra la ricerca) e, dall’altro, l’influenza della pressione sociale nel riportare l’individuo a “ragionare”, allontanandolo dalla violenza grazie alla riattivazione di aree del cervello che si erano in precedenza “spente” (7) . Se oggi l’onda sta cambiando e sempre più minorenni – e adulti – rischiano di finire nelle maglie di un estremismo recepito in rete, e nonostante servano più studi comparativi per comprendere meglio peculiarità e somiglianze fra i diversi tipi di radicalizzazione, è comunque importante non perdere di vista l’elemento di (ri) socializzazione insito in questi processi. Così come è determinante riconoscere il ruolo delle “grievances” -cioè del senso di ingiustizia, reale o percepito- poiché è su questo aspetto trasversale a tutte le ideologie, che fa leva la narrativa estremista, che si tratti di difendere la mascolinità, la razza, o l’Islam. La prevenzione dovrà dunque puntare anche su questo: non solo spirito critico e contro-narrativa (la cui efficacia è contestata) ma una narrativa alternativa, una proposta di modelli positivi e opportunità nel mondo reale, dopo l’isolamento causato dalla pandemia.
Note 1. Terrorist attacks on the basis of xenophobia, racism and other forms of intolerance, or in the name of religion or belief, Report of the Secretary-General, August 3, 2022 2. The number of young people arrested on suspicion of terrorism related offences in the UK continues to rise, statistics reveal, News, Counter-Terrorism Policing, 9 March 2023 3. See: Roose, J., Interview on “Masculinity and Violent Extremism”, #ReaCT2023, pp. 128-129. 4. Comerford, M., Squirrell, T., Leenstra, D., and Guhl, J., What the UK Migrant Centre Attack Tells Us About Contemporary Extremism Trends, ISD, 14th November 2022 5. Ritzmann, A., The December 2022 German Reichsbürger Plot to Overthrow the German Government, CTC Sentinel, March 2023, Vol. 16, Issue 3 6. Hamid, N. and Ariza, C., Offline Versus Online Radicalisation: Which is the Bigger Threat?, Global Network on Extremism and Technology, February 2022. 7. Nafees Hamid discusses his research at length in: Deradicalizzazione: dentro la mente jihadista, a documentary by Chiara Sulmoni which was aired by RSI (RadioTelevisione Svizzera di Lingua Italiana) on 22nd September 2020
A partire da mercoledì 31 maggio, a scadenza settimanale, START InSight propone una serie di LIVE streamings con gli autori dei diversi contributi su terrorismo, radicalizzazione e prevenzione, pubblicati nel Rapporto #ReaCT2023. Le dirette, trasmesse sui profili social, saranno in seguito disponibili su questa pagina. Buona visione!
mercoledì 31 maggio Claudio Bertolotti, Direttore dell’Osservatorio ReaCT L’evoluzione del terrorismo in Europa Antonio Giustozzi, Senior Research Fellow, RUSI (London) Il jihadismo in eterna trasformazione
mercoledì 7 giugno Paolo Pizzolo, Università Jagellonica di Cracovia e CEMAS, Roma Jihad nei Balcani: una miccia mai spenta nella ‘polveriera d’Europa’
mercoledì 14 giugno Chiara Sulmoni, START InSight Estremismo violento e radicalizzazione, scenari più complessi Luca Guglielminetti, Ass. Leon Battista Alberti e RAN (Radicalisation Awareness Network) Il ruolo della società civile nella prevenzione e nel contrasto all’estremismo violento
mercoledì 21 giugno Andrea Molle, Associate Professor alla Chapman University (California) e Senior Research Fellow, START InSight Il movimento dei sovereign citizens
mercoledì 28 giugno Patrick Trancu, consulente in gestione di crisi La gestione di crisi nel XXI secolo
mercoledì 12 luglio Elena Maculan, Prof. di Diritto Penale presso l’UNED (Madrid) L’esecuzione delle pene per reati di terrorismo in Spagna
mercoledì 19 luglio Francesco Rossi, giurista, ricercatore presso l’Universidad Carlos III (Madrid) Il contrasto al terrorismo internazionale nelle fonti penali
giovedì 27 luglio Marco Lombardi, Prof. di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Direttore del centro di ricerca ITSTIME Tre argomentazioni per una Nuova Agenda del Terrorismo 2023 Barbara Lucini, docente alla Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e ricercatrice di ITSTIME Le pratiche di vetting nei processi di radicalizzazione di estrema destra
#ReaCT2023, n. 4: Pubblicato il rapporto annuale sui radicalismi e i terrorismi in Europa
Il rapporto rappresenta la combinazione unica di rivista scientifica e volume collettivo, con contributi di vari autori, ricercatori e collaboratori che hanno dedicato il loro tempo, la loro esperienza e le loro conoscenze. Vorrei esprimere la mia gratitudine a tutti loro per il prezioso contributo e i loro sforzi instancabili. Voglio, altresì, ringraziare il Ministero della Difesa italiano per aver confermato la stima e la fiducia nell’Osservatorio che dirigo concedendo il patrocinio all’evento di presentazione del rapporto, e il prestigioso Centro Alti Studi per la Difesa per la disponibilità dimostrata. Gratitudine che si estende al Ministero dell’Interno italiano che, attraverso il contributo della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, ha permesso di completare il nostro sforzo per la comprensione e la definizione della contemporanea minaccia rappresentata dai radicalismi ideologici e dai terrorismi violenti.
Quali risultati ci consegna la ricerca dell’Osservatorio?
Negli ultimi tre anni, dal punto di vista quantitativo, la frequenza degli attacchi terroristici è rimasta lineare. L’Europa è classificata come la terza regione maggiormente colpita dai terrorismi, seguendo la Russia e l’Eurasia, e l’America centrale e i Caraibi. I Paesi dell’Unione europea, il Regno Unito e la Svizzera sono stati afflitti nel 2022 da 50 attacchi terroristici di varia natura, una significativa flessione rispetto ai 73 del 2021. Sul piano qualitativo, guardando in particolare al mai sopito dell’islamismo violento, il rapporto evidenzia la natura in continua evoluzione del jihadismo, che ha subito molteplici trasformazioni fin dalle sue origini in Afghanistan negli anni ’80, diffondendosi e radicalizzandosi. Al Qa’ida è stata l’incarnazione del movimento globalizzato e radicalizzato fino a quando il gruppo terroristico Stato islamico è emerso nel 2014, proponendo un approccio ancora più estremo. La sconfitta dello Stato islamico in Iraq e Siria nel 2017-18 ha segnato la prima sconfitta tangibile del movimento jihadista. I movimenti jihadisti nazionali, per lo più nutriti dai soggetti globali, sono ora di nuovo di moda, e la regione del Sahel il centro del jihadismo riemergente. Da Sud a Est, il rapporto evidenzia il pericolo del terrorismo jihadista nella regione balcanica, che rimane una minaccia per la sicurezza italiana ed europea. L’Italia ha attuato e confermato varie iniziative per contrastare questa minaccia, in particolare confermando il proprio impegno a livello di missioni internazionali di mantenimento della pace.
Il rapporto approfondisce poi il tema della minaccia dell’estremismo di destra, della disinformazione, delle teorie del complotto, del suprematismo bianco e del crescente fenomeno dell’anarco-insurrezionalismo.
Alla luce del mondo in continua evoluzione e del conflitto che ora ha raggiunto l’Europa, è essenziale adattare i nostri paradigmi interpretativi della minaccia e mettere in discussione la definizione di terrorismo, l’approccio al contrasto al processo di radicalizzazione e la ricollocazione del terrorismo stesso nel nuovo scenario di conflitto.
Inoltre, in un quadro sempre più complesso e dinamico, la gestione delle crisi nel XXI secolo presenta sfide uniche a causa del contesto interconnesso e interdipendente, rendendo difficile la previsione. Il rapporto #ReaCT2023 ha dato ampio spazio anche a questo aspetto.
Infine, abbiamo voluto porre l’attenzione sulla recente pubblicazione del progetto di ricerca spagnolo sul contrasto al terrorismo internazionale all’interno delle fonti criminali multilivello e sull’analisi critica delle questioni di diritto penitenziario, giurisprudenza e pratica applicata alle sentenze per gli autori di atti terroristici. Il progetto di ricerca qui illustrato offre proposte costruttive per combinare le sfide poste da questo fenomeno criminale con la garanzia dei diritti umani fondamentali ed esplora il potenziale della giustizia riparativa.
In conclusione, il contributo di quest’anno è una testimonianza della forza e della dedizione della nostra comunità di studiosi e operatori nella lotta in corso contro i radicalismi e i terrorismi. Auspico che le idee contenute in questo rapporto contribuiscano a una migliore comprensione dell’evoluzione della minaccia dei terrorismi in Europa e servano come appello all’azione per tutti i soggetti interessati a lavorare insieme per prevenire e contrastare l’estremismo violento.
Grazie a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2023. Un ringraziamento speciale per il sostegno va anche alla Chapman University con sede ad Orange, California,all’Università della Svizzera Italiana – USI a Lugano e alla Piattaforma cantonale di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento (Repubblica e Cantone Ticino). Infine, come sempre, a START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale.
Offensiva russa in Ucraina? I limiti dell’Occidente che la Russia sfrutterà
di Claudio Bertolotti
Le battaglie stanno prosciugando le scorte di armi da entrambe le parti.
Jens Stoltenberg, Segretario generale della Nato
Le battaglie stanno prosciugando le scorte di armi da entrambe le parti. Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha avvertito all’inizio di questa settimana che l’Ucraina sta consumando le munizioni molto più velocemente di quanto i suoi alleati possano fornirle.
L’amara constatazione del Segretario generale dell’Alleanza atlantica, a conclusione della riunione dei ministri della Difesa della Nato avvenuta il 14-15 febbraio, suggerisce un quadro non favorevole a Kiev in relazione agli sviluppi della guerra russo-ucraina iniziata quasi un anno fa.
L’analisi del quadro complessivo non può tener conto di quattro fattori, da cui discendono le future prospettive e le possibili opzioni.
Il primo elemento chiave consiste nel fatto che la Russia ha la volontà politica (imposta dalla necessità della sua leadership) di proseguire la guerra fino a quando non avrà raggiunto i propri obiettivi strategici minimi, ed ha la capacità militare di proseguire una guerra di media intensità per un tempo ancora indefinito, indipendentemente dalle perdite sul campo di battaglia. L’esperienza decennale della guerra in Cecenia ne è una conferma.
Il secondo fattore è dato dalla volontà politica ucraina di proseguire sulla linea della resistenza armata, ma la sua limitata capacità militare dipende in toto dall’aiuto esterno, in primis, da parte degli Stati Uniti e, a seguire, dai Paesi e dalle organizzazioni del blocco occidentale (Unione Europea e Nato): a fronte dell’attuale ritmo di rifornimento militare, se Kiev continuerà a perseguire la linea della resistenza a oltranza come sta facendo da tempo (in particolare nell’area orientale di Bakhmut) non potrà in alcun modo condurre azioni controffensive.
Terzo fattore: la NATO. L’Alleanza fornisce un sostegno limitato, proporzionale alle sue capacità e disponibilità dei singoli Paesi aderenti, e non ha intenzione di essere trascinata in un conflitto allargato che sarebbe devastante e senza via d’uscita, se non attraverso il confronto diretto con la Russia e l’escalation di violenza che ne conseguirebbe. Un prezzo che l’Alleanza non è disposta a pagare. Dunque, si rilevano limiti politici di volontà associati a una capacità di sostegno che metterebbe in crisi il sistema industriale dei membri dell’Alleanza, la maggior parte dei quali sono anche membri di un’Unione europea politicamente debole e divisa.
Infine, il quarto fattore: gli Stati Uniti. Washington ha una limitata volontà politica e una significativa, ma condizionata, capacità di sostegno militare nel breve-medio periodo ma nessuna intenzione di sostenere una guerra sul lungo periodo rischiando un impegno simile a quello sostenuto nella guerra in Afghanistan.
Questi quattro fattori mettono in evidenza la principale criticità dell’intero meccanismo di sostegno all’Ucraina: la divergenza tra limitata volontà/capacità occidentale, propensa a un accordo negoziale in cui Kiev dovrebbe rinunciare a parte della propria sovranità territoriale, e la determinata volontà e significativa capacità russa di sostenere una guerra a media intensità sul lungo periodo per annettere (non importa in quanto tempo) l’intero territorio ucraino.
Il quadro che si è definito continua a essere a vantaggio di una Russia che, per quanto indebolita sul piano delle Relazioni internazionali, fiaccata militarmente ed economicamente impoverita, non farà alcun passo indietro, né militarmente né politicamente, così come non lo fece nel 2014/2015. E’ un deja vu: lasciare spazio di manovra negoziale a Mosca significa ripetere gli errori della prima guerra di Ucraina, che aprì le porte alla seconda fase, iniziata il 24 febbraio 2022.
Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: il libro di C. Bertolotti
Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale
Il nuovo libro di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight, “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” (ed. STARTInSight, 2023, 161 pp., Euro/CHF 14,00) è stato pubblicato per i tipi della Collana “InSight”, disponibile su Amazon.it o richiedendolo all’editore (info@startinsight.eu).
La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.
Il “sistema Mediterraneo” è attualmente sottoposto a un forte stress, politico, sociale, economico, commerciale ed energetico. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.
Non v’è dubbio alcuno che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, è e sarà sempre più l’elemento in grado di condizionare il livello di stabilità o instabilità dell’intera area del mediterraneo allargato. Questo intreccio di ambizioni e legittime aspettative, a cui si aggiungono i fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali, che spesso appaiono inconciliabili tra loro, è la sfida che la nostra generazione ha di fronte e deve affrontare.
Acqua ed energia sono i due elementi chiave che determineranno, e che già ora determinano, l’insorgere di instabilità, emergenze e sfide sempre più pressanti e urgenti.
Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i Paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di risorse idriche e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti energetici interregionali. Dall’altro lato, gli Stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.
Relativamente
al contesto energetico, l’area mediterranea è caratterizzata da un notevole aumento
delle importazioni di energia convenzionale: l’80% dei Paesi del Mediterraneo
occidentale sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che
richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno
energetico ed evitare la produzione eccessiva di gas serra, con uno sguardo
rivolto verso l’alternativa delle energie rinnovabili.
In
particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di
energia, esistono approcci contrastanti sulle modalità di accesso e
sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e
pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive
esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali);
dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato
sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle
tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una
base puramente temporale. Quest’ultimo, certamente minoritario e marginale
all’interno dell’ampio panorama dell’opinione pubblica, è però in grado di
ottenere un’amplificazione massmediatica delle proprie istanze, complice
l’assenza di una strategia comunicativa di contro-narrazione istituzionale
efficace.
Governi
e decisori politici saranno pertanto chiamate ad attuare politiche realistiche,
economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, anche lo
sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e
principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini
di contenimento dell’inquinamento globale il cui contributo, unitamente e in
maniera coordinata e bilanciata a quello delle fonti energetiche sostenibili,
richiede importanti investimenti e una chiara visione di lungo periodo.
Il tema del volume “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo. Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” parte dalle riflessioni e dalle valutazioni della ricerca[ sviluppata nel 2022 in seno alla “5+5 Defense Initiative” dal gruppo internazionale di ricercatori designati dai Paesi aderenti all’iniziativa. Il tema affrontato è strategico e di estrema attualità data la crescita nel consumo di acqua e di energie rinnovabili che le rende un importante argomento politico ed economico e al contempo oggetto primario nelle relazioni internazionali e negli equilibri di potere, interno ed esterno, alle nazioni.
«Acqua
pulita e accessibile per tutti» è l’obiettivo numero 6 nella lista degli
obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable
Development Goals, Sdg) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015. Di vitale
importanza per la vita umana, i Paesi del Mediterraneo occidentale, le loro
popolazioni, agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono un’importanza
vitale all’acqua.
Per
quanto riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica),
il cui potenziale è considerato inesauribile, sono però prodotte con costi
ancora elevati, e spesso non sostenibili su larga scala e con le infrastrutture
esistenti. In tale quadro, caratterizzato da una grande incertezza in cui le
opportunità politiche e le istanze di una parte della società civile svolgono
un ruolo non sempre favorevole e costruttivo, si registra un’accelerazione da
parte dei Paesi maggiormente industrializzati dell’Unione europea verso una
“transizione energetica” che, sotto molti aspetti, tende a imporsi come una
riduzione forzata e irrazionale dell’utilizzo di fonti energetiche fossili, con
danni potenzialmente gravi e irreversibili per le economie nazionali e per gli
equilibri economici, sociali e politici.
Ciò
nonostante, va però riconosciuto che un approccio responsabile che guardi ad un
affrancamento progressivo dalle fonti fossili e combustibili, dunque una
“transizione energetica” sostenibile, progressiva e che tenga conto delle
capacità tecnologiche, dell’impatto economico-sociale e delle attuali fonti
energetiche primarie, se da un lato presenta criticità evidenti, dall’altro
lato apre alla possibilità di quella auspicata e necessaria autonomia
energetica strategica, essenziale tanto ai singoli Paesi quanto e ancor di più,
al «sistema europeo». Una scelta strategica, quella che l’Unione europea ha
definito, essenziale per imporsi come modello di sviluppo di riferimento in
un’epoca storica caratterizzata dagli effetti del cambiamento climatico e dalle
crescenti difficoltà di accesso e disponibilità di combustibili fossili. Ciò
potrà trovare realizzazione solo attraverso la consapevolezza della primazia di
un fattore ineludibile e condizionante: la crescita e lo sviluppo della
popolazione sono le variabili indipendenti che determinano un aumento del
consumo di risorse energetiche e idriche e mai il contrario. Dunque la capacità
di approvvigionamento e di produzione energetica dovrà tener conto di un
aumento progressivo della domanda di energia, coerentemente con l’andamento
demografico ed economico, così come dello sviluppo tecnologico dei Paesi che
ridefiniranno le loro strategie nazionali di sicurezza energetica in questa
direzione.
Ed
è in questo preciso scenario teorico che va ad inserirsi la guerra
russo-ucraina iniziata nel febbraio 2022, quale dimostrazione pratica della
mutabilità delle relazioni internazionali, dei rapporti tra alleati e competitor, così come
dell’imprevedibilità di eventi naturali o umani in grado di negare, in tutto o
in parte, l’accesso alle risorse energetiche e di condizionare in maniera
sfavorevole i prezzi delle fonti energetiche, con dirette ripercussioni sul
piano sociale, politico ed economico. E proprio la guerra russo-ucraina, ha
riportato l’attenzione dei governi sui rischi di interruzione delle forniture
che comportano, per definizione, quel costo strategico che va opportunamente
calcolato: esercizio non semplice, che non può essere ridotto al semplice
computo di investimenti e relativi rendimenti, ma comprende anche valutazioni
sulle diverse opzioni strategiche limitando, in primis, i rischi legati alla fortissima dipendenza da
idrocarburi e, in secondo luogo, imponendo l’esigenza di una diversificazione
del mix energetico a prezzi accessibili e di un potenziamento dell’influenza
dal lato dell’offerta, in particolare attraverso la realizzazione dei gasdotti,
a cui devono associarsi il principio della solidarietà tra Stati amici (in
particolare tra Stati membri dell’Unione europea).
In
sintesi, l’obiettivo a cui si guarda è quello di creare un mix energetico
sostenibile, efficiente e diversificato, cioè che sia sostenibile dal punto di
vista ambientale ed economico, che utilizzi le risorse in modo efficiente e che
sia basato su diverse fonti di energia, in modo da ridurre la dipendenza da una
sola fonte. Inoltre, è importante adottare un approccio integrato per
affrontare le sfide e le opportunità legate ai cambiamenti climatici, cioè un
approccio che consideri i diversi aspetti e le connessioni tra loro.
Sul piano politico-strategico, assume particolare rilevanza lo sviluppo di un “sistema mediterraneo dell’energia”, ovvero un sistema che colleghi in modo sicuro e a più vie le due sponde del Mediterraneo. Ciò potrebbe includere il potenziamento delle infrastrutture esistenti, come gasdotti e condotti sottomarini, e la costruzione di nuove infrastrutture, come impianti di trasformazione e stoccaggio dell’energia. L’obiettivo è quello di aumentare la sicurezza e la diversificazione delle fonti di energia per l’Europa, oltre che di sfruttare le opportunità economiche offerte dalla cooperazione energetica con i paesi della sponda Sud del Mediterraneo, con l’obiettivo primario di governare le dinamiche delle relazioni internazionali, senza esserne sopraffatti a causa di una mancata o inadeguata strategia di sicurezza nazionale.
Ucraina: la mobilitazione dei russi. Come leggere il discorso di Putin? (TeleTicino)
Il commento del Direttore Claudio Bertolotti a TeleTicino (edizione del 21.09.2022, ore 18.25)
Come dobbiamo leggere il discorso di Putin?
La presa di posizione di Putin è coerente con quella di un leader sotto pressione che cerca di mantenere un equilibrio tra le istanze dei falchi intransigenti, il voler compiacere i militari, dare l’impressione di non perdere la guerra e la necessità di rafforzare il consenso interno che tende sempre più a essere precario e ad indebolirsi con il progredire della guerra in Ucraina. Il presidente russo ha parlato della necessità di difendere i confini della Madrepatria presentando la guerra di aggressione in una guerra per la difesa della Russia, di fatto attribuendone la responsabilità agli ucraini e ai loro alleati occidentali, in primo luogo agli Stati Uniti e alla Nato. Di fatto Putin ha adottato un cambio di tono più che di retorica ribadendo il concetto di “difesa del popolo e della sovranità territoriale”, che è il tema ricorrente nella narrativa russa, e lo ha fatto nel tentativo di rafforzare una posizione politica che si è notevolmente indebolita.
Con i referendum di
Putin cresce la minaccia di una guerra nucleare?
Quella di Putin è una scelta strategicamente cinica, quasi
diabolica perché Le autoproclamate repubbliche
autonome del Donbass, Lugansk e Donetsk, e le province di Kherson e
Zaporizhzhia quando saranno annesse alla Russia, di fatto saranno territorio
nazionale russo e dunque, qualunque azione militare contro di essi sarebbe
considerata un’aggressione diretta a Mosca: una circostanza che, secondo la
dottrina militare russa prevede l’impiego dell’arsenale nucleari per difendere
“l’esistenza dello Stato, la sovranità e l’integrità territoriale del Paese”.
Dunque ci troviamo di fronte a un’opzione molto pericolosa
Il discorso di
stamattina mostra un Putin in difficoltà?
Putin è in oggettiva difficoltà, la Russia sta pagando un
prezzo altissimo sia sul fronte ucraino, in termini di risorse umane e
materiali, sia sul fronte interno dove si sta facendo ogni sforzo per contenere
gli effetti deleteri di un’economia di guerra e di una finanza che sono di
fatto fortemente limitate e che stanno avendo un impatto rilevante sulla
quotidianità dei russi. Ora, a fronte di questa scelta di forza dobbiamo però
prendere atto del fatto che – dal punto di vista della leadership russa – forse
non c’erano molte altre alternative. Un passo indietro significherebbe
ammettere la sconfitta e questo determinerebbe la fine politica di Putin. Da qui
la necessità di aumentare la pressione, seguendo i consigli dei falchi del Cremlino,
e tentare la carta della mobilitazione generale per la difesa dei confini che,
tra qualche giorno, si estenderanno ai territori ucraini attualmente tenuti
dalle forze russe.
C’è la famosa
immagine del topo nell’angolo, non è rischioso avere Putin con le spalle al
muro?
Un Putin con le spalle al muro è certamente lo scenario
peggiore che potrebbe prospettarsi le cui conseguenze andrebbero ben oltre i
confini ucraini. Putin in questo momento è in una posizione estremamente
precaria e qualunque azione di forza che possa consentirgli di uscire dal
pantano ucraino verrà perseguita. L’annessione via referendum e la minaccia
nucleare sono un’opzione che Putin ha perseguito a causa della mancanza di
tutte le opzioni a lui favorevoli: l’assenza di una vittoria lampo su Kiev, il
mancato collasso delle forze armate ucraine, la divisione dell’occidente a
supporto dell’ucraina. Putin non ha ottenuto nulla di tutto ciò, e dunque si
prepara ad attuare l’unica opzione perseguibile, in alternativa alla sua non del
tutto impossibile uscita di scena.
Settimana scorsa c’è
stato il vertice di Samarcanda. E anche qui la Russia non sembra aver trovato
appoggi incondizionati da parte di Cina e India.
L’india e la Cina sono state elegantemente perentorie nella
presa di posizione nei confronti della guerra di Putin in Ucraina: Pechino ha
negato la possibilità di aiuti militari alla Russia in Ucraina, tanto che si è
parlato di richieste di Mosca alla Corea del Nord (per razzi e proiettili) e
all’Iran (per i droni); e Nuova Dehli, storicamente molto vicina alla Russia,
non ha lasciato adito a dubbi nell’affermare che questo non è il momento della
guerra e la pace deve essere l’obiettivo primario. Dunque Putin, che guardava a
Samarcanda come a un’occasione per cercare di rafforzare la propria posizione
ha invece incassato un risultato molto più negativo di quanto non si
aspettasse. È forse l’inizio di un isolamento che sino a poche settimane fa
vedeva solo l’Occidente chiudere lo scambio commerciale e la collaborazione con
Mosca ma che ora comincia a interessare anche quegli storici alleati e amici
che dalla guerra sono toccati in termini economici, commerciali e finanziari.
#Ucraina. L’accordo per il grano: i vantaggi per la Russia e le incognite dei costi
A muovere Mosca sul grano sono interessi che vanno al di fuori dei confini ucraini
Il commento di Claudio Bertolotti
Sabato 23 luglio la firma dell’accordo per il grano ucraino, e poi l’attacco missilistico sulle infrastrutture portuali di Odessa, da dove quel grano dovrebbe salpare alla volta del mercato internazionale.
Il grano è destinato soprattutto all’Africa, dal Nord fino all’area subsahariana, dove la Russia ha grandi interessi e dove quei cereali erano originariamente destinati. E a ben guardare, questo accordo non vede le parti sullo stesso livello poiché si impone in tutto e per tutto come una concessione da parte della Russia, motivata dalle necessità del Cremlino. Necessità che vanno ritrovate anche nel continente africano dove in questi giorni si trova il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, impegnato in un’importante partita diplomatica per allineare i vari Stati sull’asse russo, in un’ottica di attiva espansione.
In quelle aree, il Cremlino si sta espandendo in termini non solo economici ma anche di influenza., portando avanti quella che viene definita sharp power, ossia l’uso di politiche manipolative per influenzare e minare il sistema politico di paesi bersaglio per manipolarne i governi, in questo modo presentandosi come risolutrice dei problemi. Il discorso vale anche per i cereali ucraini, su cui Mosca potrà rivendicare il fatto di aver “ottenuto” e “garantito” lo sblocco delle esportazioni. In questo modo, potrà presentarsi come la potenza (non occidentale) che ha salvato il mondo dalla fame, lasciando in secondo piano le responsabilità dirette che invece ha nell’aver alimentato una crisi alimentare di ampia portata. Credo che questo sia l’aspetto più importante, che ci permette di pensare che non butterà via questa opportunità, anche se bisogna vedere se logisticamente sarà sostenibile. Si tratta di una questione di numeri. Per il commercio dei cereali dall’Ucraina vengono utilizzate mediamente 400 navi cargo. Ad oggi ne sono disponibili 100, mentre le restanti sono impegnate in altre attività. La domanda da porsi è se basterà la capacità ucraina o dovrà intervenire la Russia mettendo a disposizione le sue navi. In tal caso, Mosca non se lo farà ripetere due volte perché, sebbene abbia creato lei stessa questa situazione, sarà ben felice di mostrarsi come risolutrice.
È bene però tenere a mente un aspetto rilevante, ossia l’affidabilità della Russia, che spesso si scontra con la sua opportunità: è dall’inizio del conflitto che dice di non fare una cosa e poi la fa. Non scordiamoci l’ironia utilizzata dalla diplomazia russa quando gli Stati Uniti parlavano di una sua possibile invasione in Ucraina. Oggi ci troviamo in una situazione simile. La Russia gioca le sue carte anche in maniera subdola. Tecnicamente, infatti, i missili di sabato non vanno a inficiare l’accordo. In primis perché si parla ancora di una prima fase per garantire l’apertura dei corridoi. E poi perché vanno a colpire quelli che Mosca definisce obiettivi militari, quindi leciti. Così facendo, Putin dimostra di poter far quel che vuole, colpendo il porto di Odessa senza problemi. Ma dal nostro punto di vista può anche essere interpretata come un punto di forza nella sua debolezza generale. Mosca, ad esempio, non è stata così forte da raggiungere i propri obiettivi in Ucraina, a partire dalla caduta del governo di Kiev o l’abbattimento del suo Stato per poi chiudere la guerra in tempi brevi.
E l’ipotesi di deviare i flussi di cereali verso le vie di comunicazione terrestre e fluviale verso l’Europa? Certamente non conveniente da un punto di vista economico e logistico, forse opportuno sul piano politico, ammesso che ci sia una strategia di fondo strutturata da parte dell’Unione Europea per sottrarre quelle derrate alla volontà Russia. per poi reimmetterle sul mercato internazionale a favore dei paesi africani. Ma è bene evidenziare che rispetto alle tratte marittime, questa opzione avrebbe costi superiori: meno grano viene trasportato, più alti sono i costi per le spedizioni, più elevato è il prezzo finale. Senza contare che i trasporti in Ucraina non sono agevoli a causa della guerra. Le oscillazioni dei prezzi di mercato, inoltre, non lasciano prospettive ottimistiche dovendo fare i conti con la realtà: d’altronde riflettono le scelte politiche e solo nel tempo vedremo come si aggiusterà il prezzo del grano, che molto probabilmente tornerà ad essere comunque superiore a quello pre-guerra.
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